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Jones, Bigoni, Rodriguez e Maniquis, Delaporte, Torre, Craven Focus Il cinema di Simone Massi Il nuovo combat-film americano / I casi di Cloverfield e Inception Bikers Movie / Lo sguardo di Edward Hopper Il cinema e il suo doppio: Quando il mondo era giovane c i neforum 504 Cineforum Via Pignolo, 123 24121 Bergamo Anno 51 - N. 4 Maggio 2011 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Poste Italiane S.p.a. 8,00 9 7 7 0 0 0 9 7 0 3 0 0 4 0 1 5 0 4

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Jones, Bigoni, Rodriguez e Maniquis, Delaporte, Torre, Craven

Focus Il cinema di Simone Massi

Il nuovo combat-film americano / I casi di Cloverfield e InceptionBikers Movie / Lo sguardo di Edward Hopper

Il cinema e il suo doppio: Quando il mondo era giovane

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TRA I FILM NEL PROSSIMO NUMEROCORPO CELESTE - THE TREE OF LIFE - IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA

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CineforumVia Pignolo, 12324121 BergamoAnno 51 - N. 4 Maggio 2011Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCBPoste Italiane S.p.a.

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Che cosa ce ne facciamo degli artisti? Con le opere, infondo, non è poi così difficile cavarsela: si leggono, siguardano, si ascoltano, si criticano, talvolta si studiano.Sempre si voltano e si rivoltano sulla base di condizionistoriche sociali culturali continuamente cangianti. Leopere sono oggetti, in fin dei conti, e per questo più facil-mente controllabili di quanto non sembri, pur nella loroenigmatica alterità. Controllabili socialmente, intendo:la censura, le censure, esistono per questo; ce n’è d’ognisorta, pronte per l’uso secondo convenienza e opportu-nità, per di più con l’opportunità incorporata di essereeventualmente revocate. E allora, oplà: l’oggetto-operarieccolo lì, esattamente come era, (quasi sempre) prontoper tornare in scena senza aver perso nulla della suaessenza “artistica”.Tutto bene. Con l’arte, poi, anzi l’Arte(maiuscola!), è ancora più semplice: espressione astrat-ta a perenne disposizione per esercizi semantico-anato-mici, virtuosismi filosofico-mistici o categorizzazionianalitico-sociologiche. Ce n’è per tutti e, in fondo, comedice anche Paolo Sorrentino: Hanno tutti ragione. C’èanche chi ogni tanto annuncia (di solito è un artista) chel’Arte è morta. Magari avrà le sue ragioni pure lui. Però,quando lo fa, mente: perché l’Arte sarà morta, ma gliartisti producono opere. Continuamente. Di solito lofanno in cerca di un pubblico per mostrarle: basandosisu questo comprensibile presupposto, prospera da unpaio di secoli una cosa che si chiama “industria cultura-le” e/o “mercato dell’arte”, con annessi luoghi in cui leopere sono periodicamente selezionate ed esposte perinvogliare all’acquisto.

Tra questi luoghi, ça va sans dire, ci sono pure i festi-val del cinema, poiché si è stabilito strada facendo – nonsenza qualche patema – che pure il cinema è un’arte.Luoghi/non luoghi, in verità, dove ogni evento passavelocemente per lasciare lo schermo e il palco al succes-

sivo, in un crescendo calibrato proporzionale alle dimen-sioni, ai finanziamenti, alla forza contrattuale che il festi-val è in grado di dispiegare. Più il festival è importantepiù la velocità aumenta, gli eventi vanno consumati espremuti subito. Sarebbe imperdonabile perdere l’occa-sione. Qui gli artisti (“autori”, registi, interpreti, star) simostrano in gloria ma anche si espongono all’imprevistoche fa parte integrante dello spettacolo generale. Tutti acamminare sul cornicione, a ben pensarci.

Ma la ricerca della nota enfatica e/o dissonante, dellaposizione visibile, del mot d’esprit in grado di provoca-re qualche attenzione, non sono una loro esclusiva.Quando la bolla mediatica cresce fino all’esasperazione,i professionisti dell’informazione diventano per forza co-protagonisti. Ruolo importante, delicato. Una brava“spalla” la si giudica, però, da come sa valorizzare il suopartner, non da come riesce a metterlo nei guai – quelliveri, non quelli previsti dalla finzione del gag. Se pereccesso, inconsapevole o meno, di protagonismo la“spalla”sbaglia, può essere la catastrofe. Ecco, dell’affai-re Von Trier (mi sto interrogando sulla faccenda cercan-do di stare a distanza dalla fin troppo evidente pesantez-za delle parole pronunciate dal regista) si è già detto escritto molto, ma si è posto qualcuno il problema diquella giornalista che con la sua domanda – ridicolaancor prima che incauta – ha innescato la miccia?Perché se si vuole stare sul palco insieme, anche leresponsabilità sono da dividere.Von Trier è stato caccia-to, nonostante le scuse, per quel che ha detto incartan-dosi da pivello, ma a quella che ha provocato il catacli-sma (vittime: oltre Lars Von Trier anche, oggettivamen-te, il Festival) convinta di formulare una domanda “intel-ligente”– l’accredito glielo daranno ancora? Non dico dilevarglielo per sempre, per carità. Almeno per la prossi-ma edizione: ferma un giro.

Adriano Piccardi

LA SPALLALA SPALLALA SPALLALA SPALLALA SPALLALA SPALLALA SPALLA

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SOMMARIOEDITORIALEAdriano Piccardi/La spalla 1

CANNES Bruno Fornara/Autori in libertà 4

I FILMFederico Pedroni, Arturo Invernici/Source Code di Duncan Jones 9Anton Giulio Mancino/Il colore del vento di Bruno Bigoni 14Pietro Bianchi/Machete di Robert Rodriguez e Ethan Maniquis 17Nicola Rossello/Angèle e Tony di Alix Delaporte 20Lorenzo Donghi/I baci mai dati di Roberta Torre 23Anton Giulio Mancino/Scream 4 di Wes Craven 26

Chiara Borroni, Paola Brunetta, Elisa Baldini, Giampiero Frasca, Lorenzo Rossi, Rinaldo Vignati, Lorenzo Leone, Pasquale CicchettiL’altra verità - Hai paura del buio - Malavoglia - Notizie dagli scavi - Il primo incarico - Tatanka - Thor - Uomini senza legge - World Invasion 30

FOCUS LA MATERIA (ANIMATA) DELLA MEMORIAFabrizio Tassi/Il cinema di Simone Massi: resistenza e poesia 39Isolato, non omologato, per nulla digitale. Liberointervista a Simone Massi 41

SAGGI PROSPETTIVE DI GUERRAPasquale Cicchetti/Declinazioni scopiche e culturali del nuovo combat-film americano 46

SAGGI L’OSSESSIONE DELL’ARCHIVIAZIONEAndrea Chimento/I casi di Cloverfield e Inception 56

SAGGI BIKERS MOVIEAlberto Morsiani/Forever Rebels 61

SAGGI LO SGUARDO DI EDWARD HOPPERGianni Olla/Un archetipo della cultura americana del Novecento 65

IL CINEMA E IL SUO DOPPIOSergio Arecco/Quando il mondo era giovane 70

FESTIVALLorenzo Leone/Roma 78Umberto Rossi/Istanbul 79Umberto Rossi/Graz 80Sergio Di Giorgi/Tolosa 81

DVD a cura di Ermanno Comuzio,Arturo Invernici, Adriano Piccardi 84

LE LUNE DEL CINEMA a cura di Nuccio Lodato 88

LIBRI a cura di Ermanno Comuzio 94

IINNFFOO dal lunedì al venerdì - 9.30/13.30 - Tel. 035 361361 - [email protected]

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Edita dallaFFeeddeerraazziioonnee IIttaalliiaannaa CCiinneeffoorruumm

DDiirreettttoorree rreessppoonnssaabbiillee::Adriano Piccardi • [email protected]

CCoommiittaattoo ddii rreeddaazziioonnee::Chiara Borroni, Gianluigi Bozza (direttoreeditoriale), Roberto Chiesi, Bruno Fornara,Luca Malavasi, Emanuela Martini, AngeloSignorelli, Fabrizio TassiGGrruuppppoo ddii llaavvoorroo:: Francesco Cattaneo, Jonny Costantino, Giuseppe Imperatore,Arturo Invernici

CCoollllaabboorraattoorrii::Sergio Arecco, Alberto Barbera, AlessandroBertani, Paolo Bertolin, Marco Bertolino,Francesca Betteni-Barnes D., Matteo Bittanti,Pier Maria Bocchi, Andrea Bordoni, MassimoCauso, Rinaldo Censi, Carlo Chatrian, ErmannoComuzio, Emilio Cozzi, Giorgio Cremonini,Alberto Crespi, Lorenzo Donghi, SimoneEmiliani, Michele Fadda, Davide Ferrario,Andrea Frambrosi, Giampiero Frasca, LeonardoGandini, Cristina Gastaldi, Federico Gironi,Fabrizio Liberti, Nuccio Lodato, PierpaoloLoffreda, Anton Giulio Mancino, GiacomoManzoli, Michele Marangi, Matteo Marino,Mattia Mariotti, Tullio Masoni, EmilianoMorreale, Alberto Morsiani, Umberto Mosca,Luca Mosso, Lorenzo Pellizzari, AlbertoPezzotta, Francesco Pitassio, Piergiorgio Rauzi,Giorgio Rinaldi, Nicola Rossello, Lorenzo Rossi,Alberto Soncini, Antonio Termenini, DarioTomasi, Paolo Vecchi, Alberto Zanetti.

PPrrooggeettttoo ggrraaffiiccoo ee iimmppaaggiinnaazziioonnee::Paolo Formenti - PiEFFE Grafica*

AAmmmmiinniissttrraazziioonnee::Cristina Lilli, Sergio Zampogna

RReeddaazziioonnee ee aammmmiinniissttrraazziioonnee::VViiaa PPiiggnnoolloo,, 112233IITT--2244112211 BBeerrggaammootel. 035.36.13.61 - fax 035.34.12.55e-mail: [email protected]://www.cineforum.it

AAbbbboonnaammeennttoo aannnnuuaallee ((1100 nnuummeerrii))::Italia: 60,00 EuroEstero: 80,00 EuroExtra Europa via aerea: 95,00 EuroVersamenti sul c.c.p. n. 11231248intestato a Federazione Italiana Cineforum, via Pignolo, 123 - 24121 Bergamoe-mail: [email protected]

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stampato presso la SSttaammppeerriiaa SStteeffaannoonniiBergamo - via dell’Agro, 10

DDiissttrriibbuuzziioonnee iinn lliibbrreerriiaa::Joo Distribuzione - via F. Argelati 3520143 Milano - tel. 028375671 - fax 0258112324 e-mail: [email protected]

Iscritto nel registro del Tribunale diVenezia al n. 307 del 25-5-1961

associato all’USPIUnione Stampa PeriodicaItaliana

IInn ccooppeerrttiinnaa:: Drivedi Nicolas Winding Refn

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Ai grandi festival si vedono una quantità di filmda festival. Pochi di questi film raggiungono il pub-blico delle sale: restano film da festival per sempre.Di solito sono cupi, anche molto cupi: sia perchéubbidiscono a un paradigma che vuole che i film dafestival siano cupi o, meglio ancora, molto cupi; siaperché gli autori giovani che devono ancora farsistrada amano maltrattare i loro personaggi, comefanno i dinosauri di Malick che schiacciano la testo-

lona ai piccoli per fargli entrar ben in testa, appun-to, la crudeltà del mondo (e la superiorità pater-na…); sia perché gli autori pensano che, una voltamaltratti i personaggi, possono poi cominciare aindignarsi contro tutte le disgrazie che li hanno col-piti (dovrebbero ripassarsi quel capolavoro crudelee magico, dedicato a chi ci ha fatto ridere, che è Idimenticati di Preston Sturges, film sugli ultimidella Terra).

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CANNESSPECIALE

AUTORI IN LIBERTÀBruno Fornara

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Così, i primi giorni li passiamo in compagnia diragazze addormentate offerte a vecchi laidi, peròsenza penetrazione, come ordina la maîtresse dellacasa riservata a ospiti di molto riguardo in SleepingBeauty di Julia Leigh; poi incontriamo madri, padrie figli malvagi in We Need to Talk about Kevin diLynne Ramsay; poi bambini seviziati in Polisse diMaïwenn; poi una ragazza sonnambula e omicida inThe Other Side of Sleep di Rebecca Daly; infine unpedofilo che tiene chiuso un bambino in un sotterra-neo in Michael, compitino surgelato dell’hanekianoMarkus Schleinzer.

Per nostra fortuna, gli autori consacrati si sentonopiù liberi. Woody Allen abbandona il presente confidanzata isterica e genitori fanatici, tendenza teaparty, e si rifugia, in Midnight in Paris, negli anniVenti dove fa risorgere un’esuberante pattuglia di

artisti, Francis Scott Fitzgerald e Zelda, Hemingway,Picasso, Gertrude Stein, Dalì, T.S. Eliot, Man Ray,Luis Buñuel e Matisse. Gus Van Sant, in Restless, alCertain Regard e non in concorso (peccato), affrontauna storia che sta per concludersi: lei ha pochi mesidi vita; lui ha perduto i genitori in un incidente e perelaborare (o tenersi caro?) il lutto frequenta cerimo-nie funebri. Van Sant trasforma il lugubre paesaggioin un film vitale e generoso, ci mette Darwin, uccelli,battaglie navali, xilofono e un kamikaze giapponese.Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e LucDardenne ha tutte le marche dei Dardenne: però, fini-sce bene, con il ragazzo che, perso il padre, trova unanuova madre e nello scambio ci guadagna parecchio.Molte le peripezie e le trappole: ma i Dardenne nondemordono, prima lasciano Cyrill con le briglie sciol-te sul collo, poi intervengono e portano il film a unapprodo sicuro.

Nota sulla messinscena. I film dei giovani autoriche sgomitano per farsi strada sono spesso costruitisecondo convenzioni di messinscena statiche.Inquadrature fisse, apatiche, meste, intonate sulregistro medio da festival. Al contrario, gli autoriliberi e leggeri, Allen, Van Sant, i Dardenne,Kaurismäki, Kim Ki-duk, Moretti o Winding Refnsembrano poco o niente preoccupati di darsi uncontegno registico. I Dardenne non corrono più die-tro a Cyrill come facevano, in lunghi piani, dietro aRosetta.Woody Allen si cura pochissimo della regia,fa inquadrature con i personaggi uno a sinistra, unoal centro, uno a destra. Kaurismäki è sempre mini-malista. Van Sant non si esibisce in labirintici longtakes. Winding Refn gira un film d’azione metafisi-co e romantico senza cercare inquadrature partico-lari. Sono tutti convinti che l’importante è avere unastoria, sapere dove portarla e come metterci dentrosenso, sensazioni ed emozioni. La forma è comevenisse fuori da sola, il film scorre senza darsi dellearie. La lezione di regia dei bravi autori è di sanaumiltà e tranquilla modestia.

Kim Ki-duk era scomparso, dopo gli ultimi, debo-li film. Ricompare in Arirang, in una capannamonolocale e ha come interlocutori il suo io diquando era in forma e un altro io-ombra che fadomande scomode. Ne viene fuori un autoritratto atre voci con Kim che, riprendendosi con la videoca-mera, può riprendere a sentirsi persona. Una tendada campeggio montata nella stanza, macchine dacaffè costruite da lui stesso, un computer per il film.Arirang significa conoscenza di sé. Vero, esibizioni-sta, sincero o sospetto, è un film impietoso ricco dipietà. E una trasparente testa di pesce svuotata fada paralume a una lampadina.

Aki Kaurismäki lo ritroviamo a Le Havre con illustrascarpe Marcel Marx che vive con la moglie

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Le Havre di Aki Kaurismäki

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Arletty e la cagnetta Laika. Casetta modesta, comesempre in Kaurismäki. Il signor Marx si prende acuore la sorte di un ragazzo nero che vuole raggiun-gere la madre a Londra. Tanti gli ostacoli, l’impor-tante è procedere con calma e scaltrezza, anchefacendosi passare per un nero albino… Realismopoetico francese, irrealismo utopico, tanghi diGardel, blues e rock. In Kaurismäki bontà dignitàsolidarietà fraternità non sono soltanto parole.

Il driver di Drive di Nicolas Wending Refn di gior-no fa il meccanico e lo stuntman, di notte fa da spal-la automobilistica ai rapinatori. Sangue, amore,fughe calcolate, colori notturni, scontri crudeli. Unaction movie con un real human being and realhero, come si canta alla fine. Un altro regista dibelle speranze: Jeff Nichols, premiato alla Semaineper l’opera seconda, Take Shelter, dopo un’altret-tanto bella opera prima, Shotgun Stories. La prate-ria dell’Ohio, i tornado, un uomo con incubi terribi-li, sua moglie, la bambina. Il dramma familiarediventa un thriller. Regia sicura e tesa. Ugualmentepromettente è Alice Rohrwacher. In Corpo celeste,Marta, arrivata in Calabria dalla Svizzera, segue ilcatechismo per la cresima, lezioni al passo con lastupidità di questi tempi. Cantano: «Mi sintonizzocon Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo pro-

prio io / e lo faccio apposta. / Voglio scegliereGesù». Lei osserva in disparte, poi si sposta in unaltro spazio dove le regalano la coda, elettrica!, diuna lucertola che è scappata, come ha fatto lei.

Ancora buoni film. Bé omid é didar dell’iranianoMohammad Rasoulof, regista agli arresti domiciliari,segue il dramma di una donna sola nell’Iran fonda-mentalista, con il marito nascosto e ricercato. La poli-zia tiene tutto sotto controllo in nome di un dio che vaa braccetto con il potere. Film blu, nero e grigio: anchei colori sono sotto sequestro. Una sorpresa èL’exercise de l’Etat di Pierre Schoeller, film politico insenso stretto: il ministro dei trasporti della RepubblicaFrancese conduce battaglie con i colleghi, c’è un incre-dibile incidente in macchina (girato benissimo) e lavoglia di un’altra vita che s’intrufola nei palazzi delpotere. Anche in Atmen dell’attore austriaco, ora regi-sta Karl Markovics si ricomincia a vivere. Dentro efuori dal carcere. Un ragazzo insicuro esce ogni giornodi galera e lavora all’obitorio. Film silenzioso, di fati-cosa redenzione.

The Murderer del coreano Na Hong-jin è violentoche più non si può. Mar Giallo, tra Cina, Corea eGiappone. Un uomo è costretto a farsi killer tra mafio-si, capitalisti e poliziotti. Soldi, uccisioni, sesso percentoquaranta minuti. C’era una volta in Anatolia di

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Arirang di Kim Ki-duk

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Nuri Bilge Ceylan è film d’autore nel senso solenne deltermine. Piani lunghi, silenzi, misteri. Per un’ora siseguono poliziotti, due rei confessi, magistrato e medi-co che cercano il luogo di un delitto, su strade fuorimano. La verità viene a galla e la riseppelliscono.

I due assoluti campioni del Festival per monumen-talità e magniloquenza sono la Palma The Tree ofLife di Terrence Malick e Melancholia del bandito(nel senso di espulso con disonore) Lars Von Trier.Film che hanno aperto scontri critici tra sostenitoriappassionati e detrattori accaniti (noi stiamo tra isecondi). Malick non si tira indietro: ecco, caro spet-tatore, tutta la storia dell’Universo, dall’Inizio fino alParadiso dove saremo felici su una spiaggia dopotanto patire. Le piccole crepe in La sottile linea rossasi erano allargate fino a diventare buchi in The NewWorld. L’uso ripetuto delle voci fuori campo, delledomande aggiunte a domande, questi vizi sonodiventati adesso l’intelaiatura dell’intero film. Chi civede poesia e pensiero, chi vuotezza e sentenziosità.Per Von Trier, il versante cinematografico ha finito perannullarsi dopo le orribili affermazioni su ebrei enazismo. Il regista danese (girerà ancora dei film?) ciè sempre sembrato una delle voci più esposte nelpanorama del cinema contemporaneo: invece, inMelancholia, lo ritroviamo regista convenzionale.Dopo l’artisticheggiante ouverture, i due movimentidel film mostrano una situazione vista mille volte, lafesta di matrimonio dove emergono colpe e rivalse, el’attesa della fine del mondo, quando non ci sentiamomai empaticamente vicini ai personaggi.

La piel que habito funziona a metà. Funzionaquando Almodóvar si scatena nelle sue spericolatederive dentro il gorgo della sessualità; non funzionaquando il film si prende sul serio e vorrebbe farciriflettere sulla questione di quanto rimane dell’iden-tità se corpo e pelle vengono sostituiti pezzo dopopezzo. A noi piace l’Almodóvar fantasmagorico.Quello pensoso è poco credibile. Anche This MustBe the Place di Paolo Sorrentino ha cose buone: èazzeccato Sean Penn, cantante rock in disarmo, vec-chia checca, capelli da potare, rossetto porpora,risatine a singhiozzo e sciatica; è bello il road movieamericano con incontri e paesaggi, con il bambinoche gli fa riprendere in mano la chitarra, con HarryDean Stanton inventore della valigia a rotelle. Piùdebole è il motivo della caccia al torturatore nazistadel padre, motivo che si sfilaccia in un prefinale per-plesso e incerto, e che nel finale ultimo, con il ritor-no alla normalità, ha il sapore della resa. Cheyennenon vuole più essere Cheyenne.

Molte lodi al film muto con musica e rumori TheArtist di Michel Hazanavicius. A noi è parso un filmnon all’altezza delle ambizioni, con qualche trovataazzeccata e troppi momenti fiacchi. Hors Satan di

Bruno Dumont e L’Apollonide di Bertrand Bonellovivacchiano nella riserva protetta dell’autorialitàfrancese. Un’autorialità corporale e santificatrice. Ilcavaliere oscuro e spicciamente vendicatore diDumont sta nell’inferno del plat pays. Le prostitutesacre e sfregiate di Bonello consumano la vita nelbordello per ricchi borghesi. Dumont e Bonelloamano rappresentarsi mondi fittizi dove peccatocolpa grazia carne piacere mistero sangue sacralitàdanzano sull’abisso tra santità e morte.

Piccolo film, di inquietante realismo, è Trabalharcansa (Lavorare stanca) dei brasiliani Juliana Rosase Marco Dutra. Quasi un horror di quartiere.L’israeliano Hearat Shulayim (Nota a piè di pagina)di Joseph Cedar è il film più strano del festival, traTalmud, filologia e battaglia tra padre e figlio perun premio letterario. Infine Ichimei di TakashiMiike è un molto convenzionale film di samurai e dironin, che sono i samurai precari. Takashi, dopoun’onorata carriera di horror ultrasanguinari, unavolta promosso autore da festival, si è messo a gira-re film di fattura classica. Solo che non ha né laforza di Kurosawa né la pietà di Mizoguchi.

Sul prossimo numero pagelle e recensioni dei filmdel Festival.

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Restless di Gus Van Sant

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Un uomo si sveglia di soprassalto su un treno in corsa.Non sa com’è finito lì, non sa chi è la donna che lo trattacome se lo conoscesse bene, con un misto d’intimità eseduzione, non sa dove sta andando né perché. La facciache vede nello specchio del bagno, dove si rinchiude, nonè la sua, così come i documenti che trova nel portafoglionella sua tasca. Si guarda intorno, cerca di capire. Pochiminuti, poi un’esplosione. Il treno salta in aria mentre staentrando a Chicago e l’uomo si risveglia in una misteriosacapsula in cui, da un visore, una donna in uniforme cercadi farlo tornare in sé. Non è facile per la militare spiegareal capitano Colter Stevens di non essere più in missione inAfghanistan con i suoi soldati ma di far parte di un pro-getto segreto per evitare che attentati come quello appenavissuto possano ripetersi. Grazie a un complicato pro-gramma scientifico, Stevens potrà tornare indietro neltempo e rivivere gli otto minuti precedenti l’esplosione,cercando di individuare il colpevole. Non deve fermarlo,perché il passato è passato e non può cambiare, ma cono-scerne l’identità per bloccare i piani omicidi che potrebbeancora mettere in pratica.

L’assunto temporale di Source Code è già quindi untemibile ossimoro. L’uomo può tornare a ripetizione indie-tro nel tempo – come in un loop, come in un mantra inter-

Titolo originale: id. Regia: Duncan Jones. Sceneggiatura:Ben Ripley. Fotografia: Don Burgess. Montaggio: PaulHirsch. Musica: Chris Bacon. Scenografia: Barry Chusid.Costumi: Renée April. Interpreti: Jake Gyllenhaal (ColterStevens), Michelle Monaghan (Christina Warren), VeraFarmiga (il capitano Colleen Goodwin), Jeffrey Wright (ildottor Rutledge), Michael Arden (Derek Frost), Cas Anvar(Hazmi), Russell Peters (Max Denoff), Brent Skagford(George Troxel), Craig Thomas (il dirigente della GoldWatch), Gordon Masten (il controllore), Susan Bain (l’in-fermiera), Paula Jean Hixson (la signora con il caffè),Lincoln Ward (il signor Sudoku), Kyle Gatehouse (lo stu-dente), Albert Kwan (il tizio con la lattina). Produzione:Mark Gordon, Philippe Rousselet, Jordan Wynn per TheMark Gordon Company. Distribuzione: 01. Durata: 93’.Origine: Usa/Francia, 2011.

Il capitano Colter Stevens, pilota di elicotteri americanoin Afghanistan, si risveglia all’improvviso su un treno,senza capire come c’è finito. Di fronte a lui c’è una donna,Christina, che gli sorride, ma lui non ha la più pallidaidea di chi ella sia. Nello specchio della toilette vede ilvolto di un altro uomo, e in tasca ha i documenti di untranquillo insegnante di scuola. Nel frattempo, una

donna in uniforme gli impartisceordini da un monitor. Il trenoesplode… Colter, in realtà, è suomalgrado al centro di un sofisti-catissimo programma di intelli-gence volto a scoprire il colpevo-le di un attentato che poche oreprima ha fatto migliaia di vittimesu di un treno pendolari nei pres-si di Chicago. È stato inserito inun sistema, Source Code, che glipermette di andare indietro neltempo, calandosi nei panni diuna delle vittime, per raccoglierestralci di prove. Fallito il primotentativo, viene inviato di nuovosul treno…

SOURCE CODE Duncan Jones

Rewind in progressFederico Pedroni

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minabile – ma non cambiare gli avvenimenti. Il suo viag-gio è tutto interno a un limbo, così come a un limbo – a unnon-luogo – sembra assomigliare la capsula in cui è rin-chiuso. Non c’è molto tempo per le spiegazioni, il capita-no deve tornare a bordo di quel treno, morire a comandoe a ripetizione, cambiando nel passato solo quel poco chepuò dipendere dai suoi gesti, dalle sue interazioni, più con-fuse che violente, con gli altri passeggeri.

Si ribalta, almeno in teoria, l’escamotage narrativo chedi solito riguarda chi può tornare indietro: la possibilità diriparare a un errore, il sogno di cambiare il già scritto,l’ipotesi di un presente alternativo. I morti sono morti,quelli che Stevens incontra sul convoglio hanno i corpi giàin obitorio, lui deve solo concentrarsi sulla sua missione.Non è rispedito indietro per influenzare il passato, ma perrisolvere il presente. Il microcosmo del treno assume pianpiano, passaggio dopo passaggio, ripetizione dopo ripeti-zione, i contorni di un codice conosciuto. In una versionedeformata e drammatica di Ricomincio da capo, Stevensimpara a fare i conti con la varia umanità di quella gente,prima una folla di potenziali colpevoli, poi un variegatocollage di facce con dietro una persona, una storia, unapotenzialità schiantata implacabilmente dalla fine giànota: il fuoco, il fumo, la morte. Per i primi source codes iltema sembra essere quello del crudele contrappasso perun soldato: vivere e rivivere la propria morte e quella dichi si ha intorno, non potendo – seguendo un ordine benpreciso – prendersi la briga di tentare di salvare quellagente. La donna che ha di fronte sembra interessarlo sem-

pre più, Stevens cerca di metterla in salvo – una persona,almeno una singola persona che, come in Schindler’s List,ha il valore dell’umanità intera – ma inutilmente. Quandotorna nella capsula, il passato è tornato al proprio posto, imorti sono tornati a riposare.

Source Code si spacca quasi da subito – anche logistica-mente – in tre pezzi, tre luoghi chiusi in cui la ripetizionemeccanica degli eventi asseconda e sottolinea la claustro-fobia della storia. Il mondo esiste su un treno già esploso,in una capsula senza tempo e in un laboratorio scientificotutt’altro che scenograficamente avanguardista. Le comu-nicazioni sono disturbate, il tempo (presente, passato,forse futuro) è immobile e rarefatto. E quando il capitanoStevens scende dal convoglio per inseguire un sospetto, lerare scene en plein air sembrano costruite per dare aria auna narrazione spesso compressa nello spazio. Trovato ilmodo di scardinare il blocco narrativo della storia, il pro-blema diventa il non farsi schiacciare dalla ripetitività:bisogna tenere alta l’attenzione dello spettatore così comequella del protagonista, costretto a variare minimamentele sue azioni in un succedersi di eventi che ormai conoscee che non può provare a cambiare fino in fondo.

Come nelle regole di un gioco di ruolo in solitaria,bisogna trovare una guida che possa dare senso all’inte-ra operazione, altrimenti ai limiti della necrofilia. Il vei-colo è il personaggio femminile che Stevens tratta primacon distacco, poi cercando collaborazione fino a trovareun senso protettivo innato che riversa su quella donnasempre meno sconosciuta. Se la manipolazione del

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tempo è una variabile abusata nella fantascienza moder-na e postmoderna (da H.G.Wells a Philip K. Dick) e nelcinema di genere (fino all’astrazione di La jetée di ChrisMarker), la virata in chiave melò/romantica è l’ideaprincipale del film di Duncan Jones. Non potendo, percoerenza di racconto, rivelare più dello stretto necessariodell’esperimento scientifico a cui il protagonista è sotto-posto, serviva al regista un modo per tenere salda la ten-sione della storia, potenzialmente incastrata in un giocodi continue ripetizioni-varianti. A Stevens serviva unpunto fermo, un riferimento tangibile per poter davverocredere a un esperimento che poteva sembrare altrimen-ti una semplice esercitazione iperrealistica; lo trova inChristina, elemento da proteggere, da salvare, da imma-ginare come un fulcro tolemaico di un universo solo ipo-tetico. Lo scardinamento temporale permette al protago-nista non solo di indagare, ma anche di approfondire, divedere se stesso e il contesto in cui si muove con occhi,letteralmente, nuovi.

Chiaramente, è il solo a imparare dalla propria esperien-za, l’unico a vedere consapevolmente il singhiozzo tempo-rale in cui sta vivendo. Pure in questo, Source Code coglienel segno, anche grazie all’interpretazione tutt’altro chemuscolare di Jake Gyllenhaal: nel descrivere la costruzio-ne ex novo di un’identità, nel comprimere la forza del-l’esperienza in segmenti di pochi istanti fantasmatici, nelripensare, in un contesto da film d’azione, al disvelarsigraduale di una personalità. Se nel suo esordio – Moon,ottimo esempio di sci-fi esistenzialista – Duncan Jonesdefiniva l’essenza del suo protagonista attraverso unasospensione spazio-temporale quasi assoluta, a cavallo trafollia autistica e astrazione metafisica, qui l’operazione èpiù labile e per questo più pericolosa. L’avanti e indietrotemporale del soldato Stevens permette una stratificazio-ne psicologica che man mano prende il posto dell’azionefine a se stessa. Ogni rewind è una possibilità di mettersialla prova, ogni salto è un tassello di autoanalisi, un bilan-cio in diretta delle proprie azioni le cui somme si tirano nelrapporto con il personaggio di Vera Farmiga, burattinaiasensibile al trauma ripetuto del proprio pupazzo.

Pian piano l’interesse scivola dall’indagine ricostruttiva– un puzzle d’azione – alla relazionalità potenziale traStevens e Christina. La missione si cristallizza in una ricer-ca interiore sulla propria vita e sul proprio destino. I dia-loghi nella seconda parte del film virano verso un roman-ticismo fatalista, testimoniano la voglia di sospendere, persucchiarne la linfa fino all’ultima stilla, un tempo che inve-ce si ripete impazzito. La frattura del tono della storiaaiuta a evitare il sovraccarico ripetitivo. Il ritmo, codicedopo codice, si appiana e, senza perdere mai di vista latrama action di partenza, il film sembra rallentare perguardarsi intorno, concentrato sulla psicologia dei perso-naggi più che nella risoluzione del mistero.

Quando scopriamo l’identità dell’attentatore siamoormai coinvolti nella romance di Colter e Christine, ci chie-diamo se sarà possibile trovare un buco nell’ingranaggioche possa regalare loro un tempo fuori dal tempo, unarealtà potenziale dove potersi costruire uno spazio. Si sen-

tono addirittura echi del romanticismo malinconico di unfilm come Eternal Sunshine of the Spotless Mind diGondry. Lì i protagonisti cercavano di fuggire dalla can-cellazione definitiva del loro passato, qui tentano di noncedere all’ineluttabilità di ciò che è stato. La possibilità delfuturo passa dalla metabolizzazione del passato, dalla suapiena consapevolezza, come scoprirà drammaticamente ilprotagonista.

