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CHASQUI Bollettino Culturale del Ministero degli Affari Esteri del Perù Anno 14, numero 29 2016 LA POESIA DI BLANCA VARELA / L’ARTE DI TORRE TAGLE VARGAS LLOSA: INTERVISTA ALLO SCRITTORE / LA FILOSOFIA DI P.S. ZULEN PABLO MACERA: LA STORIA RIUNITA IL MESSAGGERO PERUVIANO Ritratto di donna con bambino in braccio, Baldomero Alejos. S.f.

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CHASQUIBollettino Culturale del Ministero degli Affari Esteri del PerùAnno 14, numero 29 2016

LA POESIA DI BLANCA VARELA / L’ARTE DI TORRE TAGLEVARGAS LLOSA: INTERVISTA ALLO SCRITTORE / LA FILOSOFIA DI P.S. ZULEN

PABLO MACERA: LA STORIA RIUNITA

IL MESSAGGERO PERUVIANO

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CHASQUI 2

Il primo fu Ese puerto existe [Quel porto esiste]. La bella e giovane poetessa Blanca Varela si era ap-

pena sposata con il pittore Fernando de Szyszlo e insieme si avviavano verso la mitica Parigi. Erano allora, è lei stessa a riferirlo, «giovani di provincia, spaventati dalle luci del-la grande città». Giunsero «molto sconcertati, con più illusioni che soldi»; cercavano «attraverso l’arte, la poesia, un nuovo modo di essere e di stare in quel mondo ‘moderno’ [nel quale] dovevamo imparare a vivere». Era la Parigi del dopoguerra, piena di privazioni ma anche di luci. Lì, la giovane coppia conobbe Octavio Paz: «senza esagerazioni, Paz è stato il no-stro Virgilio in questa selva infernale e allo stesso tempo celeste, che era la Parigi di allora». Paz li introdusse agli artisti latinoamericani: Julio Cortázar, il poeta Carlos Martínez Rivas, tra gli altri. «Octavio, inoltre, ci portò fino agli argini di un altro fiume, che non era la Senna, che sembrava addormentato, ma in cui ruggiva, magico come sempre, il surrealismo». Prima con De Szyszlo, e più tardi sola, Blanca rimase a Pa-rigi per quasi un decennio: conobbe André Breton, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michaux, Gia-cometti, Léger. «Fu un epoca felice e disgraziata allo stesso tempo. Fu difficile il percorso formativo della vita, nel quale cercavamo di diventa-re persone, degli esseri reali». Fu, in definitiva, il tempo e il luogo in cui Blanca Varela scelse la poesia come il proprio «inevitabile e doloroso mestiere».

E, infatti, fu Octavio Paz nel 1959, dieci anni dopo l’inizio dell’e-sperienza parigina, a farle il «miglior regalo che avessi mai ricevuto». Le chiese i suoi poemi e li pubblicò con il titolo Ese puerto existe y otros poemas [Quel porto esiste e altre poesie] (Xalapa, Universidad Veracruzana, 1959). Originariamente, la raccolta si doveva chiamare Puerto Supe, dal nome della spiaggia della costa nord del Perù dove Blanca trascorse alcune estati della propria infanzia; insieme ad altre estati passate nella piccola casa di mare dove abitavano José Maria Arguedas e le sorelle Bu-stamante. Octavio Paz le disse che era un titolo molto brutto. Blanca esclamò: «Ma, Octavio, quel porto esiste» e lui rispose «Quello è il tito-lo». In questo modo vide la luce «il canto solitario di una ragazza peru-viana», come venne definita da Paz la poesia di Blanca Varela nel prologo che egli scrisse «a mia sorpresa, senza che io glielo avessi chiesto».

Blanca ritorna in Perù, vive poi per qualche tempo a Washington, a Ithaca (New York) e alla fine si stabilisce a Lima. Nel 1963 pubblica

Luz de día [Luce di giorno]; nel 1971, Valses y otras falsas confesiones [Valzer e altre false confessioni]; nel 1978, Canto villano. Tutti in piccole edi-zioni, sempre per via dell’insistenza di amici che quasi la costringevano a consegnare i suoi testi.

Ella apprese dai suoi maestri César Moro ed Emilio Adolfo Westphalen «che anche il silenzio alimenta la poesia».

Il Fondo de Cultura Económica (Messico) pubblica nel 1986, con il titolo di Canto villano, tutti i po-emi dispersi; nel 1996 appare una seconda edizione che include due nuovi libri che la poetessa aveva scritto: Ejercicios materiales [Esercizi materiali] e El libro de barro [Il libro di fango]. Concierto animal [Concerto animale] viene pubblicato in Perù nel 1999 en nel 2000 il Circolo dei Lettori pubblica Donde todo termina abre las alas [Dove tutto finisce apri le ali], che include tutti i libri e che chiude con El falso teclado [La tastiera falsa] la serie più recente di poesie, fino ad allora inedita.

IIBlanca Varela accettò, sin da molto giovane e per il resto della sua vita, una radicale responsabilità con la poesia, la quale non va intesa come la semplice produzione di versi più o meno belli alla ricerca di un qualche effetto retorico; lo disse Paz nel prologo: «Blanca Varela non si compiace con le sue trovate né si inebria del proprio canto». Lontano

da qualsiasi scopo compiacente, lontano dallo scrivere per piacere, il programma poetico di Blanca Varela, come indica Roberto Paoli, «è fedele alla sua indagine interiore, al suo rigore etico che è anche una specie di ascetismo estetico». Asce-tismo estetico mai tradito in nome della moda o delle sperimentazioni formali e, ancor meno, dell’ermeti-smo che nega la comunicazione. È vero che non è una poesia «facile»

quella di Blanca Varela, nel senso convenzionale; ma la sua difficoltà non attraversa l’oscurità volontaria di chi elude la comunicazione: per leggere Blanca è necessario predi-sporsi al soprassalto, alla tensione, allo sconforto e alla paura; perché il suo sguardo ci costringe a vedere ciò che non vogliamo né vedere né sapere, ciò che dolorosamente pre-feriamo negare. Bisogna addestrarsi alla rilettura, tornare una e un’altra

BLANCA VARELARITORNO ALLE RADICI

Giovanna Pollarolo*La poesia di Blanca Varela (Lima, 1926-2009) è diventata uno dei punti di riferimento della lirica iberoamericana

contemporanea. Alla fine dei suoi anni, Varela ha ottenuto i premi Octavio Paz (2001), Federico Garcia Lorca (2006) e Reina Sofia (2007). Il testo qui presentato è stato letto in uno degli ultimi incontri pubblici a cui la poetessa prese

parte nella città di Lima.

Blanca Varela, 1970.

Foto

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Ago

is.

Blanca Varela e figli.

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CHASQUI 3

volta alle poesie e chiudere gli occhi affinché la comunicazione si mani-festi, la «comunione» direbbe Paz; e così facendo inabissarci nei paesaggi interiori popolati dalla materialità e dai silenzi, nel caos di mondi frammentati e di battaglie contro la propria ombra.

Poesia di ricerca. La coscienza della poetessa riconosce che la parola è soltanto artificio, maschera, bugia: le confessioni sono false, il canto è villano, il concerto è animale, la tastiera dello scrittore è falsa. Cio-nonostante il linguaggio è l’unica arma a disposizione per compiere la propria impresa; anche sapendo in partenza che la poesia è impossibile, che non ci sono parole per l’indici-bile, ella tenta una e un’altra volta: transitando dalla luce all’ombra, dalla notte al giorno, dalla luce al niente; dalla disperazione, come unica via, perché anche se l’unico destino è la sconfitta...

E tutto deve esser menzognaperché non sono nel luogo della mia anima.Non mi lamento della buona maniera.La poesia mi viene a noia.Chiudo la porta.Orino tristemente sul meschino fuoco della grazia. (Valses y otras falsas confesiones).…bisogna iniziare sempre da

capo. Come l’eternità di Sisifo e la sua condanna, è la lotta corpo a corpo con il poema:

Un poemacome una grande battagliami trascina in quest’arenasenza nemici al di fuori di meioe l’aria grande delle parole(Valses y otras falsas confesiones).La poesia di Blanca Varela segna

un dialogo permanente con la pro-pria coscienza, sdoppiata, che può

essere un «altro», un «tu» che siamo noi lettori convocati da quella voce affilata come un coltello, secca e laconica, più fiduciosa nel silenzio che nell’urlo e che con durezza scarnata apre i suoi/nostri occhi e orecchie partendo dalla sua stessa nausea, dall’orrore della disperazio-ne e del sapere che non c’è posto per le chimere né per le speranze. Come per Paul Celan, poeta caro a Blanca Varela, la voce, la parola, «diventano il poema di qualcuno che osserva, che è attento a ciò che appare, che interroga o interpella quel qualcosa che appare; il poema diventa dialogo; e frequentemente, dialogo disperato».

Diciamo che hai vinto la corsa E che il premio era un’altra corsache non hai bevuto il vino della vittoriama il tuo proprio saleche non hai mai ascoltato ova-zionima latrati di canie che la tua ombrala tua propria ombraè stata la tua unica e sleale con-corrente.(Canto villano).È il dialogo disperato con la vita:

«E d’improvviso la vita/ nel mio piatto di povera / una magra fetta di maiale celeste / qui nel mio piatto» (Canto villano). La vita come una magra fetta di maiale celeste di un vitello inseguito da tafani (Ejercicios materiales), animale completo per via di «infamanti angeli ronzanti» davan-ti alla contemplazione la cui voce poetica rappresenta il più profondo dolore nato dalla compassione:

Oh signoreche orribile dolore negli occhiche acqua amara in boccadi quell’intollerabile mezzogiornoin cui più rapida più lentapiù antica e oscura che la morte

al mio fiancoincoronata di moschepassò la vitaOppure è anche «l’animale che si

rotola nel fango» (Concierto animal) e che va come in festa, cantando, al mattatoio: «ci vuole il dono per entra-re nella pozzanghera»; ci vuole il dono per persistere sapendo che non esiste altra uscita «se non la via di fuga che ci consegna / al delirante branco dei nostri sogni» (Canto villano).

Perché dall’assoluta coscienza che tutto è inutile si affaccia la dolorosa contraddizione vareliana, quella dell’«agonia gioiosa», quella dell’accettazione rassegnata ma rab-biosa: «Nessuno ti aprirà la porta», ma «continua a bussare. Dall’altra parte si sente una musica / Tu sei solo, dall’altra parte / Non ti vo-gliono lasciar entrare / Cerca ricerca arrampicati strilla. È inutile» (Valses y otras falsas confesiones). È così che si costruisce la poesia: ascendendo dal-la notte «all’oscurità più piena» (El falso teclado) e la sua esistenza sfida la menzogna, il niente, la nausea, lo sconforto. Ciò che importa è l’atto, costruire anche quando si ha la consapevolezza di sapere che si aspira all’impossibile; ciò che importa è essere «il nuotatore contro corrente / colui che sale dal mare al fiume / dal fiume al cielo / dal cielo alla luce / dalla luce al niente» (Canto villano).

E ricominciare come dopo «Un naufragio senza mare, senza spiaggia senza viaggiatore / Soltanto l’urgen-za, l’insonnia, l’assurda speranza» (El libro de barro): «A trebbiare l’invisibile si è detto» (El falso techado) mentre si aspetta che arrivi il momento di «odorare il già vissuto / e girarsi / semplicemente / girarsi» (El falso teclado).