Come già in Moon, anche se in questo caso piegandosialle regole del genere, Jones sembra rifiutare gli stilemiimperanti dell’action movie contemporaneo e la fanta-scienza a cui sembra guardare è quella intimista e psico-logica degli anni Settanta. Gli effetti speciali sono ridotti alminimo, il battito interno del film è dettato da un montag-gio tutt’altro che frenetico, la colonna sonora ha addirittu-ra degli echi hitchcockiani. Insomma, sotto l’aspettosuperficiale da blockbuster adolescenziale s’intuisce unospirito autoriale con venature vintage. Lo stesso finale,solo apparentemente consolatorio, ma invece zoppo e perquesto vagamente disturbante, imprime al film un’origina-lità forte, lontanissima dal rasserenante lieto fine tipico delcinema americano mainstream. Source Code è un filmibrido, non sempre riuscito, capace di coinvolgere e appas-sionare, di essere cinefilo senza eccedere in citazionismiammiccanti, di miscelare sfumature e toni, di imprimerenella memoria personaggi dolenti e irrisolti, di sovvertireamabilmente le aspettative, di cambiare registro più volte.Libero di una libertà frutto del talento e dell’intelligenzadel suo autore.

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«Perdere il treno è la maniera più efficace che abbia maiscoperto per essere puntuale a quello dopo».(Gilbert K. Chesterton)

Secondo una famosa battuta della tradizione umori-stica yiddish, Mosé disse che tutto è legge, Gesù chetutto è amore, Spinoza che tutto è ragione, Marx chetutto è economia, Freud che tutto è libido; poi, è arri-vato Einstein a chiudere il discorso dicendo che tuttoè relativo. È questa, forse, una delle più efficaci sintesifilosofiche della teoria della relatività einsteiniana, chetutti conoscono (per lo meno nella sua celeberrima for-mula, E=mc2), ma non tutti comprendono a fondo. Chiscrive, ad esempio, si ritrova nella stessa situazionedella Marilyn Monroe di La signora in bianco (1985)di Nicolas Roeg, la quale, in un ipotetico incontro conil Genio, ammette candidamente che per lei la com-prensione della teoria della relatività è come un viag-gio in metropolitana: si sa da che stazione si parte (lepremesse), si sa in quale si arriva (tutto è relativo), matutto il tragitto è avvolto nel buio più completo. Chepoi un treno per pendolari sia simile a una metropoli-tana, è un fatto assodato: magari, contrariamente chein sotterranea, si può vedere il paesaggio dal finestri-no, ma è sempre lo stesso, giorno dopo giorno; nonparliamo poi se, su di esso, ti tocca rivivere a rotazio-ne gli stessi otto minuti, come al povero Colter Stevensin Source Code.

La relatività, dunque. Assieme alla teoria dei quan-ti, le curvature spaziotemporali e altre cose ancora, daun po’ di tempo in qua è in narrativa come al cinemal’espediente più utilizzato per rendere plausibile lapossibilità dei viaggi nel tempo (come lo fu a suotempo, ma è ormai ampiamente caduta in disuso, lateoria della “quarta dimensione”, utilizzata fra gli altrida H.G. Wells in «La macchina del tempo»). Più chealla relatività, a dire il vero, il dottor Rutledge, granpatron del programma Source Code, per spiegarne ilfunzionamento si serve della teoria dei quanti (seppu-re in maniera assai vaga e sbrigativa). E in effetti, taleteoria non fa una grinza in questo il film, che illustrasenza peraltro darlo ostentatamente a vedere due dellepossibilità, dibattute anche a livello strettamentescientifico, legate ai viaggi nel tempo.

Una delle questioni principali, infatti (siamo, ovvia-mente, nel campo del teorico), è il cosiddetto “parados-so di coerenza”: se per ipotesi potessi viaggiare nelpassato, non potrei comunque modificarlo (esempio:se volessi impedire a mio nonno di sposare mia nonna,conseguentemente mi precluderei la possibilità di

nascere, per cui non potrei neanche tornare indietronel tempo a impedire a mio nonno di sposare mianonna) (1). Stephen Hawking e Roger Penrose la risol-vono ipotizzando una specie di “censura cosmica”(posso andare nel passato, ma qualcosa mi impedireb-be sempre e comunque di interagire con mio nonno).È in base a questo principio che il dottor Rutledge, aun ancora confuso Colter, spiega che in realtà, nellasua missione, lui non è altro che «una lancetta di oro-logio».

L’altra questione è la teoria, elaborata dal fisico HughEverett III in risposta al “paradosso di coerenza”, notacome “teoria dei molti mondi”, ovvero la possibilità cheesistano universi paralleli. Alla “teoria dei moltimondi”, per inciso, è legato il famoso “paradosso delgatto di Schrödinger”, secondo il quale la bestiola puòessere contemporaneamente viva o morta finché noninterviene l’osservatore ad aprire la scatola (2). Ebbene,in Source Code si presenta la stessa situazione: la sca-tola è il treno, gli osservatori il dottor Rutledge e il capi-tano Goodwin (3), il gatto Colter Stevens. Un gatto che,a un certo punto, si ribella agli osservatori, prende in

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A brief history of timetablesArturo Invernici

(*) Attenzione: l’ultimo paragrafo di questo articolo contiene spoiler.(1) Il “paradosso di coerenza”sorvola sul perché uno dovrebbe torna-re indietro nel tempo per impedire a suo nonno di sposare sua nonna;ma su questo argomento sconfineremmo, probabilmente, nel campodella psicanalisi, e non è questa la sede.(2) Più precisamente: in una scatola chiusa c’è un meccanismo acausa del quale una sostanza radioattiva può decadere o no, e in talcaso innescare o meno il rilascio di una sostanza che possa, o no,avvelenare il gatto; i due stati sono probabili, e quindi coesistenti,finché l’osservatore non apra la scatola. A scanso di malintesi, e dalmomento che pure chi scrive è un fervente gattofilo, precisiamo cheil “paradosso del gatto” venne elaborato da Schrödinger come puroesperimento mentale, e nessun felino, fortunatamente, ne fece maile spese (chissà perché, tra l’altro, tirare a mano un gatto inveceche, mettiamo, un organismo unicellulare o una pianta di gera-ni…); più recentemente, è stato eseguito materialmente un esperi-mento basato su questo paradosso, ma utilizzando solamente foto-ni e cavi a fibre ottiche.(3) Nomen omen, parrebbe: Rutledge ha una vaga assonanza conruthless, che in inglese vuol dire crudele, spietato, ma anche cinico,col pelo sullo stomaco, come si addice a un personaggio reso egregia-mente in tale direzione da un Jeffrey Wright fornito di piglio satur-nesco e cinicamente decisionista oltre che di barba wellesiana;Goodwin (good-win, il bene che vince), da parte sua, oltre che esserelo stesso cognome dell’assistente di Nero Wolfe, ben si addice a unafigura materna, angelicata, risolutrice, incarnata da una incantevoleVera Farmiga i cui occhioni, che riverberano la luminescenza delloschermo del computer, ne fanno una riuscitissima versione aggiorna-ta dell’Angelo di Scala al Paradiso (1946) di Powell & Pressburger.(4) Major Tom è il protagonista della canzone «Space Oddity» (1969)di David Bowie, un astronauta che si trova talmente bene nello spa-zio da non voler più rientrare sulla Terra. Per chi non lo sapesse,Duncan Jones è figlio di David Bowie; con due film, ci pare stia dimo-strando di aver recepito bene le suggestioni paterne, oltre che i cano-ni della fantascienza letteraria e cinematografica, ma anche di averdigerito tutto e imparato a ragionare e lavorare con la sua testa.«Though I’m past / one hundred thousand miles / I’m feelin very still/ and I think /my spaceship knows which way to go».

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mano l’esperimento e, a loro insaputa, aggiunge alledue situazioni catastrofiche già coesistenti (scoppia iltreno; scoppia il treno e poi anche l’ordigno atomico)una terza, molto più gradevole e preferibile (Colterimpedisce il secondo attentato, poi il primo, e se ne vainfine a passeggiare con Christine in riva al lago). Contestardaggine tutta felina (e Jake Gyllenhaal, in questofilm, con la sua aria tesa e stralunata sembra proprioun gatto, di quelli che sono un fascio di nervi, caccianoil naso da tutte le parti e ottengono sempre quello chevogliono), Colter finisce col crearli davvero, i “moltimondi”. Come volevasi dimostrare.

Questo per quanto riguarda la fisica quantistica. Anoi, vedendo l’opera seconda di Duncan Jones, è tor-nato però anche alla mente l’esempio del treno di cuia suo tempo si servì Albert Einstein per illustrare lateoria della relatività (ovvero un fenomeno luminoso,che avviene a velocità diverse a seconda che l’osserva-tore si trovi su di un treno in movimento o fermo allabanchina di una stazione). A dir la verità, un altroesempio utilizzato dallo scienziato, e che spiega moltopiù in soldoni la sua teoria, è la diversa percezionedello scorrere del tempo se ci si trova seduti su di unastufa incandescente oppure comodamente in poltronacon una bella donna sulle ginocchia: a Colter, trovato-si catapultato e rinchiuso su di un treno che sta peresplodere, e con Christina seduta di fronte a lui, le duecircostanze sembrano esser capitate simultaneamente.

Duncan Jones è quello che, nella sua opera prima,aveva confinato un astronauta in una stazione spa-ziale, e, prima ancora, nel cortometraggio Whistle(2002) aveva raccontato la storia di un killer checompie i suoi “lavori”senza uscire mai dalla sua stan-za. A Jones gli spazi chiusi devono piacere davvero, epare aver iniziato una sua personale esplorazione diessi: in Moon, c’è un astronauta che vive il suo lungosoggiorno lunare in perfetta routine e apparente nor-malità, salvo poi accorgersi di essere in una situazio-ne a dir poco inquietante (è un clone, che al terminedel servizio dovrebbe essere eliminato). Un uomo conuna memoria ma senza un passato vero e proprio, unmaggiore Tom (4) all’incontrario che agogna il ritor-no sulla Terra. Colter Stevens si trova in una situazio-ne uguale e contraria. Eroe e investigatore del temposuo malgrado, non tarda molto ad affezionarsi almondo in cui è stato spedito, e alla fine decide chevale la pena salvarlo per stabilirvici. Con un ultimo,inquietante dubbio: cosa verrà a significare il riflessonella sfera metallica al Millennium Park di Chicago,in cui Colter non è Colter, ma ha la faccia del collegadi Christine, di cui il pilota ha preso il postonell’Operazione Source Code? Colter è morto? Èmorto quell’altro? In un unico corpo, coesistono duepersonalità? Il finale non lo spiega, e ci lascia da solia interrogarcene sopra. Come direbbe il professorAlbert, tutto è relativo.

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Non ci sono punti fermi in questo film, che così rie-sce a essere un oggetto piuttosto anomalo, inclassifica-bile, refrattario a offrire immediati e facili spunti didibattito. Non funge da pretesto per (far) parlare d’al-tro nelle presunte sedi più appropriate, ma da testo cheassorbe al suo interno di tutto, raccoglie senza dar trop-po l’impressione di selezionare, affidandosi a un trac-ciato che non è narrativo né strettamente o univoca-mente tematico. Letteralmente, è un film che fluttua sulsuo mare prescelto, si fa portavoce e contenitore didomande, anziché lasciarsi andare a risposte e risolu-zioni a portata di mano. Si fa portare, non si fa porta-tore di alcun messaggio o proclama. Segue il suo itine-rario, apparentemente neutrale, che è quello di un viag-gio per mare e per terra. Quasi sfuggendo (para)tattica-mente alle interpretazioni, alle analisi che inevitabil-mente lo rinchiuderebbero in un orizzonte angusto, nonresta mai fermo per troppo tempo nello stesso posto. Siconcede invece una serie di approdi strategici, sfuggen-do la prassi del troppo insistere o della permanenza,come se, accumulando tappe, attivasse ogni volta undiscorso in continuo divenire, privo di logiche territo-riali, incline altresì allo sconfinamento diuturno.

Un discorso che assume il mare stesso, chiuso geo-graficamente ma nel contempo aperto culturalmentee antropologicamente, come centro gravitazionale diun senso storico non prescritto e irrinunciabile.Dentro un progetto che, forte della scelta di stareovunque e da nessuna parte a lungo, si snoda da unacittà precisa, non casuale, all’altra, in cerca di traccedi un passato all’occorrenza remoto o prossimo, pur-ché in grado ora qui, ora là, di restituire materia diriflessione al presente, costruendo solo a queste con-dizioni la possibile mappa di un’identità collettiva.Che tradizionalmente invece gli Stati separano,smembrano, connotano, mentre il mare, solo il mareunisce, genera appartenenza, al di là di qualsiasi bar-riera visibile tra i popoli. Un’unità che non spettarivendicare o prospettare alle nazioni, che mai posso-no dirsi anche solo a livello organizzativo “unite”essendo nate, storicamente, economicamente, politi-

Regia e soggetto: Bruno Bigoni. Sceneggiatura: BrunoBigoni, Silvia Da Paré, Marco Villa, Lara Fremder.Fotografia: Daria D’Antonio, Saverio Guarna, FabrizioLapalombara, Andrea Locatelli. Montaggio: MassimoFiocchi, Cristina Flamini. Musica: Mauro Pagani.Produzione: Minnie Ferrara & Associati/Lumière & Co.Distribuzione: Teodora/Spazio Cinema. Durata: 75’.Origine: Italia, 2011.

Il film è costruito come un viaggio in mare che segue ilritmo della canzone «Crêuza de mä» di Fabrizio De Andrè.Comincia con il ricordo di un’anziana anarchica catalana,Pérez, che di suo padre dice: «Non sapeva né leggere néscrivere mio padre, ma è stato un buon maestro». Si spo-sta poi sulle coste nordafricane intrecciando immagini,suoni e soprattutto musica in cui il compositore MauroPagani interagisce con la cantante locale Mouna Amari.Approdando in vari porti e città del Mediterraneo, daBarcellona a Tangeri, da Lampedusa a Sousse e Sidone,da Bari, dove si rievoca l’approdo della nave Vlora cari-ca di albanesi tra cui Violeta che giunse con un figlio ingrembo e oggi è mediatrice culturale e badante, aDubrovnik, dove invece le ferite di Ivana dei tempi dellaguerra dimenticata sono ancora aperte, il viaggio si con-clude nei vicoli genovesi dove a raccontarsi sono alcuneragazze extracomunitarie che non hanno avuto altra scel-ta, una volta giunte, in Italia che prostituirsi.

IL COLORE DEL VENTO Bruno Bigoni

Sinestesia mediterraneaAnton Giulio Mancino

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camente operando e configurandosi di conseguenzain nome della divisione.

Questione tutt’altro che secondaria: in una fase estre-mamente critica in cui le Film Commission provvedonosu scala regionale a trasformare i film in dépliant modu-lari e promozionali del Belpaese, cioè al servizio di unnazionalismo capillare, Il colore del vento di Bigoni nonnasce con la volontà del documentario che illustra, infor-ma, spiega, dimostra. Non si fa soggiogare dal productplacement territoriale che sta totalizzando le prospettivedel cinema italiano. Affronta la prova del grande scher-mo, superando quanto basta la durata standard impostadai palinsesti televisivi. Ma non impartisce lezioni di vero(storia, paesaggio o panorama), semmai assume un valo-re testimoniale proprio, dal vero. Come uno strano – sidiceva – oggetto non identificato, né tantomeno identifi-cabile, che procede, solca le onde, osserva, intercetta vocie suoni in ogni dove. Senza fare il gioco di nessuno, senzadiventare uno strumento per discorsi altri.

La complessità che riesce a far indovinare dietro le sto-rie, tante, distribuite non secondo un ordine rigido e pre-definito, implica una consapevolezza del proprio statutodi opera che si dà a vedere e a sentire al largo dalle coste,se necessario. E, pur prefigurandola, intuendola, prean-nunciandola, si mantiene alla larga della cronaca, delleurgenze tipiche dell’attualità che tutto consuma, dimen-tica, tralascia. L’obiettivo cui aspira è semmai quello del(farsi) materiale audiovisivo “resistente”, diciamo purepoetico. Ma non perché estetizza i fatti, i volti, gli avveni-menti, le sonorità. Al contrario: perché può rivendicarecosì, a tempo indeterminato, di non essere questo néquello, di non poter servire a nessuno che abbia un’ideapreconcetta sulla maniera di agire per il meglio, a pre-scindere dalle persone viste come potenziali elettori,ovvero da quei “tutti”che, in quanto irriducibili e sogget-ti a forme incontrollabili di creatività e moltiplicazionedelle singole identità, sono cosa ben diversa dal “tutto”globalizzato, omologato e addizionato in base a interessidettati da leadership economiche e da egemonie cultura-li regionali, nazionali, sovranazionali: europee, balcani-che, nordafricane, mediorientali.

L’assunzione di responsabilità dell’ultimo film diBigoni deriva esattamente da questa posizione mai com-pletamente fissa che il mare, lo stare in mare consente.Cioè da questo situarsi perennemente in un non-luogospecifico da cui focalizzare, ovunque sia possibile, ovun-que capiti di gettare gli ormeggi, il destino di lunga dura-ta di quelle che la storia considera non-persone.Semplicemente: inseguendo il vento o il suo invisibilecolore, ecco come le esigenze di sopravvivenza, quindi diprospettive geografiche da garantire trasformano ingesto coerente il budget e il conseguente mosaico rappre-sentativo, vale a dire il collage di finanziamenti parzialierogati da svariati enti statali, regionali e municipali, daltradizionale Mibac alla molto intraprendente e nondisinteressata Apulia Film Commission, dalla GenovaFilm Commission della Mediateca Regionale Ligure allaRegione Siciliana.Vi è un metodo in questa strategia, per

così dire, dell’abbandono fortunatamente non passivo diBigoni anche alle logiche disparate delle diverse commit-tenze, inchiodate ciascuna al proprio “particolare” geo-grafico, turistico e soprattutto politico-culturale voltospesso all’incremento del consenso popolare/elettoralesu base regionale/nazionale.

Logiche che contrastano, per le ragioni di cui sopra,con il respiro ampio del film, degno erede di un prototi-po che oggi, con il senno di poi, riusciamo pur tra tantecontraddizioni che non vanno affatto ignorate o eluse, ariscoprire: il non così lontano documentario di BernardoBertolucci La via del petrolio, tipico esemplare dei tardianni del Boom di non-fiction patrocinata dall’impresa,che senza volerlo muoveva, spingeva, informava di séanche esteticamente un’opera concepita per essere piega-ta alle esigenze e agli alibi culturali dell’impresa naziona-le petrolifera. Trasformatosi – fortunatamente – nellemani del suo intelligente e stravagante autore in occasio-ne irripetibile, colta per dichiararsi poeticamente, stilisti-camente: sperimentare linguaggi, cercare e visualizzarela coralità, spingersi titanicamente oltre i confini nazio-nali, elaborare un’avventura di viaggio in grado di resti-tuire allora al diretto interessato, una libertà incondizio-nata di sguardo, di novità.

Bigoni, accedendo contemporaneamente ai finanzia-menti pubblici statali e locali, si riallaccia all’impresamarinara che consentì a Bertolucci, in un’epoca in cuiera forse più facile poter dire “io” con la macchina dapresa, di servirsi di quello che veniva chiamato, disprez-zato, accettato come il sistema (capitalistico). Impresaconsistente nel trasformare il documentario industrialedi allora, oggi documentario sedicente per il territorio, inuna via enunciata ed esibita: dunque in un viaggio nonsoltanto geografico ed economico mirato, ma in qualco-

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s’altro di sottilmente diverso, a largo spettro. Ancora unavia, un viaggio. stavolta un viaggio peripatetico, tutt’altroche a senso unico, che è anche una dichiarazione d’inten-ti su ciò che è o può essere l’orizzonte produttivo, intel-lettuale ed espressivo del documentario contemporaneo,non soltanto italiano. Dove il valore poetico stesso, nonrifiutato, non minimizzato o mimetizzato assume unaposizione e un ruolo di primo piano. Che il titolo stesso,Il colore del vento, esemplifica, sottolinea, rilancia. Sudue livelli, che potremmo considerate a tutti gli effetticomplementari, concomitanti.

Il primo riguarda il ricorso letterale a una figura reto-rica come la sinestesia, un tipo di metafora che qui, sta-bilendo una relazione tra un evento meteorologico, mobi-le e sfuggente come il vento, e una percezione non tattilema visiva, cromatica (che allude al cinema stesso comemezzo di rappresentazione), diventa metafora storica:specchio di un passato-presente senza soluzioni di conti-nuità in cui l’accostamento lessicale, nonché l’associazio-ne sostanziale di due termini appartenenti a sfere senso-riali diverse, produce un effetto di coesistenza evidente,lineare, che obbedisce piuttosto a un ordine spontaneo,sintagmatico, mai didattico, ideologico o coercitivo.

Il secondo, quasi una diretta o comunque sintomati-ca derivazione del primo, riguarda l’impiego stessodella sinestesia in ambito poetico e in genere nell’artedella versificazione, ovvero la scelta di derivare diretta-mente il proprio titolo traslato dai versi di una notacanzone di Fabrizio De Andrè contenuta nell’album «La

buona novella». Quando Bigoni cita De Andrè, eredi-tando l’«Io, per un giorno, per un momento, corsi avedere il colore del vento» di «Il sogno di Maria», conti-nua sulla falsariga dell’altra canzone che accompagnail film, la «Crêuza de mä» dell’omonimo disco del can-tautore ligure. E prosegue lungo il tracciato inauguratodal suo precedente film Faber, non esitando a cercare lacomplicità come personaggio davanti alla macchina dapresa e come autore delle musiche dello stretto collabo-ratore di De Andrè, Mauro Pagani. Così riesce a dire,per dichiarato ricorso alla poesia, allo stilema poetico,alla suo impiego sonoro, cui le immagini del film offro-no l’occasione di diventare audiovisione poetica, chequel viaggio è tanto più vero, non veritiero – donde lascelta documentaristica – in quanto va dove lo condu-cono il vento, il colore invisibile, l’interculturalità asso-luta, costante, cangiante, lo sconfinamento elevato aprincipio, a progetto della rappresentazione.

Non solo il budget, la logica localistica che eroga ifinanziamenti e insegue un’utopia di vecchio e strape-sano consenso politico da capitalizzare su un territoriocircoscritto più che per il territorio e per la cittadinan-za, sono perciò la musa ispiratrice di un film piccolo,discreto ma notevole, così imprendibile e immateriale.Che non a caso, al di là dell’omaggio a De Andrè, si con-clude, con personaggi consimili, in quella città, Genova,laddove già La bocca del lupo di Pietro Marcello ha direcente individuato un punto d’osservazione stabile,emblematico, e privilegiato.

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Sono passati quasi vent’anni da quando, agli inizidegli anni Novanta, è iniziato un lungo processo diriscoperta, sdoganamento e nuovo successo del cine-ma popolare di genere, B-movies, exploitation filmeccetera. Dall’uscita di Resevoir Dogs di QuentinTarantino abbiamo assistito all’arrivo di riviste spe-cializzate, nuove edizioni dvd, retrospettive a impor-tanti festival come Venezia, oltre che un considerevolenumero di nuove pellicole che si richiamano a quellatradizione. L’estetica dei film cosiddetti di serie B,ripulita e ricoperta dell’immancabile patina vintage(vedi i finti segni di usura della pellicola in questofilm, così come già accadde per Grindhouse), è entra-ta definitivamente nell’immaginario comune. Tuttaviaaccade ogni volta che, di fronte a un film comeMachete, che esplicitamente si rifà ai classici topos estilemi di quella tradizione (così come accade ciclica-mente a ogni nuovo film non solo di Robert Rodriguezma anche di Quentin Tarantino, Takashi Miike eccete-ra), in molti nel mondo della critica (ma non solo) sichiedano se vi sia davvero un qualche motivo di inte-resse che non sia limitato soltanto alla sterile ripetizio-ne della consolidata norma di genere. Vi è insommaqualcosa di questo film che possa parlare per così dire“a tutti”e non soltanto indugiare nella rinnovata (non-ché rassicurante) identificazione di un sotto-gruppo dispettatori/supporter? (1)

Lasciando da parte la questione quasi-filosofica sepossa mai esistere un regime dell’immagine che nonsottostia a una qualche esplicita o implicita normaconsolidata, ci pare il caso di provare a spostare leg-germente il problema. Ridurre infatti questa tipolo-gia di film a semplice divertissement finalizzato a unconsumo di breve periodo ci pare una strategia per-dente, oltreché intellettualmente pigra. Stesso discor-so vale per la variante che invece declina queste pel-licole sulla linea del pastiche postmoderno citazioni-

Titolo originale: id. Regia: Robert Rodriguez, EthanManiquis. Sceneggiatura: Robert Rodriguez, ÁlvaroRodriguez. Fotografia: Jimmy Lindsey. Montaggio:Rebecca Rodriguez, Robert Rodriguez. Musica: JohnDebney, Carl Thiel. Scenografia: Christopher Stull.Costumi: Nina Proctor. Interpreti: Danny Trejo(Machete Cortez), Robert De Niro (il senatore JohnMcLaughlin), Jessica Alba (Sartana), Steven Seagal(Rogelio Torrez), Michelle Rodriguez (Luz), Jeff Fahey(Michael Booth), Cheech Marin (Padre), Don Johnson(Von Jackson), Shea Whigham (Sniper), LindsayLohan (April Booth), Daryl Sabara (Julio), GilbertTrejo (Jorge), Electra Avellan (l’infermiera Mona), AraCeli (la giornalista), Tom Savini (Osiris Amanpour),Stacy Keach (Doc Franklin). Produzione: ElizabethAvellam, Dominic Cancilla, Robert Rodriguez, RickSchwartz per Overnight Films/TroublemakerStudios/Dune Entertainment. Distribuzione: LuckyRed. Durata: 105’. Origine: Usa, 2011.

Dato per morto dopo uno scontro con il re della drogamessicano Torrez, Machete, un ex federale, fugge inTexas per cercare di far perdere le proprie tracce e perdimenticare un tragico passato. Ma ciò che vi trova èuna fitta rete di corruzione e di disonestà, con il risul-tato che un senatore si becca un proiettile e Macheteun mandato di cattura. Decide allora di dimostrare lasua innocenza e di smascherare la cospirazione, madeve vedersela con Booth, uno spietato uomo d’affaricon un numero infinito di killers sul suo libro paga;con Von, un vigilante di frontiera fuori di testa a capodi un piccolo esercito privato; e con Sartana, una bel-lissima agente dell’immigrazione, combattuta tra ilcompito di far rispettare la legge e il desiderio di fareciò che è giusto. Ad aiutare Machete a portare a ter-mine il suo regolamento di conti ci sono invece Luz,una venditrice di tacos molto sexy e dotata di uno spi-rito ribelle e di un cuore rivoluzionario, e Padre, unprete bravo nelle benedizioni ma ancor più bravo conil fucile.

MACHETE Robert Rodriguez e Ethan Maniquis

Una superficie affilata come un machetePietro Bianchi

(1) Da notare, en passant, che la segmentazione dell’offerta di mercicinematografiche secondo una geografia di piccole e molteplici nic-chie rappresenta oramai la strategia dominante dei grandi colossidell’entertainment e non un’eccezione.

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stico e autoreferenziale, che invece pecca di cinicoconservatorismo. Piuttosto è il caso di trattarle seria-mente spostando lo sguardo al livello della formastessa. Dai film popolari di genere, Rodriguez prendeinfatti un tratto che decide di utilizzare risolutamen-te non nel manierismo citazionistico, ma semmainella costruzione grottesca dell’effetto comico. Edecide di farlo su una questione politica di primariaimportanza. D’altra parte non è forse il comico unadelle modalità più efficaci e politiche (e brechtiane)di trattare il reale? E dunque terribilmente seria?

CRITICA DELLO PSICOLOGISMODa più parti abbiamo segnali di come l’ideologia

contemporanea sia pervasa da un compiaciuto gustopsicologizzante. Non è il caso di soffermarsi a lungosui molti possibili esempi reperibili in senso comune,reality show e spazzatura visiva varia; è interessantetuttavia notare come questa tendenza non facciaeccezione nemmeno al cinema. E in particolare tra ifilm cosiddetti indipendenti. Non abbiamo un rilievoempirico, ma prendendo un campione a caso dei filmindipendenti americani che escono ogni anno traSundance/Slamdance, Sxsw di Austin, Tribeca eToronto, troveremmo probabilmente molti esempi intal senso. L’esempio commercialmente più celebredello scorso anno è stato il vincitore al Sundance epoi candidato all’Oscar Winter’s Bone, quello di

quest’anno Meek’s Cutoff. Film dove un protagonistafragile e indifeso si trova ad affrontare le difficoltà diun mondo ostile e dove, di conseguenza, la sostanzamorale viene sempre preservata intatta, essendo ogniostacolo proiettato all’esterno. L’identificazione èsalva, così come la consolante visione di un mondodove un briciolo di “autenticità” esiste ancora (anchese sofferente).

La mossa, deflagrante e politicamente controcorren-te, di registi come Rodriguez o Tarantino non è quelladell’esplicita rappresentazione fumettistica della vio-lenza, o dell’ipertrofico ritmo del montaggio (lo statodella situazione visiva dove si vengono a collocare lirende assolutamente inoffensivi a riguardo), ma sem-mai dell’attacco che sferrano alla norma psicologiz-zante. Machete è un film che, programmaticamente,rimane sulla superficie e che nonostante questo sfuggecostantemente la riduzione a stereotipo. Simile all’ul-timo Alex Cox, al migliore Joe Dante, al Tarantinotutto, Rodriguez riesce a costruire con Machete un’af-filatissima macchina di produzione di immaginariopolitico tramite la pura costruzione di giochi di super-ficie.Vediamo in che modo.

L’ASSURDITÀ DELLA LETTERACome rappresentare, ad esempio, il reale del razzi-

smo antimigrazioni della destra machista e naziona-lista texana? Un documentario politico sceglierebbeuna strada, un film drammatico ne sceglierebbeun’altra. In Machete Rodriguez, invece, sceglie l’ac-centuazione grottesca del tratto idiosincratico, pren-dendolo per così dire “alla lettera”, e portandolo alleestreme conseguenze. Nel finto messaggio elettoraledel senatore John McLaughlin (Robert De Niro)vediamo il linguaggio tipico dell’antisemitismo, ilparagone con l’infestazione di insetti (come i topi diSüss l’ebreo di Harlan) che indeboliscono il corpodella Nazione, la risposta igienica all’invasione,eppure il linguaggio sembra tremendamente credibi-le: credibile non nonostante la sua assurdità, maproprio a ragione della sua assurdità (che svelaqualcosa del reale di quel discorso ideologico che vaoltre la sua fredda trascrizione nella realtà).

Quando il paramilitare Von Jackson (interpretatoda Don Johnson), in una scena pseudo-western, vadurante la notte a dare la caccia agli immigrati chepassano il confine illegalmente e dice «Qualcunodeve pur fare la guardia a questa nostra grandeNazione. Altrimenti il Texas diventerà ancora unavolta… Messico!», pur nella sua totale credibilità,l’espressione ha un involontario sapore comico, datoche svela implicitamente che quella terra una voltaera considerata Messico e che dunque il suo essere“nostra” è alquanto relativo. Anche qui, la malafededella “resistenza contro l’immigrazione” non vienedemistificata secondo il procedimento dell’inchiesta

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giornalistica o del confronto con la realtà dei fatti,ma viene semmai esposta al suo nocciolo più realedella realtà.

LA REALTÀ E IL REALEQuesta separazione tra reale e realtà, tra il nocciolo

reale invisibile (e proprio per questo più-vero-del-vero) estato oggettivo delle cose, è al centro delle analisi distampo psicoanalitico sui procedimenti del comico.Slavoj Zizek, in un’analisi del film Vogliamo vivere! diErnst Lubitsch, prende come esempio di questa formaliz-zazione comica del reale una delle scene iniziali in cui lacompagnia teatrale al centro della vicenda sta mettendoin scena una pièce sul nazismo. Durante le prove, l’atto-re che deve impersonare Hitler viene continuamente fer-mato del regista insoddisfatto delle sua prestazione,imputata di essere troppo poco realistica. La scena vienepiù volte ripetuta, ma l’attore continua a essere interrot-to. Nonostante i suoi costumi, la sua perfetta somiglian-za con il dittatore tedesco, il suo tedesco impeccabile, lasua performance sembra non riuscire a cogliere quel“non so che”, quel reale che invece fa di Hitler il terribi-le dittatore nazista che è. Dopo un numero estenuante diripetizioni, il regista guarda in alto, e fa un balzo sullasedia indicando una foto di Hitler che sta proprio al cen-tro della scenografia e proclama trionfante: «Ecco! Ecco!Hitler è proprio così!». A cui l’attore risponde: «Masignore, quella è una mia foto!».