IIITogli il cappellose ce l’hai

Togliti i capelliche ti abbandonanotogliti la pellele interiora gli occhimettiti un animase la trovi(El falso teclado)«Strip tease» è il titolo di questa

poesia che compone El falso teclado. La poetessa sfida se stessa e i suoi lettori a denudarsi, il che equivale a spogliarsi di ogni artificio e del proprio corpo. Tutto è impostura e arredo, ma raggiungere la verità, «trovare l’anima», «cantare dal luo-go della mia anima» è impossibile. Temibile mandato senza l’inganno di alcuna promessa, soltanto la limpida e drammatica scommessa per ciò che sappiamo essere irrag-giungibile. Così è questa poesia: dura e lacerante, profondamente vera. Così è Blanca Varela. Non scrive per compiacere né per piace-re né per ricevere riconoscimenti e omaggi. Questo è l’impegno di Blanca Varela: la sua poesia è luogo di esplorazione, di domande, di tutto ciò che risulta inquietante e che «deve essere risolto attraverso la poesia. La poesia è questo, o no?» dice Blanca. Sì, la poesia è questo grazie a lei.

* È poetessa e scrittrice. Inoltre, è docente alla Pontificia Universidad Católica del Perú. Questo testo è stato pubblicato anche in: Blanca Varela, El libro de barro y otros poemas. Lima, INC, 2005.

La Casa de la Literatura Peruana ha organiz-zato quest’anno la mostra «Presentimiento de la luz» (agosto-dicembre) in omaggio ai 90 anni dalla nascita di Blanca Varela. Vedi anche: Ina Salazar, La poesía ante la muerte de Dios: César Vallejo, Jorge Eduardo Eielson y Blanca Varela. Lima, PUCP, 2015; Mario Montalbetti. El más crudo invierno. Notas a un poema de Blanca Varela. Lima, Fondo de Cultura Económica, 2016. Di recente, della poetessa peruviana è stato pubblicato Poesía reunida. 1949-2000. Lima, Librería Sur.

TRE POESIE DI BLANCA VARELA

[CHIAROSCURO]

io sono quella che vestita da umana nasconde la codatra la seta freddae increspa sopra neri pensieriuna chiomaancora oscura

o non lo sono quise non l’aria annuvolata dello specchiosguardo altrui mille volte sperimentatofino a diventare cecità

l’indifferenza l’odioe l’oblionella fronda di ombre e di vocimi perseguitano e mi respingono

quella che fuiquella che sonoquella che mai saròquella di allora

intronizzata tra il sole e la lunaintronizzatami contempla la mortein quello specchioe mi vesto davanti a lei

con tanto severo lussoche mi duole la carneche sostengo

la carne che sostengo e alimenta il verme ultimoche cercherà nelle acque più profondedove seminareil germe del suo ghiaccio

come nei vecchi dipintiil mondo si fermae finiscedove la cornice marcisce

CLAROSCURO

yo soy aquellaque vestida de humanaoculta el raboentre la seda fríay riza sobre negros pensamientosuna guedejatodavía oscura

o no lo soy aquísino en el aire nublado del espejomirada ajena mil veces ensayadahasta ser la ceguera

la indiferencia el odioy el olvidoen la fronda de sombras y de vocesme acosan y rechazan

la que fuila que soyla que jamás seréla de entonces

entronizada entre el sol y la lunaentronizadame contempla la muerteen ese espejoy me visto frente a ella

con tan severo lujoque me duele la carneque sustento

la carne que sustento y alimentaal gusano postreroque buscará en las aguas más profundasdónde sembrarla yema de su hielo

como en los viejos cuadrosel mundo se detieney terminadonde el marco se pudre

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CHASQUI 4

PABLO MACERALA STORIA RIUNITA

Il Fondo Editorial del Congreso de la República sta ripubblicando buona parte dell’opera storiogra-

fica di Pablo Macera, la cui selezione è stata affidata a Miguel Pinto, sto-riografo dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos. Nei primi due volumi già pubblicati è conte-nuta Tres etapas en el desarrollo de la conciencia nacional [Tre stadi nello sviluppo della coscienza nazionale], un’opera di Macera che non era stata inclusa nel volume Trabajos de Historia [Studi di Storia], pubblicato dall’Instituto Nacional de Cultura nel 1977. In questo senso, si tratta di un considerevole sforzo volto al recupero e alla diffusione dell’opera di uno degli storici peruviani più rilevanti dell’ultimo mezzo secolo.

L’importanza di Macera va ben oltre i molteplici temi che egli ha af-frontato in numerose pubblicazioni accademiche e scientifiche. La sua partecipazione ai dibattiti nazionali in veste di intellettuale impegnato è stata fondamentale per sapere come veniva pensato il Perù del suo tempo, soprattutto nei decenni del 1970 e 1980. Le sue interviste in quell’epo-ca, molteplici e profonde, erano di grande interesse per i numerosi intel-lettuali, gli studenti universitari e per coloro che si interessavano di politi-ca nazionale. I suoi interessi furono vari: la sovranità nel mare, gli aspetti statistici e contabili del Perù, la defi-nizione e il procedere della sinistra nel Perù, i partiti politici, numerosi personaggi e tanti altri argomenti. Il passato/presente e il futuro erano inscindibili per Macera e per questo motivo il rapporto tra di essi è stato parte sostanziale del suo ruolo di intellettuale. Molte delle sue inter-viste furono segnate dalle incertezze del Paese, in particolar modo nella sua dimensione economica, la crisi politica e la violenza interna (Cfr. Pablo Macera, Penas y furias. Lima, Mosca Azul, 1983). Inoltre, Macera è stato uno dei grandi sostenitori delle arti popolari nel Perù. La sua sensibilità artistica no gli ha soltan-to permesso di scrivere importanti lavori a riguardo ma gli ha permesso anche di diventare un grande colle-zionista (parte della sua collezione si trova nella Casa de la Moneda). Macera deve esser ricordato come un gran sostenitore delle mostre di arte popolare, poiché ha aiutato diversi artisti popolari della sierra e della selva ad ottenere il riconoscimento che meritavano. Per tutta la sua vita Macera ha mantenuto una relazione amichevole, scientifica e di sostengo nei riguardi di molti artisti popolari.

Pablo Macera Dall’Orso, nato a Huacho nel 1929 – anno della grande crisi del capitalismo -, appar-tiene alla generazione del ’50. Egli fece parte di quel gruppo di studenti universitari del circolo del maestro Raul Porras Barrenechea, tra i quali spiccheranno Mario Vargas Llosa, Carlos Araníbar, Hugo Neira, Waldemar Espinosa. Alla morte del

maestro Porras, a Ma-cera venne chiesto di fare uno dei discorsi dell’ordine professio-nale. Per il maestro l’Universidad de San Marcos è stata parte sostanziale della pro-pria vita accademica e politica. Nel 1966, durante il rettorato di Luis Alberto Sánchez, egli fondò il Semina-rio di Storia rurale andina, di cui fu direttore fino all’anno 2000. Nonostante non abbia mai rice-vuto il finanziamento adeguato, questo seminario divenne uno spazio di dialogo, apprendimento, ricer-ca e diffusione scien-tifica per storiografi, archeologi, antropo-logi e sociologi anche di altre università, come l’Universidad Catolica e la Universidad Federico Villarreal. Il Perù in chiave andina fu la costante preoccupazione di Macera e del seminario. Il Perù della seconda metà del XX secolo era in costante cambiamento, segnato dalla violenza politica che veniva espressa in diversi modi, la quale non sfuggì all’inte-resse del grande intellettuale. Quale tipo di Perù dovette vivere Macera? Il nostro storiografo nasce in un Perù oligarchico; è il Paese dei grandi si-gnori, con lunghi alberi genealogici, di quelli che aspiravano ad estendere la linea dei propri avi ai tempi che precedevano l’era del guano; ovvero, quelli che cercavano di differenziarsi dai nuovi ricchi del XIX secolo. Il mondo dei signori, comunque, andava scomparendo e Macera era testimone di una nuova società che emergeva: quella delle migrazioni andine e della creazione di nuove strutture sociali poco democratiche e poco egualitarie. Ci furono grandi spostamenti dalle campagne verso le città e i diversi volti del Paese si mol-tiplicavano intorno a lui, chiedendo di essere rappresentati. Nuovi attori —cholos e non cholos— cercavano di situarsi in modo diverso nelle nuove strutture del potere.

In questo contesto storico, Mace-ra apparteneva a una generazione di storici che lavoravano sui nuovi argo-menti della storia. La storia inizia ad andare oltre i temi che le apparten-gono direttamente: la storia politica. Macera si inoltra in questioni econo-miche, sociali, culturali, di genere e molte altre. Che enorme quantità di argomenti è mostrata soltanto nei primi due volumi pubblicati dal Congresso! Non c’è dubbio: Macera è uno dei grandi promotori dell’am-pliamento tematico della storia.

Isaiah Berlin divide gli intellet-tuali in due tipi: le volpi e i ricci. Per capire il mondo, i ricci enfatizzano

un’idea; le volpi si rifiutano di essere monotematiche ed enfatizzano, al contrario, la necessità di avere diver-si pensieri e curiosità per capire, ad esempio, il Perù. Questa distinzione di Berlin si osserva se paragoniamo Macera con Hernando de Soto. De Soto rappresenta la categoria dei ricci: enfatizza lo studio della pro-prietà per comprendere lo sviluppo economico e politico di un Paese. Macera, al contrario, è una volpe e lo si vede perché è quasi impossibile riassumere il pensiero di Macera sul Perù. Molti dei suoi lavori esamina-no aspetti e argomenti molto diversi tra di loro.

Vediamo, ad esempio, come questa diversità si presenta nei primi due volumi pubblicati dal Congresso. C’è un insieme di lavori che sviluppano il tema della cultura, dell’immaginario politico e dell’edu-cazione ai tempi della Colonia, in particolar modo nel XVIII secolo: Tres etapas en el desarrollo de la concien-cia nacional, Bibliotecas peruanas del siglo XVIII, El lenguaje y modernismo peruano del siglo XVIII, El probabilismo en el Perú durante el siglo XVII. Tra gli storiografi, i lavori di Macera sulle biblioteche sono considerati come la fonte nodale della storia del libro nel Perù, che assegna alle pratiche della lettura qualcosa che oggi è diventato un vero e proprio argomento della storia culturale. I lavori sul proba-bilismo, che trattano il tema della morale e della verità, sono molto discussi tra gli storici contemporanei della filosofia peruviana.

Un secondo gruppo di studi si muove intorno alla società e all’economia: Iglesia y economía, Instrucciones para el manejo de las haciendas jesuitas del Perú republicano (ss. XVII-XVIII), El guano y la agricul-tura peruana de exportación 1909-1945, Feudalismo y capitalismo en el Perú, Estadísticas históricas del Perú del sector minero. Macera ha due grandi meriti

nella storia economica del Perù e deve essere considerato come uno dei suoi interpreti più eminenti. Egli esamina argomenti che vanno dal dibattito classico tra capitalismo e feudalismo nel regime coloniale o repubblicano fino alle tecniche di amministrazione delle aziende. D’al-tra parte, Macera, con il Seminario di Storia rurale andina, ha raccolto una grande quantità di fonti (da istruzioni di tipo amministrativo ad informazioni di natura quantitativa) che sono parte fondamentale degli studi economici di oggi.

Un terzo gruppo dei lavori presentati riguarda il mestiere dello storico. Molte volte egli è severo con gli storici, in special modo con i co-siddetti «conservatori» (La historia del Perú: ciencia e ideología); in altre occa-sioni discute in modo simpatico con la storiografia (El Perú de Basadre). Il quarto gruppo è costituito da ciò che consideriamo gli «altri scritti», una grande varietà che dimostra tanto la sua immaginazione quanto la va-stità della sua intelligenza. In questo gruppo Sexo y coloniaje spicca per il carattere innovativo, se consideria-mo l’anno della sua pubblicazione.

La lotta per la rappresentazione del passato e del presente formano parte sostanziale del mestiere di uno scienziato del sociale. In molti aspet-ti, i lavori di Macera sono un nuovo sguardo sul Perù, critico e angosciato per l’interpretazione del nostro pas-sato e presente, che descrivono un Paese frammentato e conflittuale. In questa percezione, molto spesso, so-prattutto nelle interviste, in Macera si intravede una visione preoccupata del futuro, che in parte condivido.