In questo esempio vediamo che la costruzione del“reale”di Hitler non può che passare attraverso il montag-gio di diverse rappresentazioni eccessive. Il procedimentoè radicalmente de-psicologizzante, perché individua quel“non so che”, quel “reale”più vero della realtà nella distan-za tra diverse rappresentazioni, nessuna delle quali istitui-sce un rapporto di semplice rispecchiamento con la realtàpropriamente detta. Si potrebbe dire che così come perLubitsch l’unico modo per rappresentare il reale di Hitlersia il montaggio di diversi livelli di rappresentazione (nes-suno dei quali appartiene direttamente a Hitler), perRodriguez, così come per l’ultimo Tarantino, l’idiosincrati-ca esposizione del tratto grottesco, il montaggio di diverserappresentazioni, il discorso ideologico preso alla lettera eportato alle estreme conseguenze, faccia parte di un giocodi superfici de-psicologizzate (ogni singolo personaggio diMachete è una maschera di assurdità) tutt’altro che auto-referenziale, e che abbia come posta in palio l’esposizionedi un “reale”, in questo caso politico.

In questo senso, il tema dell’immigrazione messicanain Texas (tema la cui assenza delle forme più diffuse del-l’immaginario contemporaneo sarebbe da non trascura-re) in Machete andrebbe preso affatto seriamente. Forsela ripresa e il successo mainstream dell’estetica dei B-movies, almeno per quanto riguarda l’uso che alcuniregisti ne hanno fatto (Dante, Cox, Tarantino,Rodriguez), ha a che fare meno con il tributo a una tra-dizione da riscoprire e più con una scelta formale consa-pevole che produce una critica alla diffusione del fintopsicologismo cinematografico.

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È la storia di un incontro “impossibile” tra due esse-ri lontanissimi tra di loro per aspetto fisico, tempera-mento, appartenenza sociale. Lui,Tony, è un tipo mas-siccio, pesante nei movimenti, dal corpo sgraziato; ungran lavoratore; una persona posata, coscienziosa, coni piedi ben piantati per terra; un individuo un po’ rude,ma di animo generoso. Lei, Angèle, possiede trattiquasi androgini e una bellezza ancora adolescenzialeche la fa apparire più giovane dei ventisette anni chedichiara. È una figura sfaccettata ed emotivamentecomplessa, che esprime vulnerabilità e inquietudine e,insieme, selvaggia determinazione. Nel fisico come nelvestire, ricorda un poco la Mona di Senza tetto nélegge. E come avveniva per l’eroina di Agnès Varda,anche in Angèle, nei suoi modi scostanti e aggressivida ragazzaccia indocile, s’intuisce l’irrequietezza diuna creatura alla deriva che fatica a mascherare leproprie insicurezze e paure.

I due non hanno nulla in comune dunque, eccetto ildesiderio di sottrarsi alla condizione di solitudineaffettiva che li attanaglia. È proprio questo che Tonyriesce a leggere nello sguardo di Angèle, ed è questo adattirarlo verso quella ragazza troppo bella, il cui fasci-no protervo egli percepisce invece come una minaccia.Forte del proprio istintivo, ritroso pudore, l’uomo sisottrae allora alle avance di lei, arriva a respingerlacon il viso duro. Non intende lasciarsi travolgere dalvortice del desiderio. Non è il piacere carnale che vacercando.

Angèle, che pure appare attratta dalla compattasolidità di Tony, confonde ancora l’amore autenticocon il soddisfacimento del piacere sessuale, ed è pron-ta a concedersi al primo venuto per un piatto di lentic-chie. Così nell’incipit del film accetta di farsi sbatterecontro un muro da un tipo in cambio di un pupazzet-to di Action Man. Ma se nelle scelte della giovanedonna v’è un fondo di ambiguità (il calcolo opportuni-stico che la induce a legarsi a Tony non esclude affat-to l’attrazione verso quell’uomo tanto diverso daglialtri), la sensualità animalesca che esibisce conservaqualcosa di insoddisfacente e di lacerante, che arriva a

Titolo originale: Angèle et Tony. Regia e sceneggiatura:Alix Delaporte. Fotografia: Claire Mathon. Montaggio:Louise Decelle. Musica: Mathieu Maestracci.Scenografia: Hélène Ustaze. Costumi: Bibiane Blondy,Dorothée Guiraud, Julie Couturier. Interpreti: ClotildeHesme (Angèle), Grégory Gadebois (Tony Vialet),Evelyne Didi (Myriam Vialet), Jérôme Huguet (RyanVialet), Antoine Couleau (Yohan), Patrick Descamps (ilnonno di Yohan), Lola Dueñas (Anabel), CorineMarienneau (la nonna di Yohan), Patrick Ligardes (l’av-vocato), Elsa Bouchain (la giudice), Marc Bodnar (ilmarito di Anabel), Antoine Laurent (il vigile), FaridLarbi (il commissario), Tracy (il giovane asiatico), RamaGrinberg (l’amica di Ryan), Barbara Chavy (la cancellie-ra), Elsa Motin (la donna del centro di accoglienza),Françoise Louchard (la moglie del marinaio arrestato),Larie-Christine Lecornu, Dany Verissimo. Produzione:Hélène Cases per Lionceau Films/Centre National duCinéma et de l’Image Animée. Distribuzione: Sacher.Durata: 87’. Origine: Francia, 2010.

Angèle è appena uscita dalla galera. Ha bisogno di unlavoro, di un tetto e di un contratto di matrimonio perottenere la custodia del figlio che è stato affidato ai nonnipaterni. Attraverso un’inserzione, conosce Tony, unpescatore di Port-en-Bassin, in Normandia. Tony vivecon la madre e ha da badare a un fratello più giovane che

fatica a rassegnarsi allamorte del padre, scompar-so in mare durante unabattuta di pesca. Il primoincontro tra Angèle e Tonynon è dei migliori. Ma l’uo-mo ha saputo cogliere inlei la solitudine e la soffe-renza. E così accetta diospitarla in casa e le pro-cura un lavoro nellapescheria del paese. Apoco a poco i due impara-no a conoscersi e amarsi.

ANGELE E TONY Alix Delaporte

Le regole dell’attrazioneNicola Rossello

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tradursi in comportamenti antisociali (il furto dellabicicletta, poi quello del vestito).

UNA MADDALENA REDENTAL’evoluzione dei rapporti tra i due protagonisti del

film è debitrice delle regole drammatiche della com-media classica. Le quali prevedono un grave impedi-mento iniziale (l’incompatibilità caratteriale e sociale,appunto), nonché una serie di elementi ritardanti (dif-fidenze, esitazioni, ripulse, caute aperture, ravvedi-menti – e agnizioni: Tony verrà a sapere che lei ha unbambino, che ha provocato in un incidente la mortedel marito, che ha conosciuto la prigione per un paiodi anni), destinati a risolversi nell’inevitabile lieto fine.

Prima che si giunga all’happy end, però, alla giova-ne donna sarà richiesto di compiere un laborioso per-corso di rieducazione sentimentale e sociale al tempostesso. Non già un itinerario penitenziale ed espiatorio(il delitto della “peccatrice” resta significativamentenell’ombra: la pellicola, interamente giocata sul tempopresente, non insegue i fantasmi del passato, non col-tiva dolorosi sensi di colpa). Piuttosto una sorta diapprendistato alla vita adulta che comporterà, per laprotagonista, una riscoperta di sé (della propria uma-nità segreta), una trasformazione, una rinascita spiri-tuale – la stessa che permetterà all’eroina da un lato diessere accolta dalla famiglia di Tony e dalla comunitàdi Port-en-Bassin, dall’altro di vivere appieno, per laprima volta, l’intensità dell’amore vero. Le energie cheAngèle ha rivolto sinora contro di sé, le consentirannoinfine di accedere a uno spazio relazionale e affettivopiù vitale. Frequentando il mercato del pesce e ledonne della parrocchia, imparerà a distinguere unasogliola da una limanda e a comporre ghirlande difiori di carta per la festa patronale, mentre il ruolodella strega, che le verrà richiesto di interpretare inuno spettacolo per bambini, le darà modo di riappro-priarsi dei ricordi della propria infanzia.

È chiaro: la piena, armonica integrazione in un tes-suto sociale nuovo passa anche attraverso la conoscen-za della cultura del luogo, e presuppone la disponibi-lità al confronto, l’adeguamento della propria linea dicondotta ai valori della comunità entro la quale chi èstraniero aspira a inserirsi. Il recupero delle ragionisemplici ma autentiche dell’esistenza consentirà adAngèle di stabilire con Tony un legame duraturo e feli-ce, e di scoprire, in quel rapporto, la tenerezza e l’ab-bandono, il rispetto di sé e la comprensione dell’altro.Al termine della sua risalita, la ragazza potrà tornarea sorridere.

PAESAGGIO NORMANNO CON FIGUREAlix Delaporte, qui al suo lungometraggio d’esor-

dio, mostra già di avere le idee molto chiare su

come, disponendo di un budget risicato (meno di unmilione di euro), sia possibile realizzare una pellico-la accattivante. La giovane cineasta ha avuto l’ac-cortezza di tenersi lontana dalle insidie tipiche diun’opera prima. E così la collocazione ambientale(un villaggio costiero della Bassa Normandia battu-to dal vento e dominato da un cielo livido, umido dipioggia) sa eludere la tentazione dell’immaginebella e del pittoresco di maniera per consentire ailuoghi di respirare con forza un’atmosfera di vissu-to. Allo stesso modo, nel definire il contesto socialeentro cui è calata la vicenda (le difficili condizioni incui si dibatte l’industria della pesca a causa dellacrisi economica), la messa in scena si sottrae a ognienfasi tribunizia: la breve sequenza in cui i pescato-ri in rivolta lanciano del pesce contro un gruppo dipoliziotti in assetto antisommossa, è sufficiente aconferire alla narrazione un accento di sorda durez-za. Quello che interessa davvero alla Delaporte èben altro: è l’esistenza dei suoi personaggi, la perce-zione degli stati d’animo, lo scavo psicologico deisentimenti, il quieto sviluppo dei caratteri.

Ne emerge un racconto di un nitore particolare,un’opera pudica, sommessa, discreta, che beneficiadi una struttura sintattica di semplice ed essenzialeefficacia, ignara di artifizi e compiacimenti formali(«Ero alla ricerca di una certa semplicità formale.Ho sentito il bisogno di guardare senza creare un

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movimento artificiale, che avrebbe preso il soprav-vento su quello degli attori. Questo film ha respintoogni tipo di effetto») e attraversata da una correntedi spontanea simpatia (tutti i personaggi sono trat-teggiati con profonda umanità, e con indulgenza:dal fratello minore di Tony, Ryan, perennementeimbronciato e ossessionato dall’idea di ritrovare ilcorpo del padre morto in mare, alla madre del pro-tagonista, dapprima diffidente e ostile verso quellasconosciuta che il figlio ha accolto in casa, poi capa-ce di comprensione e complicità; dall’assistentesociale che cerca, come meglio può, di aiutare laragazza, al suocero di lei, che non serba alcun ran-core verso chi ha causato la morte di suo figlio).

La pellicola è costruita sull’osservazione attentadei gesti e degli sguardi dei personaggi, colti nellaloro concreta, corposa immediatezza emozionale.Perché assai più degli scarni dialoghi (in questo filmtutti lasciano cadere le parole con estrema parsimo-nia, quasi di malavoglia), sono qui soprattutto i pic-coli gesti, i sorrisi appena accennati, le occhiatefugaci a far avanzare la narrazione e a rendere l’au-tenticità delle situazioni, l’esattezza dei comporta-menti. Rinunciando a far sentire la presenza dellacineasta dietro la macchina da presa (non tutti gliesordi cinematografici sono imbevuti di narcisismo

incontrollato…), la Delaporte si affida al movimen-to degli interpreti, alla loro sensibilità, venendonelargamente ricompensata. Perché, a garantire alfilm una straordinaria impressione di realtà, èsoprattutto l’intensa prestazione dei due attori prin-cipali, Clotilde Hesme e Grégory Gadebois, una cop-pia di commedianti di alto livello professionale(hanno lavorato per gente come Philippe Garrel,Christophe Honoré, Raul Ruiz, Bertrand Bonello,Olivier Marchal, i fratelli Larrieu…), relegati sin quiin ruoli di secondo piano, ma a cui finalmente èstata concessa la possibilità di dispiegare appieno illoro talento.

Certo, la pellicola non è esente da talune goffaggi-ni formali: il traliccio narrativo ha una struttura sintroppo rigida e, benché sappia negarsi alle faciliscorciatoie delle sceneggiature di routine, rischiaqua e là di scivolare nel sentimentalismo (penso inparticolare alle scene in cui compare Yohan, il figlio-letto di Angèle). Certi indugi descrittivi poi (laragazza che pedala e pedala lungo una strada insalita a significare le sue difficoltà a risalire lachina) conservano qualcosa di ridondante nel lorosimbolismo banalmente didascalico. Ma si trattapur sempre di piccole incertezze, di smagliature dipoco conto.

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Nel nuovo film di Roberta Torre, I baci mai dati,avviene un miracolo. La vicenda narrativa, del resto, èpresto riassunta: periferia di Catania, una ragazzinasostiene che la Madonna le è apparsa in sogno, sugge-rendole la soluzione di un enigma che ha turbato lacomunità locale. Mente, ovviamente, ma il film lascianegli occhi scampoli di ambiguità. A patto che, di que-sta ambiguità, si traccino i contorni o almeno ci siprovi, che ci si adoperi per soppesarla con criterio, chenon la si riduca a un’astratta pluralità di sensi, opzio-ne che può essere intrigante quanto, a volte, franca-mente insipida. Un’ambiguità che, se non sciolta opeggio fraintesa, rischia di poter sembrare accomo-dante, e in fin dei conti inconcludente, quando si deci-de di confrontarsi con un tema così pruriginoso – inspecial modo in un Paese come il nostro, devoto asanti venduti in edicola, ai loro calendari e ai lororosari fluorescenti, e incapace di trovare un equilibrio,legislativo e culturale, tra laicismo e laicità (si pensisolo al tormentone nostrano sulla presenza del croce-fisso in aula e negli altri luoghi pubblici). Insomma, apatto che, di tale ambiguità, si abbia voglia di capirneun po’ di più.

Quindi partiamo, rispettando il percorso narrativo,proprio dall’inizio, poiché il film si apre con una

Regia e soggetto: Roberta Torre. Sceneggiatura: RobertaTorre, Laura Nucilli, Alessandro Amapani. Fotografia:Fabio Zamarion. Montaggio: Osvaldo Bargero. Musica:Federico Di Giambattista, Andrea Fabiani. Scenografia:Biagio Fersini. Costumi: Loredana Buscemi. Interpreti:Carla Marchese (Manuela), Donatella Finocchiario (Rita),Pino Micol (don Livio), Beppe Fiorello (Giulio), MartinaGalletta (Ersilia), Alessio Vassallo (Gulisano), TonyPalazzo (L’Onorevole),Valentina Giordanella (Marianna),Piera Degli Esposti (Viola), Gabriella Saitta, Lucia Sardo.Produzione: Amedeo Bacigalupo, Giorgio Gasparini perNuvola Film/Rosetta Film. Distribuzione: Cde. Durata:80’. Origine: Italia, 2010.

Estate. Librino, Catania, una periferia infuocata.Manuela, tredici anni, e la sua famiglia: Rita, la madre,un’esistenza strappata a morsi alle delusioni; Marianna,la sorella bella e intoccabile, Paris Hilton di periferia; eGiulio il padre, un fallito di talento. Manuela corre sulsuo vecchio motorino e per la testa ha solo due cose:Giuseppe, il ragazzo che le piace, e realizzare i suoi sogni.Manuela corre ma si sa che non può andare molto lonta-no; almeno fino a quando un giorno la Madonna non lavede… In realtà, è una statua della Madonna, ma laragazza si trova spiazzata quando, dopo aver fatto crede-

re per gioco a una sua capacità miracolosa, sene trova invischiata fino al collo e conosce ununiverso che mai aveva immaginato. Entranoin casa sua persone bisognose, donne e uominidisperati e speranzosi conun desiderio da esau-dire, una mancanza da colmare, e chiedonoaiuto proprio a lei, una ragazzina di tredicianni che vuole pensare solo a fare all’amorecon Giuseppe, che invece non la ama per nien-te. Manuela sperimenta un universo che nep-pure immaginava esistesse e se ne stava rannic-chiato proprio di fronte a casa sua. Ed è un belproblema, pensa lei: come poterli rendere tuttifelici, come poter realizzare i loro desideri? PerManuela, passare dalla favola all’incubo è unattimo. Ma poi avviene il Miracolo…

I BACI MAI DATI Roberta Torre

Il miracolo noLorenzo Donghi

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sequenza dal sapore programmatico. C’è innanzituttouna soggettiva, uno sguardo. Uno sguardo velato,forse, da un drappo. Uno sguardo animato, vivo,cadenzato dai profondi respiri che, facendosi largo trale maglie del velo che ha davanti, si posa sullo spaziosottostante, rendendo via via riconoscibili alcune mac-chie di colore: una massa assiepata di persone e, inprima fila, la fascia tricolore di un sindaco, la fondinabianca di un vigile, il clergyman scuro di un parroco.Questo sguardo prima scruta, poi punta in lontanan-za. Si posa su una ragazza, Manuela, capelli corti, aipiedi All Star rosa come rosa è il motorino su cuisiede. Controcampo e montaggio fanno il resto. Il velosi abbassa e, così, lo guardo trova un proprietario:appartiene a una statua della Madonna, posizionata alcentro della piazza cittadina nel giorno dell’inaugura-zione. E quello sguardo ha scelto Manuela.

Manuela ha tredici anni, apprendista parrucchiera,padre assente e fallito, rapporti tesi con sorella emadre. Baci mai dati, recita il titolo del film.Vorrebbetanto piacere a un ragazzo, che però la bidona per unapartita di calcetto con gli amici. Intorno a sé, soffocan-te come una colata di cemento, una cornice di palaz-zoni residenziali che imprigionano la vista, enormistrati di mattoni, ringhiere e balconi. È il quartiereLibrino di Catania, opera dell’architetto giapponeseKenzo Tange. Manuela allora si inventa un miracolo.Non sa, non può sapere, lei, di quello sguardo, mapensa che in una società incivile, superstiziosa e bigot-ta, lo sponsor della Madonna sia un lasciapassareverso una boccata d’aria. Proprio quella società, però,

la erge immediatamente a santa, investita della divinavolontà, e la ragazzina diventa l’oggetto della venera-zione di una frotta di individui che si spaccia percomunità, ma che in realtà è molto più simile a un’or-da di macchiette cafone ed egoiste, sebbene, forse, piùdisperate che cattive. Una società che, eletta a parteper il tutto quanto meno in queste righe, significaSicilia, Sud Italia, o forse, se a tracciarne il quadro èuna milanese trapiantata a Palermo, sineddoche defor-mante del caro e vecchio Bel Paese.

Sì, deformante. Perché Roberta Torre rinuncia aqualsiasi pretesa di realismo senza che per questo nerisenta la sua capacità di tradurre la realtà. Della suaparabola registica – che spazia da toni grotteschi esurreali degli esordi (Tano da morire, Sud Side Stori)all’asciuttezza di lavori più recenti (Angela, Marenero) – è come se I baci mai dati rappresentasse, infat-ti, la sintesi virtuosa. Il film, se da una parte forza inmodo evidente i termini estetici in alcuni spunti (moltidei personaggi principali sono davvero dei tamarri, eun paio di sequenze hanno per location il salone daparrucchiera dove Manuela lavora, e da cui vienelicenziata, ricreato con un gusto pop che sembra rileg-gere Almodóvar con il Pappi Corsicato di Il seme delladiscordia), dall’altra è completamente radicato nellamostruosa contemporaneità italica, di cui in più puntiriporta precise coordinate.

È una mostruosità banale e ordinaria, la mostruosi-tà che ogni giorno ci circonda e cui ci siamo giocofor-za abituati, o che forse è talmente imperante da avercorrotto inevitabilmente un intero immaginario.

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Quella, per intenderci, del business senza scrupoli edel guadagno a tutti i costi, della televisione becera edella sua sottocultura, che ossessiona con il mito dellaforma fisica ma dimentica ogni grazia, che addomesti-ca con l’intrattenimento corrivo e lo smercia a mo’ dianestetico quotidiano; quella delle facce botuliniche edei corpi debordanti nei programmi trash della dome-nica, labbra che esplodono e seni che si sgonfiano.Quella del berlusconismo come piaga culturale oltreche politica, che ci impone, in ogni sforzo di guardarealtrove, di trovarci davanti sempre e solo “lui” (cosìcome viene chiamato nel film). Quella di cui è vittimauna società basata su un mercato del lavoro demente,in Sicilia e non solo («Una ragazza è venuta persino daRoma!», sussurra la madre a Manuela), e che scambiail miracolo per merce da comprare con gli ultimi spic-cioli rimasti in tasca: un’offerta alla nuova Bernadettepuò valere indistintamente l’estinzione del mutuo, unavincita al totocalcio, la partecipazione al «GrandeFratello», la guarigione da una malattia, il recupero diuna rete indispensabile per la pesca mattutina, persi-no la scomparsa di mariti che, si sa, età e insofferenzahanno reso impossibili da sopportare. E, ancora, lamostruosità della superstizione e dell’ignoranza, di chiequipara fede e cartomanzia a credenze interscambia-bili, e vi si avvicina solo perché abbacinato da unaseducente funzione strumentale: qualcosa in cui crede-re per qualcosa da ottenere.

Saranno anche le solite cose, ma sono quelle che ciritroviamo in casa, che pochi film italiani sanno trat-tare senza strafalcioni, e che la Torre ha il merito diaver portato al Sundance (oltre che a Venezia) – vistoche, nel frattempo, è probabile che là si siano accortidi come la culla del Rinascimento si sia ridotta a unaNazione inebetita che, nei loro telegiornali, è descrittain questa paradossale spola tra un Presidente delConsiglio sotto processo (per certi reati) e una piazzacommossa e sfinita, accalcata per la beatificazione diun Papa che diceva di non avere paura.

E poi, forse, non sono le solite cose per le scelte concui vengono impiegate. Meglio, perché non sono affat-to fini a se stesse. E nello specifico, perché il ritrattoche poi vanno a comporre non è solo il tentativo delregista che vuole riflettere sulla società, ma del registache di questa riflessione vuole fare uno snodo narrati-vo, conferendo al film il carattere ambiguo e interes-sante di cui prima si accennava.Vediamo di spiegare ilpunto. A I baci mai dati è stato conferito un premiomesso in palio dall’Unione degli Atei e degli AgnosticiRazionalisti (Uaar), il “Premio Brian”, che prende ilnome dal dissacrante Brian di Nazareth dei MontyPynthon (1979). Questo premio viene attribuito a filmche evidenziano particolari valori, tra gli altri, di laici-smo e razionalità. Non a caso l’anno prima, nel 2009,a vincerlo fu un altro celebre film che aveva per temail miracolo, Lourdes di Jessica Hausner.

Avanzando un’ipotesi, si potrebbe allora pensareche il finale del film della Torre (il vero miracolo, quel-

lo che ridà la vista alla ragazza cieca, l’unica che hastretto davvero un rapporto con Manuela e l’unica anon aver mai chiesto niente) sia interprete di un’ideadi miracoloso che ha poco a che vedere con interventidivini e molto con focolai di una ritrovata umanità, eche l’altro miracolo, quello finto, sia già stato sma-scherato da Manuela nel momento stesso della suaammissione alla madre (che rimane, peraltro, del tuttoindifferente alla cosa). È una strada assolutamentepercorribile: se ci si dimentica di quel primo sguardo,il film è una metafora riuscita dell’abbrutimentomorale di cui oggi tanto si discute, e il “tema del mira-colo”è confinato a poco più che un pretesto narrativo.Tuttavia, se Roberta Torre piazza quella soggettivaproprio a inizio film, ci aggiunge un respiro che sem-bra affannoso, come dopo una corsa o un risveglioconcitato, e la rievoca per certi versi in seguito, neisogni della ragazza, forse fa riferimento a uno sguardoche c’è, che esiste, seppur, certo, in via totalmente ipo-tetica; ma la cui storia, per la finzione filmica che l’hacreato, inizia una volta precipitato a terra, carico dibuone intenzioni. Peccato che, una volta giunto al tra-guardo, si trovi dietro il velo quella razza di umanità.

Sarebbe un film altrettanto laico e razionale. Ma,in tal caso, si potrebbe considerare I baci mai datiuna riflessione su uno sguardo divino caduto tra noiche, per trovare un obiettivo degno d’attenzione,deve dribblare la maggioranza dei suoi simili. Ecco.Se la regista, con quella prima sequenza, anche allalontana, vuole dire qualcosa del genere, forse allora èancora peggio.

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Quella di sostituire nel titolo riportato sui manifestila “a” di “Scream” con il “4”, mimetizzando di fatto lacifra tra le lettere della parola, anziché farlo semplice-mente e prosaicamente seguire, non è soltanto unasoluzione grafica visivamente efficace. Nella scelta diintitolarlo inequivocabilmente Scre4m, e non Scream4, è riassunta l’idea stessa che sorregge il terzo sequeldi Scream, che però arriva in ritardo. Dopo undici annida Scream 3. Scream 4, o più correttamente Scre4m,insomma, non cerca di accodarsi ai due predecessori.Non rispetta la cadenza, se non regolare e comunquefisiologicamente ravvicinata che separa il primo, del1996, dal secondo, del 1997, quindi dal terzo, del2000. Le ragioni di questa lunga pausa di riflessionepossono e devono essere state anche altre. Di sicuroCraven e Williamson ci avranno pensato molto primadi rimettere mano nuovamente a una saga che avevaraggiunto la quasi sempre definitiva, o almeno preferi-bile perché più contenuta, struttura triadica.Violare latrilogia, raggiungere – per ora – il traguardo faticoso,nonché rischioso sul piano dell’originalità, della qua-drilogia, non deve essere stata una il frutto di unadecisione immediata.

C’entrano di sicuro fattori di altra natura, qualil’inopportunità di realizzare un ulteriore horror di

Titolo originale: Scre4m. Regia: Wes Craven. Sceneggiatura:Kevin Williamson. Fotografia: Peter Deming. Montaggio:Peter McNulty. Musica: Marco Beltrami. Scenografia: AdamStockhausen. Costumi: Debra McGuire. Interpreti: NeveCampbell (Sidney Prescott), Courteney Cox (Gale Weathers-Riley), David Arquette (Linus Riley), Emma Roberts (JillRoberts), Hayden Panettiere (Kirby Reed), Mary McDonnell(zia Kate), Rory Culkin (Charlie Walker), Nico Tortorella(Trevor Sheldon), Marley Shelton (Judy Hicks), Alison Brie(Rebecca),Anthony Anderson (il vicesceriffo Perkins),AdamBrody (il detective Hoss), Erik Knudsen (Robbie), LucyHale (Sherrie), Shenae Grimes (Trudie), Kristen Bell (Chloe),Anna Paquin (Rachel), Aimee Teegarden (Jenny), BrittanyRobertson (Marnie), Marielle Jaffe (Olivia Morris), GordonMichaels (il nvicesceriffo Jenkins). Produzione: Wes Craven,Iya Labunka per Dimension Films/MidnightEntertainment/Outebanks Entertainment/Corvus CoraxProductions. Distribuzione: Moviemax. Durata: 103’.Origine: Usa, 2011.

Dieci anni dopo la catena di delitti che ha sconvoltoWoodsboro e ha addirittura scatenato una serie di film ispi-rati agli assassinii mascherati di Ghostface, Sidney Prescottvi fa ritorno per inaugurare la campagna di vendita del suoultimo libro. Che già si annuncia come un best-seller. Ma

ancora prima del suo arrivo due ragazze vengonouccise con modalità identiche a quelle degli innu-merevoli delitti del passato. È solo l’inizio di unanuova catena di cruente uccisioni che si consuma-no secondo lo schema di quelli di un tempo.Sidney, lo sceriffo Linus, sua moglie, la giornali-sta Gale, la cui notorietà risulta da tempo appan-nata, cercano di far luce sui nuovi terrificantieventi, in cui praticamente nessuno sembra averscampo. Qualcuno sta,tornando a indossare lamaschera di Ghostface, approfittando del nuovoclima di revival orrorifico assecondato dalle diret-te trasmesse in streaming da un paio di ragazzidel liceo locale fanatici dei film dell’orrore muni-ti di webcam, ripercorrendo le tappe salienti del-l’antica mattanza. Chi? E perché?

SCREAM 4 Wes Craven

The social horror networkAnton Giulio Mancino

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impianto meta-cinematografico in un’epoca in cui ilgenere ha smesso di riflettere su se stesso. E il pubbli-co di teen-ager di coltivare una memoria storica, nar-ratologica e stilistica. Si sa che la maggior parte deglihorror usa e getta contemporanei, costruiti come lun-gometraggi pilota di applicazioni di videogiochi, moltopiù adatti a sollecitare i riflessi del giocatore o dellacoppia di giocatori concentrati sul display della play-station, hanno generato una mutazione irreversibile. Ilbuon senso, anche economico, sconsiglierebbe dunquedi intervenire proprio ora.

A cosa serve o a quale strategia obbedisce un nuovoScream, l’ennesimo, mentre il mercato, raggiunti ilimiti di guardia numerici, suggerisce di smettere diinvestire sui capitoli successivi, i sequel, procedendoinvece a ritroso, dall’immancabile prequel alla nuovaserie a colpi di remake? Oltretutto uno Scream, addi-rittura il quarto, diretto da un autore come Craven,appartenente a una generazione abituata a concettua-lizzare esplicitamente le proprie incursioni nel fanta-stico e in particolare nell’horror, non senza difficoltàriuscirà a intercettare i gusti e le dinamiche paratele-visive del racconto coltivati dalle nuove leve spettato-riali. Il primo Scream era già un film deliberatamentepostmoderno, che trasformava in risorsa creativa e inironico, aggiornato dispositivo pauroso l’esibizionestessa della crisi conclamata delle pratiche di un tipodi suspence legata a quelle che, dalla fine degli anni

Sessanta ai primi anni Ottanta, era già diventata unatradizione. Insistere nel fare del metacinema su unprototipo già metacinematografico sarebbe stato, ed è,un’impresa sterile, discutibile, difficilmente spendibileanche sul mercato. Scream 2 e Scream 3 avevano por-tato abbastanza alle estreme conseguenze la logicacitazionistica del prototipo e chiuso la partita deglianni Novanta. Il senso dell’operazione attuale eviden-temente è un altro.

Non serve granché dire che Craven e Williamsonabbiano voluto far capire cosa è cambiato analizzan-do – nello stesso luogo, con gli stessi personaggi, lestesse circostanze – il rapporto che il pubblico, in pre-valenza giovanile, continua a intrattenere con i codicidel cinema dell’orrore. In Scre4m non si tratta di fareesattamente le cose di una volta in un diverso contestoculturale e generazionale per ottenere una specie difeedback dell’immaginario collettivo vigente. Non sitratta soltanto di questo. Perciò torna utile ripartiredalla trovata grafica del titolo. E accorgersi di come latrascrizione Scre4m produca un effetto rappresentati-vo specifico: l’apparente eliminazione del numero diserie e la riappropriazione, sempre apparente maintenzionale, dell’originale. Detto altrimenti, Scre4mpunta a recuperare l’originalità assoluta dell’unicofilm non numerato, dunque un principio. Punta a riba-dire un principio, pur nella consapevolezza dell’impos-sibilità di essere completamente un’altra cosa rispetto

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al “vecchio” Scream. O dell’impossibilità di liberarsidel tutto del contrassegno numerico. Che infatti persi-ste, incastonato in quella parola-titolo risalente a unperiodo circoscritto, durato appena un anno se nonaddirittura meno, in cui Scream è stato un unico film,un oggetto autonomo, non ancora serializzato.

La strategia di Scre4m consiste nel dichiararsi, sindal titolo mimetico, un oggetto che aspira alla propriainconfondibile individualità. Ed essere di conseguenzao daccapo “originale”. Questa “originalità”, tuttavia, èambivalente. Va intesa per ovvie ragioni nella doppiaaccezione di qualcosa di “nuovo”, cioè unico nel suogenere, indipendente, che genera “origine”, ma ancherisalente inevitabilmente, per la radice stessa, a unaprecisa “origine”. La condizione di esistenza di questoScream, ribattezzato Scre4m, differente in quantoripetitivo, è la stessa del mezzo attraverso cui si espri-mono principalmente e preferibilmente i giovani nuovicultori dell’horror cinematografico consolidato: ten-denzialmente fanatici, mnemonici, non più imprepara-ti come un tempo e convinti di non poter più esserepresi in contropiede da domande tendenziose, arischio di errore e della vita. La generazione che vive evegeta sulla rete, che adopera i social network, trasfor-ma le pratiche collettive della fruizione dei film del-l’orrore in un’esperienza da condividere sulle paginepersonali del social network scelto, è condannata alla

riproducibilità di un modello, ma punterebbe a primavista nel contempo a rigenerarlo, a cambiare, a resti-tuirgli verginità. A riappropriarsi con tutti i mezzi,anche a caro prezzo di un “io” schiacciato da un uni-verso adulto ancora onnipresente.