* Ha ottenuto il titolo di Dottore in Storia nell’Università di Chicago (1996). Ha studiato Storia alla Pontificia Universidad Católica del Perú. La tesi del dottorato venne pubblicata con il titolo: Caudillos y constituciones. Perú 1821-1845. Lima, IRA-FCE, 2000.

Cristóbal Aljovín de Losada*Viene pubblicata una selezione delle opere del celebre storico e docente

dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos.

Pablo Macera.

Foto

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etas

.

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CHASQUI 5

Frammenti di uno studio di Pablo Macera sui plasmatori della coscienza nazionale

GLI AMANTI DEL PAESE*

Del lavoro che i redattori del giornale Mercurio Peruano si pro-posero di fare —strutturare la co-

scienza nazionale— Riva-Agüero ha detto che in pochi anni essi dovettero fare ciò che richiedeva un lavoro di secoli. La natura e il valore di quest’opera sono stati qualificati con maggiore o minore oculatezza dai principali ricercatori della nostra storia. La storiografia straniera (Mitre e Vicuña, ad esempio) elogia la qualità intellettuale di questo lavoro ma sottrae importanza al suo contributo in quanto impresa emancipatrice.

In Perù l’elogio quasi unanime si è alternato con le interpretazioni più dispari. Javier Prado, riferendosi a loro, dice che «uomini di quella stazza già me-ritavano di essere liberi», e aggiunge che essi rivelano «intuizioni e insegnamenti meravigliosi». Riva-Agüero vede negli Amanti del Paese l’anticamera di una coscienza nazionale ma, fedele alla sua dichiarata resistenza verso l’elogio, avver-te che davanti alle lodi tradizionalmente cantate «si sente qualcosa di simile alla disillusione»; Belaunde interpreta l’i-deologia di Mercurio Peruano come una sintesi delle concezioni dell’Illuminismo e della religione cristiana; Raúl Porras in Historia del periodismo peruano [Storia del giornalismo peruviano], considera che essi siano stati i «costruttori sereni del futuro» e della loro opera loda due virtù fondamentali: la qualità intellettuale e la sobria affermazione del sentimento patriottico. Basadre ha dichiarato che i membri della generazione di Mercurio Peruano avevano «una segreta quiete, un razionalismo armonioso» e che sarebbe inutile cercare in loro «l’intima tortura, la presenza tumultuosa di atavismi contrapposti».

Queste interpretazioni hanno in-dicato, da diverse prospettive, alcune caratteristiche delle essenze e dei valori del movimento generazionale di Mercurio Peruviano. Continuando con i loro inse-gnamenti, abbiamo provato a elaborare una caratterizzazione del pensiero di Mercurio Peruviano e del suo contributo nello sviluppo della coscienza nazionale.

L’impresa della Società Amanti del Paese sarebbe stata impossibile senza le circostanze politiche favorevoli del tempo. Gli ultimi anni del secolo sono caratterizzati dalla calma e dalla tolle-ranza che l’Illuminismo e la prudenza di Gil y Lemos (1790-1796) seppero im-porre. Lettore instancabile degli autori francesi, Gil y Lemos è stato il tipico rappresentante dell’epoca crepuscolare del dispotismo intellettuale tra i disastri politici ed economici che gli Amanti del Paese seppero utilizzare a vantaggio della coscienza patriottica. Allo stesso tempo, il pensiero illuminato accentuava la sua influenza, facendo ingresso in una tappa immediata verso l’azione. Le date sono vicine a quelle delle rivoluzioni nordamericana e francese. Gli Amanti del Paese, eredi delle inquietudini nazio-naliste precedenti alla fede tradizionale e all’indottrinamento illuminato, defini-ranno la loro posizione rispetto a queste influenze attraverso l’esegesi della nostra realtà e dei loro obiettivi di riforma.

La modalità di associazione da loro scelta —una Società di Amanti del Paese— era una manifestazione tipica del XVIII secolo. Non ci fu nessun Paese in Europa dove gli uomini istruiti non si siano associati in diversi modi ma sempre con lo stesso proposito di scambio e di diffu-sione culturale. «Per utilizzare il pensiero con profitto —dice Mercurio Peruviano— il commercio dei saggi è indispensabile». Una delle forme di commercio proficuo furono le società scientifiche di natura

accademica, quasi sempre patrocinate dalle autorità. In meno di trent’anni —ci dice Jeans y Hazard— le capitali princi-pali crearono numerose società di fisica, astronomia, scienze naturali: Accademia di Berlino (1744), Accademia di Stoccol-ma (1739), Reale Società di Copenhagen (1745), Istituto delle Scienze di Bologna, ecc. Nel contempo, si sviluppavano altre associazioni di indole più pragmatica e con uno scopo deciso verso la diffu-sione delle conoscenze. Furono quelle che in Spagna si chiamarono Società Economiche di Amanti del Paese, che, con antecedenti nella Conferenza di Barcellona nell’Accademia di Agricol-tura di Lerida, ebbero la loro prima espressione nella Società Economica Va-scongada, fondata nel 1763 e poi imitata

dalla Società Economica di Madrid e da quelle di Siviglia e Valencia, tra le altre città spagnole. Queste società ebbero un interesse decisamente riformista e ad alcune di esse appartennero coloro che, come Cabarrús, Floridablanca e Jovellanos, presentavano al Re progetti di riabilitazione economica non sempre ben accolti.

In America, tra le molte somiglianze con quelle spagnole, si potrebbe men-zionare, oltre alla Società Amanti del Paese da noi fondata, quella dei Filosofi Messicani, che pubblicò “La Gaceta”, “El Diario Civil” e la “Revista de Historia Na-tural” e, più tardi, la Società Patriottica e Letteraria, proposta in Argentina al viceré Avilés da Jaime de Bausate y Mesa (1800).

In Perù questo desiderio di associa-zione illuminato è stato rappresentato dalla Società di Amanti del Paese, anti-cipata dalla Società Filarmonica e seguita dall’Accademia Limana.

Prima di queste possiamo citare al-cuni segnali precursori di questa nuova passione per «unire l’uomo all’uomo —come dice Mercurio Peruviano— e con-ciliare l’uniformità del suo carattere...nel commercio delizioso delle idee». Ad esempio i salotti e i caffè limeños. Nelle ville di Orrantia e a Casa Calderón, nelle case di Unanue, Egaña e in tante altre, si moltiplicano le riunioni per discutere di argomenti culturali. Allo stesso tempo appaiono a Lima i primi caffè.

Dal 1771, quando fu aperto il primo a Santo Domingo, i caffè vengono fre-

quentati con entusiasmo. Nel 1788 ne esistevano sei nella capitale. La bevanda eccitante, simbolo della conversazione, prende il posto del mate fatto in casa e criollo che richiede —come dice con ve-rità sociologica Mercurio Peruviano— «un riposo e una cautela che non sono com-patibili con la pubblicità di un negozio». Nel «Ritratto storico e filosofico dei caffè di Lima», apparso in Mercurio Peruviano, questi centri di riunione sono descritti come strumenti dell’illuminismo degli uomini. «Le discussioni letterarie —si legge— iniziano a prender vita in essi...[i caffè] sono già diventati punti d’in-contro che avvicinano gli uomini di talento, facilitano il commercio delizioso delle scoperte domestiche, risvegliano

un’emulazione nobile e pubblica e de-purano le combinazioni scientifiche». Fu in questo ambito, reso inquieto dai salotti notturni e dagli appuntamenti che si dilungavano nei caffè, che sorse la Società di Amanti del Paese, comple-tando questa necessità di comunicare e diffondere la conoscenza.

Quale fu l’origine della Società di Amanti del Paese? Lo stesso Mercurio Peruviano ce lo dice: «Nel 1787, Hespe-riófilo (José Rossi y Rubio) mise fine ai suoi viaggi per un inganno della fortuna e prese domicilio in questa città». L’im-migrante volle dimenticare l’inganno della fortuna attraverso l’equitazione, la caccia e le letture. Rossi aveva la nostalgi-ca abitudine di passeggiare nei dintorni di Lima. In una delle sue passeggiate incontrò Hermágoras, Homónimo e Mendiridio (José María Egaña, Deme-trio Guasque y…). Discussero, nel crepu-scolo del quartiere di Lurín, di filosofia e di scienze naturali. Questo incontro occasionale divenne un appuntamento fisso: nella casa di Egaña si recavano tutti i giorni dalle «otto alle undici», «richiamavano argomenti letterari e di-scutevano notizie pubbliche». Riunione puramente razionale e scientifica, quasi universitaria. «La diffamazione, il gioco, le bagattelle e i racconti d’amore erano prescritti da questa congregazione di filosofi». Assistevano alle serate Unanue e tre donne, oggi sconosciute, dietro gli pseudonimi di Doralice, Floridia e Egereia.

I membri della Società Filarmonica, come la chiamarono, solevano trascrivere le loro discussioni in atti, oggi purtroppo sconosciuti. Forse molti di questi, come quelli successivi della Società Amanti del Paese, costituirono gli articoli principali di Mercurio Peruviano [...].

La maggior parte degli Amanti, uomini vicini ai quarant’anni e nella pienezza del proprio sviluppo, appar-tenevano, ad eccezione dei due pro-tettori, alle categorie intermedie della gelosa gerarchia sociale del vicereame. «Legati —dicono loro stessi— ad attive occupazioni da cui dipendevano l’onore e la sopravvivenza delle nostre carriere, dovevamo guardare di preferenza al loro adempimento e progresso».

Erano «tutti giovani al servizio del Re, altri laureati nei diversi esercizi dell’università, altri ministri d’altare». Queste limitazioni economiche, questa preoccupazione per «l’onore e la soprav-vivenza», era da loro riconosciuta come un limite ma senza alcun risentimento. Essi si lamentano dicendo di non avere «per meditare, studiare, ampliare i nostri pensieri, curare la stampa, con-vocare le nostre riunioni...altro tempo che quello usurpato al divertimento e al sonno».

Questa posizione sociale intermedia favorì, senza dubbio, il loro appassionato impegno verso i mestieri dell’intelligen-za. In molti dovevano ad essa, come Unanue, la propria posizione. Groeythu-sen ha segnalato come le classi medie intellettuali del XVIII secolo abbiano creato o accolto fermamente le riforme filosofiche perché esse soddisfacevano i valori che loro stessi coltivavano: intel-ligenza, impegno personale, concezione razionalistica del mondo. Inoltre, è pos-sibile sostenere che nella Società Amanti del Paese ci fu un gruppo di uomini che si dedicarono all’intelligenza, in gran parte, perché ad essa dovevano tutto.

* In: Pablo Macera, Obras escogidas de historia [Opere scelte di storia], Miguel Pinto, redat-tore. Lima, Fondo Editorial del Congreso del Perú, Lima, 2014.

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VARGAS LLOSA:INTERVISTA ALLO SCRITTORE

Jorge Coaguila*Tra le celebrazioni per gli ottanta anni del Nobel peruviano, un’antologia dei suoi romanzi è stata pubblicata da La Pléiade, casa editrice francese che raccoglie il canone della letteratura universale. In Perù è stata riedita una selezione

di interviste fatte a questo grande scrittore.

Ogni volta che tornava a Lima era solito frequentare i cine-ma di quartiere per vedere

melodrammi messicani, mentre in-vece i lungometraggi del britannico Alfred Hitchcock gli erano sgraditi. Come membro della giuria del Pre-mio Biblioteca Breve, votò contro La traición de Rita Hayworth [Il tradimen-to di Rita Hayworth] (1968), primo romanzo di Manuel Puig, e più tardi pubblicò un articolo dove fece elogio di questo narratore argentino. Agli inizi degli anni ’60, collaborò con il Fronte di Liberazione Nazionale di Algeria e, anni dopo, lottò contro ogni tipo di nazionalismo. Ripudia il libro che la sua ex moglie, Julia Urquidi, scrisse sul suo primo ma-trimonio ma ama frugare nella vita privata degli scrittori che ammira, co-me Gustave Flaubert o Victor Hugo. Queste sono alcune delle confessioni di Mario Vargas Llosa che il lettore troverà in queste Interviste scelte1, quarta edizione, volume che raccoglie 35 conversazioni realizzate da diversi giornalisti, tra il 1964 e il 2015.

Che importanza hanno le intervi-ste agli scrittori? In molti casi, permet-tono di conoscere le loro riflessioni in merito alla loro opera. Cionono-stante, non dobbiamo afferrarci alle affermazioni dell’autore, giacché alcune dichiarazioni ci confondono. «Uno non è mai un buon giudice di ciò che scrive», confessa Vargas Llosa al suo collega, il romanziere Edgardo Rivera Martínez.

A volte, gli scrittori possono sco-raggiarsi e pensare che tutto quello che hanno creato non abbia alcun valore. Questo non è un motivo vali-do affinché un critico faccia a pezzi la loro produzione. Inoltre, una risposta data oggi difficilmente si ripeterà do-po tre decenni, se la stessa domanda verrà riproposta. Di conseguenza, bisogna scegliere con cautela cosa dichiarare.

Può anche succedere che un libro diventi un prodotto estraneo alle in-tenzioni del letterato. In fin dei conti, è più importante ciò che il lettore tro-va che ciò che l’autore dice. Lo stesso Vargas Llosa dichiara nel suo libro di saggi La verità delle menzogne (1990): «Le affermazioni di un romanziere sulla propria opera non sono sempre illuminatrici; possono essere persi-no confusionarie, erronee, perché il testo e il suo contesto sono per lui difficilmente divisibili e perché l’autore tende a vedere in ciò che ha fatto quello che ambiva a fare (ed entrambe le cose, così come possono coincidere, molte volte divergono considerevolmente)».

D’altra parte, in queste Intervi-ste scelte possiamo osservare come maturano alcune opere. Il caso più evidente è Il Paradiso è altrove (2003), il cui processo di produzione durò quasi mezzo secolo. Nel 1984, Vargas Llosa dichiara al giornalista Jorge Sa-lazar che sta preparando un romanzo sull’attivista francese Flora Tristán. Tutto ciò significa che questa sarà

un’opera meglio riuscita di altre? No, significa semplicemente che questo libro gli ha richiesto molto più tempo per la sua elaborazione rispetto ad altri. Il tempo non ha niente a che fare con il risultato, anche se due dei romanzi che più lavoro hanno richiesto al narratore di Arequipa, Conversazione nella «Catedral» (1969) e La guerra della fine del mondo (1981), hanno riscosso un grande successo. Succede però anche il contrario. Lo scrittore assicura a Sonia Goldenberg che sta scrivendo Il narratore ambu-lante (1987) e afferma: «ne ho ancora per molto». Invece, il romanzo esce l’anno successivo.

Tra le tante curiosità, il lettore noterà come il rinomato giornalista Alfonso Tealdo arrivi, nel 1966, con un’ora di ritardo all’intervista con Vargas Llosa. Vediamo anche come la lettura di una notizia sul giornale divenne lo spunto che fece scrivere al romanziere almeno due libri: I cuc-cioli (1967) e Storia di Mayta (1984). Alcune opere poi cambiarono titolo: La guardia del corpo e Vita e miracoli di Pedro Camacho divennero alla fine Conversazione nella «Catedral» e La zia Julia e lo scribacchino (1977).

Alcune interviste, come quella di Sonia Goldenberg, fanno da rassegna dell’opera dello scrittore, altre si fermano su di un libro, come quella fatta da Carlos Batalla, dove si analiz-za Il Paradiso è altrove. In questo senso, non esiste un’uniformità. Anche se il libro vuol essere organico, i temi sal-tano da una parte all’altra. In alcuni casi, le conversazioni si incentrano su un argomento preciso, come il cine-ma o l’amicizia di Vargas Llosa con

lo scrittore di racconti Julio Ramón Ribeyro.

Il rapporto dello scrittore con i mezzi di comunicazione è interessan-te. In un’occasione dichiarò che l’ot-tanta per cento del giornalismo na-zionale è «spregevole e vergognoso». E, tuttavia, lui stesso nasce da esso: quando aveva appena quindici anni, lo scrittore arequipeño iniziò a lavorare come giornalista nell’ormai scompar-so giornale “La Cronica”. Divenne poi direttore nell’area d’Informazio-ne nella Radio Panamericana, intervi-statore e commentatore letterario del giornale “El Comercio”, traduttore nell’agenzia di notizie France-Presse e conduttore di un programma radiofonico per Radio Televisión Francesa. Scrisse articoli nel giornale “Expreso”, condusse il programma di Panamericana Televisión La Torre de Babel e fu editorialista del settimanale “Caretas” e del giornale “El País”, tra le tante pubblicazioni.

Che aspetto del giornalismo in-curiosisce Vargas Llosa? In un passo de Il linguaggio della passione (2001), selezione dei suoi articoli pubblicati dal giornale “El País”, egli confessa: «Il giornalismo è stato l’ombra della mia vocazione letteraria; l’ha segui-ta, alimentata e ha impedito che essa si allontanasse dalla realtà viva e attuale, in un viaggio puramente immaginario». Tuttavia, nella sua opera il giornalismo è mal visto e viene esercitato da personaggi sprofondati nel fallimento: in Con-versazione nella «Catedral», il reporter Carlitos dice al suo collega Santiago Zavala: «Bisogna esser pazzi per en-trare in un giornale se si ha appena

un po’ di affetto per la letteratura. Il giornalismo non è una vocazione ma una frustrazione. La poesia è quanto di più grande c’è».

Altri casi: in Pantaleón e le visita-trici (1973), il giornalista radio “el Sinchi” è un ricattatore che offre il proprio silenzio al capitano dell’eser-cito Pantaleon Pantoja a cambio di soldi; ne La zia Julia e lo scribacchino, il redattore di bollettini Pascual ha un’«irreprimibile predilezione per l’atroce» e Pedro Camacho viene alla fine umiliato come informatore di gialli; ne La guerra della fine del mon-do, il barone di Cañabrava avverte il colonnello Moreira César sul «gior-nalista miope», ispirato allo scrittore brasiliano Euclides da Cunha: «La sua vocazione è la scienza del pette-golezzo, il tradimento, la calunnia, l’attacco astuto. Era il mio protetto e quando passò nel giornale del mio avversario divenne il più vile dei miei critici»; in Cinco Esquinas [Cinque Angoli] (2016) le critiche vengono rivolte alla stampa gialla.

Nonostante queste frecciate, i giornalisti cercano affanosamente di ottenere un’intervista con il rinoma-to romanziere, spesso per chiedergli le sue opinioni sulla politica o su altri argomenti, come se fosse un oracolo. Infine, spero che queste Interviste scelte possano far conoscere meglio uno degli scrittori più importanti in lingua spagnola.

* Giornalista e scrittore. Specialista in Julio Ramón Ribeyro e Mario Vargas Llosa.

1 Mario Vargas Llosa: entrevistas escogidas. Se-lezione, prologo e note di Jorge Coaguila. Lima, Revuelta Editores, 2016.

Mario Vargas Llosa.

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L’ARTE DI TORRE TAGLELuis Eduardo Wuffarden*

Un pregiato volume mostra il patrimonio artistico del Palazzo della Cancelleria peruviana.

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Quasi un secolo fa, quando fu ufficialmente designata come sede del Ministero degli

Affari Esteri del Perù, il Palazzo di Torre Tagle iniziava già ad occupare uno spazio singolare nell’immagina-rio pubblico nazionale. Era l’unico edificio dell’antica capitale del vice-reame che potesse essere ascritto alla categoria dei “palazzi” e il suo protagonismo nella storia del Paese rivestiva un’importanza secolare. L’ultimo proprietario coloniale, José Bernardo de Tagle y Portocarrero, aveva proclamato l’indipendenza per la prima volta nella città di Trujillo e fu il principale collaboratore peruvia-no di José de San Martín. Successiva-mente, esercitò il comando supremo del Paese per quattro volte, prima della sua polemica fine durante l’era bolivariana. La casa sopravisse a tutti questi avatar e, nel corso del XIX secolo, le sue mura accolsero congres-si internazionali, diedero asilo e rifu-gio nei tempi di guerra e oggigiorno ospitano uno dei musei pittorici più importanti della città. Tutti questi aspetti sono oggi sintetizzati in que-sto emblematico monumento della diplomazia peruviana, che coniuga le alte funzioni ufficiali con la conser-vazione di un notevole patrimonio artistico nazionale che si accresce con il passare del tempo.

Costruito da uno dei gruppi fami-gliari più ricchi della città, questo immobile è diventato un vero simbo-lo di prestigio sociale. Ogni dettaglio è stato scelto minuziosamente, ini-ziando dalla sua ubicazione all’inter-no del tessuto urbano.

Il corredo dei marchesi Complemento coerente della ricchez-za architettonica del palazzo era il suo arredamento interno che, senza dub-bio, rispondeva all’accentuato gusto sontuoso dell’élite limeña, particolar-mente sensibile alle manifestazioni di quello che José Durand ha chiamato «lusso indiano». Per fortuna l’elemen-to simbolico centrale e più duraturo della casa è stato conservato: la galle-ria di ritratti dei successivi proprieta-ri, che mette in evidenza la continuità del maggiorasco. Tuttavia, poco si sa del resto degli oggetti che formavano il corredo originale dei Tagle, giacché gran parte esso è andato perduto e ci sono scarsi riferimenti in merito [...].

La Pinacoteca Ortiz de ZevallosVerso il 1840, l’unica figlia in vita del quarto marchese, Josefa de Tagle y Echevarría, contraeva seconde nozze con Manuel Ortiz de Zevallos y García, avvocato e diplomatico di Lima di ascendenza ecuadoriana, che diventerà il quinto marchese consorte di Torre Tagle. Ortiz de Zevallos sviluppò un’intensa attività pubblica e raggiunse le cariche di ministro delle Finanze e cancelliere del Perù. Iniziava così una nuova

era per il maggiorasco di Torre Tagle, inevitabilmente segnata

dallo sforzo di rivendicare la memoria dei suoi prede-

cessori e dal conseguen-te recupero fisico del palazzo della famiglia, severamente colpito dal saccheggio e dall’embargo di beni a partire dal 1824.

Una volta finito l’inca-meramento e con il ritorno dei proprietari ne l l ’ immobi le , si rese necessario

ristrutturare quasi tutti gli ambienti

interni e in questo compito i nuovi mar-

chesi si adoperarono intrepidamente, e con

vari mezzi, recuperando l’aspetto originale della casa.

Questo sforzo imperioso per il restauro si ritrova all’origine della

passione per il collezionismo artistico che Manuel Ortiz de Zevallos y Tagle

(1845-1900?), fratello del sesto mar-chese, sviluppò. Nel corso degli ulti-mi trent’anni del XIX secolo, infatti, egli arriverà a creare la pinacoteca più grande della città, e probabilmente di tutto il Sudamerica, con lo scopo di allestirla nelle mura del palazzo della famiglia. Un primo passo consistette nel riunire pezzi procedenti da diversi maggioraschi della capitale: oltre che della famiglia Tagle, furono donate pitture dalle importanti casate di Aliaga, Velarde e Zevallos, e anche dai discendenti del capitano Martín José de Mudarra y La Serna, primo marchese di Santa María de Pacoyán […].