Gli assassini stavolta, due come nel primo film,non esigono però che venga accettato come unicaregola fondante l’inquietante nonsense, in modo datrasformare il proprio progetto omicida su largascala in una minaccia autentica, nuova, priva di spie-gazioni rassicuranti. Non cercano di rigenerarsiattraverso il cinema, di trarre energia per un raffor-zamento di un’identità altrimenti resa anonima dagliadulti. Né cercano di esistere attraverso i classici omeno classici del genere amato con cui hanno fisio-logicamente, psichicamente, antropologicamente sta-bilito quella che Malanie Klein chiamava «relazioned’oggetto» e che Christian Metz ha giustamenteapplicato allo spettatore cinematografico. La nuovacoppia omicida, che vive e consuma i propri delittisociali nel nuovo millennio, decisa a rifare l’originalecambiandolo, ha già superato la crisi di identità cheaffliggeva ancora la generazione degli anni Novanta,orfana degli esemplari inimitabili della stagione delNew Horror e simboleggiata dalla Sidney Prescott diturno, ora in procinto di capitalizzare i propri truci-di ricordi in un best-seller potenziale.

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La nuova coppia, e in particolare l’elemento fem-minile dominante della coppia peraltro precaria econdannata in partenza a non durare, non punta asocializzare davvero, ma a servirsi dei nuovi mediaper sostituirsi ai giovani di un tempo divenuti gliadulti di oggi. Punta a una sostituzione diretta, auna sovrapposizione drastica e perciò violenta, vei-colata dall’omicidio che funge da strumento dicomunicazione, scambio o più propriamente ricam-bio forzato. Non cerca uno spazio alternativo, dav-vero nuovo, ma di sfruttare il nuovo mezzo per rag-giungere uno spazio vecchio di presenza, visibilità,potere contrattuale. Per questo Craven eWilliamson, che sanno di non potersi liberare del-l’eredità ingombrante di Scream e di restar ugual-mente dentro la logica di un sequel, scelgono di rin-verdire i fasti dell’originale. Di non cambiare cam-biando. Di rendere deliberatamente originale di persé il ritorno alle origini che costituisce un’opzione digran lunga migliore di una restaurazione del vec-chio sistema dello spettacolo fondato sul meccani-smo sterile della domanda giovanile e dell’offertadell’industria cinematografica. Preferiscono(re)stare dalla parte della sempre problematicaSidney, del sempre imberbe Linus, della semprearrivista Gale, cioè del film non numerato, piuttostoche abbracciare un progetto di restaurazione esteti-camente assai poco elaborato come possono esserlole immagini realizzate da una modesta webcam sin-gola o da una serie di webcam che filmano tutto, maperdono di vista l’essenziale, quindi non garantisco-no la sopravvivenza (non mettono al riparo la vitti-ma che continua a riprendere sempre e comunquedalla minaccia omicida che si presenta davanti aisuoi occhi).

In questo caso l’effetto “screaming”, dunque il filmstesso, vince sullo “streaming”e sulla serialità concla-mata dai vari, davvero troppi Stab che hanno giàraggiunto quota sette, a differenza della serie paral-lela di Scream. Gli autori di Scre4m, in particolare ilveterano Craven, marcano la distanza dal sottopro-dotto-copia dal diverso e più banale titolo Stab cheha preso le mosse, a partire da Scream 2, dallo spes-sore sociologico dei delitti del film originale. Losvuotano ulteriormente di senso nella lunga sequen-za iniziale che provvede, dichiaratamente, a esercita-re il proprio “decostruzionismo” attraverso un giocodi scatole cinesi o una mise en abîme multipla, sullapelle sintetico-digitale dei personaggi, vittime desi-gnate di quella saga che dal piccolo schermo conta-gia irrimediabilmente i personaggi equivalenti e coe-tanei della saga concepita per il grande schermo. Cuiperò non viene concessa, a nessuno, la benché mini-ma chance di sopravvivenza.

I sedicenti, invidiosi, complessati presunti nuoviserial-killer non sono, purtroppo per loro – è il caso didire –, nemmeno degli intraprendenti disadattati inconflitto con i genitori e le istituzioni autoritarie, cui

andrebbe tutta la simpatia di Craven e del suo allievoWilliamson, ma dei troppo adatti, neo-incarnazioni diun’autorità mediatica pervasiva, e aspiranti protagoni-sti di un marketing crudele e compulsivo i quali nonriescono a immaginare, sotto ogni punto di vista, unprogetto di vita e di sistema relazionale nuovo, diver-so, alternativo. Meglio, dunque, tenersi stretti i vecchiprotagonisti, salvaguardare la vecchia trama, restitui-re autenticità e unicità a Scream e alla sua vocazionecinefila, demenziale, però “decostruzionista”, in fondoperò più costruttiva di ogni nuova tendenza verso lacinefilia omologata, autoreferenziale, egoista, autisti-ca. Anche a costo di rendere, come fa Scre4m, che èpoi la cifra della sua autentica novità, il delitto non piùuna pratica terrorizzante ma una routine divertente,tragicomica, un puro, metaforico strumento di scam-bio. Esclusivamente metaforico.

La paura, che Craven dapprincipio ha voluto asso-ciare all’arte mediante il richiamo al celebre, omonimoquadro di Edward Munk, di cui si voleva che il cine-ma fosse un doppio mascherato paritario, non abitapiù qui. Dallo sviscerare un genere, il suo di riferimen-to, il vecchio autore di un tempo che fu è passatoall’autopsia di una saga, anch’essa sua, e però ha volu-to dimostrare, anche alla sua quarta tappa, comeall’occorrenza essa goda di buona salute e invidiabilestato di conservazione.

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L’ALTRA VERITÀKen LoachTitolo originale: Route Irish. Regia:Ken Loach. Sceneggiatura: PaulLaverty. Fotografia: Chris Menges.Montaggio: Jonathan Morris. Musi-ca: Georgge Fenton. Scenografia:Fergus Clegg. Costumi: Sarah Ryan.Interpreti: Mark Womack (Fergus),Andrea Lowe (Rachel), JohnBishop (Frankie), Geoff Bell (AlexWalker), Jack Fortune (Haynes),Talib Rasool (Harim), Craig Lun-dberg (Craig),Trevor Williams (Nel-son), Russell Anderson (Tommy),Jamie Michie (Jamie), BradleyThompson (Fergus da piccolo),Daniel Foy (Frankie da piccolo),Maggie Southers (la madre di Fran-kie), Najwa Nimri (Marisol). Produ-zione: Rebecca O’Brien per SixteenFilms/Why Not Productions/WildBunch/Les Films de Fleuve/UraniaPictures/Tornasol Films/Alta Pro-ducción/France 2 Cinéma. Distribu-zione: Bim. Durata: 109’. Origine:Gran Bretagna/Francia/Italia/Bel-gio/Spagna, 2010.

Ken Loach affronta l’affaire Iraq,ma sbaglia l’obiettivo. Mescolandoforzosamente denuncia e thriller,perde infatti di compattezza e dipersonalità, lasciando andare le bri-glie a un film che si fa difficile daafferrare, preso com’è da un’ondiva-ga continua incertezza.

Loach e Laverty provano a misurarsicon una pagina drammatica della sto-ria recente, una pagina entrata per lopiù attraverso il cinema americano afar parte dell’immaginario cinemato-grafico, una pagina “straniera”divenu-ta globalmente condivisa; interessanteappare allora in questo senso unadelle poche scelte decise del film,ovvero quella di restare in Inghilterra(come d’altronde più consono ai modidel suo cinema) per trattare di un con-flitto lontano e alienante che vienefatto entrare in scena solo a tratti, neibrevi momenti di ricostruzione.Fergus, ex mercenario rimpatriato for-zosamente, perde Frankie, il compa-gno di sempre da lui stesso spinto adiventare contractor in Medio oriente,sulla Route Irish, la strada più perico-losa del mondo; costretto a casa da unprocedimento legale presente, Fergusè ossessionato dal ricostruire la veritàsulla morte dell’amico. Proprio stabi-lendo il teatro della vicenda in unaLiverpool grigia e sgranata in cuiapparentemente solo le acque colordel piombo del fiume Mersey sembra-no muoversi e pulsare, Loach riesce asottolineare la devastante domesticitàche può assumere un certo tipo diesperienza quando non ce la si puòpiù scollare di dosso.La scelta anche estetica dell’ambien-tazione resta però l’unico vero puntodi forza di un film che regge poco pertroppi altri versi e che fatica a inserir-si con una qualche pregnanza nellafilmografia del regista. Sopravvivequalche momento di forza compiuta,come la prima esplosione d’ira di Fer-

gus subito dopo le esequiedell’amico. La famiglia diFrankie, di cui lui è parte inte-grante, come sottolinea lamadre (uno dei pochissimivolti loachani del film), è riu-nita ancora attonita di fronteai datori di lavoro dell’uomo,che cercano di propinar lorouna supposta verità ufficiale.Fergus, reso fragile tanto alivello psicologico che emotivodagli incubi di guerra, daisensi di colpa, dai traumi edall’amore per Rachel, lavedova dell’amico deceduto,reagisce violentemente infran-

gendo il codice comportamentale pre-visto per quel momento con la stessadisperata violenza con cui infrangeràogni codice nel prosieguo del film.Fergus, scheggia impazzita e dolentecui Mark Womack non riesce a impri-mere la necessaria complessità, simette allora a cercare la sua altra veri-tà. Si apre così una storia di cospira-zioni, insabbiamenti, violenza, amora-lità varia che dovrebbe trovare il pro-prio bandolo nella scoperta della“vera”verità. Ma qual è la verità vera,quella assoluta? C’è spazio per la veri-tà nella realtà surreale dell’abbruti-mento imposto dalla guerra? E qual èallora l’altra verità? Quella delle fontiufficiali, quella fabbricata dalla mentescossa di un combattente provato,quella restituita dalle registrazioni edai filmati? E così la verità, alla fine,non appartiene più a nessuno. Neppu-re a Fergus che, disumanizzato dalleesperienze vissute, non riesce né avendicare la morte dell’amico nétanto meno a far tornare i suoi misericonti esistenziali: nonostante il dispe-rato accanimento con cui cerca di farcorrispondere il reale alla forma dellasua immaginazione, Fergus, sconfitto,esausto, non trova altra soluzione chetuffarsi con il suo dolore nel plumbeofluttuare del fiume, il cuore pulsantedella città.

Chiara Borroni

HAI PAURA DEL BUIOMassimo CoppolaRegia e sceneggiatura: Massimo Cop-pola. Fotografia: Daria D’Antonio.Montaggio: Cristiano Travaglioli. Sce-nografia: Paolo Bonfini. Costumi:Roberta Nicodemo. Interpreti: Ale-xandra Pirici (Eva), Erica Fontana(Anna), Antonella Attili (la madre diAnna), Manrico Gammarota (il padredi Anna), Alfio Sorbello (Bruno), LiaBugnar (Katia), Andra Bolea (l’amicadi Katia), Marcello Mazzarella(Mirko), Angela Goddwin (la nonnadi Anna), Gianluca Di Gennaro. Pro-duzione: Francesca Cima, Gennaro

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Formisano, Nicola Giuliano per Indi-go Film. Distribuzione: Bim. Durata:95’. Origine: Italia, 2010.

Adoro i Joy Division. Premetto questoper spiegare la mia fascinazione da unlato, ma timore dall’altro nei confrontidi un film il cui trailer preannuncia lapresenza della band di Curtis nellacolonna sonora o meglio, come capia-mo vedendo il film, come musica diege-tica. Insieme a P.J. Harvey, a Lio, aTiziano Ferro inseriti sempre nel corpodella narrazione. Per sei volte, stralci dibrani dei Joy Division costellano ilfilm; interrotti spesso all’inizio delritornello, in concomitanza con unostacco brusco di montaggio, in manierasapiente anche se un poco compiaciutae forse anche banale, ormai. Ma d’effet-to. Ha dichiarato del resto MassimoCoppola, regista eclettico (laureato inFilosofia della scienza e poi editore, col-laboratore di riviste musicali, docu-mentarista e conduttore di programmitelevisivi) al suo esordio nel lungome-traggio, che i Joy Division sono «l’em-blema della cultura post-punk e post-industriale di cui il mio film è intriso» eche la loro attitudine compositiva èmolto vicina alla sua concezione delmontaggio, sostanziato di tagli crudi,sospesi e bruschi perché, come hadichiarato altrove, «essendo un limiteall’espressione visiva si può trasforma-re in risorsa solo se lo si sottolinea».Un andamento sincopato dunque,questo del film di Coppola; e un’este-tica (oltre che una cultura) post-indu-striale che ne definisce le immagini,campi lunghissimi perlopiù dall’altodelle fabbriche in cui lavorano l’una el’altra protagonista, delle città in cuivivono, dei campi che si trovano apercorrere. E dei mezzi (treno, auto-bus) che le portano lontano, a giocarele proprie vite. Interrotte, queste ripre-se aperte ma non propriamente ario-se, da primissimi piani dei volti e dadettagli degli oggetti e dei corpi delleprotagoniste, a creare delle inquadra-ture strette, incollate ai personaggiche danno il senso di claustrofobiache caratterizza il film, e la realtà chemostra. Ottenuto anche grazie a unamacchina da presa che ruota, gira, simuove intorno ai personaggi e su diloro, appunto.

Molti hanno richiamato la Nou-velle Vague per dire dello stile diquest’autore, ma a me Coppolaricorda di più, fermo restandol’accostamento a Mungiu chelui peraltro rifiuta, il Dogma diLars Von Trier, anche perché amio parere l’elemento caratte-rizzante di questo film è lo stra-niamento, dato dallo stile nelsenso che si diceva, ma ancheda un altro uso della musica,nella scena della toilette dellanonna di Anna sul brano di Lioo in quella della sua morte,accompagnata da una canzonedi Ferro tratta da un album chesi intitola «Nessuno è solo».E sul piano tematico, appunto, lasolitudine. Due ragazze, due operaieche per motivi diversi perdono ilposto, due destini che si incrocianoper un momento che è quello in cuiuno si compie e l’altro comincia adabbozzarsi, e che alla fine possonodirsi «Anche tu hai paura del buio»,«Sì» guardandosi davvero per laprima volta, prima che Anna torni incittà. Due destini accomunati da unabito argentato, ma mi viene da dired’argento per sottolineare il caratterefiabesco di quest’elemento del film,che è quello che Eva indossa primadi partire per l’Italia, ascoltando P.J.Harvey e mettendosi il rossetto, ed èquello che Anna vede e compra aNapoli, per andare per la prima voltain vita sua a ballare. Anna che è sem-pre triste, che non ha la voglia diriscatto che caratterizza Eva ma chene ha forse l’intraprendenza, ora chela sua vita è cambiata.È questo che interessa a Coppola, piùche l’immigrazione o il precariato:parlare di sentimenti universali, gliincontri, l’amicizia, la famiglia, ilsenso dell’esistenza o meglio la ricer-ca di questo senso, anche nel prende-re decisioni importanti come quellache prende Eva, che va a Melfi perincontrare la madre e per dirle che hasbagliato a lasciarla per nove annisola nel suo paese perché con i soldiche le mandava e che ora vuole resti-tuirle ha potuto comperarsi solo ildolore, ma soprattutto «per convincer-mi che non esisti più». E questa scenafondamentale del confronto tra madre

e figlia produce una rottura nel tessu-to precedente dell’opera ponendosicome scena lenta, parlata, spiegata inun film in cui a dominare sono comesi diceva gli stacchi bruschi e i silenzi,il non detto, il lavoro per sottrazionepiù che quello per accumulo. Lapaura del buio, insomma (che è il tito-lo tra l’altro di un cd degli Afterhours,come domanda però).

Paola Brunetta

MALAVOGLIAPasquale ScimecaRegia e sceneggiatura: Pasquale Sci-meca. Soggetto: dal romanzo «I Mala-voglia» di Giovanni Verga. Fotografia:Duccio Cimatti. Montaggio: FrancescaBracci. Musica: Alfio Antico. Sceno-grafia: Paolo Previti. Costumi: GraziaColombini. Interpreti: Antonio Curcia(’Ntoni), Giuseppe Firullo (padron’Ntoni), Omar Noto (Alessi), ElenaGhezzi (Mena), Doriana La Fauci(Maruzza detta “La Longa”), GretaTomasello (Lia),Vincenzo Albanese (ilcommerciante), Naceur Ben Hammou-da (Alfio), Carmelo Vaccaro (Bastia-nazzo), Roberta Zitelli (Uzzy), Salvato-re Ragusa (Michele), Giovanni Calca-gno (il cantastorie), Vincenzo Consolo(se stesso). Produzione: Pasquale Sci-meca per Arbash Società Cooperativa.Distribuzione: Cinecittà Luce. Durata:94’. Origine: Italia, 2010.

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C’è un brano che si legge sempre ascuola, quando si spiegano «I Mala-voglia»: quello che mette a confron-to nonno e nipote, entrambi ’Ntoni.Vi si vede il contrasto tra la menta-lità di padron ’Ntoni, il capofamigliain senso patriarcale, che parla perproverbi che esprimono un ordinesociale tradizionale (da «Chi cambiala vecchia per la nuova, peggiotrova» a «Né testa, né coda, ch’èmeglio ventura»), e quella di ’Ntonigiovane, che ha fatto il servizio mili-tare a Napoli, quindi in città, e che,una volta tornato ad Aci Trezza, nonriesce più ad adattarsi alla vita dipaese, che significa anche la vita diuna famiglia povera di pescatori, esogna un altrove che è rappresenta-to in quel momento dai forestieriche sono arrivati a Trezza e che«andavano di qua e di là, e si sdraia-vano sulle panche dell’osteria, efacevano suonare i soldi nelletasche».E lui infatti si allontanerà dal paesedopo le vicende tristi che lo hannoriguardato e che hanno infangato ilnome della famiglia e impedito allasorella di sposarsi, andrà verso quel-l’altrove tanto agognato; ma si pen-tirà della sua scelta, e nella conclu-sione del romanzo, in una paginatoccante che è un altro dei brani cheabitualmente si leggono a scuola,tornerà a trovare i due fratelli chehanno nel frattempo recuperato laCasa del Nespolo, ma non riuscirà afermarsi, a restare con loro.Troppo tempo è passato, troppe vicen-de drammatiche hanno travolto lafamiglia a partire dal naufragio concui si apre il romanzo, e non si puòpiù tornare indietro, specie quando siè la causa del proprio male. Così’Ntoni aspetta l’alba, e poi, prima chequalcuno possa vederlo, se ne va nuo-vamente da Trezza, dopo aver osserva-to che, come sempre, «il primo di tuttia cominciar la sua giornata è statoRocco Spatu».Come a dire, ed è il senso dell’intero“ciclo dei vinti”: chi cerca di cambiarela propria condizione, di arricchirsi odi migliorare, è destinato allo scacco,al fallimento esistenziale. L’unicasoluzione è accettare il proprio desti-no: come dice a più riprese il nonno,

«Fa’ il mestiere che sai, che senon arricchisci camperai»; èstato infatti provando a fareuna cosa diversa, cioè provan-do a commerciare dei lupini,contravvenendo così alla prati-ca reiterata del proprio mestie-re di pescatori, che i Toscano-Malavoglia sono incorsi nellesventure che sappiamo.Il film di Scimeca, tratto dal-l’opera di Verga o megliodalla pièce che lui stessoaveva tratto dal romanzo,ribalta completamente questoassunto: è ’Ntoni che, dopoessere stato in città (Milano)e aver provato il disagio esistenzialeche è proprio anche del ’Ntoni lette-rario, incide un brano rap con ilquale vince un festival della canzo-ne, e con i soldi che ne ricava recu-pera la barca e la Casa del Nespolo,e lo fa utilizzando i proverbi che ilnonno aveva sempre recitato.E non solo: nella sequenza finalevediamo Mena che, riconquistato ilcompagno, sta allattando un bambi-no: quindi il disonore che aveva colpi-to i Malavoglia verghiani qui non c’è,c’è invece la possibilità di essere felici.Una felicità possibile. Ottenuta nelconnubio di modernità e tradizione,nel servirsi, da parte del nipote, degliinsegnamenti del nonno, sia purdecontestualizzandoli e magari svilen-doli, e ottenuta per rientrare poi nellatradizione prima vituperata, dalmomento che ’Ntoni, una volta risoltii problemi economici della famiglia,torna a fare il pescatore come il nonnoe come tutti gli uomini della famigliaprima di lui.Credo sia questo il significato profon-do dell’adattamento di Scimeca, piùdella modernizzazione di cui si è tantoparlato; anche perché la trasposizionedella vicenda nella realtà italiana dioggi, con i problemi della realtà dioggi, è la cosa meno riuscita del film,in virtù del fatto che tali problemi(l’immigrazione con gli sbarchi deiclandestini, il confronto tra le culture,il potere del denaro, la droga e ladisoccupazione giovanile) sono soloaccennati, e non sono che la rappre-sentazione in chiave moderna ditematiche universali.

Interessanti sono poi alcuni elementinarrativi e cinematografici: la teatrali-tà dell’impianto, data anche dal rullodi tamburo che annuncia e cheaccompagna la narrazione; la presen-za fin dai titoli di testa di un marecupo e tempestoso, che dà il sostenta-mento ma che può anche togliere lavita, e la speranza; il realismo dei voltidegli attori, molti non professionisti,come già in Visconti, o alla primaesperienza su un set, e lo stile docu-mentaristico della prima parte; leriprese dall’alto o dal basso dei perso-naggi e i primi piani dei loro volti,come nel carrello laterale che li cogliesulla riva, dopo il primo naufragiodella Provvidenza; il silenzio di moltipassaggi e l’ellissi come figura corri-spondente; e la conclusione surrealecon la mamma e il nonno di ’Ntoniche guardano il mare, come a trarsi indisparte e a lasciare spazio ai giovani,al domani.

Paola Brunetta

NOTIZIE DAGLI SCAVIEmidio GrecoRegia e sceneggiatura: Emidio Greco.Soggetto: dal racconto omonimo diFranco Lucentini. Fotografia: France-sco Di Giacomo. Montaggio: BrunoSarandrea. Musica: Luis Bacalov.Scenografia: Marcello Di Carlo.Costumi: Loredana Buscemi. Inter-

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preti: Giuseppe Battiston (il Professo-re), Ambra Angiolini (la Marchesa),Iaia Forte (la Signora), Giorgia Salari(Lea), Anna Paola Vellaccio (Gina),Francesca Fava (Wanda). Produzione:Gianlcua Arcopinto, Marco Ledda,Emanuele Nespeca per La Fabbri-chetta/Rai Cinema. Distribuzione:Movimento Film. Durata: 89’. Origi-ne: Italia, 2010.

Emidio Greco è un regista d’altritempi, e questo non vuol dire un regi-sta vecchio che fa film vecchi, ma unodi quelli, per esempio, che crede anco-ra che un progetto possa nascere lon-tano, vada accudito, spolverato nelcassetto, osservato attentamente, svi-scerato da più parti, e che possa, infi-ne, vedere la luce. Oggi , più che mai,è difficilissimo portare avanti unasimile filosofia: il cinema così dettoindipendente, piccolo e intimista spes-so anche solo per una questione fisio-logica, può solo cogliere fugaci occa-sioni, dimostrarsi pronto a cavalcarel’onda che in quel giusto istante stamontando, prima che rimanga nuova-mente solo la striscia della risacca eche l’occasione, quella vera, ritorni unmiraggio lontano.Emidio Greco confida nell’età dellasua carriera iniziata nel 1974 conL’invenzione di Morel (tratto da unromanzo fantascientifico di AdolfoBioy Caseres, con John Steiner e AnnaKarina), e ha il coraggio di osare:scommette su una sceneggiatura pen-sata per la prima volta quarantasetteanni fa, quando, all’uscita del CentroSperimentale, lesse il racconto di

Franco Lucentini e decise che quelcapolavoro doveva, prima o poi,diventare un film.Il risultato è questo Notizie dagliscavi, presentato fuori concorso all’ul-tima Mostra del Cinema di Venezia,frutto di una produzione piccola eanch’essa coraggiosa (La Fabbrichet-ta), e complice di una distribuzioneatipica quanto perfettamente, questa,in linea con i tempi (il film è statodistribuito in sole trenta copie dallaMovimento Film, lanciato con un’an-teprima in streaming su prenotazioneospitata da mymovies.it).Greco sostituisce la soggettiva del rac-conto letterario con un’oggettiva affet-tiva, insistente, che segue il Professore(Giuseppe Battiston), goffo e nellostesso tempo perfettamente a suoagio, in uno spazio teatralizzato,memore di vite precedenti, passatidolori e usure, straniati però, anch’es-si, dallo scarto, visibile e flagrante, deltempo trascorso nel mezzo. Il tempotrascorso tra l’idea e il film, tra Leo-poldo Trieste e Anna Karina (pensatioriginariamente per le parti del pro-fessore e della Marchesa) e GiuseppeBattiston e Ambra Angiolini, tra unaRoma sottoproletaria per necessità euna Roma povera d’animo e precariaper tutto quello che nel frattempo l’hasnaturata.Il bravissimo Giuseppe Battiston, chesi conquista finalmente il ruolo di pro-tagonista, vince, in parte, la battagliache si presentava assai ardua: far sìche quella riflessione sul linguaggio,sulla comunicabilità che emergeva daidialoghi nel racconto di Lucentini (e

conservati nel film quasi inte-gralmente) non diventasserosemplice suono impastato ecorrotto nella trasposizionecinematografica. L’attore Bat-tiston è dedito, viscerale:diventa glabro e più grasso,coltiva una gamma di espres-sioni sorprendentemente spon-tanea, pone in primo pianol’attenzione, come il suo perso-naggio. Il professore Battistonperde il filo e il suo sguardodiventa soggettiva su partico-lari insignificanti: numeri,colori, intervalli tra gli oggetti.Fa di questa Attenzione alle

cose inutili la sua fuga da una realtàpopolata di donne autoritarie a pran-zo e gentili a cena, trasforma le suecommissioni quotidiane in una mis-sione eroica. La sua concentrazionechiusa si sfoga finalmente solo quan-do scopre il tempo libero e liberato, lospazio aperto, le traiettorie antiche maancora praticabili, e passeggia tra lerovine di Villa Adriana a Tivoli, men-tre Bacalov rivitalizza lo sguardo sta-tico e documentaristico della macchi-na da presa. Quando si trova di fron-te la Marchesa (un’Ambra Angiolini,suo malgrado, impostata e innatura-le), creatura fragile, bestiola feritabisognosa di attenzioni e presenza, sipreoccupa di comprarle l’ultimoGiallo Mondadori e le caramelle apeso, e non del fatto che, per la primavolta, lei lo sta vedendo davvero.E lo vede, vuole andare dove luivuole, perché ne ha bisogno. Non c’èniente di disinteressato a questomondo, vuole dirci Greco attraversoLucentini: esiste solo un equilibrioflebile tra egoismo e amore, traamore di sé e quello per l’altro. Èbello il fatto che oggi qualcuno abbiaancora voglia di fare un film cheparla di questo, seppur un film inevi-tabilmente imperfetto.

Elisa Baldini

IL PRIMO INCARICOGiorgia CecereRegia: Giorgia Cecere. Sceneggiatura:Giorgia Cecere, Pierpaolo Pirone,YangLi Xiang. Fotografia: Gianni Troilo.Montaggio: Annalisa Forgione. Musi-ca: Donatello Pisanello. Scenografia:Sabrina Balestra. Costumi: SabrinaBeretta, Akiko Kusayanagi. Interpreti:Isabella Ragonese (Nena), FrancescoChiarello (Giovanni), Alberto Boll(Francesco), Miriana Protopapa (lasorella di Nena), Rita Schirinzi (lamadre di Nena), Bianca Maria SteaLindholm (Donna Carla),Vigea BechisBoll (Cristiana), Antonio Fumarola(Domenico), Antonia Cecere (la ziaVincenza), Gaia Masiello, Allegra

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Masiello, Francesco Spalluti, LucaAntonio Cecere, Enrico Maselli, Ales-sio Maggi, Paolo Genchi (i bambinidella classe). Produzione: DonatellaBotti per Bianca Film/Rai Cinema.Distribuzione: Teodora Film. Durata:90’. Origine: Italia, 2010.

Giorgia Cecere viene dalla sceneggia-tura e da un’esperienza sul campofatta di collaborazioni eccellenti(Gianni Amelio, l’Ipotesi Cinema diErmanno Olmi, Edoardo Winspeare).Il primo incarico rappresenta il perso-nale passaggio dalla costruzione scrit-ta del racconto alla sua traduzione perimmagini. Con uno sguardo accuratoe pudico, attento allo scorrere inossi-dabile del tempo e alla plasticità deglielementi disposti nello spazio natura-le e tra figure incerte, alla ricerca diuna collocazione, decide di immerger-si nelle profondità del Tacco dello Sti-vale per narrare – sottraendo e fram-mentando – una vicenda di afferma-zione femminile in un universo smac-catamente maschile e maschilista.Puglia, anni Cinquanta, la giovaneNena ottiene il suo primo incarico dimaestra a centocinquanta chilometridi distanza, nel Salento meridionale,zona rurale per raggiungere la qualedovrà allontanarsi dal suo amore,l’aristocratico Francesco, e da unafamiglia formata da una sorella piùpiccola e da una madre con cui ha unrapporto controverso. Un raccontoaccidentato di emancipazione femmi-nile condotto attraverso l’intensità diun’osservazione materica e la scarnifi-cazione drammatica operata sul tes-

suto di corpi sofferenti, dub-biosi, preda di un’insicurezzafiglia della cultura arcaica incui ci si trova catapultati eanche di false certezze spaccia-te per promesse eterne.Perché l’illusione di perpetuitàbasata sui sentimenti, posta aconfronto con l’avvicendarsidelle stagioni dell’universorurale, è soltanto una dellemolteplici opposizioni binarieche sostanziano il film, moti-vando il cammino della prota-gonista e attivando un con-fronto costante tra un prima eun dopo, tra il fantasma di un

futuro possibile e la concretezza dellaconquista personale. Ciò è evidentegià sull’asse tematico fondamentaledel film, lungo il quale l’eleganza ari-stocratica cui Nena ambisce per ele-zione affettiva entra in netto contrastocon il primitivismo agreste di unmicrocosmo lontano mentalmente(più che geograficamente), in modo dacreare un’estraneità che si può sconta-re anche nella prossimità di luogo, seil percorso di conoscenza di se stessi èancora smarrito nelle nebbie del-l’idealizzazione del proprio sentimen-to.E ancora più smarrito appare se ci sitrova proiettati in una dimensione for-temente patriarcale, in cui la donna èvista esclusivamente come propagginedell’uomo, come dimesso supportodomestico o in qualità di oggetto deldesiderio maschile. Ma le opposizionidelineate dalla Cecere (con la collabo-razione di Pierpaolo Pirone eYang LiXiang alla sceneggiatura) vanno al dilà della semplice differenza di genereo della contrapposizione culturale elogistica, e investono anche l’assun-zione simbolica, con un prima che sirispecchia in un’artificiosa razionalitàbasata su colori pastosi smorzati dafoschi interni e da un ricercato equili-brio compositivo, e da un dopo chesegue cadenze e inclinazioni naturaliper rappresentare con l’oggettività diuno sguardo organico la crisi e la suc-cessiva evoluzione di un animo in for-mazione.l primo incarico è impostato sul prin-cipio dell’essenzialità. Dell’osservazio-ne e dell’esistenza. Le inquadrature si

posano lievemente sui corpi, ne stu-diano i volti, l’incedere, l’impaccio diun adattamento, il dubbio della dire-zione da intraprendere, il disagio diuna riconsiderazione del proprio vis-suto, ed esaltano la materialità spogliae possente del profilmico, mettendo inrelazione figure e spazi, solitudini easperità delle superfici. Trasparesoprattutto nella prima parte del film,che fissa procedure e chiavi di lettura,il progetto di riferirsi alla sostanzadelle questioni, con un’insistenza sulconcetto di bisogno nella diversità deicontesti, delle situazioni e delle occor-renze (il refrain degli scarni dialoghi èspesso relativo a ciò “che serve”, incontrapposizione a quello che apparesuperfluo).Un invito eloquente rivolto allo spet-tatore affinché determini l’essenzadella ricerca di Nena, ma anche un’in-diretta dichiarazione di poetica, in cuil’attenzione agli equilibri dell’immagi-ne travalica frequentemente lo svilup-po drammatico, bisognoso di ancorar-si a un’occhiata esitante, a un segnoallegorico di riconoscimento, allaridondanza di un primo piano baciatoda eccessi di lirismo (il volto di Nenasu cui cade una miriade di petali dimandorlo). Il risultato, visto in unacerta ottica, è un’apprezzabile costru-zione figurativa che dà vita a una (tal-volta) lacunosa spirale deduttiva, can-cellando dal racconto elaborazioni erisposte, e presentando soltanto con-seguenze e attuazioni definitive.

Giampiero Frasca

TATANKAGiuseppe GagliardiRegia: Giuseppe Gagliardi. Soggetto:dall’articolo «Tatanka skatenato»,contenuto nel libro «La bellezza e l’in-ferno» di Roberto Saviano. Sceneggia-tura: Maurizio Braucci, GiuseppeGagliardi, Massimo Gaudioso, Salva-tore Sansone, Stefano Sardo. Fotogra-fia: Michele Paradisi. Montaggio:Simone Manetti. Scenografia: Anto-nio Farina. Costumi: Fiorenza Cipollo-

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ne. Interpreti: Clemente Russo(Michele), Rade Serbedzija (Vinko),Giorgio Colangeli (Sabatino), Carmi-ne Recano (Rosario), Susanne Wolff(Petra), Raiz (Salvatore Vitiello),Sascha Zacharias (Caroline), DamisTodorovic (Sasha), Claudia Ruffo(Luisella), Lorenzo Scialla (Micheleda giovane), Vincenzo Pane (Rosarioda giovane), Luisa Di Natale (Luisellada giovane), Enzo Casertano (Ruggie-ro), Luis Molteni. Produzione: Gian-luca Curti, Galliano Juso per MinervaFilm/Margherita Film/Rai Cinema.Distribuzione: Bolero. Durata: 100’’.Origine: Italia, 2011.

Racconta Roberto Saviano, nel suoarticolo «Tatanka skatenato», pubbli-cato da «l’Espresso», che il leggenda-rio pugile statunitense Joe Frazier, nel1975, quando incontrò MuhammadAlì per la terza volta, arrivato allaquindicesima ripresa, allo stremodelle forze, pesto, sanguinante, men-talmente incapace di ragionare evedendo l’avversario nelle medesime,se non peggiori condizioni, decise, inun momento di lucidità, una voltacapito che entrambi erano in pericolodi vita, di gettare lui per primo la spu-gna. Perdendo incontro e titolo mon-diale. Spiegando la propria scelta allastampa sportiva Frazier disse che infondo – in certe circostanze – non c’èbisogno di trovare troppe motivazio-ni. Dentro di te lo sai sempre cosa ègiusto e cosa è sbagliato. Come notaSaviano: «Frazier aveva citato Imma-nuel Kant e non lo sapeva».Probabilmente la frase di Joe Frazierriassume più di ogni altra l’essenzadel pugilato. Sport nobile, epico eautentico (nonostante i tentativi diinquinamento), sport antico, dalleregole semplici e crudeli eppuretanto complesso, tecnico e articolato,difficile da praticare e interpretare.Ma è una frase, quella di Frazier, chedice molto anche sul ruolo sociale,pubblico e morale della boxe. E cidice qualcosa anche sul ruolo delpugilato nel cinema.In fondo anche il film di Gagliarditrae spunto dalla saggezza da bassi-fondi di Smoking Joe. In fondo ancheTatanka, ispirandosi all’articolo diSaviano, racconta una storia di buoni

e cattivi; di fallimento, reden-zione e riscatto, come tantestorie cinematografiche nellequali la boxe è protagonista. Elo fa bene soprattutto nellaprima parte, quando attraver-so la messa in campo di unaserie di contrapposizioni econtraddizioni – anche abba-stanza didascaliche per la veri-tà – riesce a trovare un modocomunque efficace per raccon-tare l’essenza di una parted’Italia dove non esiste Stato edove non esistono alternative aesso. Esiste solo la Camorra.Clemente Russo, pugile natoa Marcianise, provincia casertana,interpreta Michele, uno della Cam-pania, uno di lì, uno dei tanti; dettoTatanka (come i bufali di Balla coilupi) che di Russo è il vero nome dibattaglia, e quindi interpreta ancheun po’ se stesso, dando risalto allasua storia. La storia di uno che cel’ha fatta, che se ne è andato, che haconquistato qualcosa. E non è poco.Ma la storia di Michele – che è frut-to della finzione, occorre sottolinear-lo –, si diceva, si regge, com’è tipicodelle sceneggiature drammatiche, suuna messa in campo continua dicontrapposizioni e conflitti. Il prota-gonista si trova sin da subito immer-so in un mondo nel quale i buoni e icattivi si confondono gli uni con glialtri (come nelle sequenze inizialicon la polizia) e dove le scelte diven-tano importanti e complicate.È qui che il film si rifà in manierapiù diretta all’articolo di Saviano, edè qui che la drammaticità della sto-ria riesce a trovare un’efficacia nar-rativa convincente. La scelta di esse-re un pugile, che per Michele avvie-ne per caso, è in realtà, oltre che ilmomento che segna definitivamentela sua vita, il punto nodale dellanostra storia. Perché lo sport ingenerale, ma la boxe in particolare,per uno nato nel regno di Gomorra,è più che uno strumento di riscatto,più che un insegnamento di vita, èun modo di essere che ti si cuceaddosso e non si stacca più. Diven-tare un pugile per Michele non è sol-tanto il mezzo per formare il fisico, ilcarattere o il coraggio. Non è un

modo per diventare uomo. In fondoanche la mafia fa presa sulle giovanimenti con le medesime promesse.Come sottolinea Saviano, quandoun ragazzo di quindici o vent’anniimpara a ottenere le cose solo tra-mite il sudore, la fatica e i pugni infaccia arriva a un punto in cui la viafacile non gli interessa più, arrivaun momento in cui rinunciare allaCamorra non è più una scommessao un caso fortuito, è una scelta con-sapevole e nemmeno tanto difficile.Proprio come diceva Smoking Joe:non è un fatto di motivazioni, den-tro di te lo sai cosa è giusto e cosanon lo è. Forse anche la MaggieFitzgerald di Million Dollar Babyavrebbe sottoscritto. Certamente loavrebbe fatto l’ultimo Rocky Bal-boa e come lui tantissimi altri pugi-li del grande schermo. In fondo,tutti loro, come Frazier e comeTatanka, Kant forse non lo cono-scono, ma, aggiungiamo noi, non nehanno nemmeno bisogno.

Lorenzo Rossi

THORKenneth BranaghTitolo originale: id. Regia: KennethBranagh. Soggetto: J. Michael Strac-zynski, Mark Protosevich basato sulfumetto «Thor» di Stan Lee, LarryLieber e Jack Kirby. Sceneggiatura:

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Ashley Edward Miller, Zack Stentz,Don Payne. Fotografia: Haris Zam-barloukos. Montaggio: Paul Rubell.Musica: Patrick Doyle. Scenografia:Bo Welch. Costumi: Alexandra Byrne.Interpreti: Chris Hemsworth (Thor),Natalie Portman (Jane Foster), TomHiddleston (Loki), Anthony Hopkins(Odin), Stellan Skarsgård (il dottorErik Selvig), Kat Dennings (DarcyLewis), Clark Gregg (l’agente Coul-son), Colm Feore (re Laufey), IdrisElba (Heimdall), Ray Stevenson (Vol-stagg), Tadanobu Asano (Hogun),Josh Dallas (Fandral), Jaimie Alexan-der (Sif), Rene Russo (Frigga), JeremyRenner (Clint Barton), Samuel L.Jackson (Nick Fury). Produzione:Kevin Feige per Marvel Entertain-ment/Paramount Pictures. Distribu-zione: Universal. Durata: 114’. Origi-ne: Usa, 2011.

L’annuncio che la trasposizione cine-matografica di «Thor» sarebbe stataaffidata a Kenneth Branagh ha susci-tato qualche reazione di sorpresa: macome, un regista conosciuto per i suoiadattamenti shakespeariani chiamatoa dirigere un film tratto dal fumetto diun supereroe della Marvel? Ora che èarrivato nelle sale, i seguaci della poli-tique des auteurs potrebbero sfodera-re le loro armi dialettiche per dimo-strare quanto vi sia di shakesperianoin questo film, o magari anche perrivelare quanto vi fosse di marvelianonei precedenti adattamenti di un regi-sta che, conoscendo bene il Bardo, si èanche concesso di usarlo con unacerta disinvoltura e con un occhio diriguardo per la spettacolarità, attra-verso l’uso di una cinepresa sempremolto dinamica e l’abile contamina-zione tra “alto” e “basso”.Non ci addentriamo in questi giochiintellettuali, ma ci limitiamo a osser-vare che Branagh ha saputo realiz-zare uno spettacolo di buona fatturache, nel momento in cui soddisfaegregiamente chi ama il dinamismodei film di supereroi, fornisce suffi-cienti appigli anche a chi potrebbemostrarsi poco disponibile allaregressione infantile che queste sto-rie, esplicitamente, sollecitano.Certo, i momenti da “film-giocatto-lo” non mancano (il combattimento

con il Distruttore), così comele scene in cui la grandiositàfigurativa e la pomposità deitoni sfiora (o supera) il kitsch(la prima parte ambientataad Asgard). Ma, pur conser-vando un impianto dal ritmoveloce, dinamico e complessi-vamente scanzonato (chetrova espressione figurativanel gusto pop-fumettisticodelle frequenti inquadratureoblique), Branagh tiene sottocontrollo le possibili sguaia-taggini (le gag del pesce fuord’acqua – il mitico Thor alleprese con la quotidianità –sono dosate con la giusta parsimo-nia) e riesce a inserire tra le pieghedel racconto l’evocazione di “GrandiTemi”, fornendo così argomenti achi voglia trovarvi marchi dell’auto-re shakespeariano (la lotta fratricidaper il potere, l’emulazione del padree la sfida alla sua autorità, la ricercadella propria identità e umanità,l’inganno). Il rapporto di amore e disfida col padre si collega al rappor-to tra umano e divino (reso visiva-mente dalle ricorrenti inquadraturein plongée) tanto che nella figura diThor, malgrado la sua origine nellamitologia nordica, è fin troppo faci-le ritrovare rimandi alla vicenda diCristo (il farsi uomo: la plongée sulprotagonista incapace di estrarre ilmartello dalla roccia, al termine diuna delle sequenze più riuscite delfilm, come il «Dio mio, perché mi haiabbandonato?»; il sacrificio per lasalvezza dell’umanità; la morte e laresurrezione).I richiami a questi temi arricchisco-no il film quando, anziché essereestemporanee didascalie appiccicatealla storia, come accade in altre pel-licole di supereroi, riescono a incar-narsi nella “ambiguità” dei perso-naggi. In particolare, è Loki il perso-naggio da questo punto di vista piùstimolante: nei momenti in cui ilfilm riesce a far emergere la suamalvagità da una battaglia, al suointerno, tra forze contrapposte (cosìche il male che compie appareprima di tutto come una sofferenzaper se stesso, come una condannaderivante dalla sua identità combat-

tuta fra diverse appartenenze) il filmassume un carattere più “adulto”.Quando invece Loki si rivela null’al-tro che un cattivo tutto d’un pezzo(così che il suo comportamentoappare non più come frutto diun’identità indefinita e della nega-zione della verità a cui era statocostretto, ma come espressione diun’abile e controllata simulazione)la storia diventa inevitabilmente piùschematica e prevedibile. Si potreb-be dire che le oscillazioni del perso-naggio di Loki sono un po’ il termo-metro della qualità oscillante delfilm e del suo essere sospeso fraspinte diverse (libertà autoriale evincoli posti dalle esigenze commer-ciali e dall’origine fumettistico-seriale dei personaggi).Altri spunti si prestavano a sviluppiintriganti, ma non vengono sfruttatipienamente. Si pensi, per esempio,all’accostamento tra Loki e i grigiburocrati di un’organizzazione mili-tare-poliziesca modellata sull’Fbi osulla Cia (in particolare nella scenadell’interrogatorio), che fa apparirequesti ultimi come gli emissari sullaTerra dei Giganti del ghiaccio (a cuiassomigliano cromaticamente),quasi a rappresentare una analogiatra la capacità dei giganti di intrap-polare in statue di ghiaccio i loroavversari e una volontà di controlloda parte della burocrazia che –weberianamente – ingabbia ed esau-risce ogni slancio vitale dell’umani-tà. Queste possibili allusioni vengo-no però lasciate cadere, sino a che,banalmente, in conclusione viene

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sancita una alleanza riparatrice fraThor, Jane e i burocrati (alleanzache, nei probabili sequel, si presteràperaltro a “sorprendenti” ribalta-menti).

Rinaldo Vignati

UOMINI SENZA LEGGERachid BoucharebTitolo originale: Hors-la-loi. Regia:Rachid Bouchareb. Sceneggiatura:Rachid Bouchareb, Olivier Lorelle.Fotografia: Christophe Beaucarne.Montaggio:Yannick Kergoat. Sceno-grafia: Yan Arlaud, Taïeb Jallouli.Costumi: Edith Vesperini, StephanRollot. Interpreti: Jamel Debbouze(Saïd), Roschdy Zem (Messaoud),Sami Bouajila (Abdelkader), Ber-nard Blancan (Colonnello Faivre),Chafia Boudraa (la madre), SabrinaSeyvecou (Hélène), Assaad Bouab(Alì), Thibault de Montalembert(Morvan), Samir Guesmi (Otmani),Jean-Pierre Lorit (Picot), AhmedBenaïssa (il padre), Mourad Khen(Sanjak). Produzione: Jean Bréhat,Olivier Dubois, Adrian Politowski,Gilles Waterkeyn per Tessalit Pro-ductions/Tadrart Films/StudioCa-nal/France 2. Distribuzione: EaglePictures. Durata: 121’. Origine:Francia/Algeria/Belgio, 2010.

Ora che tutte le polemiche alzatesul/dal film del franco-algerinoRachid Bouchareb durante l’edizio-ne di Cannes targata 2010 si sonosopite, è forse più facile entrare nelmerito del giudizio critico di un’ope-ra che resta comunque difficilmentescorporabile dai suoi intenti storico-polemici. L’uscita nelle sale italianedi Uomini senza legge ci dà, dunque,l’occasione per entrare nel dettagliodi questo film che, chiariamolo subi-to, può tranquillamente dirsi nonriuscito, confinato dal proprio auto-re in uno strano limbo a metà tra larievocazione storica (con tutti gliafflati televisivi del caso, vista anchela produzione di France 2) e il film

di genere (noir e gangster-movie).Procediamo con ordine: Bouchareb,proseguendo un discorso filmico ini-ziato con Indigènes (2006), mette inscena fin dall’inizio alcuni punti car-dine della storia del travagliato rap-porto tra Algeria e Francia. Il filmparte con una scena ambientata nel-l’Algeria del 1925, nel pieno insom-ma della colonizzazione francese,dove una famiglia locale si vedesequestrare la propria terra perchénon in grado di dimostrarne l’effet-tivo possesso. Da qui comincia ineffetti l’avventura dei tre protagoni-sti del film, i fratelli Messaoud,Abdelkader e Saïd, piccole vittimedi quel delitto che li ha costretti alasciare la loro terra: saranno le loroesistenze a cadenzare simbolica-mente (e non) il proseguo del film.Sui titoli di testa Bouchareb faimmediatamente capire quali sianole proprie intenzioni, perlopiù dida-scaliche: con un salto di una ventinad’anni siamo ora in una Parigi infesta, all’indomani della vittorianella Seconda guerra mondiale (8maggio 1945), che celebra la pro-pria libertà. Altro scarto, stavoltasemplicemente spaziale: stesso gior-no, Setif, Algeria: una manifestazio-ne spontanea urla «Algeria libera» e«Uguaglianza di diritti». Il gioco diBouchareb qui viene dunque subitosmascherato: contrapporre l’ottenu-ta libertà francese dal giogo nazistaall’occupazione francese in terraalgerina. Soprattutto cambiano glisviluppi: mentre a Parigi i francesisono in piazza tra baci e abbracci, aSetif caricano i fucili e fannofuoco sulla piazza gremita eindifesa. In tredici minuticirca di film Bouchareb ha inpratica spiegato il percorsoidentitario di due Nazioni,quella francese e quella (aessa legata) algerina.Dicevamo dei tre fratelli,ognuno dei quali intraprendeun cammino che serve alregista per delineare le diver-se possibilità che si affaccia-vano al radicalizzarsi delloscontro per l’indipendenzaalgerina (anni Sessanta):Messaoud, il duro, ha com-

battutto sotto i colori francesi inIndocina ma ora non vuole piùsaperne della «Marsigliese»; Abdel-kader, l’intellettuale, è agli arresti inFrancia da dove inizia a intrecciarecontatti con il Fronte di LiberazioneNazionale; Saïd, il più piccolo, si èfatto furbo e gestisce prostitute ecabaret a Pigalle.Fin qui, non abbiamo documentatoaltro che la smania di Bouchareb(già ravvisata in Indigènes, meno nelpiù intimo e raccolto London River)di realizzare un cinema ad altoimpatto emotivo, per certi versi reto-rico e tonitruante (qualcuno ha eti-chettato Hors la loi come il «Baarìaalgerino»), che però avesse anche(logicamente) velleità commerciali(quei venti milioni di budget hannoovviamente finito con il conquistareanche il mercato americano). A mar-care, però, definitivamente Uominisenza legge, e a confinarlo in quellimbo di cui sopra, è tutto quel chesuccede nelle quasi due ore cherimangono del film: l’impossibilità afar aderire in toto la pellicola sia allerigide ambizioni di un cinema tradi-zionale (nell’intreccio quanto nellostile) sia alle escursioni nel genere enei registri popolari (in particolarenello sviluppo dei personaggi).L’illusione, per Bouchareb come peraltri, è che la forza della lotta (quiquella indipendentista algerina)possa da sola dare un senso allapropria opera. Il rischio, al contra-rio, è che quelle panoramiche suicorpi inutilmente in movimento cheBouchareb realizza non riescano

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minimamente a restituire nulla dellarabbia algerina che vorrebbero inve-ce rievocare.

Lorenzo Leone

WORLD INVASIONJonathan LiebesmanTitolo originale: World Invasion –Battle: Los Angeles. Regia: JonathanLiebesman. Sceneggiatura: Christo-pher Bertolini. Fotografia: LukasEttlin. Montaggio: Christian Wagner.Musica: Brian Tyler. Scenografia:Peter Wenham. Costumi: Sanja Mil-kovic Hays. Interpreti: Aaron Eckhart(il sergente Moichael Nantz), MichelleRodriguez (il sergente Elena Santos),Ramon Rodriguez (il sottotenenteWilliam Martinez), Bridget Moyna-han (Michele), Ne-Yo (il caporaleKevin Harris), Michael Peña (Joe Rin-con), Cory Hardrict (il caporale JasonLockett), Joey King (Kirsten), LucasTill (il caporale Scott Grayston), NoelFisher (il soldato Shaun Lenihan).Produzione: Jeffrey Chernov, Ori Mar-mus, Neal H. Moritz per OriginalFilm. Distribuzione: Sony. Durata:116’. Origine: Usa, 2011.

Quasi verrebbe voglia di prenderlo sulserio, questo World Invasion. A voler-ne ignorare l’ethos para-fascista e ladisarmante povertà narrativa, dopotutto, il lavoro di Jonathan Lieber-sman e Chris Bertolini lascia intrave-dere qualcosa di interessante. Latrama è di quelle che non si perdonoin preamboli. Gli alieni invadono laTerra. Gli americani mandano i mari-nes. Lo scopo dell’invasione – lenostre risorse naturali, e l’acqua inparticolare – resta volutamente insecondo piano: quello che conta è loscontro. Da questo punto di vista, ineffetti, il titolo dice tutto.La recente voga dell’invasione aliena– da District 9 (Blomkamp, 2009) airecentissimi Skyline (G. e C. Strause,2011) e Monsters (G. Edwards, 2010)– si gioca su un orizzonte che con laparanoia sociale dei suoi capostipiti

cinquanteschi ha poco o nullaa che spartire. Questa fanta-scienza – se ancora ha sensousare questo termine – puntapiuttosto a metabolizzare pul-sioni che le forme chiuse delracconto cinematograficoamericano fanno fatica a con-tenere. Visto in questa luce, ilfilm di Liebesman apparecome l’ennesima convulsionedi un genere classico – il com-bat movie – le cui coordinatevisuali ed etiche sono semprepiù inadeguate agli scenari delconflitto contemporaneo. Difronte allo stallo, il film diguerra si frammenta e dissemina isuoi tratti caratteristici attraverso ilmedium.È così che sotto l’intelaiatura del filmfantastico ritroviamo elementi del-l’immaginario bellico più tradiziona-le. Il manipolo dei protagonisti, peresempio, ricalca tutti gli stilemi delcaso: l’ufficiale imbelle e di buoncuore, il capo (Aaron Eckhart) chevorrebbe essere altrove, il membrodella squadra che cova rancori perso-nali, quello che deve fare i conti con ipropri nervi. Un campionario canoni-co, i cui codici furono isolati e descrit-ti da Jeanine Basinger già nel 1986(in «The World War II Combat Film:Anatomy of a Genre», Columbia Uni-versity Press, New York 1986).A questi elementi di genere si affian-cano, tuttavia, istanze più problema-tiche. La trovata dell’invasione inCalifornia rimuove dalla scena l’in-gombrante orizzonte mediorientale,ma la matrice ideologica del filmemerge a ogni passo. A partire daglielementi di base della trama: il plo-tone protagonista, per esempio, nonè direttamente impegnato al fronte.La sua missione è recuperare deicivili, rimasti intrappolati nel quar-tiere losangelino che l’aviazione siappresta a bombardare. Siamo difronte al vecchio principio dellarescue tale, la corsa al salvataggioche giustifica la violenza e tantaparte gioca nella cultura americana.Bertolini, poi, dimostrando un’invi-diabile sprezzo del kitsch, ci mettedentro anche il ragazzino messicanorimasto orfano: vedi mai che a qual-

cuno fosse sfuggito da che partestanno i buoni.Una volta messe le cose in chiaro, laregia non si fa più scrupoli: lo scontrocon gli alieni recupera tutti i topoi visi-vi delle nuove guerre americane. Inostri avanzano lungo strade strette eingombre di fumo, superando carcassedi automobili mentre spiano nervosa-mente i tetti, dove un nemico invisibi-le sta in agguato, pronto all’imboscata.Le sequenze a fuoco vero e propriosono pura guerriglia urbana, ripresacon gli stilemi del realismo pseudo-documentario: camera a mano, inqua-drature sporche, montaggio ipercineti-co. Liebesman stesso dichiara di esser-si ispirato ai video dei soldati america-ni impegnati a Fallujah.Laddove in un film come Skyline l’in-vasione è un evento mediale, di fronteal quale i protagonisti – come gli spet-tatori – restano impotenti davanti alloschermo, World Invasion sceglie lastrada più semplice e punta sul coin-volgimento immersivo. Come dire: c’èchi crede ancora che per salvare lafaccia basti rincorrere una spettacola-rità muscolare, à la Salvate il soldatoRyan (Spielberg 1998). Non è nem-meno un caso che qui la fotografiascarti l’opzione digitale, restandofedele a un modello di “realismo”ideo-logico prima che visuale. Solo che,ormai, mostrare i muscoli non bastapiù, e perfino Liebesman si rendeconto che oggi, per raccontare certestorie senza arrossire, è meglio mette-re gli alieni al posto del nemico.

Pasquale Cicchetti

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Disegna le sue tavole a mano, una dopo l’altra, pergiornate intere. Matita, pastelli a olio, grafite, gesset-ti, carboncini colorati. Disegna ricordi, sogni, scene dicampagna, vecchi muri, alberi, mani che lavorano,nuvole, animali, pensieri che diventano cose che poi sitrasformano in paesaggi che in realtà sono volti sca-vati e graffiati con i suoi strumenti di incisione. Sichiama Simone Massi, i suoi cortometraggi d’anima-zione sono stati selezionati in festival di cinquanta-quattro Paesi del mondo (in tutti i continenti, dalBrasile alla Corea del Sud, dall’Islanda al Camerun,dagli Usa agli Emirati Arabi) e hanno ricevuto due-cento riconoscimenti (sì, avete letto bene), ma siamopronti a scommettere che pochi di voi l’hanno sentito

nominare. È un artista-artigiano che suscita unanimiconsensi tra coloro che si imbattono nella sua opera(per lo più casualmente), ma che “paga” l’ostinatorigore e l’indipendenza (una necessità, non una posa)con l’esclusione dai circuiti culturali e distributivi checontano. Il computer lo usa solo per rispondere allemail di quelli come noi, che vogliono sapere, infor-marsi, conoscere il metodo di lavoro e i pensieri sulmondo di uno come lui, apparentemente fuori dalmondo (in realtà abbiamo il fondato sospetto chequelli “fuori” siamo noi). È un eremita? Un eccentri-co? Un fondamentalista dell’arte? Uno snob? Nientedi tutto questo. Leggete la sua intervista, e vi accorge-rete che Simone è come appare, o meglio, come appa-

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SIMONE MASSI: RESISTENZA E POESIA FOCUS

LA MATERIA (ANIMATA) DELLA MEMORIAFabrizio Tassi

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iono i suoi film: rigorosi, lirici, sinceri, profondamen-te veri. La sua tecnica meticolosa e il suo stile sononati e cresciuti con la voglia di raccontare le cose cheama e a cui si sente legato, con l’esigenza di testimo-niare e ricordare, con la faticosa ma felice scelta divivere ai margini dell’impero.

È nato nel 1970 a Pergola, paese marchigiano disettemila abitanti, e lì ha deciso di rimanere. Prima dimettersi a disegnare, ha fatto l’operaio. Poi si è iscrit-to alla Scuola di Urbino, fucina di talenti (non è unmodo di dire), e ha incontrato Julia Gromskaya, concui ha realizzato quasi tutti i film. Basta guardare iprimi lavori, tra il ’95 e il ’97, per rendersi conto diquanto il suo, di talento, fosse multiforme, aperto atanti possibili sviluppi diversi. Dal breve e intensoapologo della memoria anti-fascista in macchie nere egrigie (Immemoria), al gioco delle immagini che spiaz-zano e confondono, disegnate a china (Millennio),dalle sperimentazioni oniriche, tra forme fantasmati-che che emergono dal bianco-vuoto del foglio (Niente)“all’espressionista” Keep on! Keepin’on! Quando hatrovato il suo linguaggio, il modo e i mezzi per tradur-re il suo mondo interiore in immagini, sono nati i lavo-ri più noti e ammirati, da Tengo la posizione (2001) aPiccola mare (2003, con la voce narrante di MarcoPaolini), fino ai capolavori co-prodotti da Sacrebleu eArte France, La memoria dei cani (2006) e Nuvole,mani (2009, presentato anche alla Mostra d’arte cine-matografica di Venezia, per ora il suo ultimo lavoro,stavolta a colori, bellissimo).

Simone Massi è andato avanti nella sua ricercapersonale percorrendo all’indietro lo sviluppo (?)della grammatica cinematografica e delle modalitàespressive-produttive del cinema d’animazione.Ritorno all’artigianato, alla materialità, alla fragilità-precarietà della creazione singola, manuale, nonemendabile, senza trucchi e maquillage. Ritorno allafissità arcaica del primo cinema, alla sua semplicitàevocativa, e insieme alla logica irrazionale dellametamorfosi (di cose e luoghi e tempi e volti), dell’at-timo che si dilata fino a contenere ieri e oggi, sognoe realtà. Un piano sequenza in(de)finito che qui asso-miglia a una poesia in rima e là a un’illuminazioneimprovvisa, una visione che pulsa insieme alle linee ele ombre in movimento, un disegno-fotogramma die-tro/dentro l’altro. Cinema che sa di terra (ma anchedi sogni), di memoria, di cose solide, essenziali, divalori profondamente radicati, di laica sacralità dellavita, spietata e irrinunciabile.

Onore alla Cineteca Italiana di Milano, che nel2009 a Simone Massi ha dedicato un libro, «PoesiaBianca» (a cura di Roberto Della Torre), con un dvdche contiene tutta la sua opera. Grazie a loro il suolavoro non è più così invisibile. Chi vuole avere infor-mazioni o tenersi aggiornato, può anche seguirlo sulsito www.simonemassi.it. Il resto è nelle mani dei pro-duttori (italiani ed europei) e dei mecenati nostrani(sigh!) che vorranno investire sul suo talento e per-mettere alla sua arte di sopravvivere all’omologazio-ne del mercato.

La memoria dei cani

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– Il tuo “isolamento”, a noi frenetici invidiosi, appa-re esotico, eroico, ascetico. Immagino che la cosa tifaccia sorridere. Come è nata questa scelta? Facciamoun po’ di biografia.

– Preferirei rispondere raccontando invece della miaterra. Sono nato a Pergola, un paesino dell’entroterra,nel nord delle Marche, stretto fra le colline e i montidell’Appennino. Un paese che per motivi storici e geo-grafici è rimasto isolato per secoli; e per secoli gesti epensieri delle persone sono stati gli stessi. Mi dico cheun luogo chiuso custodisce e protegge, dall’altro latoperò diffida e produce acqua stagna. E se le stradesono malagevoli e sconsigliano il viaggio, in compensoc’è un sottosuolo che è un intrico di gallerie scavatedagli uomini per sfuggire gli assedi. Chi cresce in que-sto tipo di paese finisce inevitabilmente per somigliar-gli. Io non sono riuscito a staccarmi da Pergola: hoscelto e sono stato spinto dalle circostanze a rimanere,a custodire e proteggere, a diffidare e produrre acqua

stagna, e anche a lasciarmi una via di fuga. Qui c’è lamia storia, ci sono un’aria e un passo che mi paionogiusti per me. Può sembrare poco ma è più di quelloche avrei altrove.

– Fuori dalla metropoli e dalla logica del fare-per-consumare. Fuori dai riti e i ritmi dell’animazionecommerciale e del mercato culturale. Ma anche dentroun certo stile di vita e un modo di creare molto parti-colare. Quanto c’è di negativo (rifiuto di qualcosa) e dipositivo (fedeltà a un luogo e a un modo di essere) intutto questo?

– Ci sono entrambe le componenti, fedeltà e rifiuto,ma è difficile stabilire le percentuali ed è impossibilericostruire come sia arrivato alla situazione di adesso.Di concreto c’è che sono nato in un luogo e ho ricevu-to certi insegnamenti. Di posti e di pensieri da faremiei, poi, non ne ho trovati di migliori. È andata così,grosso modo, la storia mia e del mio isolamento.

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ISOLATO, NON OMOLOGATO, PER NULLA DIGITALE. LIBEROIntervista a Simone Massi

Io so chi sono

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– Ci sono artisti, disegnatori, opere che ti hanno ispi-rato, o meglio, che ti hanno “chiamato” a questo mestie-re (anche letteratura, non solo cinema o animazione)?

– Del cinema di animazione non sapevo niente e non cisono state né vocazioni né chiamate. Sono diventato ani-matore per una questione di princìpi e di mancanze. Leferie negate mi hanno spinto a licenziarmi dalla fabbricadove lavoravo e a iscrivermi alla Scuola d’Arte di Urbino.Ma la sezione fumetto non c’era e ho dovuto ripiegare suquella che più le si avvicinava, il cinema di animazione.Arrivato al disegno animato per sbaglio, ci sto dentro daanarchico, da cane sciolto: non ho alcun contatto, nonappartengo a nessuna corrente, e non ci sono film o auto-ri che mi hanno influenzato. L’ispirazione è venuta guar-dando altre arti e altri cieli: prima Kafka, Magritte,Spacemen 3, poi Pavese,Tarkovskij e le colline.

– Cosa ne pensi dell’animazione contemporanea?Anche quella commerciale.

– Quello che penso dell’animazione contemporanea èun discorso lungo che cercherò di fare breve: mi pare chegli unici cambiamenti riguardino i ritmi (di lavorazione edel film) e i temi, divenuti infernali i primi, più crudi e vol-gari i secondi. Per il resto si continua a fare quello che

tutti si aspettano di vedere: pupazzi colorati, effetti spe-ciali, nei casi più arditi invenzioni visive (che fanno grida-re al genio ma che a mio parere niente hanno a che vede-re con il cinema). La frustrazione del non poter compete-re col realismo del cinema dal vero ha spinto il disegnoanimato a fare caricature, videogiochi, sgorbi. Ma si èdimenticata la pittura: ogni fotogramma dovrebbe poteraspirare a essere quadro.

– Il tuo stile sembra l’esatto contrario degli sviluppi piùrecenti (e anche convincenti, tipo quelli della Pixar) del-l’animazione digitale, che tende a un super-realismo spet-tacolare e che sembra aver riscoperto il gusto della narra-zione (classica). Tu a cosa aspiri? Cosa cerchi?

– Lavoro da solo e senza soldi, lentamente. Come auto-re non cerco consensi e le mie animazioni non hanno l’ob-bligo di piacere. Sono libero. Miro a un punto preciso cheha a che fare con la memoria e con l’anima, che è fatto disilenzi, di spazi vuoti e di sensazioni che non mi riesce didescrivere con le parole. Quello che da diciotto anni provoa fare è poesia o meglio haiku: un piccolo viaggio che hacome unica meta lo smarrimento, il portare a perdere.

– Raccontaci il modo in cui lavori. La tecnica, i tempi,lo stile.

– Faccio animazione come si faceva un secolo fa: dise-gni su carta, a mano. Parto da uno stato d’animo, da unafrase, un qualcosa che è piccolo e vago ma che sento didover avvicinare. Comincio a cercare delle immagini, mimetto davanti allo specchio a provare degli sguardi e deimovimenti. Accumulo figure e gesti, inquadrature diuomini e cani, di alberi, case, campi e colline. Comincio amuovere i disegni come tessere di un domino, cerco dicapire come posso arrivare da un’immagine all’altrasenza staccare. E mentre mi sforzo di dargli un ordine,questi schizzi cominciano a riempirsi di ombre e a muo-versi; nella mia testa un caleidoscopio di forme si susse-guono e mutano di continuo. Vorrebbero suggerirmi ladirezione, ma fanno confusione e basta. Questa è una fasedi lavoro tormentata che mi toglie il sonno: la notte miimmagino sequenze bellissime che al mattino purtropposvaporano. Io cerco di salvare qualcosa, quello che posso.Quando ho raccolto immagini a sufficienza e ne ho final-mente capito l’ordine sequenziale, comincio ad animare.L’animare per me è un lavoro d’istinto, meno penso emeglio è. La concentrazione è tutta sulle forme che richia-mano o che possono contenere altre forme. Una voltaindividuate le isolo e poi le tiro fuori. Le sequenze e il filmnascono in questa maniera: l’animare corrisponde alloscrivere, allo sceneggiare. E il racconto prende sempredirezioni impreviste, scorre sul letto che l’animazione –intesa come fase di lavoro – giorno per giorno paziente-mente gli scava. Non so se mi riesce di essere chiaro, que-ste cose le faccio da tanti anni ma non mi è mai stato chie-sto di spiegarle. Ultimato il lavoro di animazione a mati-

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ta, comincio a dare il chiaroscuro. Negli anni ho speri-mentato diverse tecniche. Nel 2004 sono arrivato a unatecnica che è riconosciuta come mia e che non ho piùsmesso: pastelli a olio stesi su carta e graffiati con stru-menti da incisione. Per un cortometraggio di sei minutidevo fare duemilacinquecento tavole, sono due anni dilavoro a tempo pieno.