Ma la grande e definitiva spinta della collezione arriverà soltanto verso il 1870, quando Ortiz de Zeval-los lavorava come rappresentante diplomatico del Perù in Inghilterra. In quell’anno acquistò due grandi collezioni europee, una inglese e l’altra italiana, che fece trasportare poco dopo nel palazzo della fami-glia a Lima, affinché diventassero il nucleo della sua pinacoteca. Al loro arrivo, le centinaia di quadri furono oggetto di studio e di classificazione da parte di due pittori stranieri attivi nella città: il frate austriaco Bernardo María Jeckel e il ritrattista spagnolo Julián Oñate y Juárez, discepolo di Raimundo de Madrazo. Nel 1873 si stampò il catalogo curato da entram-bi e, da quel momento, fu possibile conoscere la presenza a Lima di una vasta pinacoteca privata che pratica-mente riuniva tutte le scuole euro-pee, dai primi italiani fino ai pittori del rococò francese, passando per i grandi paesaggisti fiamminghi, tutti i maestri spagnoli del Secolo d’Oro,

diverse figure maestose del barocco fiammingo e i grandi ritrattisti tede-schi del XVII secolo. Alla fine del decennio, lo scoppio della Guerra del Pacifico (1879-1884) imporrà un’in-certa parentesi a questa iniziativa, che sembrò acutizzarsi durante i lunghi mesi dell’occupazione di Lima e le sue note conseguenze distruttive. In mezzo a queste circostanze, risulterà provvidenziale per la conservazione del palazzo e delle sue collezioni diventare la sede temporanea dalla legazione francese [...].

La dispersione definitiva della collezione inizierà nel 1918, dopo la vendita del Palazzo di Torre Tagle allo Stato peruviano. Successivamen-te, nel decennio 1920, la maggior parte dei dipinti passerà nelle mani dell’impresario nordamericano Cla-rence Hoblitzelle, che lascerà la sua collezione come eredità personale al Museo di Dallas [...]. Soltanto un gruppo minore di opere rimase a Lima e gradualmente fu venduta a diversi collezionisti. Nel palazzo di oggi rimane un piccolo insieme di dipinti, come ricordo simbolico della pinacoteca che ebbe lì la sua sede.

La Cancelleria e la Patria NuovaSoltanto nel 1920, giunto alla fine il governo di Pardo, quando la Cancel-leria peruviana prese sede nel Palazzo di Torre Tagle [...], allo stesso modo di altri edifici pubblici di una certa cate-goria, Torre Tagle divenne uno degli scenari preferiti per le celebrazioni ufficiali del centenario dell’Indipen-denza e della battaglia di Ayacucho [...]. Intanto, l’arredamento dei saloni e delle dipendenze interne si portava avanti lentamente. Il processo ebbe

Ritratto equestre non identificato. Anonimo napoletano. Olio su tela, 333 × 259,7 cm, 1680-1700. Rosa Juliana Sánchez de Tagle, primera marquesa de Torre Tagle, di Cristóbal de Aguilar. Olio su tela, 189 × 128 cm, verso 1743-1756.

Mariscal Ramón Castilla, di Manuel María del Mazo. Olio su tela, 123,5 × 107 cm, 1871.

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un accelerazione nel corso del 1923, quando il palazzo venne designato come alloggio ufficiale del cardinale Juan Benlloch y Vivó, arcivescovo di Burgos e rappresentante diplomatico della Spagna del più alto livello [...]. Si impose allora con chiarezza il gusto per gli stili classici e storici, nel senso più ampio. Nei saloni principali si alternavano tavoli barocchi «colo-niali» e sedie inglesi allo stile Regina Anna e Chippendale, anche se c’era-no soltanto mobili d’epoca. Lo studio assegnato al cardinale —previsto per il cancelliere— conteneva mobili repubblicani arredati con incisioni di bronzo e un grande dipinto di San Giuseppe circondato da santi, di fine elaborazione cuzqueña, ornato da una cornice neoclassica della stessa origine. Per la sala da pranzo del cardinale fu acquistato un armadio a muro di stile neorinascimentale cen-troeuropeo, raro nella capitale, che oggi si trova accanto alla scrivania del cancelliere. È probabile che proprio in quegli anni arrivò un gruppo di divani neoclassici di stile statuniten-se, che furono molto in auge durante i primi anni della Repubblica. Molti ebanisti si spostarono infatti da Fila-delfia a Lima dove installarono i loro laboratori [...].

Passando alla pittura, è interes-sante costatare che forse il primo acquisto ufficiale destinato alla nuo-va Cancelleria sia stato una coppia di dipinti di Teofilo Castillo, nei quali l’architettura del palazzo serve da sfondo scenografico per episodi immaginari dell’antico vicereame […]. Tra le scarse opere artistiche procedenti dalla Cancelleria figu-rano tre sculture di bronzo che si

conservano ancora oggi. Si tratta di opere dal carattere allegorico, rappresentative dell’accademismo della fine del secolo, che furono acquistate nel 1897 dal governo della Ricostruzione Nazionale, presieduto da Nicolás de Piérola, e destinate al salone dei ricevimenti dello studio ministeriale. A questi bronzi stranieri —intitolati La Pace, La Fortuna e Pro Patria— si aggiunsero opere lasciate in prestito dal Museo Nazionale di allora, che includono la carrozza dei conti di Torre-Velar-de, la composizione allegorica del Combattimento navale di Pacocha, del pittore franco-cubano Luis Boudat; Un passo difficile, opera di genere attribuita a Francisco Masías; la Margarita, opera cruciale della pit-trice accademica Rebeca Oquendo e un’insieme significativo di ritratti ufficiali, tra i quali si distingue la famosa effigie postuma del Marescial-lo Ramón Castilla, fatta nel 1871 da Manuel María del Mazo.

Subito dopo la fine del governo di Augusto Bernardino Leguía (1919-1930), conosciuto come Oncenio, in mezzo al periodo di grande agitazione politica che seguì alla sua caduta, Rafael Larco Herrera, ministro degli Affari Esteri del Consiglio Nazionale del Governo costituita nel 1931, dona in quell’anno alla Cancelleria la Venere india, scultura di bronzo del maestro valenziano Ramón Mateu, che per lavoro aveva risieduto a lungo in Perù nel decennio precedente [...]. Con questo regalo, Larco Herrera inizia la tradizione delle donazioni fatte dagli ex cancellieri, con il fine di contribuire all’arricchimento decora-tivo del palazzo.

Dal restauro moderno fino al presente Il periodo di restauro moderno di Torre Tagle, compreso tra il 1955 e il 1958, apre una nuova era nella storia dell’edificio [...]. Dal punto di vista politico e amministrativo, il compimento di questo progetto fu a carico di Manuel Cisneros Sánchez, cancelliere della Repubblica dal 1956 al 1959. Rinomato collezionista e conoscitore d’arte, Cisneros Sánchez lascia un’importante eredità, ad opera della sua vedova, sicuramente in memoria del suo ruolo nel risorgi-mento del palazzo […].

Una delle aggiunte più impor-tanti degli ultimi tempi è stata, senza dubbio, la galleria di ritratti dei marchesi di Torre Tagle, che include opere di pittori di Lima molto rinomati, come Cristóbal de Aguilar, Cristóbal Lozano e José Gil de Castro. Come è noto, questi dipinti si trovava-no nella casa sin dal suo acquisto ed erano rimasti lì come cauzione. Soltanto nel 2010 si riesce ad acquistarli in modo definitivo, assicu-rando in questo modo la loro appartenenza naturale a questo palazzo. Un’altra aggiunta di carat-tere storico relativamente recente è il ritratto di Carlos M. Elías, di Carlos Baca-Flor, che testimonia la protezio-ne del diplomatico peruviano verso il giovane pittore formato in Cile, che segnerà l’avvio della sua carriera come artista accademico. Parallelamente sono state acquistate opere notevoli dell’arte peruviana recente [...]. La pre-

senza delle creazioni visuali moderne e contemporanee lascia intravedere una vitalità promettente perché, non restando ancorate al passato, le colle-zioni del palazzo di Torre Tagle hanno stabilito una salutare continuità nel tempo, che fa di questa istituzione un autentico «museo vivente», sempre attento alla mutevole realtà artistica del nostro Paese.

Frammenti dello studio introduttivo del libro El arte de Torre Tagle. La colección del Ministerio de Relaciones Exteriores del Perú [L’arte di Torre Tagle. La collezione del Ministero degli Affari Esteri del Perù]. Edizione di Luis Eduardo Wuffarden e Guido Toro. Lima, Ministero degli Affari Esteri, 2016.

* Curatore, storico e critico d’arte.

Rosa Juliana Sánchez de Tagle, primera marquesa de Torre Tagle, di Cristóbal de Aguilar. Olio su tela, 189 × 128 cm, verso 1743-1756.

José Manuel de Tagle Isásaga, tercer marqués de Torre Tagle, di José del Pozo. Olio su tela, 223,5 × 147 cm, 1795-1800.

Santa Rosa de Lima, di Francisco Laso. Olio su tela, 191 × 115,5 cm, 1858-1867.

Venus india, di Ramón Mateu

Montesinos. Bronzo, 87 × 87 ×

34 cm, 1927.

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MEMORIA DEL PERÚFOTOGRAFIE 1890-1950

Prima esposizione itinerante di una trilogia volta a mostrare un panorama significativo della fotografia peruviana. Curata da Jorge Villacorta, Andrés Garay e Carlo Trivelli la mostra è organizzata dal Centro Culturale Inca Garcilaso

del Ministero degli Affari Esteri e dal Centro de la Imagen di Lima.

In una così ricca geografia che riunisce boschi amazzonici, ghiacciai tropicali, imponenti

catene montuose e aridi deserti, le diverse culture autoctone del Perù —uno dei sei Paesi considerati come culla delle civiltà del mondo— entrarono in contatto con gente venuta da Europa, Africa e Oriente. Fu una storia di conquista e migra-zione che finì col configurare uno scenario post coloniale.

Questi elementi —geografia, società e cultura— hanno interagi-to tra di loro in modi complessi, e a volte contradditori e hanno prodotto manifestazioni culturali sorprendenti. Una di queste è stata la fotografia. Così come è testimoniato dalle immagini che compongono Memoria del Perù. Fotografie 1890-1950, la tradizione fotografica peruviana si è alimenta-ta dell’indubbio talento di un grup-po di rinomati creatori visivi che utilizzarono la macchina fotografica —uno dei simboli più emblematici della modernità nel periodo che ci riguarda— come mezzo per ritrarre, comprendere e interpretare il Paese.

Per una società come quella peruviana della fine del XIX secolo, frammentata geograficamente e cul-turalmente, l’immagine fotografica fu uno strumento essenziale nella costruzione di un’idea nazionale.

Grazie a queste immagini – e a tante altre – il Perù, così come lo conosciamo oggi, iniziò a sorgere davanti a sé come una realtà per-cepibile. Le meraviglie naturali del suo territorio, i grandi monumenti del suo passato precolombiano e gli usi ancestrali si intrecciano con le aspirazioni della modernità, il progresso dell’economia capitalista e i conflitti sociali di una società nazionale in formazione.

Memoria del Perù. Fotografie 1890-1950 ci permette di rivivere parte di quel processo di costruzione e di valorizzare il talento di alcuni

Ritratto con allagamenti, di Pedro N. Montero. Piura, 1925.

Scuola fiscale, di Carlos y Miguel Vargas. Arequipa, 1925.

Porta e muro inca a Ollantaytambo, di Martín

Chambi. Cuzco, 1931.

maestri dell’obiettivo come Max T. Vargas, Martín Chambi, Carlos e Miguel Vargas, Juan Manuel Figue-roa Aznar, Sebastián Rodríguez, Baldomero Alejos o Walter O. Run-cie, per elencare soltanto alcuni dei più rinomati di questa selezione. Carlo Trivelli.

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Ubaldina Yábar, di Juan Manuel Figueroa Aznar. Paucartambo, Cuzco, 1908.