– Nel tuo cinema, spesso si entra e si esce dalle cosesenza stacchi, salti temporali definiti, cambiamenti diluogo segnalati con nettezza. Siamo immersi in una meta-morfosi continua di cose, persone, luoghi, tempi, ricordi,fantasie.

– Utilizzo il piano sequenza nel tentativo di far scorrerela narrazione come le acque di un fiume. Questa scelta sti-listica nasce a scuola con Immemoria, il mio primo corto-metraggio. Lo realizzai senza stacchi su suggerimento del-l’insegnante. A Urbino non era una cosa nuova, c’eranostati degli studenti che avevano realizzato delle animazio-ni in quel modo, ma si trattava di film comici, dove l’espe-diente registico diventava un gioco di scatole cinesi checontribuiva alla comicità. Il mio progetto invece volevaessere un omaggio alla Resistenza e sfiorava temi forticome la censura, il carcere e il fascismo. La scelta del

piano sequenza mi imponeva di collegare le diverse inqua-drature senza ricorrere allo stacco, e io dovevo cercaredelle soluzioni per portare quel piccolo fiume a foce senzainterruzioni o straripamenti. Così è iniziato un lavoro distudio delle forme e di ricerca delle idee, che mi ha porta-to a utilizzare lo zoom, la soggettiva e la metamorfosi.Individuare, scolpire e tradurre; facevo questo, con unentusiasmo e un’energia mai provati prima. Stavo impa-rando una lingua, ogni parola nuova valeva una monetaantica. E alla prima visione del film, montato senza audio,ho provato una sensazione che è ancora viva, ma che è dif-ficile descrivere: come una mano appoggiata sul cuore.Non riuscivo a capire come avevo fatto, non capivo comee perché quei miei singoli disegni riuscivano ora amischiarsi e a scorrere sullo schermo come un unico corpoin movimento. Ecco: non capivo, mi ero completamenteperso. Da allora ho preso ad amare il cinema di animazio-ne e a realizzarlo come un fiume: per riprovare quelle sen-sazioni, con la speranza che qualche goccia possa arrivarea bagnare l’animo di chi si siede a guardarlo.

– Un’altra sensazione che si ha, guardando i tuoilavori, è quella di incontrare cose e persone che hannomigliaia di anni, cose solide, durature, reali in un

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Piccola mare

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modo molto speciale (non casuale). Eppure il tuo dise-gno fa sì che tutto sia in movimento, vibrante, vivo. Èuna cosa pensata fin da subito o che hai trovato speri-mentando?

– Quando ho iniziato questo mestiere avevo delle idee:volevo che i miei personaggi fossero figure solitarie,pesanti e mute, messe come delle torri in uno spazio e inun tempo che dovevano essere vaghi, non identificabili. Inquanto alle animazioni, le immaginavo come piccoli viag-gi in cui l’autore provava a prendere per mano lo spetta-tore e a condurlo con sé, per mostrare ciò che avevaimmaginato. Mi interessava sollevare dei dubbi, cercare,avvicinare; senza tuttavia che si riuscisse mai a trovare,ad arrivare o ad avere risposte. Il motivo del viaggio dove-va essere più importante del viaggio stesso. Ecco, quandoho cominciato sapevo che le mie animazioni dovevanoessere fatte in questa maniera e tanto bastava. In seguito,“costretto” da altre interviste, ho provato a ragionarcisopra per comprendere i motivi. A distanza di tempo,però, ogni mio tentativo di spiegazione si dimostra ineso-rabilmente incompleto o sbagliato. Ho capito che la miapiccola arte ha un’indole schiva e burlona, è un rigagno-lo d’acqua che accetta di scorrere sulle mani ma non silascia afferrare.

– Ci sono le nuvole e c’è la tua terra, la tua gente. C’èun desiderio di fuga, ma anche la necessità di sentirsiradicati in qualcosa. Il bello, però, è che tra i due impul-

si, tra queste due esigenze vitali, non sembra esserci con-traddizione.

– Questa è una cosa difficile da spiegare. Sento di esse-re parte di questa gente e di questa terra dove sono natoe allo stesso tempo ho bisogno di fuggire entrambi perriuscire a capirli e raccontarli. È da forestiero in un’altraterra che riesco a capire la mia.

– Fai della poesia, col tuo cinema. Ma è anche unlavoro molto fisico, meticoloso. Sei un’artista e sei unartigiano. Quanto è importante per te l’unione tra que-sti due aspetti?

– I miei giochi di bambino sono stati gli stessi di miopadre: pezzi di legno, soldatini, biglie di vetro. Per farlimuovere o diventare qualcos’altro ho sempre adoperatol’immaginazione e le mani. Oggi ho dei pensieri da fardiventare disegni in movimento e non posso lasciare illavoro a un tasto o a una macchina. Ho bisogno di senti-re la punta della matita che si sgrana sulla carta e di spor-carmi le mani con i colori dei miei pastelli. Questo è unmestiere che accetta di diventare arte, ma richiede – e inse-gna – pazienza. In un’ora, infatti, posso avere mille pensie-ri, ma la mia mano riesce a fare un solo disegno. La manodell’animatore deve imparare a lasciar perdere tutti i pen-sieri e accontentarsi di afferrarne uno. E forse a quel puntoanche il cervello si calma e riduce il numero dei ragiona-menti, o meglio impara a stenderli sul palmo della manoe a separarli come sementi, le buone dalle cattive. Questa

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Io so chi sono

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presa di coscienza mi fa cominciare un lavoro che finiròfra due anni senza fretta o frustrazioni. Sono consapevoledella mia scelta: fare animazione in questa maniera è fati-coso, significa inerpicarsi da solo su per un monte e aprir-si il sentiero con le mani, in un’epoca in cui gli animatoriviaggiano invece su mezzi modernissimi sopra stradecomode e veloci. Ma sono differenti anche le mete e i moti-vi del viaggio. In un caso, muoversi da un punto all’altronel minor tempo possibile e con l’unico scopo di ricavar-ne un profitto. Nel caso mio (e di quei pochissimi altriautori che fanno animazione alla vecchia maniera) è l’esat-to contrario: si accetta di affrontare l’ignoto solo ed esclu-sivamente per desiderio di conoscenza. Sono un uomo delNovecento, appartengo a una generazione di disegnatoriche non capisce il nuovo e che di conseguenza non haalcun futuro: oggi la quasi totalità dei giovani autori faanimazione al computer, viaggiano comodi e veloci sulleautostrade.Tutte queste cose le so, me le dico ogni giorno,ma non ne faccio un dramma. Mi accontento di sapere cheal termine della mia fatica posso far scorrere fra le mani ifotogrammi del film, migliaia di disegni che non sono vir-tuali: esistono davvero e hanno un valore.

– Tutto ciò che fai (il modo in cui crei e vivi) sembraavere anche un significato politico. È un rifiuto netto diun certo modo di essere, comunicare, consumare.

– Quello che faccio in animazione è lo specchio fedele diquello che sono e probabilmente ha anche un significatopolitico. Può essere perfino preso per insubordinazione.Non tanto per la macchia rossa che compare in mezzo albianco e nero dei miei disegni, quanto piuttosto per ciòche l’atto del ricordare (e del resistere) è diventato oggi nelnostro Paese. Sarà colpa dell’isolamento, della diffidenza odel cognome che porto, ma non mi smuovo di un centime-tro: continuo a tenere la memoria viva, a pensare gli stes-si pensieri, a fare le cose di sempre. Perché non ho avutofretta di sbarazzarmene quando mi dicevano di farlo eoggi mi paiono più che mai buone. L’Italia dell’ultimo ven-tennio, invece, è più moderna: ha il passo svelto e mutapenne di continuo. Questo straordinario cambiamento mipare stia portando l’orologio indietro di un secolo. Ci por-terà a perdere perfino l’acqua. Ai miei occhi i giorni e glianni scorrono come pagine di «Fontamara» di Silone: pas-sano e bruciano, e il problema è solo di chi ricorda. Chefare? Io faccio dei brevi film di animazione che parlanosempre delle stesse cose: memoria e resistenza. Li mandoin giro come fossero volantini di stampa clandestini.

– I tuoi corti sono apprezzati e ammirati in mezzomondo (anche di più). Ma il tuo rimane un lavoro di nic-chia, amato da una minoranza di “intenditori”. Ti piace-rebbe poter parlare a un pubblico più vasto? Quale prez-zo saresti disposto a pagare?

– Non mi è mai piaciuto correre dietro né ai nume-ri né alle persone, non ho mai cercato consensi. Si

fanno film per dire qualcosa nella lingua che più ciappartiene. La mia ha bisogno di una mano sul latodella bocca per poter sussurrare all’orecchio un picco-lo segreto: una filastrocca, dei nomi, oppure l’avvista-mento di un fagiano. La lingua che parlo è una speciedi bisbiglio trascurabile, mentre le folle reclamanogrida importanti. Non credo sia possibile parlare a unpubblico più vasto e comunque il valore dovrebbestare nel messaggio e non nel numero delle personeche lo hanno capito. Oggi la mia unica ambizione èquella di poter continuare a disegnare le mie piccolestorie, se possibile con uno stipendio, visto che finoraho sempre lavorato gratis.

– Mi piacerebbe sapere dei tuoi eventuali progetti…– Da mesi sto lavorando a un nuovo cortometraggio,

dovrebbe vedere la luce a breve, in estate. Niente dinuovo: l’opera continua il solco scavato dalle precedenti,racconta un’altra microstoria del mondo contadino, e nonmi va di spiegarla a parole. Rispetto agli ultimi film sonostato costretto a numerosi passi indietro, visto che non hotrovato nessuna produzione interessata al progetto, ma cela metto tutta perché alla fine sia un passo in avanti.Dopo questo non so: spero che salti fuori un lavoro, qual-cosa. È un anno che sono fermo. Le difficoltà sono lucidee ben organizzate, ma io non mi perdo d’animo.

(Intervista a cura di Fabrizio Tassi)

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Simone Massi

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«Avevamo tutti una posizione rispetto alla guerra: c’eravamodentro, e questa era indubbiamente una posizione».(Michael Herr, «Dispatches»)

Le guerre – si sa – sono sempre sporche. Quello checambia è il modo di raccontarle. Ma raccontare è anchecomprendere: l’atto narrativo genera un ordine, unagriglia di valori e significati a cui ancorare la propriaesperienza. Nel secolo da poco passato, la natura deiconflitti umani è cambiata radicalmente. La guerra è

diventata un “fatto sociale totale”, in grado di riorganiz-zare intorno a sé esperienze private e collettive. Perperiodi limitati, intere Nazioni dovettero ripensarsi egiustificarsi in funzione della guerra: un processo sim-bolico e culturale che diede luogo all’esigenza di nuoveforme di narrazione (comprensione) del conflitto.

Fin dagli inizi della sua storia, il cinema statuniten-se reagì alla necessità di codificare socialmente l’espe-rienza della guerra, ed elaborò un genere. Con il com-

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PROSPETTIVE DI GUERRASAGGI

DECLINAZIONI SCOPICHE E CULTURALIDEL NUOVO COMBAT-FILM AMERICANOPasquale Cicchetti

The Hurt Locker di Kathryn Bigelow

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bat-film classico, seppe creare un modello di rappre-sentazione destinato a influenzare il modo in cuil’esperienza bellica veniva vissuta e percepita, al fron-te come in Patria. Un sistema simbolico e visualedestinato a durare almeno fino al Vietnam.

Il conflitto vietnamita innescò una serie di muta-menti profondi nelle narrative di argomento bellico. Sipuò dire – in un certo senso – che per lunghi anni ilgenere fu costretto a misurarsi con la morte della guer-ra: parodizzata, esacerbata, decostruita, essa restavasfacciatamente indifferente ai modi con cui la si eraraccontata e compresa sugli schermi fino ad allora. Sitrattò di una lunga e sofferta elegia, destinata a dura-re più di due decenni.

Oggi qualcosa è cambiato. Il ciclo culturale iniziatocon la “guerra al terrorismo”e gli interventi militari inMedio Oriente hanno portato a maturazione discorsi emotivi seminati all’epoca della Prima guerra delGolfo. Il peso crescente attribuito alle tecnologie dipotenziamento della visione nelle strategie militari ha– di fatto – alterato irrimediabilmente il vecchio siste-ma di rappresentazione, a partire dalle sue matriciprofonde. The Hurt Locker (id., 2008, di KathrynBigelow), Body of Lies (Nessuna verità, 2008, diRidley Scott), Redacted (id., 2007, di Brian DePalma), Lions for Lambs (Leoni per agnelli, 2007, diRobert Redford) sono film che provano a ridisegnareuna strategia per la narrazione cinematografica dellaguerra, proprio a partire dalla rivoluzione scopica chene ha ridefinito le prospettive.

Nelle pagine che seguono tenteremo di individuarele fondamenta archetipiche del racconto di guerraamericano a partire dal momento di rottura rappre-sentato dal Vietnam. In seguito, torneremo al combat-film classico, prestando questa volta attenzione allemodalità di visione che hanno sostenuto le strategienarrative del genere prima della sua crisi. Ci occupere-mo poi di indagare, nella produzione contemporanea,la figura del corrispondente, sottolineando la continui-tà con la prospettiva dominante nel cinema di guerraclassico. Da ultimo, proveremo a dar conto dell’attritofra le modalità di visione che accompagnano oggi lenarrazioni di guerra e le fondamenta mitiche descritte.

1.

Come si è detto, il cambiamento delle strategie divisione ha alterato l’equilibrio del genere. Per com-prendere la portata delle tensioni, tuttavia, convienerichiamare brevemente le matrici profonde su cui pog-gia questo “gioco di sguardi”.

Leslie Fiedler, in una serie di saggi dedicati al sostra-to culturale delle guerre americane, descrive una sortadi fondazione mitologica dell’“Uomo Americano”, la

cui identità si definirebbe a partire dal conflitto stori-co con l’Uomo Non-Bianco. Samuele F.S. Pardini, nel-l’introduzione al volume, riassume la questione inquesti termini:

Alla base della casa sulla collina e del diventare americano, di unsistema formalizzato di valori, sta dunque una griglia di miti cheidentifica la costruzione del mondo bianco in opposizione almondo non bianco. […] Tali origini impediscono di vedere glialtri se non come dei pericolosi ostacoli, non tanto perché sonodiversi, ma perché non sono ugualmente bianchi. (1)

A fondare l’identità americana fin dal principiosarebbe non tanto un rito di natura sessuale, comenella civiltà europea, quanto l’uccisione – bianca emaschile – dell’uomo non bianco.

Questo gesto archetipico trova luogo nella forestavergine. È qui – lontano dall’universo morale fondatosulla donna e sulla casa – che si realizza un legametutto virile tra l’Uomo Americano e il suo nemico.Costretto – per così dire – dalla necessità storica emorale della sua superiorità etnica, l’uomo biancodeve uccidere il suo pari. Perché ciò accada, tuttavia,egli deve prima abbandonare l’habitus civilizzatoeuropeo, per assumere i codici della foresta, assimilan-do e inglobando i suoi nemici. Così facendo, egli diven-ta «un tertium quid, né civilizzato né selvaggio, nébianco né non-bianco […] ma qualcosa di nuovo sottoil sole, vale a dire, un americano».

In «Mitizzando l’indicibile», Fiedler applica questomodello fondativo all’analisi di alcuni testi cinemato-grafici. In particolare, egli si occupa di due adattamen-ti: quello di «The Deerslayer» di Fenimore Cooper, rea-lizzato da Cimino con The Deer Hunter (Il cacciatore,1978), e quello di «Heart of Darkness» di Conrad, rea-lizzato da Coppola in Apocalypse Now (id., 1979).Ripercorriamo rapidamente le sue considerazioni.

Nella prospettiva dell’autore, il film di Ciminomostrerebbe

la messa in atto ripetuta ancora una volta di una favola […] unmito inventato perfino prima di Cooper, in certe cronache dellaforesta stilizzate dai loro autori, intese a giustificare il sangui-noso conflitto con gli indiani durato trecento anni: gli aborige-ni dalla pelle scura con i quali gli immigrati visi pallidi europeicombatterono per la vergine terra, alla fine vincendo, sebbenesolo dopo aver imparato a combattere alla maniera degli india-ni. È il sogno di vincere una simile guerra combattuta conmetodi da guerriglia in un’altra foresta contro altre forze a noiestranee, altre, non bianche, che possiede l’inconscio dellamente dei guerrieri operai bianchi di Il cacciatore. […] Per loro,vale a dire, le giungle del Vietnam erano già state tradotteprima che le avessero penetrate, nelle mitologiche foreste di«L’ultimo dei Mohicani»; e i Rossi contro i quali combattevanoin Pellerossa. (2)

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Se questo è per l’appunto lo schema ideale, già larealtà del Vietnam si rivela incapace di sostenerne leparti: la traduzione non riesce, il nuovo scenario si rive-la piuttosto come luogo di pulsioni casuali, irrazionali,gratuitamente brutali. Sancita (attraverso la metaforadella roulette russa) l’impossibilità di declinare ulte-riormente il mito, le sequenze finali di The Deer Huntercelebrano il ritorno dei personaggi all’universo dome-stico, ai suoi simboli famigliari e comunitari. È insom-ma il fallimento di quell’antiuniverso morale maschiledi cui si diceva sopra, il fallimento di una «falsa utopiadi irresponsabilità, legame tra uomini, alcool, sessocasuale e omicidio giustificato».

Il film di Coppola, invece, rappresenta per Fiedler

lo sforzo congiunto di un gruppo stranamente assortito di perso-ne consapevoli oltre ogni limite, che aspirano a essere intellettua-li, spinti non soltanto da ideologie in conflitto, ma da miti di guer-ra molto diversi. […] Perfino nel copione originale, tuttavia, sem-bra che Milius [lo sceneggiatore] avesse già iniziato a mischiare lafigura del Barbaro amorale con quella di Kurtz, l’europeo diven-

tato indigeno, che in «Cuore di tenebra» di Joseph Conrad imparache tale Selvaggio giace nel profondo del cuore persino del piùcivilizzato tra noi – e che questo è l’orrore finale.

Il film si collocherebbe, cioè, in un complesso retico-lo di testi, finendo con l’accogliere ordini di valorediversi e incompatibili. In particolare, il tertium quiddell’Uomo Americano finirebbe con scontrarsi conl’approccio manicheo e imperialista ereditato daConrad, mentre i molteplici riferimenti culturali affa-stellati dal film (la musica rock, la subcultura surfistadella West Coast e il Modernismo letterario europeo)non farebbero che aumentare la confusione. Coppola –chiosa Fiedler – non arriva a una sintesi etica: Kurtzprevale temporaneamente nella giungla del Vietnam,«diventando nativo». Ma gli atti di violenza che questaassimilazione comporta non sembrano riconciliati inun più alto sistema di legittimazione.Willard rinunciaalla successione tribale cui sembrerebbe consegnarlol’uccisione di Kurtz, e il suo ritorno al fiume ha ilsapore di una questione irrisolta.

Il regista, insomma, «fallirebbe nell’opera di riuscirea creare un nuovo mito eroico capace di lenire le feri-te della psiche causate dal Vietnam». Ferite – aggiun-giamo – destinate a rimanere aperte fino a oggi.

2.

Per comprendere le implicazioni della rottura viet-namita occorre riandare alle fondamenta del genere.Gli elementi caratteristici del combat-film, fissati giànel 1941 e consolidati poi durante la Guerra fredda,derivano le proprie forme sintattiche dalla tradizionedel western classico. Il genere si struttura poi attraver-so l’opera di cineasti come Hawks, Walsh, Ford,Garnett e Farrow.

J. David Slocum (3), citando uno studio canonico diJeanine Basinger, individua con chiarezza alcunecostanti di questi racconti. Del resto, Manny Farber neaveva ristretto il novero già in un articolo del 1944: ungruppo rappresentativo del melting pot statunitense,una missione, qualcuno che rimpiazza un capo morto,un membro del gruppo determinato a non riarruolar-si quando avrà finito il turno, un conflitto tra duemembri della squadra risolto dalla minaccia esterna,uno scontro decisivo sul finale (4).

Questo il quadro degli elementi. A definire una stra-tegia simbolica, tuttavia, non basta un elenco. Occorreun principio d’ordine, un’organizzazione narrativa:una prospettiva. Qual è la modalità di visione domi-nante all’interno di questa produzione? Slocum rilevacome l’interesse della macchina di rappresentazionehollywoodiana si concentri su una focalizzazione indi-viduale:

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Il cacciatore di Michael Cimino

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A central concern about Hollywood war films is the motivations, atti-tudes, and behavior of individuals preparing for or immersed in com-bat. To an extent, this concern derives from Hollywood cinema’sbroader emphases on individual characters (and the stars often por-traying them) and their decisions, relationships, behavior, and con-flicts as the bases of dramatic action and narrative coherence. […]The melting pot platoon has been a narrative device well-suited tothe needs of moviemakers to strike a balance between the exigenciesof storytelling focusing on individuals and the imperative to representthe values and stake of American society in films about the Nationgoing to war. […] Put differently, the individual soldier or comman-der might be presented as heroic and noble or flawed and ineffective,but the study in character itself, however seemingly representative ofhistorical experience, often averts attention from the ideological orstructural aspects of the war in which he is fighting. (5)

Questa sospensione del quadro storico-ideologico afavore di una prospettiva individuale possiede impli-cazioni interessanti. Da un lato, sono le sensazioni delsingolo soggetto percipiente a costituire il metro digiudizio della mise en scène. Mark Carnes sottolinea

come ciò conduca a concentrare l’attenzione sugliaspetti visuali della realtà, fino a concedere unasostanziale equivalenza tra verosimiglianza e verità,specie in presenza di scenari storici (6). D’altro lato, aquesto va aggiunta l’importanza dei corpi: ferite, muti-lazioni e altre atrocità del campo di battaglia innesca-no una dimensione di paura fisica, in cui emerge pre-potentemente l’istinto di sopravvivenza. Una sorta discenario primordiale ingloba i personaggi e le loroazioni, costruendo un immaginario astratto, in cuitutte le guerre finiscono per assomigliarsi.

La focalizzazione immersiva sul singolo ha consen-tito, insomma, al cinema bellico classico (tipicamenteambientato nella Seconda guerra mondiale) di propor-re una prospettiva eroica metastorica, all’interno dinarrazioni in cui individuo eccezionale e collettivitànazionale si implicano e si comprendono a vicenda. Ilparadigma descritto, sottraendo gli specifici conflitti alloro contesto storico, ha peraltro permesso al warcinema statunitense di attingere direttamente ai mitifondativi della cultura nazionale.

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Apocalypse Now di Francis Ford Coppola

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Con Saigon, qualcosa si ruppe. Lo stesso Slocumnota come

[…] film narratives from the late 1960s and 1970s came tobetray a more thoroughgoing breakdown in the way a past, espe-cially a coherent, mythic past, could be understood. Thus TheDeer Hunter “accurately reflects the contemporary trouble withrepresenting any collective history for an audience that, at leastsince Vietnam, has only the most temporary sense of itself as asingular historical image among an unprecedented plethora ofcultural and historical images” (Corrigan 1991: 15). […] LindaDittmar and Gene Michaud cast light on this narrative ambigui-ty by suggesting that “the Vietnam War is presented as some-thing that happened, not as something that was done”. (7)

Qualcosa che accade, e non qualcosa che viene com-piuto: il sintomo di un principio d’ordine che inizia aperdere presa, di uno schema narrativo che non riescepiù a ricondurre a sé gli elementi del quadro. Quelloche si intende suggerire qui è che a rendere impossibi-le il mantenimento della connessione tra queste narra-zioni e le loro fondamenta archetipiche fu l’impossibi-

lità di ricondurre sensatamente il Vietnam a quellaprospettiva individuale che aveva caratterizzato leprecedenti traduzioni del mito fondativo.

Abbiamo visto come nel modello descritto daFiedler l’assimilazione del nemico passasse attraversoil confronto a viso aperto, tra pari, nella natura incon-taminata della wilderness che costituisce il trattoarchetipico dell’Ovest americano. La focalizzazioneindividuale adottata dal combat-film classico erasostanzialmente in linea con quel modello. ColVietnam, tuttavia, quella prospettiva tra pari vienemeno. Il nemico si fa ombra, si sottrae allo sguardo perassumere lo statuto di una costante, invisibile minac-cia ambientale. La nuova wilderness, più che fiera-mente selvaggia, è ostile, subdola. Dal punto di vistadel singolo combattente, la guerra nega alle vecchienarrazioni i loro elementi fondativi (lo sguardo delnemico e la comune appartenenza alla natura inconta-minata), lasciando i protagonisti privi di punti di rife-rimento.

La reazione è un deciso ribaltamento di prospettiva:è la sight view dei bombardieri a farsi nuova cifra sco-

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Apocalypse Now

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pica del conflitto. Defoliare la foresta per sgomberarela visuale aerea: l’uso massiccio del napalm ha il sapo-re di una reazione stizzita, forzata. Privato del con-fronto diretto, lo sguardo si fa tecnologico, aereo,mediato e potenziato. E – per affermarsi – richiede ilsacrificio di quella stessa natura divenuta ostile. Inquesto ribaltamento c’è il primo accenno di quelmutamento radicale che emergerà compiutamentenella Prima guerra del Golfo, per poi accamparsi –oggi – come centro focale della rappresentazione cine-matografica della guerra.

3.

La storia del cinema bellico americano appare ogginuovamente a una svolta. Dopo i due decenni di ela-borazione del lutto a cui si accennava in apertura, ilcritico Bill Krohn avvertiva già tre anni fa del possibi-le ritorno di un combat-film (neo)classico. In occasio-ne dell’uscita nelle sale di The Hurt Locker, direttonel 2008 da Kathryn Bigelow, il critico suggeriva sui«Cahiers» che

la singularité de The Hurt Locker est de proposer un prototypedu “film de combat” pour cette guerre interminable et invisible,qui possède déjà ses figures propres: le convoi, l’embuscade, lesIED, la caméra vidéo, le barrage routier, le labyrinthe. […] Lefilm de combat de la Seconde guerre mondiale est réapparu en1998 avec le succès d’Il faut sauver le soldat Ryan, dont le butavoué de sauver le genre lui-même, et l’image de l’Amériquequ’il a toujours incarnéè. […] Dix ans plus tard, KathrynBigelow signe un film de combat sur une unité d’élite de démi-neurs volontaires de l’armée américaine à Bagdad qui suit nonseulement la lettre mais l’esprit d’Air Force. Son héros, joué parJeremy Renner, ressemble à John Wayne jeune, pas au Waynemûr, monumental. (8)

Un set di nuovi elementi codificati si riconfiguraintorno a una sintassi preesistente, nel tentativo diriattivare un genere. Nulla di nuovo. E però, The HurtLocker attira la nostra attenzione per almeno dueordini di ragioni.

Il primo di essi riguarda la presenza di Mark Boalalla sceneggiatura del film. Corrispondente di guerra,collaboratore di «Playboy» e «Rolling Stone», Boal èanche autore di «Death and Dishonor», un articolo del2004 basato su vicende reali, da cui è stato tratto Inthe Valley of Elah (Nella valle di Elah), diretto nel2007 da Paul Haggis. La triangolazione tra i due filme il giornalista è suggestiva. La figura del corrispon-dente di guerra parrebbe riproporre, in una modalitàdiversa, la prospettiva del combat-film classico.

Certo, le differenze tra le due pellicole sono note-voli. The Hurt Locker si propone come un film

d’azione, animato da personaggi forti, sequenzeadrenaliniche e situazioni drammatiche. Il film diHaggis ha ambizioni più complesse e una strutturanarrativa più inquieta: evita lo scenario del fronte esi presenta come un’ambigua detective story.Eppure, il fatto che entrambi i film tengano unpiede nella realtà attraverso il ruolo di Boal meritaforse qualche considerazione.

Una traccia utile ci è fornita dallo stesso Fiedler, e ciriporta ad Apocalypse Now:

[…] Milius si era servito in abbondanza di una cronaca giornali-stica di quello che era davvero successo in Vietnam, scritta daMichael Herr, il quale è poi stato coinvolto nel film nella partedella voce narrante fuori campo. (9)

La figura del corrispondente, insomma, potrebbeessere intesa come una marca della crisi del genere?La situazione sembra suggerirlo. In effetti, la presenzadi questi personaggi ricorre in due contesti – Vietname nuovo scenario mediorientale – legati dall’identicadifficoltà narrativa. Resta da capire in che modo que-

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The Hurt Locker

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sti giornalisti possano offrire una via d’uscita al vico-lo cieco in cui si dibatte la narrazione di guerra.

Quella del corrispondente è in primo luogo una figu-ra liminare. Egli partecipa della situazione bellica, mala sua funzione resta eccentrica rispetto alla macchinamilitare. La sua prospettiva è irriducibile alla logicadel noi contro loro: l’atto stesso della scrittura riaffer-ma – in un certo senso – la soggettività personale delgiornalista, che resta ostinatamente un io.Vale a dire,un principio – per quanto arbitrario – di organizzazio-ne narrativa.

Nel reporter prende corpo una sorta di principio direaltà: egli incarna una prospettiva – culturale e scopi-ca – che si fonda e si legittima sull’esperienza sogget-tiva di un singolo individuo, per quanto liminarerispetto alle dinamiche stesse del conflitto.

Proprio l’esternalità di questo sguardo rispetto alcombattente determina tuttavia un’ulteriore conse-guenza. Saltata la saldatura tra collettività in armi esoggetto percipiente (non più coinvolto attivamentenello scontro), il nuovo punto di vista tende a una pro-liferazione delle fonti scopiche. Ciascuna di queste

fonti scopiche risponde a se stessa, non partecipa allalogica collettiva del conflitto: di fatto, ciascuna risultaegualmente arbitraria, incapace di ristabilire un sensocondiviso. A questa linea sembra ricondursi anche ilsoldato con la videocamera, vero e proprio fantasmadella “guerra invisibile”, menzionato anche da Krohnnel suo elenco sommario. La figura – da Battle forHaditha (Il massacro di Haditha, 2007, di NickBroomfield) a Rachel Getting Married (Rachel sta persposarsi, 2008, di Jonathan Demme) – sembra incar-nare un paradigma scopico incerto, la cui parzialeintegrazione alle dinamiche del conflitto lascia traspa-rire il tentativo di rendere (e – talvolta – rendersi)conto dell’impasse in cui è bloccato il racconto diguerra.

La questione, del resto, era già iscritta tra le righedei «Dispacci» vietnamiti di Herr. Gli stessi soldati,racconta lo scrittore, erano in qualche modo angoscia-ti dalla presenza dei corrispondenti. Essa infatti rap-presentava la possibilità di ridare centralità alla pro-pria storia personale. Senonché, proprio di fronte aquesta possibilità di riemersione individuale i combat-

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The Hurt Locker

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tenti si sentivano spinti ad adottare “ruoli da film”,cioè quei codici narrativi socialmente condivisi cheavevano appreso da Hollywood in un decennio dicombat-film. Lo sguardo del reporter diventava cosìuna sorta di guardiano narrativo della battaglia, unamolesta esigenza di senso laddove la fatalità irriflessae assurda costituiva invece l’unica logica dominante.

D’altro lato, tuttavia, l’impossibilità di appoggiarsi aschemi validi e condivisi lasciava anche il cronistanella responsabilità di gestire il proprio sguardo, ecostruire arbitrariamente la propria narrativa: «Tuttinoi abbiamo dovuto per forza farci da soli i nostri film,tanti film quanti sono i corrispondenti, e questo è ilmio» (10).

Non è un caso, quindi, che il soggetto di Boal per Inthe Valley of Elah lasci al personaggio di Tommy LeeJones la responsabilità di ricostruire i frammenti videoavuti in eredità dal figlio. A fronte dell’indecifrabilitàdella testimonianza diretta, toccherà al vecchio padre– veterano di guerra e detective della polizia militarein pensione – fare appello alla memoria e all’esperien-za per rimettere insieme i pezzi della storia.

Ristabilire la verità dei fatti, tuttavia, non basteràa recuperare quel senso condiviso ormai inesorabil-mente perduto. Giunto alla fine, al vecchio militarenon resterà che alzare la bandiera al rovescio: «Itmeans “we’re in a whole lot of trouble so come saveour asses ’cause we ain’t got a prayer in hell of savingit ourselves”».

4.