Coppia di wampis (anonimo). 1950.

Minatori e minerale, di Walter O. Runcie. Cotamamba, Apurimac, 1939-1940.

Ritratto di contadino, di César Meza. Cuzco, 1945.

Roberto Baudot e signore, di Eugène Courret. Lima, 1890.

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CHASQUI 12

PEDRO S. ZULENFILOSOFO E ATTIVISTA INTELLETTUALEIl Fondo Editoriale del Congresso della Repubblica pubblica gli scritti del filosofo peruviano d’origine cinese, che fu anche uno dei fondatori dell’Associazione Pro Indigena. La raccolta è stata curata dai filosofi Rubén Quiroz, Pablo

Quintanilla e Jael Rojas. Qui si presenta un frammento dello studio introduttivo.

Pedro Salvino Zulen1 è uno dei più interessanti e impor-tanti filosofi peruviani del

XX secolo. Non è stato poco stu-diato da ricercatori sia peruviani sia stranieri, ma fino ad oggi la sua opera è rimasta poco accessibile, perché tutti i suoi lavori sono stati pubblicati soltanto in una prima edizione. In quest’occasione ven-gono riunite, per la prima volta, tutte le pubblicazioni filosofiche e quasi tutte quelle giornalisti-che e politiche, il che costituisce un significativo contributo per la ricerca accademica su questo autore e sul pensiero filosofico peruviano del XX secolo.

Zulen nasce a Lima nel 1889. Sua madre era una limeña criolla e il padre un immigrante cinese cantonese. Nel 1906 si iscrive all’Università di San Marcos (che nel 1946 diventa Universidad Nacional Mayor de San Marcos) per studiare scienze naturali e matematica, ma nel 1909 entra nella Facoltà di Lettere per studia-re filosofia. Fa un primo viaggio negli Stati Uniti nel 1916 per perfezionare i suoi studi in ambito post universitario nell’Università di Harvard ma la tubercolosi, che già lo affliggeva, lo costringe a ritornare in Perù quasi subito.

Si laurea all’Università di San Marcos, con una tesi che sarà pubblicata nel 1920 dal titolo La filosofía de lo inexpresable: bosquejo de una interpretación y una crítica de la filosofía del Bergson [La filo-sofia dell’inesprimibile: schizzo di un’interpretazione e una critica della filosofia di Bergson], che contiene un’esposizione e la mes-sa in discussione della filosofia di Henri Bergson, all’epoca alquanto predominante nel dibattito filoso-fico peruviano e che era conosciu-ta con gli appellativi di spirituali-smo, vitalismo o intuizionismo. La filosofia di Bergson irrompe in Perù a inizi del XX secolo, in gran parte per merito dell’influenza di Alejandro Deustua, e come reazione al positivismo di Comte e, specialmente, al positivismo evoluzionista di Spencer, che ave-va esercitato una forte influenza nell’opera di autori peruviani come Javier Prado, Jorge Polar, Manuel González Prada e lo stesso Alejandro Deustua.

Dal 1920 al 1922, Zulen studia all’Università di Harvard dopo aver ricevuto una borsa di studio dallo Stato peruviano. In quell’occasione conosce i movi-menti anglosassoni più impor-tanti dell’epoca, come il neohege-lismo, il neorealismo e le origini del pragmatismo statunitense. Di

nuovo deve tornare in Perù per via della tubercolosi e ottiene un dottorato nell’Università di San Marcos con una tesi che vedrà la luce nel 1924, intitolata Del neohegelianismo al neorrealismo. Estudio de las corrientes filosóficas en Inglaterra y los Estados Unidos, desde la introducción de Hegel hasta la actual reacción neorrealista [Dal neohegelianesimo al neoreali-

smo. Studio sulle correnti filoso-fiche in Inghilterra e negli Stati Uniti, dall’introduzione di Hegel fino alla odierna reazione neorea-lista]. Appena un anno dopo, nel 1925, Zulen muore a causa della malattia che lo aveva perseguitato per diversi anni.

Oltre ai due testi accademici summenzionati, Zulen ha pub-blicato una grande quantità di

articoli giornalistici in riviste e giornali dell’epoca, molti di questi su argomenti filosofici ma la mag-gior parte su problemi sociali e politici. Infatti, la vita filosofica di Zulen fu accompagnata da un’in-tensa vita politica. È stato uno dei fondatori, nel 1909, dell’Associa-zione Pro Indigena, da lui presie-duta insieme a Joaquín Capelo e Dora Mayer.

L’opera di Pedro S. Zulen è importante per molteplici motivi. Da una parte, Zulen è stato un pen-satore di talento che riuscì a inte-grare, nella sua opera, le influenze filosofiche più importanti del suo tempo: lo spiritualismo francese, il neohegelianesimo, il nascente pragmatismo e l’incipiente filoso-fia analitica. Queste diverse scuole furono importanti nella filosofia peruviana della prima metà del XX secolo. D’altra parte, Zulen dimostra una pregevole integra-zione tra le sue capacità accade-mico-filosofiche e il suo impegno politico e sociale. Inoltre, Zulen è stato un ispirato professore di filosofia, come lo dimostra il pro-gramma del corso in Psicologia e Logica, da lui tenuto nel 1924 e pubblicato per la prima volta nel 1925 e che presentiamo nel pre-sente volume.

In questa occasione, pubbli-chiamo l’opera di Zulen corredata da tre studi introduttori. Il primo, a cura di Rubén Quiroz, discute La filosofía de lo inexpresable. Il secondo, scritto da Pablo Quinta-nilla, esamina Del neohegelianismo al neorrealismo e il programma del corso di Psicologia e Logica tenu-to nel 1925. Il libro finisce con lo studio realizzato da Joel Rojas, presidente del Gruppo Pedro S. Zulen dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos, che presen-ta gli scritti giornalistici del nostro autore. Questi ultimi rispecchia-no la sua intensa e intrepida vita da intellettuale.

[...]Siamo sicuri che questo libro

faciliterà una conoscenza maggiore sulla qualità della filosofia che, in diversi momenti della sua storia, ha prodotto la società peruviana. Speriamo anche che il lavoro fatto con questo autore possa ripetersi per altri filosofi peruviani del XX secolo, le cui opere non sono suffi-cientemente note.

Tratto da: Pedro S. Zulen. Escritos reunidos. Lima, Fondo Editorial del Congreso del Perú. 2015.

1 Secondo lo studioso coreano Song No, il suo nome completo fu Pedro Salvino Sun Leng. Cfr. «Entre el idealismo práctico y el activismo filosófico: la doble vida de Pedro S. Zulen», in Solar, anno 2, nro. 2, 2006, pp. 73-78.

L’INDICIBILE

Che cos’è il mondo? Che cos’è il mio spirito? Cos’è questo che mi avvolge? Che cos’è quel qualcosa di inconfondibile, perenne, attivo che sento in me? La filosofia non l’ha detto fino ad ora, né dobbia-mo sperare che lo dica, anche se potesse dirlo.

Cosa studiamo? A cosa aspiriamo nelle pagine degli uomini che pensarono, che pensarono nell’illusione di pensare per soddisfare l’aspirazione umana di addentrarsi nell’aldilà? Aspiriamo all’anima di quegli uomini che sorge reale, concreta, genuina da quelle pagi-ne, per mostrarcela in tutte le sue caratteristiche individuali e darci prova, con la più chiara e decisiva delle evidenze, dell’eternità del mondo individuale.

Tratto da: Pedro S. Zulen, Del neohegelianismo al neorrealismo. Lima, Editorial Lux, 1924.

Pedro S. Zulen nell’Università di Harvard, 1916. Archivio di famiglia.

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CHASQUI 13

SUONI DEL PERÙ

LUCHA REYES: LA SUA VOCE PERDURAAbraham Padilla*

Nata nel distretto Rimac di Lima con il nome di Lucila Justina Sarcines Reyes (19

luglio 1936 - Lima, 31 ottobre 1973), figlia di padre limeño e madre pro-veniente da El Carmen, la cantante peruviana Lucha Reyes (pseudonimo artistico che addotta nel 1960) è lar-gamente conosciuta e ammirata per le sue emotive interpretazioni.

Sebbene abbia sperimentato anche altri generi musicali, è stata la musica criolla, che ascoltò sin dall’infanzia nel quartiere di Barrios Altos, che permise alla cantante di raggiungere il successo, specialmente dopo la sua presenza alla radio, in al-cune peñas della capitale e, più tardi, con la registrazione del suo primo disco nel 1969.

Le sue interpretazioni manife-stano la notevole qualità del timbro della voce, che era cristallina, piena di armonici, risonante. La sua vo-calizzazione era chiara e articolata. I suoi toni, ampi, creavano grandi contrasti e sottili transizioni. La sua forza era spesso come un grido; la sua tenerezza era commovente. Il suo dolore, empatico; la sua allegria celebrava la vita, la stessa che le fu strappata da un infarto fulminante mentre si recava a celebrare il Gior-no della Canzone Criolla, vittima di una salute ereditariamente debole (diabete giovanile, arteriosclerosi) a poche settimane dall’aver compiuto 37 anni.

Parte del successo di Lucha Reyes è dovuto al fatto che ella cantò ispirate melodie di compositori che stavano creando nuovi repertori dai temi romantici, di protesta, di soffe-

renza esistenziale e simili, lasciando un po’ in disparte le notorie callecitas di un tempo e gli usi ereditati dal vi-cereame e che esprimevano quel lato della soggettività popolare peruviana che era imparentata alle rancheras o ai boleros, e da cui lei stessa seppe trarre profitto con una certa astuzia commerciale, come quando divenne artista esclusiva di FTA, rappresen-tante di RCA Víctor (1970 - 1973). In questa breve ma fruttuosa tappa, la cantante riuscì a consolidare il suo stile vocale caratteristico e partecipò allo sviluppo di un’estetica stru-mentale criolla innovatrice, a cura dell’ensemble di Rafael Amaranto (due chitarre, sassofono, tastiera o fisarmonica e percussioni).

Tuttavia, Lucha Reyes non cadde nella sdolcinatezza melodrammatica

che alcune delle canzoni sembrava-no proporre. Nella sua voce tutte le canzoni suonano vere e trascendenti. Le avversità di un’infanzia segnata dalla povertà, dalla morte prematu-ra del padre che la rese orfana, dai molteplici traslochi di casa in casa, dall’alternarsi delle persone che si prendevano cura di lei, ecc, non riu-scirono a indebolire il suo spirito di donna, che, essendo inoltre di razza nera, era già particolarmente condi-zionato dalla società. Probabilmente il suo stile si forgia nelle esperienze che visse al fianco delle persone che si presero cura di lei quando era bambina, in sua madre, nelle religiose francescane del Convento della Nostra Signora della Carità del Buon Pastore (dove trascorse otto anni e dove studiò fino alla terza

elementare, l’unica istruzione che ricevette), nella sua resilienza, nel rifiuto dell’autocommiserazione, nello sviluppo dell’amore proprio e in quella capacità di rinnovare sé stessa nonostante i maltrattamenti e la salute debole. Collezionava bam-bole e si prendeva cura di loro con diligenza. Soltanto un essere umano profondamente sensibile può esser capace di trasmutare le proprie esperienze e donarle musicalmente con la maturità e serenità che lei dimostrò.

Soprannominata «La Morena de Oro del Perú» dall’animatore Augusto Ferrando nella sua famosa Peña (lavorò lì dal 1960 al 1970), dove imparò, insieme agli scherzi di tipo razzista, a muoversi sul palcosce-nico, Lucha Reyes rappresenta non soltanto un paradigma del suono di un’epoca della musica criolla nel Perù ma soprattutto quella capacità di trascendere sé stessa, di donarsi con passione alla vita nonostante tutto e di esprimerla con tutta l’ani-ma, a viva voce. È stata, nelle parole di tutti coloro che la conobbero, una persona dalla profonda bontà e sem-plicità. La sua salma fu portata sulle spalle dalla Chiesa di San Francisco al Cimitero El Ángel della Benefi-cenza Pubblica di Lima. Trentamila persone piangevano e cantavano in gruppo «Tu voz», di Juan Gonzalo Rose e «Regresa», di Augusto Polo Campos mentre, con indosso la sua migliore parrucca, entrava silenziosa-mente nella sua ultima dimora.

* Musicologo, compositore, direttore d’or-chestra.

Rosas MeRcedes ayaRza de MoRales

LOS PREGONES DE LIMAendesa, 2006

Questo disco è dedicato ai pregones originali per voce e pianoforte della compianta Rosa Mercedes Ayarza de Morales (Lima, 8 luglio 1881 – 2 maggio 1969). Da bambina studiò un po’ di musica con sua zia e più tardi ricevette consigli sul canto da Claudio Rebagliatti, ma la sua for-mazione fu soprattutto intuitiva e autodidatta. Nel corso della sua vita sviluppò sempre delle attività vicine alla musica (suo fratello Alejandro fu autore di musica criolla conosciuto con il soprannome di «Karaman-

duca»). Ha promosso attivamente spettacoli di zarzuela e spettacoli di canto lirico. Compose delle canzoni e trascrisse in partiture alcuni brani di autori popolari. Una delle sue creazioni più diffuse sono i pregones, caratterizzati musicalmente dal fatto che utilizzano forme, armonie e svolte melodrammatiche tratte dalla zarzuela spagnola, abbinandole in alcuni casi con quelle della musica criolla e con l’idea del pregón [pro-clamo] della Lima antica. Molti di questi pregones trasportano nei loro testi la caricatura onomatopeica della pronuncia di questi personag-gi itineranti, alcuni dei quali neri, cinesi o cholos. Il disco include undici tracce interpretate da diversi cantan-ti peruviani con l’accompagnamento del pianoforte. Il libretto include tutti i testi dei pregones.

aa.VVGRAN COLECCIÓN DE LA MÚSICA CRIOLLA(www.11y6disCos.Com. 2011)

Composta da quindici volumi, la «Gran Colección de la Música Criolla» include una raccolta dell’o-

pera più rappresentativa di un vasto insieme di compositori e interpreti di musica criolla peruviana come Arturo «Zambo» Cavero, Chabuca Granda, Los Embajadores Criollos, Eva Ayllón, Los Morochucos, Óscar Avilés, Jesús Vásquez, Los Kipus, Felipe Pinglo, Filomeno Ormeño, Lucho de la Cuba, Fiesta Criolla, Lucila Campos, Los Zañartu e Lucha Reyes. Ogni volume è composto da un libretto che contiene una biografia dettagliata (mancano i nomi degli autori) e quattro dischi che contengono le registrazioni più note ed emblematiche di questi artisti. Attraverso questi dischi, è

possibile intravedere chiaramente lo sviluppo di questo genere musicale che comprende la più ampia gamma di creatori e di cantanti pubblicata ad oggi. È materiale da collezione che dovrebbe far parte dell’archivio discografico di ogni studioso della nostra musica e di coloro che sono interessati a conoscere più profonda-mente l’insieme musicale della costa peruviana.

Leyenda

Lucha Reyes.

CHASQUIBollettino Culturale

MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI

Direzione Generale per gli Affari CulturaliJr. Ucayali 337, Lima 1, Perù

Telefono: (511) 204-2638

E-mail: [email protected]: www.rree.gob.pe/politicaexterior

Del contenuto degli articoli sono ritenuti responsabili gli stessi autori.

Questo bollettino viene distribuito gratuitamente dalle missioni del Perù all’estero.

Traduzione:Giampaolo Molisina

Stampa:Tarea Asociación Gráfica Educativa

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DOLCE PATRIATeresina Muñoz-Nájar*

Sebbene l’influenza ispano-araba sia stata fondamentale nella storia della pasticceria peruviana, va detto che quest’ultima si è notevolmente sviluppata nel corso dei secoli, tanto da acquisire uno stile peculiare,

grazie a dolci originali e noti come la mazamorra morada, il turrón de Doña Pepa, il suspiro a la limeña, il queso helado e il King Kong.

La scuola pasticcera che arrivò al Nuovo Mondo nelle navi dei conquistadores (insieme alla

canna da zucchero) ebbe origini romane, moresche e sefardite. Tre radici importantissime che fecero da fondamenta alla nostra attuale scuola pasticcera, arricchita negli anni dai sapori propri ed autentici e dallo tocco esotico dei prodotti americani, come il camote, il mais, la vaniglia, l’ananas, il cacao, gli arachidi, la lúcuma e la chirimoya.

Manuel Martínez Llopis ne La dulcería española. Recetarios histórico y popular, afferma che nei duecento anni (dal 218 a.c. al 19 a.c.) in cui si sviluppò la conquista della peni-sola iberica, la famosa “romanizza-zione” (adattamento al modo di vita romano da parte delle società dominate) arrivò a toccare anche la cucina. «La pasticceria romana ha esercitato una grande influenza sull’arte dolciaria iberica», scrive Martínez. Lo testimoniano gli euchylés «una specie di frittelle che si facevano passando la pasta semi-liquida attraverso un imbuto, per farla poi cadere nell’olio bollente a friggere, adottando forme origi-nali e grottesche, che in seguito venivano farcite con miele o vino mieloso». Ai romani dobbiamo an-che l’esistenza dell’impasto phyllo, a cui si fa oggigiorno ricorso per la preparazioni di dolci ed empanadas.

Molti anni dopo, gli spagnoli sperimenteranno l’influenza di un’altra importante invasione, quella dei popoli islamizzati del Nord Africa. Questi arrivarono a destinazione con il più importante dei tesori: lo zucchero. Tra i dolci moreschi del tempo Martínez Llo-pis menziona la kinafa, che si faceva con pezzetti di pane fritto in olio e coperto con miele, spruzzato con acqua di rose e mischiato con lo zucchero, il chiodo di garofano, le mandorle tritate e la pasta di zuc-chero, un degno predecessore del nostro peruvianissimo «ranfañote». Egli menziona, inoltre, l’halwa, che si preparava con zucchero a velo e mandorle sbucciate e schiacciate, ammassando il tutto con acqua di rose e olio di mandorle, per farne diverse figure che venivano, in seguito, infornate. Se si evitasse di infornare il tutto e si togliesse l’acqua di rose la formula sarebbe quella del nostro mazapán.

Alla fine Martínez Llopis ci dice che la cucina sefardita «che nasceva nei ghetti giudei prima dell’espul-sione dei sefarditi decretata dai Re Cattolici nel 1492» ebbe una

certa influenza nella pasticceria spagnola, anche se in minore pro-porzione. Sono di origine sefardita, ad esempio, le composte di frutta. Tra queste, quella di melacotogna, è esattamente identica a quella che si prepara oggi.

Segreti del chiostroÈ nelle case della Lima del vicere-ame in cui, per la prima volta in Perù, si iniziano a preparare dolci in casseruola, a cucinare frittelle e a montare a neve gli albumi. Tuttavia, i dati più precisi e im-portanti relativi all’elaborazione dei dolci provengono dai conventi di clausura. Inoltre, come ritiene lo storiografo Eduardo Dargent Chamot nel libro La cocina monacal en la Lima virreinal, il monastero co-loniale era, in un certo modo, uno specchio delle abitudini alimentari di un settore importante della società dell’epoca e l’«estrazione sociale delle donne che abitavano questi cenobi riproduceva quella della città in cui esse vivevano e, se tutto questo suscita un qualche tipo di interesse lo si deve al fatto che, a differenza delle case private, nei monasteri si tenevano i conti in maniera dettagliata dei prodotti che si acquistavano, di quelli che si ricevevano in donazione e delle spese in generale». Verso il 1675, ad esempio, la popolazione di monache nei monasteri di Lima equivaleva al venti per cento della

popolazione femminile cittadina.Dargent ha studiato a fondo i

documenti dei conventi (non solo a Lima) ed ha trovato, oltre alla lista dei prodotti più consumati in quei luoghi (tra cui grandi quantità di latte, uova e frutta), riferimenti ad alcuni dolci che le monache pre-paravano nel XVII secolo, come il frijol dulce, l’arroz dulce, la conserva di melacotogna o di melanzana, il camote dulce e il requesón dulce. Egli sostiene che dal 1771 al 1774 «nei conti del monastero di Santa Cata-lina de Siena della città di Cuzco, una parte importante è destinata al consumo dello zucchero sia per l’uso quotidiano delle religiose che per la preparazione di mazapanes, morcillas, colaciones, empanadas, tur-rones de alicante, conservas de cidra, duraznos en almíbar, conserva de mem-brillos, alfajor, manjar blanco, arroz y cajas de dulces». D’altro canto, lo storiografo afferma che nel XVIII secolo i dolci più presenti nei re-gistri dei conventi sono l’arroz con leche e i frijoles con dulce. «Si parla anche di mazamorras moradas e di lievito, di quinoa con dolce, di caje-ras di conserva e di manjar blanco, di torrejas di dolce e di conserve di melanzane. Come dolci elaborati che potrebbero essere considerati tipici del monastero si cita una lista di Santa Clara che elenca, oltre alle cajetas in conserva e alle melanzane in conserva, tejas di pompelmo, carne di melacotogna, conserve di

pesche e noci zuccherate».

Autori dalla penna golosaÈ opportuno citare un paio di com-menti dei due cronachisti del XIX secolo che confermano l’enorme prestigio dolciario delle monache di clausura. In primo luogo abbia-mo le osservazioni di Flora Tristán —ella arrivò da Parigi ad Arequipa nel 1833 per rivendicare l’eredità lasciatale dallo zio Pío Tristán—, la quale soggiornò per alcuni giorni in due conventi di Arequipa, San-ta Rosa e Santa Catalina. Flora racconta che, nel primo, la madre superiore la portò «nella sua gran-de e meravigliosa cella e lì, dopo avermi fatto accomodare su degli splendidi tappeti e su bianchi cusci-ni, mi fece portare, in uno dei più bei vassoi dell’industria parigina, diversi tipi di eccellenti biscotti fatti nel convento, vini spagnoli in stupende bottiglie di cristallo e un superbo calice fatto dello stesso cristallo, con un’incisione dello scudo di Spagna». Su Santa Catalina ella scrive: «In ogni cella le monache parlavano tutte insieme tra le risa e tutte ci offrivano dolcet-ti di svariate specie, dolci, creme, zucchero candito, sciroppi e vini spagnoli. Era una serie continua di banchetti».

Il ricercatore Sergio Zapata, dal suo canto, riporta nel Diccionario de gastronomía peruana tradicional i seguenti commenti sui conventi di Lima lasciati da Jean Descola ne La vida cotidiana en el Perú en tiempos de los españoles 1710-1820: «Ognuna di queste comunità si vanta di alcuni tipi speciali di dolci che ottengono la stima del popolo. Santa Rosa possiede la mazamorra al carmín, una specie di pappetta che si la-scia riposare la notte nelle tegole del convento, affinché la gelata notturna la renda così particolare. Santa Catalina primeggia nella preparazione dei dolcetti, nella conservazione della cacciagione in latte di mandorla e nel manjar blan-co. Infine, il Carmelo si vanta delle sue frittelle di miele spolverate con lamine d’oro».

Dei venditori ambulanti e delle regioniUna volta costituita la Repubblica, molti dei personaggi apparsi du-rante il Vicereame continuarono a vendere nelle strade della capi-tale prodotti sia dolci che salati. Ne libro Lima: apuntes históricos, descriptivos, estadísticos y de costum-bres, Manuel Atanasio Fuentes, «Il

Tratto da: Lima apuntes históricos, descriptivos, estadísticos y de costumbres, di Manuel Atanasio Fuentes. Parigi, 1867.