L’altro ordine di ragioni per cui ci interessa TheHurt Locker riguarda la questione del ribaltamento diprospettiva. Parlando del Vietnam, abbiamo detto chedal napalm alla visione ipertecnologica della guerracontemporanea c’è un filo rosso e una consequenziali-tà logica.

Abbiamo visto come la prospettiva individuale rap-presentasse la visuale dominante nel codice di rappre-sentazione del genere. Detto questo, abbiamo aggiun-to come anche il mito fondativo descritto da Fiedlerrestasse intrinsecamente legato a un punto di vista ter-

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Nella valle di Elah di Paul Haggis

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restre, espressione di un confronto tra pari. I dueapprocci – scopico/narrativo e culturale – convergonoinsomma in un’unica prospettiva.

Accanto a essa, tuttavia, la cultura americana hacoltivato fin dalle sue origini pionieristiche il culto perun altro punto di vista, aereo e tecnologico: daLindberg ai B-17, fino agli attuali droni automatici,essa ha trovato nello sguardo dall’alto un filone di rap-presentazione del progresso storico e del dominio cul-turale. Questo sguardo apollineo e impersonale espri-me un’ideologia per molti versi globalista, che vedenegli Stati Uniti una sorta di modello naturale perl’evoluzione politica e morale del mondo. Un orienta-mento – imperialista e vagamente massonico – chestride radicalmente con quella matrice selvaggia, jef-fersoniana e pionieristica descritta da Fiedler.

La prospettiva aerea genera infatti una visione car-tografica, astratta e divina, in cui i luoghi si delocaliz-zano in spazi equivalenti. Per questa via, la possibilitàdi vedere dall’alto si traduce quindi in quella di con-trollare, decidere arbitrariamente i valori di luoghi esoggetti deprivati delle proprie connotazioni origina-rie. Ma c’è un problema. Il soggetto di questo sguardoè geneticamente esterno: divino, abbiamo detto, quasi

assoluto: rinnegando ancora una volta il confronto trapari, le scelte di valore che egli opera ricadono in unalogica autonoma, che si giustifica da sé.

Oggi l’“Uomo Americano” vive in modo netto ladoppiezza scopica iscritta nella propria cultura. Daun lato, egli si trova di nuovo nella giungla: è costret-to a guardare negli occhi l’Uomo Non-Bianco, che laStoria e la razza lo condannano a uccidere. Ma –come per il Vietnam – il vecchio mito si inceppa. Itentativi di reintegrare i nuovi elementi del genere inuna prospettiva eroica e virile di vecchio stampo nonriescono a far presa. Tant’è che un film recente comeBattle: Los Angeles (World Invasion, 2011, diJonathan Liebesman) non trova di meglio che truc-care le carte e sostituire i guerriglieri con degli inva-sori alieni, nemici assai meno problematici. Il proble-ma – rispetto al mito fondativo – resta un’incon-gruenza di fondo: la nuova foresta è una città. Ilnemico si nasconde in un labirinto urbano, fatto dicase e di strade. Di famiglie, di donne, di civiltà. InThe Hurt Locker il nobile pellerossa ha lasciato ilposto a decine di occhi irraggiungibili, che osservanodall’alto, dai bordi della strada. Di nuovo, gli elemen-ti fondamentali – lo sguardo del nemico, la comune

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Nessuna verità di Ridley Scott

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appartenenza alla wilderness in opposizione all’ordi-ne morale domestico – risultano incompatibili con ilnuovo scenario. La città si sostituisce alla forestaincontaminata, e lo scontro tra pari viene rovesciato:il selvaggio si ritira, si nasconde nella folla dei civili,si nega allo scambio di sguardi. Il film insiste su que-sto tema: durante le azioni dei soldati, soggetti ano-nimi ai lati della strada (forse nemici, forse cittadini)osservano, riprendono, assistono. I due universimorali sono inesorabilmente fusi e indistinguibili.

Dall’altro lato della visione, lo sguardo iper-tecnolo-gico e aereo finisce per separare l’Uomo Americanodai propri miti (come dalle proprie responsabilità),entrando perfino in conflitto con coloro che si ostina-no comunque a difendere la prospettiva terrestre

In Body of Lies di Ridley Scott l’opposizione si deli-nea in modo netto. Da un lato l’uomo sul campo(DiCaprio), che ama guardare negli occhi gli uominicon cui ha a che fare, rispetta i suoi alleati e, in defini-tiva, diventa autoctono fino a innamorarsi di unaragazza locale e decidere di restare in Medio Oriente.Dall’altro il burocrate (Crowe), il cinico calcolatoreche manovra il teleocchio dei droni da ricognizionedalla parte opposta del pianeta, restando radicato nelproprio universo domestico.

I tratti caratteristici dei due sono a loro volta com-plementari. Il personaggio di DiCaprio – agente deiservizi segreti – è di nuovo a suo modo liminare. Il suocoinvolgimento sul campo passa attraverso il ricono-scimento personale di avversari e alleati, secondo unmodus operandi che progressivamente lo emarginadalla macchina di potere statunitense: il film connotapositivamente la sua adesione alla prospettiva terre-stre, ma il prezzo ultimo è l’esclusione dalla narrazio-ne di guerra.

Quest’ultima è assai meglio rappresentata dal telefo-no satellitare e dai droni con cui Crowe gestisce daWashington i destini delle operazioni. Una distanzaconcreta e simbolica dal luogo dell’azione, che – inluogo della partecipe assimilazione incarnata daDiCaprio e dal suo corpo vivo – appiattisce gli attoriin una mera opposizione di immagini virtuali, bersaglibuoni e bersagli cattivi, informatori utili e fonti sacri-ficabili. Una tale semplificazione finisce con gettareforti dubbi tanto sull’efficacia quanto sulla capacità didiscernimento del teleocchio satellitare, ma – soprat-tutto – finisce per sottrarre all’Uomo Americano lacifra simbolica del conflitto: l’incontro-scontro con ilNon-Bianco e il suo ambiente.

Tanto la Bigelow quanto Scott si pongono – in defi-nitiva – il problema di trovare una forma scopica ade-guata a sostenere un genere che ha perso contatto coisuoi miti fondativi. La mediazione soggettiva del cor-rispondente e lo sguardo ipertecnologico della pro-spettiva aerea costituiscono le due modalità di visione

che tentano oggi di farsi carico dell’enunciazione delconflitto. Entrambe tuttavia si scontrano con la diffi-coltà di riconnettere il materiale narrato con la matri-ce archetipica della narrazione di guerra americana. Ingioco c’è ancora – come sempre – la possibilità dicomprendere. E quella di raccontare.

(1) Samuele F.S. Pardini, Charlie Don’t Surf. Le origini bianche delleguerre americane, introduzione a Leslie Fiedler, Samuele F.S. Pardini(a cura di), «Arrivederci alle armi. L’America, il cinema, la guerra»,Donzelli, Roma 2005, p. XVI. Le considerazioni espresse in questiparagrafi si rifanno largamente alle riflessioni di Pardini.(2) Leslie Fiedler, Mitizzando l’indicibile, in Samuele F.S. Pardini (acura di), Arrivederci alle armi. L’America, il cinema, la guerra»,Donzelli, Roma 2005, pagg. 61-62; ed. orig. Mithicizing theUnspeakable, in «Journal of American Folklore», 1990, 103, pagg.390-399. I corsivi sono miei. Le altre citazioni da questo testo fannoriferimento alle pagine seguenti dell’introduzione.(3) J. David Slocum, General Introduction: Seeing ThroughAmerican War Cinema, in «Hollywood and War, the Film Reader»,Routledge, New York/London 2006.(4) Manny Farber., Movies in Wartime, in «The New Republic», 3gennaio 1944.(5) J. David Slocum, op. cit., pagg. 8-9.(6) Mark C. Carnes, Shooting (Down) the Past: Historians vs.Hollywood, «Cineaste» vol. XXIX no. 2, primavera 2004, pag. 47.(7) J. David Slocum, op. cit., p. 15. I corsivi sono miei.(8) Bill Krohn, Irak 2: le film de combat, «Cahiers du Cinéma» n.638, ottobre 2008.(9) Leslie Fiedler, op. cit., pag. 65.(10) Ibid., pag. 194.

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World Invasion di Jonathan Liebesman

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Sempre di più, al giorno d’oggi, siamo ossessionatidal voler archiviare le immagini che hanno avutoimportanza nella nostra vita: dai film che abbiamoamato alle fotografie del nostro passato. Fotogrammiche si vanno a collocare all’interno di spazi che rite-niamo “nostri” e personali, sia che si tratti di un luogoprivato e “inaccessibile” agli altri (una cartella protet-ta all’interno di un personal computer), sia che si trat-ti di ambienti condivisi (Facebook e social network).Già l’intero corso del Ventesimo secolo è stato caratte-rizzato da una forte ossessione memoriale, per la qualericordare è diventata un’azione sempre più necessaria

e a volte più importante anche di sopravvivere. In que-sto senso, si può intendere non soltanto il pensiero diPrimo Levi (1), ma anche tutte le testimonianze deisopravvissuti della Shoah (2).

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L’OSSESSIONE DELL’ARCHIVIAZIONEL’OSSESSIONE DELL’ARCHIVIAZIONEL’OSSESSIONE DELL’ARCHIVIAZIONEL’OSSESSIONE DELL’ARCHIVIAZIONEL’OSSESSIONE DELL’ARCHIVIAZIONESAGGI

I CASI DI CL0VERFIELD E INCEPTIONAndrea Chimento

(1) In particolare il classico Primo Levi, «Se questo è un uomo», Einaudi,Torino 2005.(2) All’interno di una bibliografia sterminata alcuni possibili titoli sono:Marcello Pezzetti, «Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi èsopravvissuto», Einaudi,Torino 2009; Laura Tussi, «Il dovere di ricorda-re. Dalla Shoah all’attualità dell’intercultura», Aracne, Roma 2010;Anna Rossi Doria, «Sul ricordo della Shoah», Zamorani, Torino 2010.Altro testo estremamente significativo sul valore delle immagini comedocumentazione della Shoah è certamente Georges Didi-Huberman,«Immagini malgrado tutto», Raffaello Cortina, Milano 2005.

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Il tema del ricordo, già ai tempi della Seconda guer-ra mondiale, non doveva essere unicamente collegatoalla parola scritta, ma anche a quella visivo – iconica.Ando Gilardi, nel suo interessante studio sull’impor-tanza della testimonianza fotografica, intitolato non acaso «Lo specchio della memoria: fotografia spontaneadalla Shoah a Youtube» (citando un rappresentante delgruppopantarei), scrive che «la fotografia avvicina inmodo preciso e impietoso alla tragedia più di ognialtro elemento narrativo. Questo poiché qualsiasi altraforma rappresentativa contiene maggiori elementiimmaginifici che possiamo elaborare liberamente, oche vengono elaborati dal creatore. La fotografia cimette davanti alla cruda realtà: è una meticolosa edesatta descrizione di persone reali e situazioni concre-te» (3). L’atlante, nel senso indicato da Aby Warburg(4) è, in quest’ottica, la forma di rappresentazione chesottrae alla collezione la dittatura del verbale, propo-nendo uno scambio simbolico tra immagini (Bilder) etra Pathosformel (5).

Dall’atlante all’archivio, nel senso derridiano del ter-mine (6), il passo è breve. Qui, nello spazio della colle-zione, fa capolino la forma istituzionale, il “luogo”, cheè il vero problema del decostruzionismo moderno.Rimangono, però, anche qui le immagini, le fotografiein particolare, la modalità espressiva più adeguata perricordare e per portare avanti questa volontà di archi-viazione che oggi, attraverso la digitalizzazione, èdiventata ancora più forte e impellente. Questo, comescrivono i tanti studiosi che hanno trattato l’argomen-to, risulta particolarmente riscontrabile all’interno delfenomeno Youtube. La cosiddetta “youtube generation”è vista come un fenomeno di massa disomogeneo e dif-ficilmente classificabile, che ha fra le sue modalitàcomuni anche quella di dare una prevalenza non più avivere delle esperienze ma a filmarle (7).

Molto interessanti sono le parole del fotografoFranco Vaccari, che con la sua arte cerca di testimonia-re il passaggio dalla società di massa alla società direte, ed è stato fra i protagonisti dell’ampia mostradedicata in questi mesi dal Museo delle Arti diCatanzaro proprio intorno al tema della ritualità col-lettiva prima e dopo il web (8). Intervistato alla pre-sentazione di questo evento, Vaccari disse che «untempo la gente voleva vivere, non guardarsi vivere»(9). Mentre si stanno provando delle esperienze, algiorno d’oggi, la tendenza è direttamente quella dimantenerle, preservarle, archiviarle. Per rivederle efarle rivedere.

CLOVERFIELD, QUANDO PUR DI FILMARE SI È PRONTI ANCHE A MORIRE

Questa tendenza ossessiva è ben rappresentata dalprimo dei due film che vorrei qui citare, Cloverfield(id., 2008) di Matt Reeves, prodotto da J.J. Abrams.Non a caso fra i titoli più studiati del cinema ameri-cano del nuovo millennio, Cloverfield si configuracome una sorta di diario intimo della fuga di un sem-plice ragazzo, che ha in mano una videocamera digi-tale, da un mostro gigantesco che sta distruggendo lacittà di New York. La scelta di utilizzare videocame-re digitali simboleggia una modalità tecnica che oggiè alla portata di chiunque: in questo senso è partico-larmente comune, proprio come avviene nellesequenze iniziali di Cloverfield (che mostrano unasemplice e noiosa festa fra ragazzi intorno ai vent’an-ni), riprendere la banalità del quotidiano in attesache accada qualcosa d’interessante da riguardare,archiviare e mostrare in futuro.

Anche in questo senso si possono citare le parole diRoy Menarini che lo definisce come «un apax piutto-sto eloquente dei tempi che corrono, dove immaginipotentissime (la testa della Statua della Libertà cherotola vicino a Broadway) rivaleggiano con quelledrammaticamente reali dell’11/9» (10). Perennemente(e giustamente) letto proprio come un tentativo di ri-narrazione, finzionale e metaforica, dell’11 settembre(11), Cloverfield è, però, soprattutto una forte riflessio-ne sull’epoca contemporanea (e le sue ossessioni diarchiviazione e preservazione di frammenti visivi), apartire dal modo in cui è girato.

La scelta del digitale deriva anche dal fatto che quelloche viene messo in scena è un montato di un film sovrim-presso a un altro, una testimonianza che ne cancellaun’altra, dove in alcuni momenti affiora la registrazionepassata, che mostra una precedente relazione sentimen-tale fra due dei protagonisti del film, prima che tuttocambiasse quel giorno dell’attacco del mostro su NewYork. Le riprese della festa, e successivamente della fuga

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(3) Ando Gilardi, «Lo specchio della memoria: fotografia spontaneadalla Shoah a Youtube», Mondadori, Milano 2008, p. 81.(4) Cfr. Martin Warnke (a cura di), «Aby Warburg: Mnemosyne.L’atlante delle immagini», Aragno, Genova 2002.(5) Con questo termine Warburg indicava le immagini archetipicheche ritornano in contesti artistici temporalmente differenti. SecondoWarburg dove appare qualche manifestazione di pathos, se ne puòrintracciare una formula antica (formeln). Per maggiori informazio-ni sull’argomento, cfr. Maria Luisa Meneghetti (a cura di),«Pathosformel, retorica del gesto e rappresentazione: ripensandoWarburg», Istituti editoriali e poligrafici, Pisa 2006.(6) Cfr. Jacques Derrida, «Mal d’archivio. Un’impressione freudiana»,Filema, Napoli 1996.(7) Diversi i testi sull’argomento, fra cui: Jean Burgess, JoshuaGreen, «Youtube: Digital Media and Society Series», Polity Press,Cambridge 2009; Demetrio Longo, «Youtube. Breve storia di un feno-meno sociale», Futura, Perugia 2008.(8) Intitolata “Community: la ritualità collettiva prima e dopo ilweb”, questa mostra, curata da Alberto Fiz e Luca Panaro, si è svol-ta al museo Marca di Catanzaro dal 19 dicembre 2010 al 27 marzo2011.(9) http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2010-12-20/catanzaro-memoria-collettiva-neorealismo-101808.shtml?uuid=AYxyMHtC,27/12/2010, 14.03.(10) Roy Menarini, «Il cinema dopo il cinema – 10 idee sul cinemaamericano 2001-2010», Le Mani, Recco (Ge) 2010, p. 44.(11) Si veda anche Andrea Fontana (a cura di), «Il cinema americanodopo l’11 settembre», Morpheo Edizioni, Rottofreno (Pc) 2008.

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dalla gigantesca creatura, si impongono e si sovrappon-gono sul palinsesto precedente, rappresentato dalla gior-nata d’amore di Rob e Beth: di tanto in tanto quelleimmagini così diverse affiorano per pochi secondi, masoltanto per rivelare che cosa è andato perduto.

Questa sovrapposizione di immagini archiviateassume la forma di una vera e propria cancellazione:le immagini, sovrapponendosi alle altre, eliminano leprecedenti. Se questa è una semplice rappresentazionedelle scelte che ognuno di noi fa valutando quali sianoi film e le fotografie da tenere, da archiviare o da can-cellare all’interno dei nostri spazi privati, allo stessomodo «essa rimanda alla fragilità della memoria, delsuo stoccaggio e della sua conservazione in epoca con-temporanea: l’immagine digitale è aerea, astratta, altempo stesso durevole e facilmente modificabile e can-cellabile – eppure è proprio la proliferazione di sguar-di digitali, anonimi e quotidiani, nelle strade dellemetropoli a garantire in molti casi una documentazio-ne in diretta degli eventi» (12). Questo senso di diret-ta dell’evento è reso dalle riprese in soggettiva di unavideocamera digitale che diventa una sorta di protesidel corpo di colui che sta filmando, il protagonistaHud, e che, allo stesso tempo, sta fuggendo.

In realtà, però, in Cloverfield non vi è alcun nar-ratore definito e definibile. Come chiariscono i car-telli all’inizio del film, quello che stiamo per vedereè la proiezione di un nastro (di proprietà delMinistero della difesa degli Stati Uniti) relativo alcaso “Cloverfield”: una registrazione composta dadiversi punti di vista in cui l’unico narratore real-mente “presente” è colui che preme il tasto di avviodella riproduzione. O, se preferite, che dà inizio allospettacolo. Hud (e, successivamente, Rob che glisubentra verso la conclusione) non c’è più: rimarràucciso dalla creatura per il desiderio di “guardare”(e di mostrare sempre) di più. Sarà pronto anche amorire pur di documentare quello che stava succe-dendo quel giorno: l’importante, proprio comeavverrà, sarà riuscire a riprendere anche la propriastessa morte. E così come la tragedia della Storiadivora l’evento privato (simboleggiato dalle imma-gini precedentemente impresse che riprendevano larelazione d’amore fra i due ragazzi Rob e Beth), allostesso modo il mostro cercherà di ingoiare la video-camera che lo voleva filmare senza permesso, in unasorta di citazione postmoderna da The Big Swallow(Il grande boccone, 1901) di James Williamson. Eproprio in questa sequenza finale va in scena nellamaniera più cruda e violenta quell’ossessione del-l’archiviazione che Cloverfield ha rappresentato pertutta la sua durata.

INCEPTION, L’ARCHIVIO DELLA MENTE

La tendenza dell’“ossessione dell’archiviazione” tro-verà una chiave ancora più esplicita, ma non per que-sto meno degna di essere trattata, nel recentissimoInception (id., 2010) di Christopher Nolan. Inceptionè un titolo che parla di tantissimi temi: di sogni, disogni dentro altri sogni, d’incertezza su dove ci trovia-mo e se siamo in uno stato di veglia oppure in un uni-verso onirico. All’interno di tanti spunti si trova anchela massima simbolizzazione cinematografica dell’ar-gomento principe di questo scritto. Il protagonistaCobb, interpretato da Leonardo Di Caprio, è riuscito aimmagazzinare all’interno della sua mente diversimomenti del suo passato vissuti con la moglie scom-parsa. Mentre dorme, riesce ad accedere a questi ricor-di a suo piacimento, scegliendo cosa “rivivere” e sele-zionando quello che desidera (ri)vedere, proprio comeavviene oggi tramite qualsiasi archivio digitale.

Se gli archivi dei film (ma non solo) nascono comerisposta a un’assenza, allo stesso modo l’“archivio men-tale” del personaggio di Inception nasce per il traumadella perdita della moglie, che Cobb cerca di mantene-re viva dentro di sé grazie alla catalogazione e alla con-servazione dei “film” più significativi della loro vita

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insieme (rimandando in questo senso anche agli archi-vi dei video familiari). Una modalità simile a quella giàmessa in scena da Kathryn Bigelow per Strange Days(id., 1995), dove il protagonista Lenny Nero è un expoliziotto, ora spacciatore di wire-trip clips (dischettisui quali vengono registrate esperienze di altri), cheincludono tutti i loro input sensoriali, come vista, udito,tatto e olfatto, e che tramite un lettore possono essererivissute da chiunque.

Nel numero 498 di «Cineforum», Luca Malavasi hascritto che Inception è proprio un film «sui desideri e lepaure che alimentano le immagini – tutti i tipi di imma-gine – e che governano il nostro rapporto (di bisogno)con le immagini – un bisogno antropologico e forseprima ancora biologico di arredare il mondo – tutti itipi di mondo d’immagini». Questa necessità d’immagi-ni somiglia a una spinta irrefrenabile che, secondo lui,fa diventare il film una metafora di uno sprofondamen-to che di livello in livello provoca un desiderio semprepiù forte di avere un controllo sulle immagini dellanostra vita, sul nostro archivio: «Inception è un filmpieno di memorie, pieno delle vite lunghe delle immagi-ni, del loro tempo non umano, del loro peso variabile,del loro spessore non calcolabile, dei loro confini mai

chiaramente tracciati. Vite che impongono continuediscese e risalite – e non semplici movimenti di avanti eindietro. Ma è sprofondando in queste vite che l’uomo,da sempre, fa i conti con la realtà» (13).

Quest’altalena di discese e risalite è data dall’og-getto che simboleggia l’archivio mentale di Cobb:non un mouse o una cartella file, ma un ascensore.Tramite l’allegoria del numero dei piani, Cobb sce-glie cosa (ri)vivere. Ogni piano rappresenta un deter-minato ricordo: da un momento felice dove Cobb eMal parlano fra di loro accarezzandosi, a una spiag-gia dove Mal gioca con i suoi figli, fino ad arrivareall’ultimo piano che rappresenta il momento più dif-ficile: quello del suicidio della moglie amata.All’interno di questo “grattacielo”di attimi già passa-ti vive Mal, all’interno dell’inconscio del suo vedovo;ed è da lì che continua a parlare e agire come se,seguendo un’interpretazione psicanalitica (14), quel-

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4(12) Luca Malavasi, Cloverfield, in Leonardo Gandini, AndreaBellavita (a cura di), «Ventuno per undici – Fare cinema dopo l’11settembre», Le Mani, Recco (GE) 2008, p. 233.(13) Luca Malavasi, La metafora dello sprofondamento, «Cineforum»n. 498, ottobre 2010, pp. 4-6.(14) Cfr. Ruggero Eugeni, Lo spettatore archivio. Cinema, memoria,modernità, «Fata Morgana» n. 2-Archivio, ottobre 2007.

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le tracce del passato (che Mal rappresenta) nonaccettino di essere relegate nello spazio dell’archivio,ma ne forzino la cesura che separa passato e presen-te per manifestarsi unicamente in quest’ultimo. Malvive in questo inaccessibile e segreto – per quantol’archivio segreto, scrive Derrida, sia una contraddi-zione in termini (15) – mare di ricordi che, come diceCobb, sono quelli di cui maggiormente si pente e chevorrebbe aver la forza di cambiare.

Se i Cultural Studies dicono che «ogni testo è sem-pre l’archivio – con un input e un output costante-mente in movimento – di una memoria culturale chetrascina con se ciò che, per così dire, è solubile lin-guisticamente e ciò che non lo è. È un relais – perusare una bella immagine di Hartmut Böhme – checrea degli scambi tra nastri trasportatori che entra-no ed escono dall’archivio di cui siamo gli archivistipiù o meno consapevoli» (16); l’archivio mentale diCobb è invece fisso, senza scambi, fino a quando unaltro personaggio del film, chiamato non a casoArianna (dato che dovrà districarsi nel labirinto diricordi del protagonista), riuscirà a penetrarlo (comeun hacker che entra in uno spazio privato di un per-sonal computer) e modificarlo. Attraverso l’azione dilei, Cobb capirà come liberarsi del senso di colpa perla morte della moglie, come abbandonare i ricordidel suo passato che continua a fargli soltanto male:annientandolo.

Cobb abbandona la moglie distruggendo l’archiviodi cui è protagonista: tendenza, anche questa, tipica dichi vuole cancellare una persona del proprio passato,e per farlo cancella le sue fotografie. Soltanto facendomorire, simbolicamente in questo modo, la moglie perla seconda volta, Cobb sarà (forse) in grado di tornarea casa e rivedere il volto dei suoi figli.

Mentre in Cloverfield è la storia con la S maiuscolaa scegliere di cancellare, per grado d’importanza, ilresoconto di una giornata felice di due fidanzati, cosìda testimoniare un evento che dovrà finire su tutti iprincipali social network e, più in generale, all’internodi spazi pubblici, in Inception la questione è, al con-trario, totalmente personale, tipica degli spazi di archi-viazione privati. Inception ha, così, portato all’estremoil desiderio di preservare in un luogo “nostro”, in unarchivio inaccessibile ad altri ma per noi facilmentegestibile e organizzabile, le immagini che hanno avutoimportanza nel nostro passato. Per questo motivo è larappresentazione più significativa, nella sfera cinema-tografica, dell’“ossessione dell’archiviazione” contem-poranea; e forse è proprio questo il tema principaleche questo film, così complesso e sfaccettato, ha volu-to raccontare.

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(15) Cfr. Jacques Derrida, op. cit., p. 120.(16) http://www.culturalstudies.it/dizionario/dizionario.html, 27dicembre, 16.25.La terra (1930) di A. Dovzenko

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«Andammo al Fox Theatre, in Market Street, a vedere Il selvaggio.Eravamo almeno una cinquantina, con delle bocce di vino e igiubbotti neri di pelle… ci sedemmo in balconata a fumare sigari ebere vino, e a fare il tifo come degli stronzi. Eravamo proprio noiquelli che vedevamo sullo schermo, tutti eravamo Marlon Brando.Mi sa che me lo sono visto quattro o cinque volte».(Preetam Bobo, membro dei Market Street Commandos di SanFrancisco, poi degli Hell’s Angels)

La folgorante sequenza che apre The Wild Angels(I selvaggi, 1966) di Roger Corman ci dice già tutto,o almeno parecchio: un bambino su un triciclo peda-la furiosamente allontanandosi sempre più dallamadre, e cioè dall’autorità parentale, ma viene stop-pato improvvisamente dalla ruota anteriore di unchopper. Un filo rosso diretto di ribellismo e di fuga

salda dunque tra loro i primi conati di emancipazio-ne di un bambino e la futura vita selvaggia e vaga-bonda del bambino diventato adulto e biker. Dal tri-ciclo alla moto, nel segno comune di una lotta all’au-torità, di una sottrazione alla routine banale di unavita gerarchicamente ordinata e tracciata su binariprecostituiti (gli square di The Wild One [Il selvag-gio, 1954]). Anche per il cinema, come per la vita, lamoto è innanzitutto simbolo di libertà e di fuga daivincoli, da ogni vincolo. L’ultima inquadratura delfilm di Corman vede invece il protagonista PeterFonda che toglie lo sporco dalla tomba dell’amico fra-terno Bruce Dern, mentre le sirene della polizia risuo-nano sempre più vicine. Morale: forse nessuna, perché

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BIKERS MOVIE SAGGI

FOREVER REBELSAlberto Morsiani

Il selvaggio di Laszlo Benedek

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il nichilismo è un’altra delle anime di questo filmseminale e di tutto un genere.

O forse sì: l’esaltazione di una fratellanza virile emacho che si fa beffe delle costrizioni della società “adul-ta”, il peana a uno stato di eterna ribellione. Ribellionecontro cosa? È la domanda forse ingenua («Contro cosati ribelli?») che una ragazza, mentre balla al ritmo di unvizioso be-bop, rivolge, in The Wild One, a un MarlonBrando allungato mollemente sul juke-box del drugstoredi Porterville. L’insolenza tipica del personaggio rifulgenaturalmente nella sua strascicata risposta: dopo unapausa e un’alzata significativa di sopracciglio, Brando sene esce con la famosa battuta: «Contro di voi». Nella ver-sione originale, la risposta, in realtà, risuona leggermen-te diversa: «Whaddya Got?», qualcosa del tipo «Tu che nedici?». In precedenza il personaggio interpretato daBrando, Johnny, aveva pur detto alla dolce cameriera dicui si innamora che l’importante è alzarsi un giorno epartire, andare, non importa dove. Nel film di LaszloBenedek, che parte da una inchiesta giornalistica sull’in-vasione da parte di una gang di motociclisti della cittadi-na di Hollister, in California, nel 1947, ci sono infatti duesole categorie di persone: i bikers della Black RebelsMotorcycle Gang e tutti gli altri, i “quadrati”, gli square,nel senso di tutti coloro che, appunto, non decidono maidi partire, ogni tanto, per andarsene “da qualche parte”.Un mondo diviso in due.

Andare in moto, sulle strade vere e su quelle di cellu-loide, sembra contenere in sé una certa dose di anarchi-smo, o almeno un principio di ignoranza delle leggi edelle regole. È quasi una tautologia, il richiamo feticistae sessuale di un oggetto (la moto) luccicante, solido eveloce che si insinua fallicamente e talvolta fallocratica-mente dentro le pieghe e gli strati di una società-femmi-na. Bisogna poi sottolinearne una seconda, di ovvietà.L’equivalenza, sempre ribadita, tra il cavallo e la motoci-cletta nel senso di una “selvaggia”continuità ha a che faree rimanda alla mitologia del western, fondante per lasocietà americana. Esiste un film, Timerider (Timerider– Una moto contro il muro del tempo, 1982) di WilliamDear, in cui il protagonista, un bravo campione di fuori-strada, mentre sta partecipando a una famosa gara dienduro in Messico finisce per un collasso temporale inpieno Wild West, e deve vedersela con una gang di spie-tati banditi il cui capo, viste le potenzialità, intende sosti-tuire il suo cavallo con la moto da cross del nuovo arri-vato. Non a caso, il biker è stato anche ribattezzato “cen-tauro”: un essere mitologico, una creatura mostruosa,metà uomo metà cavallo – la parte inferiore, quella deibassi istinti, di una sessualità animale. Nei racconti mito-logici i centauri vivono in montagna e nelle foreste, sinutrono di carne cruda e hanno costumi assai brutali,compresa una certa propensione allo stupro. È l’immagi-ne ferina che accompagna da sempre il “selvaggio” inmoto, e che il cinema ha lungamente accarezzato.

Il biker, come l’eroe western, si realizza e si giustificacompiutamente come colui che, nella scia di DavidThoreau e del suo seminale «Walden ovvero la vita neiboschi», auspica e ricerca una fusione quasi mistica conil paesaggio e la natura, sfuggendo alle «trappole dellaciviltà» (per usare la memorabile frase del finale diStagecoach [Ombre rosse, 1939]). L’eroe del westernaspira, nel profondo, a una completa oggettivizzazione.Essere uomini non significa solo essere monolitici, silen-ziosi, misteriosi, impenetrabili come una roccia del deser-to: significa essere una roccia del deserto. Divenendo unoggetto minerale, non solo si è sollevati dal peso didoversi mettere in relazione con gli altri: si è sollevati,soprattutto, da ogni forma di coscienza.Allo stesso mododel cowboy col proprio cavallo, il biker anela a una fusio-ne con il serbatoio, la carena, il telaio, il motore, lesospensioni, il manubrio del proprio mezzo a due ruote.Una oggettivizzazione che celebra il suo trionfo di fetici-smo sessuale negli indimenticabili ventotto minuti diScorpio Rising (id., 1964) di Kenneth Anger. Ancora, ilcentauro e il suo eros abnorme.

Nel feticismo della moto ritroviamo l’utilizzo delmezzo come forma di fusione mistica con l’animale,cavallo o caprone che sia, e con la Natura. In sella a unamoto, il centauro e il paesaggio si muovono all’unisono:il desiderio nascosto è l’immersione completa nella wil-derness. Un tale misticismo informa i migliori film dibikers. The Wild Angels di Corman, ad esempio, è inte-ramente organizzato attorno alla morte di Bruce Dern eai prolungati riti funebri per la sua sepoltura, e si concen-tra su uno spassionato esame dei limiti di un anarchismoche non si riesce ad articolare con le parole. Nel film, gliHell’s Angels vengono caratterizzati come “satanici” insenso letterale, allorché “cadono” nell’abisso della non-scelta tra la Croce e la Svastica. Paradiso Perduto milto-niano, in effetti, dato che questo non serviam (il «Nonservirò Dio» dell’angelo caduto Lucifero, citato anche in«Ritratto dell’artista da giovane» di James Joyce, divenu-to un motto universale di chi non si conforma) conduceinesorabilmente, e molto acidamente, verso il “nulla dadire” e “il nessun luogo dove andare”.