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Pipistrello», ci parla dei venditori ambulanti: bizcocheros, tisaneras, gelatai, champuceras, tutti predeces-sori dei nostri venditori di strada o di quegli uomini e quelle donne che, portando una piccola scatola o cesta, vendono ancor oggi nei parchi o accanto alle scuole di quartiere ciambelle al sanguito, melcocha, cachangas, arroz y fideos acaramelados, e molte altre leccor-nie. Ma le cose cambiano sempre e con l’Indipendenza apparvero altri usi e abitudini. Prese piede a Lima, ad esempio, la moda francese, pre-sente in molti antichi menù. A tale proposito, la ricercatrice Rosario Olivas ci racconta: «Il meglio della pasticceria criolla si affiancava alle prelibatezze di origine francese, come il fiore all’occhiello dei ban-chetti». Così facendo, al fianco dei confetti e dei castillos de almendras, si potevano leggere nomi quali Charlotte russe, cabinet pudding o macedoine de fruits. Purtroppo, a

seguito del successo delle prime pasticcerie e gelaterie aperte a Lima nel corso del XIX secolo, i conventi persero, poco a poco, il loro stupendo prestigio, anche se per fortuna non del tutto. Si posso-no ancora trovare alcuni magnifici esempi di pasticceria monastica in alcuni conventi del Paese. Nessuno è riuscito a sostituire la maestria delle monache nella preparazione, ad esempio, del celebre bola de oro, torta imprescindibile nei battesimi e nelle prime comunioni.

Altri esempi interessanti, a partire dal XX secolo, sono stati il rafforzamento dell’identità cu-linaria di ogni angolo del Paese mediante i propri piatti, dolci e bevande. Lima, di fatto, si caratte-rizza per la mazamorra morada, su-spiro e ranfañote; Trujillo per il King Kong; Arequipa per il queso helado e i guargüeros o gaznates; Moquegua per gli alfajores de Penco; e Ica per il frijol colado.

Lúcuma.

Chirimoya.

Maíz morado.

Mazamorra morada.

MAZAMORRA MORADA

Ingredienti50 grammi di albicocche50 grammi di pesche bianche secche50 grammi di prugne secche50 grammi di pere secche50 grammi di pesche secche1 ½ kilo di mais viola sgranato4 litri d’acqua2 melacotogne1 ananas grande2 cortecce di cannella4 chiodi di garofano4 tazze di zucchero raffinato (o grezzo, se si preferisce)200 grammi di farina di patata dolce2 limoniCannella macinata per spolverare

ElaborazioneIl giorno precedente mettere in ammollo in acqua tiepida le albicocche, le pesche bianche, le prugne, le pere e le pesche. Far bollire il mais viola sgra-nato (in questo modo la mazamorra riesce meglio) in una grande pentola con quattro litri d’acqua.Sbucciare le melacotogne, l’ananas e le mele. Mettere le bucce nella pentola con il mais viola. Aggiungere le cortecce di cannella e i chiodi di garofano e lasciar bollire per alcuni minuti fino a quando il liquido diventa di colore viola scuro. Scolare e mettere da parte una tazza di questo liquido.Rimettere il mais nella pentola e farlo bollire di nuovo fino ad aprirsi. Far passare il liquido attraverso un colino molto sottile e scartare il mais. Aggiun-gere al liquido nella pentola lo zucchero, i frutti secchi che erano in ammollo, l’ananas, le melacotogne e le mele, il tutto tagliato a quadretti. Far bollire nuovamente.Nella tazza contenente il liquido messo da parte dissolvere la farina di patata dolce, mettere dentro la pentola e far bollire per almeno 25 minuti. Una volta spento il fuoco, aggiungere il succo di due limoni. Spolverare con cannella e servire.

MANJAR DE LÚCUMA

Ingredienti2 tazze di latte condensato2 tazze di latte evaporato2 kili di lúcuma pulita bene e dissolta4 tuorli d’uovo

ElaborazionePulire le lúcumas, togliere i semi e frullarle nello sminuzzatore con un po’ d’acqua. Setacciare il purè. Mettere da parte. In un’altra pentola dal doppio fondo versare il latte condensato e il latte evaporato e cuocere a fuoco lento fino all’ispessimento. Lasciar raffreddare completamente ed aggiungere i tuorli d’uovo, uno dopo l’altro. Infine, aggiungere il purè di lúcuma (che non deve esser cotto). Mettere in frigo.

RICETTERicette da El gran libro del postre peruano, di Sandra Plevisani, edito dal Fondo Editoriale dell’Università San Martín de Porres.

ENROLLADO DE CHIRIMOYA Y PRALINÉ

IngredientiPionono:Olio da cucinaFarina per spolverare5 uova a temperatura ambiente (separare l’albume dai tuorli)¾ di tazza di zucchero bianco 2/3 di tazza di farina1 cucchiaino di essenza di vaniglia½ cucchiaino di sale½ tazza di zucchero in polvere e un po’ per spolverare

Ripieno:Manjar blanco (bollire una latina di latte condensato per due ore. Aprirla una volta raffreddata)1 confezione di praline2 tazze di polpa di chirimoya con un po’ di succo d’arancia per evitare che diventi scura1 litro di crema di latte montata tipo chantilly

Praliné:1 tazza di zucchero bianco1 tazza di noci sminuzzate

Elaborazione Pionono:Portare il forno a 190 ºC. con un pennello ungere un recipiente per dolci da 18 × 12 pollici. Foderarlo con carta da forno e ungere con l’olio. Infarinare e rimuovere l’eccesso di farina. Nell’impastatrice mescolare i tuorli con la ½ tazza di zucchero bianco. Mescolare fino a raggiungere il doppio della dimensione, per 4 o 5 minuti. Passare il tutto in un altro recipiente. In un contenitore pulito e asciutto montare gli albumi a neve. Mentre si montano, aggiungere il resto dello zucchero. Montare per 3 minuti. Mescolare i tuorli con gli albumi utilizzando una spatola. Aggiungere la farina, la vaniglia e il sale. Mescolare bene. Versare l’impasto nel recipiente per dolci precedentemente infarinato e infornare per 12-15 minuti, fino a raggiungere la doratura. Mettere un panno asciutto sul tavolo e spolverarlo con zucchero a velo. Capovolgere il pionono sul panno, togliendo la carta da forno e il recipiente. Avvolgerlo completamente con il panno. Una volta raffreddato, srotolarlo. Spalmare sul pionono il manjar blanco mescolato con la crema chantilly e il pralinato. Infine, aggiungere la polpa di chirimoya. Utilizzare il panno per sollevare la parte lunga del pionono e arrotolarlo. Deco-rare con la crema chantilly e con il pralinato.

PralinatoIn una teglia da forno collocare le noci e dorarle leggermente. Metterle da parte. In una pentola piccola mettere lo zucchero e riscaldarlo fino a ottenere il caramello. Bisogna girarlo costantemente per evitare che si attacchi. Una volta pronto il caramello, aggiungere le noci. Mescolare rapidamente e versare il contenuto in una teglia da forno già unta. Quando il tutto diventa duro e freddo, sminuzzare nel mortaio.

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MAURO CASTILLO

Alfonso Castrillón Vizcarra*Nato ad Azángaro, Puno, nel 1946, Mauro Castillo vive ad Arequipa, dove studiò nella Scuola Regionale delle Belle Arti Carlos Baca Flor. Ha realizzato mostre individuali in diverse città del mondo ed è stato borsista della Commissione Fullbright. Il Centro Culturale

Inca Garcilaso del Ministero degli Affari Esteri del Perù ha presentato una recente mostra antologica della sua opera.

ELOGIO DELLA LUCE

Leyenda

L’antica tecnica dell’acquerello ha progressivamente sviluppato il proprio linguaggio partendo

da una posizione ancillare, come bozzetto di futuri quadri a olio, fino a raggiungere la qualifica d’opera d’arte in sé stessa. Mi spiego. Dal XIV secolo è stata registrata nel ricettario di Cen-nino Cennini una procedura per dar rilievo ai bozzetti di personaggi con panni attraverso l’uso di un inchiostro nero e annacquato che successivamente ampliò la sua gamma agli altri colori mescolati con gomma arabica. Con il passare dei secoli, la tecnica si diffuse in Europa, specialmente in Inghilterra, dove William Turner la portò fino ai più alti livelli di creatività ed eccellenza.

È probabile che la tecnica sia arriva-ta in America, e di conseguenza a Lima, con gli artisti italiani e spagnoli e che con il passare degli anni abbia ricevuto l’influenza di altri maestri europei di passaggio che diedero a conoscere le sottigliezze e i segreti dell’applicazione nelle lamine regionaliste e nelle «vedu-te» di grande qualità (Léonce Angrand, Mauricio Rugendas e altri).

Ma dove essa si è sviluppata in modo plausibile e virtuosistica è ad Arequipa, forse per la qualità della sua luce, per il cielo limpido o per l’esempio indimenticabile di Vinatea Reinoso, fino ad arrivare a parlare di una «Scuola Arequipeña» dell’acquerel-lo. I nomi di Núñez Ureta, Luis Palao, Ramiro Pareja, Germán Alarcón (Kin-kulla), formano un elenco di artisti resi famosi dalla critica.

Una menzione speciale la merita Mauricio Castillo che, anche se nato a Puno, è stato adottato dalla città di Arequipa; artista che si è dedicato tutti questi anni allo sviluppo dell’acque-rello, adottando procedure che fanno della sua proposta un esempio di tradi-zione e un insieme di originalità.

Gli studiosi hanno fatto notare, da un lato, le difficoltà implicite nel lavoro con l’acquerello: il passaggio del pennello sulla cartolina è repenti-no e non permette dubbi né correzio-ni; ma d’altra parte obbliga l’artista all’esercizio continuo e al virtuosi-smo. È così che il bianco del supporto

s’incorpora col linguaggio del colore come in delle zone di respiro che si alternano armonicamente. Un altro procedimento utilizzato da Castillo è il lavoro sulla cartolina umida che quando riceve il colore si sfuma sulla superficie, dando l’impressione di foschia e lontananza. Il suo utilizzo ci fa pensare nel antico concetto di «colore locale» che, secondo Milizia (1797), è il colore proprio di ogni oggetto indebolito dalla lontananza. A questo indebolimento contribuisce «l’aria interposta».

Mi domando, è Castillo un’impres-sionista? A mio avviso non lo è nella

tecnica ma lo è nella sensibilità, per il protagonismo che la luce ha nelle sue opere. Non giustappone colori per ingannare il nostro occhio; lavora con colpi di luce che lo costringono a seguire la descrizione del soggetto. Il primo modo è una retina attiva, il secondo una visione sorpresa, come con la fotografia.

In quanto al soggetto, Castillo trova grande piacere nel riprodurre ciò che il suo sguardo curioso raccoglie intorno a sé: casali, mercati, chiese, branchi di camelidi, dove il contributo del disegno è minimo, un riferimento per situare le figure nello spazio, per-

ché il resto è affidato alla macchia, a un lavoro di sovrapposizioni che offrono sorprese cromatiche, oppure salva gli spazi vuoti da quelli bianchi, sempre applicando dapprima le gam-me deboli per finire con quelle oscure e definitive.

Mauro Castillo, seguace di una tradizione centenaria che svela la vita dell’uomo andino e il suo paesaggio, ha un posto ben meritato all’interno del gruppo degli artisti arequipeños.

* Curatore, museologo, storico e critico d’arte. Diri-ge il Master in Museologia e Gestione Culturale della Università Ricardo Palma di Lima.

Festa dello Spirito Santo. Acquerello, 80 × 60 cm.

Il ponte. Acquerello, 80 × 60 cm. Donne di Cajamarca. Olio su tela, 40 × 50 cm.