Davvero, per il biker come per Lucifero, «è meglioregnare all’Inferno che servire in Paradiso»? Questa frasedi John Milton tratta da «Paradise Lost» viene peraltroeffettivamente pronunciata – incredibile! – dal leaderdella gang di motociclisti in un altro dei cult moviesmaledetti sui bikers anni Sessanta, Hell’s Angels onWheels (Angeli dell’inferno sulle ruote, 1967) di RichardRush, cui fu “consulente” il mitico leader degli Hell’sAngels Ralph “Sonny”Barger… Gli Hell’s Angels descrit-ti in Motorpsycho! (1965) di Russ Meyer sono “satanici”nei fatti (criminali), pazzi scatenati che violentano lamoglie del protagonista e, alla fine, vengono paragonatianche ai Vietcong contro i quali occorre passare alla tera-pia delle bombe a mano. Nel confronto con il “maledetti-

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smo” dei film di Corman, Rush e Meyer, il celeberrimoEasy Rider (Easy Rider – Libertà e paura, 1969), col suopercorso già stabilito attraverso Utah e Arizona, il carce-re a Taos in New Mexico, meta finale a New Orleans euccisione improvvisa a Morganza, Louisiana, appare giàpiù “normale”: la vera sovversione del film sta, semmai,nel suo definitivo sdoganamento della cocaina comenuova droga di riferimento. Piuttosto, il fatto che i duebikers del film (Billy e Wyatt, detto Capitan America)oltrepassino sui loro spettacolari chopper autentiche pie-tre miliari dell’America nella sequenza “sbagliata”rispet-to al mito della Frontiera , e cioè da Ovest a Est inveceche da Est a Ovest, suona lievemente irritante nel conte-sto del film, dato che quest’ultimo non sembra trarremolto giovamento artistico dall’uso del proprio spazio(grande e piccolo: l’inquadratura e la geografia dei luo-ghi), a differenza di quanto, ad esempio, riusciva a fare disolito John Ford coi suoi meravigliosi western ambienta-ti nella Monument Valley – che pure compare nel film diDennis Hopper.

Si ispira al misticismo di Hell’s Angels, ad esempio, unfilm minore come Stone Cold (Forza d’urto, 1991) diCraig Baxley, in cui il membro di una gang di spavento-si bikers del Mississippi, morto stecchito, viene issato

sulla sua Harley, cosparso di benzina e arso, tra il tripu-dio dei compagni, non diversamente che in una pira diun ghat a Benares in India. Misticismo che viene celebra-to, una volta per tutte, nell’esemplare documentario BikeBaba (2000) di Daria Menozzi, in cui un santone indù,per seguire gli itinerari di spiritualità e diffondere il cultodi Shiva, ha scelto proprio di muoversi attraverso l’Indiasu di una Hero Honda 100. Il viaggio in motociclettacome forma di meditazione.

La motocicletta si adatta perfettamente ai grandi spazidell’America. Quell’apertura orizzontale del paesaggioche manca invece in Italia, dove infatti una tradizione dibikers movie non è mai davvero esistita – piuttosto, datala nostra favolosa tradizione motoristica, sono stati gira-ti dei divertenti film sulle corse in pista, spesso interpre-tati da veri campioni sportivi, come Giacomo Agostini(Bolidi sull’asfalto di Bruno Corbucci, 1970). Nondimentichiamoci però, almeno, il temerario viaggio, trabuche e buche con acqua, di Ugo Tognazzi e GeorgesWilson dall’Abruzzo a Roma sulla Guzzi S 1939 nel bel-lissimo Il federale (1961) di Luciano Salce.

Negli States, la moto fonda, assieme all’automobile, lamitologia dell’on the road. Un intero genere, il roadmovie, è stato edificato sulla iconografia di questi due

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Easy Rider di Dennis Hopper

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mezzi di trasporto. Mobilità: questo è, del resto, il verosegreto degli americani. I film li hanno aiutati a sentirsiin perenne movimento: la poltrona di un cinematografoè qualcosa di soggettivamente, infinitamente mobile. Perquesto il road movie è un genere di film così tipicamen-te americano, odissea ossessiva di uomini e donne spinti,come i lemming, dal bisogno di continuare ad andare.Nei film di motociclette captiamo tutta l’impazienza dipartire verso un destino incerto ma desiderabile – lasoglia che divide casa e strada, la dialettica eterna trastabilità e nomadismo. I bikers sembrano pensarla comeil Charles Baudelaire di «Bellezza e verità»: «Studio dellaGrande Malattia: l’orrore del Domicilio», oppure come ilJohn Donne della terza «Elegia»: «Vivere in un unicopaese è prigionia / Scorrazzare in tutti paesi, un esaltan-te vagabondaggio».

Anche se la struttura del bikers movie è quella, insostanza, del romanzo picaresco di vagabondaggio (qual-che volta di formazione: vedi The Motorcycle Diaries [Idiari della motocicletta, 2004], di Walter Salles, con lasua esaltazione della contagiosa energia della giovinezzacome momento di “scoperta del mondo”), in realtà, a benguardare, i film tendono più alla concentrazione (su sestessi, sulla ricerca interiore) che non sulla aperturaall’esterno. La frequenza del deserto come paesaggioricorrente – comune al western e al road movie – hamolto a che vedere con questa concentrazione: spiaggiasenza mare, il deserto non è uno spazio libero; è un

campo concentrico, definito, che aumenta d’intensitàverso l’interno, verso un punto centrale. Nell’estensionedel Nulla, lo sguardo del personaggio non trova niente sucui riflettersi, e si volge a se stesso. È lo smarrimento cherinveniamo nel Marlon Brando in giacca di cuoio nera eTriumph Thunderbird 6T in The Wild One, con il suofinto cipiglio e la sua progressiva infantile indecisione.

Con tutta la sua mutevolezza di luoghi e scenari, il roadmovie finisce per offrire alla visione un panorama chiusoin una circolarità senza fine come quella del caleidosco-pio, e l’apparente inesauribilità del paesaggio (che a causadella velocità di spostamento si opacizza, si appiattisce, sicomprime, e nella sua perfetta interscambiabilità sembraesprimere una crudele indifferenza alle sorti dei personag-gi itineranti alla perpetua ricerca di “qualcosa d’altro”)cela il sostanziale inscatolamento della presenza umanadentro di esso. Come a dire che i due bikers di Easy Rider,se fossero sopravvissuti, avrebbero potuto cercare perl’eternità la loro “libertà” sulle strade dell’America senzariuscire a trovarne neppure un granello.

Il desiderio di annullamento nel paesaggio percorsoin moto a folle velocità cela, dunque, un oscuro deside-rio di morte e di annullamento del Soggetto. Ciò è resomanifesto nello straordinario film underground di ungiovane regista di San Francisco, Kenneth Anger. Angernon affermò mai che il suo Scorpio Rising avesse a chefare con gli Hell’s Angels, infatti venne girato prevalen-temente a Brooklyn con la collaborazione di un gruppodi patiti delle moto così male organizzati che non sierano neanche preoccupati di scegliersi un nome. A dif-ferenza di The Wild One, l’opera di Anger non avevaalcun intento giornalistico o documentario: era un filmd’autore con una colonna sonora rock, un piccolo estravagante commento sull’America dei Sessanta, chefaceva di moto, svastiche e omosessualità aggressivauna nuova trilogia culturale. La gara motociclistica delfilm finisce, come tante altre, con un incidente mortale.In precedenza, mentre ritorna l’immagine del MarlonBrando di The Wild One, questa volta su uno schermotelevisivo, c’era stata un’orgia di Eros che anticipa iltrionfo di Thanatos del finale.

In questo gioco incrociato di sguardi e seduzioni,l’oggetto-moto celebra i fasti di un feticismo sessualemai così esplicito. Un ragazzo lucida la sua moto, unaltro mostra il sedere, un altro ancora viene spogliatoe cosparso di senape, un altro tira fuori il membro, lostruscia contro un ragazzo. Qui, la ribellione alla socie-tà da parte dei “selvaggi”, quintessenza del “genere”, sisposa, attraverso la motocicletta, con l’apparenza feti-cista di un mondo in cui è ancora il maschio a potersiilludere di essere in posizione dominante, in unacomunione spirituale con i propri “simili” e in unamistica omosessuale su cui le immagini del film, nellostesso momento in cui le stanno celebrando, larvata-mente ironizzano.

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I selvaggi di Roger Corman

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«A metà percorso tra West Egg e New York l’autostradaraggiunge in breve tempo la ferrovia e corre parallela ad essaper un quarto di miglio, come se avesse fretta di allontanarsi dauna zona desolata. È la valle delle ceneri […] ma sopra la terragrigia e oltre gli spasmi di pallida polvere incessantementesospinta alla deriva verso di essa, si scorgono, dopo un po’, gliocchi del dottor T.J. Eckleburg. Gli occhi del dottor T.J.Eckleburg sono azzurri, giganteschi e hanno, ognuno, unarètina alta quasi un metro. Non guardano da un volto, ma daun paio di enormi occhiali gialli posati su un naso inesistente.Qualche originale tipo di oculista deve averli evidentementecollocati lì allo scopo di ingrossare la sua clientela nel sobborgodi Queens e poi sarà sprofondato nella cecità eterna o se ne saràandato altrove e li ha dimenticati lì. Ma i suoi occhi, un po’sbiaditi per i molti giorni incolori, sotto il sole e la pioggia,continuano a meditare su quel solenne ammasso, su quelterreno così particolare».(F.S. Fitzgerald, «Il grande Gatsby», Newton Compton,Roma 1989, pag. 41, prima edizione 1925).

American Village: inquadratura dall’alto, lievemen-te inclinata a riprendere la “main street” fino alle bian-che casette di periferia che, proprio a causa della loroluminosità, contrastano con l’oscurità urbana, segnataanche dalle poche auto nere parcheggiate ai lati dellastrada. La descrizione non riguarda un’immaginefotografica, né un’inquadratura filmica: è invece unquadro di Edward Hopper datato 1912. Esposto nellamostra a lui dedicata, apertasi a Milano nell’ottobre2009 e replicata a Roma fino al giugno del 2010, nonè particolarmente famoso, almeno non quanto i dipin-ti dei successivi cinquant’anni (per sintetizzare al mas-simo: Automat, Chop Suey, Night Windows, House

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LO SGUARDO PITTORICO DI EDWARD HOPPER SAGGI

UN ARCHETIPO DELLA CULTURA AMERICANA DEL NOVECENTOGianni Olla

Gas di Edward Hopper

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By the Railroad, The Mansard Roof, New YorkMovie, Nighthawks, Summer in the City, EarlySunday Morning, Morning in the City, Conference atNight, The Sheridan Theatre, Pennsylvania CoalTown, Morning Sun, Gas, A Woman in the Sun), pur-troppo non tutti esposti in questa occasione.

Poco più avanti, un’altra intensissima opera del1922: Figures in Automobile Racing AlongsideFreightcar. Questa volta, sempre per esprimerci in ter-mini foto-cinematografici, è un campo medio: sullasinistra, tre persone stanno dentro un’automobile e siapprestano a superare un carro merci. Una donna liosserva: la sua figura è ritagliata nella porta del vago-ne, evidentemente occupato dai famigerati “hobos”.

Sul piano strettamente cronologico, le due immagininon appartengono ancora a quello che, in senso lato,viene definito l’immaginario cinematografico america-no, ancora in via di costruzione. Ma certo, sul pianodella figurazione siamo già, abbondantemente, dentrola grande scena americana celebrata e diffusa, per gliottanta anni successivi, soprattutto dai film, noti emeno noti.

A questo punto, scrivere che Hopper anticipa il cine-matografo è quasi un’ovvietà. Il modo più semplice distabilire un rapporto tra la sua pittura e il cinema èinfatti legato all’ipotetico ricalco scenico dei tantidipinti evocanti il paesaggio (urbano o meno) e le figu-re che in esso si muovono. Questa dipendenza è stataevocata proprio in occasione delle due esposizioni ita-liane ed è ovviamente doveroso aggiungere una lista

compilata da chi scrive. A memoria, ma anche conqualche necessario ripasso visivo, si potrebbe iniziareda The Crowd (La folla, 1928) di King Vidor, conquell’alternarsi di scene di strada, a Coney Island,inneggianti al piacere e al caos, e cupi universi dome-stici e lavorativi che connotano immediatamente lasolitudine del protagonista: la solitudine dentro lamoltitudine, ovvero l’anticipazione di quella società dimassa evocata come alienante da Adorno eHorkheimer (1).

È facile trovare tracce hopperiane anche in TheGrapes of Wrath (Furore, 1940) di John Ford, ma,anticipando il seguito di questo saggio, è probabile cheil regista abbia fatto riferimento, per quei campi lun-ghi iniziali e quelle soste tra stazioni di servizio e vil-laggi desolati, alle fotografie di Walker Evans eDorothea Lange, ovvero ai viaggi di esplorazione – edi riscoperta: tutto si ripete come nuovo inizio nell’im-maginario statunitense – indotti, anche sul piano delfotogiornalistico, allora in espansione, dalla GrandeDepressione e poi dal New Deal.

Sempre per citare altri maestri, ecco William Wyler(Dead End [Strada sbarrata, 1937], The Best Years ofOur Lives [I migliori anni della nostra vita, 1946],Detective Story [Pietà per i giusti, 1951]) e il Langamericano (da You Only Live Once [Sono innocente,1937] a The Big Heath [Il grande caldo, 1953]), capo-fila di un genere, il “noir” che, insieme al “gangstermovie” è interamente hopperiano sul piano della figu-razione: l’emergere di un luogo misterioso lungol’“highway” è un vero ricalco, consapevole o meno, ditante scene dipinte dal pittore. L’emporio isolato, lacasa/motel, il distributore di benzina, diventano cosìproseguimenti archetipici dell’inquietudine espressain gran parte della sua pittura. Lo stesso può dirsi pergli immancabili locali frequentati dai “nighthawks” oper le strade metropolitane e di paese percorse da raripassanti; e poi, per i bar, i teatri, gli uffici, gli angoli dicerti isolati sempre uguali. Anche oggi, una sorta dieffetto “rebound” ci induce, di fronte a certi suoi qua-dri così carichi di immaginario, a ipotizzare un prose-guimento narrativo della scena dipinta. Hopper non losuggerisce, ma noi osservatori/spettatori possiamopensare: «E ora che succede?». Dopotutto anche l’ina-zione totalmente scarnificata della sua pittura potreb-be essere letta un preludio angoscioso all’azione: losguardo nel vuoto si associa, come in Psycho (Psyco,1960), allo scatenarsi della follia omicida; le chiacchie-re sommesse e senza senso dei “nighthawks”si conclu-dono con una sparatoria.

Tutto ciò deriva dalla convergenza tra serialità geo-grafico/ambientale, pittorica e filmica. Gran parte delcinema hollywoodiano degli anni Trenta e Quaranta èappunto legato a questa serialità. La decolorazione (ilnoir e il gangster film celebrano la grande stagione del

Night Windows di Edward Hopper

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bianco e nero) e l’artificialità degli scenari ricostruitinegli “studios” ne rafforzano gli effetti di stabilizzazio-ne e di standardizzazione, trasformando il realismo diHopper in una percezione simbolica del paesaggioamericano, soprattutto metropolitano.

Nel dopoguerra, altre trame, ma soprattutto altriluoghi, ripresi dal vero, si proporranno come nuovoarchetipo che consacrerà il primato dell’esplorazione edello sguardo. Poi, a partire dagli anni Sessanta, ilcolorismo iperrealista finirà per diventare una nuovaforma di citazione, non solamente scenica, che recupe-rerà il realismo antinaturalista del pittore. Un filmemblematico di questa fase è il celebre Farewell, MyLovely (Marlowe, poliziotto privato, 1975) di DickRichards, fedelissima lettura di «Addio mia amata» diRaymond Chandler, che cancella decenni di “noir andwhite”, filtrando le atmosfere del mistero ma soprat-tutto dell’inquietudine (e della solitudine: «Addio miaamata» è soprattutto un romanzo di solitudini), attra-verso le visioni metropolitane di Hopper.

Il campione di quest’ultima fase, in qualche modomanieristica, è però Wim Wenders, i cui film “america-ni” (da Alice in den Städten [Alice nelle città, 1974] aDer amerikanische Freund [L’amico americano,1976], da Hammett [Hammett: indagine a Chinatown,1982] a Der Stand der Dinge [Lo stato delle cose,1982], da Paris, Texas [id., 1984] a Land of Plenty[La terra dell’abbondanza, 2004]), sono un progressi-vo e cosciente omaggio al pittore, anche nella formu-lazione poetica. E Wenders, infatti, che ha espresso il

suo modo di far cinema con la frase: «Non raccontostorie, ma filmo lo spazio tra i personaggi». Spazi cheincombono, come in Hopper, e che quasi impedisconoi rapporti umani condannando gli stessi personaggiall’inazione e ai “falsi movimenti”. Dopotutto, la pittu-ra di Hopper non fissa l’istante “vermeeriano”, cioè laframmentazione impercettibile del movimento di unaricamatrice o di un copista, ma proprio lo sguardoassente, verso l’infinito, la luce, o il muro del grattacie-lo di fronte, inquadrato nel rettangolo di una finestra.

Ma, a parte l’esempio di Wenders, quanta coscienzavi è, nei registi americani, di questa, se non derivazio-ne, certo di comunanza visiva? Si sa, ad esempio, chePicnic (id., 1955) di Joshua Logan avrebbe dovutoessere un grande ricalco della pittura di Hopper; e cheArthur Penn, dopo aver lavorato a lungo con i suoiscenografi per creare un’atmosfera hopperiana inBonnie and Clyde (Gangster Story, 1967), invitò l’ot-tantacinquenne pittore, abbastanza stralunato e sor-preso, alla prima del film. Ma, a ben vedere, proprio gliarchivi fotografici degli anni Trenta dedicati alleimprese di Dillinger o a quelle di Bonnie e Clyde con-tengono molto più Hopper di quanto non ve ne sianella “maniera” di Penn.

Ciò vale anche per altri autori del dopoguerra, adesempio il primo Kubrick (Killer’s Kiss [Il bacio del-l’assassino [1955], The Killing [Rapina a mano arma-ta, 1956]), fino allo spartiacque di Lolita (id., 1962),che in realtà fu girato in Inghilterra e che però, neiviaggi in automobile, conserva molti scorci tipicamen-

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L’appartamento di Billy Wilder

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te americani/hopperiani. Ma, anche in questo caso,quanto dell’ambientazione urbana dei primi due titolideriva da Hopper e non dalla formazione di fotografodi strada del regista?

Altri autori incombono: Hitchcock, ovviamente, enon solo per il celebre motel di Psycho, ma soprattut-to per le tante “finestre sul cortile”, piene di vite solita-rie, osservate dal protagonista del film omonimo quasicon stupore, come se nonostante il suo mestiere (foto-grafo) non conoscesse affatto il mondo a lui contiguo.E poi Wilder (Double Indemnity [La fiamma del pec-cato, 1944], The Lost Weekend [Giorni perduti,1945], The Apartment [L’appartamento, 1960]) eancora Scorsese, non solo per Taxi Driver (id., 1976),ma sorprendentemente, anche per l’ottocentesco TheAge of Innocence (L’età dell’innocenza, 1993). E infi-ne Altman, Jarmusch, Lynch, i Coen, per citare solo ipiù famosi.

Nonostante questa imponente mole documentaria,Hopper non compare spesso nelle bibliografie, vecchiee nuove, dedicate al rapporto tra cinema e pittura. Inparte ciò deriva dal non essere mai stato catalogato, senon in tempi recenti, tra i maestri del Novecento; inparte da una sottovalutazione critica proprio del latovisivo del cinema americano, sottoposto, sul piano cri-tico, alla dittatura della narrazione, storicamente con-siderata la vera invenzione filmica statunitense.

Così il pittore, sospinto soprattutto dalla cinefiliainternazionale, è entrato facilmente in un’altra catego-ria critica: il film come elemento imprescindibile peruna ricostruzione storico/sociologica del Novecento.Questa categoria di studi è progressivamente transita-ta sul versante storico, ma fortunatamente, anche inItalia, si trovano delle buone riflessioni che attengonoal mondo dello spettacolo. Una di queste è «Sceneamericane» di Alberto Morsiani (2), ma non si posso-no dimenticare gli scritti del compianto Franco LaPolla, che non a caso ha intitolato un suo volume«L’età dell’occhio» (3).

Conviene quindi accettare la sfida sociologica e par-tire da una tarda riflessione dello stesso Hopper: «Sequalcuno volesse sapere che cos’è l’America vada avedere un film che s’intitola L’occhio selvaggio». Lafrase è citata da Goffredo Fofi in un bel saggio pubbli-cato nel catalogo della mostra milanese/romana (4),che contiene anche un notevole ampliamento delladimensione cinematografica della pittura hopperiana.Fofi, infatti, arriva a identificarlo come il nume tutela-re (o forse l’anticipatore) anche degli sguardi europeicontemporanei, ad esempio quelli dei maggiori film diAntonioni. Se poi questo allargamento sia davveronecessario è magari discutibile. Il quadro visivo diAntonioni, a parte Zabriskie Point (id., 1970), sembraimparentato con le piazze metafisiche di De Chirico,gli scorci metropolitani di Sironi, i paesaggi e le natu-

re morte di Morandi: altre inazioni, più vicine all’esi-stenzialismo europeo che non alla disillusione statuni-tense.

Ma tornando a The Savage Eye (L’occhio selvag-gio), è sempre Fofi che osserva – e chi scrive non puòche approvare – che mai gli «sarebbe venuto in mentedi collegarlo a Hopper» (5). Eppure, quel film del1959 diretto da Sidney Meyers, Joseph Strick e BenMaddow, oltre ad avere strette parentele con il “NewAmerican Cinema”, vale a dire con una vera e propriascuola dello sguardo, racconta la storia di una donnache, a Los Angeles, in attesa della sentenza che ladichiari divorziata, gira per la città, osservando e rie-laborando, in una sorta di caleidoscopio, tutto ciò cheaccade, anche se assolutamente minimale, di fronte aisuoi occhi.

Non deve quindi stupire se il pittore identificassenello sguardo il principio base della formazione di unaconoscenza e di un’elaborazione culturale nazionale.Proprio Morsiani sottolinea che la base autentica eanche la forza contraddittoria della cultura e del mitoamericano sta, in origine, nella scoperta del paesaggioimmenso e poi nella sua colonizzazione a chiazze, tragiardino e deserto (per dirla alla Ford), o tra giungla egrattacielo, per usare un’altra bella definizione diMario Maffi (6). Anche la formazione del mito premo-derno, ovvero il western, ha strette parentele con l’ico-nografia pittorica, ovvero con Remington, Homer,Catlin, primi costruttori di un’identità culturale anchevisiva. E naturalmente la costruzione di una culturanazionale si è poi arricchita attraverso la comunanzatra le diverse forme di espressione e di spettacolo(arte, letteratura, teatro e cinema), tutte legate adarchetipi visivi. Non c’era infatti alcuna tradizionenazionale – quelle autoctone non potevano essereprese in considerazione se non, tardivamente, comerimpianto per il paradiso perduto – risalente, come inEuropa, ai secoli passati e stabilizzata attraverso unasterminata mitografia.

Così, oltre che nel cinema, il modello visivo hoppe-riano lo si trova facilmente anche nei romanzi delNovecento, nel “noir” di Hammet e Chandler (7) cheprecede il genere cinematografico, nel bellissimo rac-conto – portato spesso sullo schermo – di Hemingway,«The Killers», fortemente drammatizzato e quasi tea-trale, ma in cui basta la breve descrizione del crepu-scolo che rabbuia la tavola calda di Henry, per farentrare i personaggi dentro il celebre Nighthawks (8).

Soprattutto, lo sguardo hopperiano è presente inquello che è spesso considerato, per definizione, ilromanzo americano del Novecento, «Il grande Gatsby»di Francis Scott Fitzgerald. Qui, oltre alla presenza diun paesaggio già segnato dallo squallore delle perife-rie polverose, con tanto di pompe di benzina e offici-ne, ma anche dalle inquietanti ville/castelli che si

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ergono nella baia dove vive il protagonista/narratore,vi è soprattutto l’incombere, nell’autostrada, di quelminaccioso ed enorme cartellone pubblicitario chereclamizza – con degli occhi azzurri che spuntanodalle lenti – gli occhiali del Dottor Eckleburg. Lametafora dello sguardo, del vedere e dell’essere visti,anche se nascosti dentro gli appartamenti o gli uffici,è perfetta.

Ma se questo – e altro: ad esempio quasi tutti iromanzi metropolitani di Dos Passos – è il Novecentoamericano dove l’effetto “rebound” tra letteratura,cinema e arti visive è continuo e indiscutibile, anchenell’ottocentesco Melville, dichiaratamente a favoredei grandi spazi, acquei o montagnosi, cioè degli oriz-zonti senza limiti, il suo personaggio più tragico,Bartleby, emblema dell’assoluta solitudine, è rinchiusonel suo angolo di scrivano, di fronte a una finestrellache dà aria all’ambiente, il cui orizzonte è drastica-mente limitato da un muro che gli impedisce ognivisione e ogni luce. Hopper al quadrato.

Il cerchio insomma, comincia a chiudersi sui grandispazi ben prima dell’invenzione del cinema. La mito-logia anti hopperiana del western nasce, non a caso,dalla nostalgia, come in John Ford, e dal bisogno di

costruire comunque una mitologia originaria. Ma lanostalgia viene affiancata e poi sommersa, nel dopo-guerra, da altri immaginari realisti che evocano lamodernità, ovvero, come già si è scritto, la solitudinenella moltitudine.

(1) Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, L’industria culturale, in«Dialettica dell’illuminismo», Einaudi, Torino 1997, pagg. 130 eseguenti.(2) Alberto Morsiani, «Scene americane», Pratiche, Parma 1994; sivedano soprattutto il I e il III capitolo.(3) Franco La Polla, «L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura ameri-cana», Lindau, Torino 1999.(4) Goffredo Fofi, Hopper e il cinema, in «Edward Hopper», Skira,Milano 2009.(5) ibidem.(6) Alberto Morsiani, cit.; Mario Maffi, «La giungla e il grattacielo»,Laterza, Bari 1981.(7) Forse lo scritto di Chandler più vicino alle atmosfere di Hopper èAspetterò (in «Tutti i racconti», Mondadori, Milano 1974), che sisvolge interamente nell’atrio di un Hotel e la cui conclusione tragicaavviene “fuori campo”, per dirla in termini cinematografici. Dentro,regna appunto l’inazione assoluta, l’attesa di un’impossibile risolu-zione dei conflitti.(8) «Fuori stava facendosi buio. Il lampione si accesa davanti allavetrina. I due uomini al banco leggevano il menù. Dall’altrocampo del banco Nick Adams li guardava. Stava parlando conGeorge quando erano entrati». Ernest Hemingway, I Sicari, in«Tutti i racconti», Mondadori, Milano 1990 (prima edizione1938). Nel film di Siodmak The Killers (I gangsters), girato nel1946, l’esordio introduce una diversa scena hopperiana: l’arrivo,in auto, di notte, dei killers.

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Non bussare alla mia porta di Wim Wenders

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«Non invecchieremo insieme. Ecco un giorno di troppo: il tempo esagera sempre».(Paul Éluard, «Le temps déborde», 28 novembre 1946)

1. In Deutschland im Herbst (Germania in autunno,1978) si vede Rainer Werner Fassbinder (1945-1982)impersonare se stesso e reagire ai tragici avvenimentipubblici del 1977 interpellando in modo isterico eparanoico il privato: ossia coinvolgendo in una rilettu-

ra del presente filtrata attraverso il passato (un nazi-smo che sembra nei fatti ritornare) sia la madre, Lilo(Liselotte) Pempeit, già utilizzata come attrice peralcune parti cinematografiche minori, sia l’amante econvivente Armin Maier (l’Ernst Küsters di MutterKüsters Fahrt zum Himmel [Mamma Küsters va incielo, 1975]), fulcro di un rapporto ambivalente diodio-amore e di dipendenza affettiva – nel qualeArmin, oggetto del desiderio, finisce per rovesciare la

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IL CINEMA E IL SUO DOPPIOSAGGI

QUANDO IL MONDO ERA GIOVANESergio Arecco

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gerarchia e rivestire il ruolo ambiguo di oggetto/sog-getto, in un gioco perverso di maltrattamenti gratuitie… nazisti.

Il 24 giugno 1978 Armin si suicida. E Rainer, ilquale si sente ambiguamente in colpa per un gesto checon ogni probabilità non ha soltanto lui come referen-te e interlocutore, il 24 luglio inizia le riprese di Ineinem Jahr mit 13 Monden (Un anno con 13 lune,1978) – la data spicca quale didascalia iniziale insie-me all’altra che evoca gli anni con tredici lune comeanni, se in congiunzione astrale con anni lunari, tipo il1978, nefasti per i depressi – per concluderle, comeindica la didascalia finale, il 28 agosto. Con una fulmi-neità operativa che è sì congenita con il “metodoFassbinder” ma che in questo caso, dacché Fassbinderfirma oltre alla regia anche la sceneggiatura, la foto-grafia e il montaggio, mette in gioco l’intero ego del-l’artista in un’elaborazione del lutto che suona inprimo luogo come un de re tua agitur: una straziantee colpevolizzante confessione personale.

2. Il nazismo non rimovibile, non sublimabile. Perchi perde la testa Erwin Weishaupt, sposato conl’amorevole compagna di scuola Irene e padre di unasoave ragazzina di nome Marie-Ann, inizialmente nep-pure omosessuale e tantomeno frocio da suburbio, alpunto da decidere di recarsi a Casablanca, sottoporsiall’evirazione, diventare donna e tornare a Francofortecome Elvira Weishaupt? Per un idolo nazista che sichiama Anton Saitz, un gangster – complice di Erwinin commerci illeciti quando questi faceva il macellaionel macello gestito dal suocero – trasformatosi inpotente capitano d’industria in grado di governare ilmalaffare, dall’ultimo piano di un palazzo della cityfrancofortese, grazie alla protezione di colonnelli oguardie del corpo e di un faccendiere che ammette nel-l’ufficio-bunker solo chi conosce la parola d’ordine:Bergen-Belsen. Per un sordido gangster che, prima ditrasformarsi in manager a tutto campo e dopo averesercitato il traffico illegale delle carni, ha fatto il ruf-fiano e allestito un bordello strutturandolo come unvero e proprio lager. È lui il carnefice che, anni prima,ha costretto perversamente Erwin a sottoporsi al cam-bio di sesso per compiacere il proprio desiderio di farl’amore con una donna e non con un uomo; è lui il car-nefice che l’ha piantato, dopo essersi sentito sufficien-temente appagato e propenso a trovare soddisfazionein altre ancor più torbide avventure; è lui il carneficeche, interpretato dall’attore solitamente chiamato nelcinema di Fassbinder a impersonare il vilain, l’altoallampanato sardonico Gottfried John – pensiamo alReinholdt di Berlin Alexanderplatz (id., 1980), massi-mo responsabile della rovina del predestinato FranzBiberkopf –, s’incarica di fungere fino in fondo daanima nera di Erwin/Elvira, il trans che, dopo essere

caduto tanto in basso da vendere una denuncia a cari-co dell’ex a un giornale scandalistico, non ha poi ilcoraggio di affrontarlo a viso aperto. Per cui si fa dinuovo attirare nel tiro al bersaglio del vilipendio per-sonale e si fa svilire in via definitiva lasciandosidefraudare da Anton Saitz dell’unica persona, la pro-stituta Zora (Ingrid Caven, già moglie di Fassbindertra il 1970 e il 1971), che nei giorni della disfatta,dopo essere stato respinto da tutti – dall’ultimo convi-vente alla madre badessa del convento in cui è statoallevato come orfano: suora interpretata non a caso daLilo Pempeit – gli ha prestato soccorso e gli ha dimo-strato un minimo di affetto. Solo quando li scopre aletto nella sua stessa stanza, sul suo stesso letto,Erwin/Elvira opta per il gesto incontrollato del suici-dio – prefigurato, qualche sequenza prima e qualchegiorno prima, da quello di un artista fallito che si è

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Alle pagine 70, 72 e 73: Un anno con 13 lune di Rainer W. Fassbinder.

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impiccato davanti a lui in uno scantinato buio delpalazzo di proprietà di Anton Saitz.

3. In In einem Jahr mit 13 Monden Fassbinder, ilquale, da cinefilo in servizio permanente qual è, fa unuso accortamente strategico delle citazioni, introducedue frammenti di film altrui, travestendoli entrambida spezzoni di trasmissioni televisive. Uno, il più espli-cito ed esteriorizzato, con l’immagine a tutto schermotradotta in forma ben riconoscibile, proviene da TheBig Mouth (Il ciarlatano, 1967) di Jerry Lewis e svol-ge una funzione denotativa: Saitz, in maglietta e pan-taloncini bianchi da tennis, sottopone il drappello diguardie del corpo o colonnelli che gli fa corona in uffi-cio, irrobustito dalla presenza di Erwin/Elvira in qua-lità di visitatore importuno, a un test scurrile, o paro-dia, della scena trasmessa in tv – un’esercitazione diboy scout a tempo di musica, a margine della qualecompare un Lewis in pantaloncini comicamente sco-ordinato – per inculcare loro lo spirito di sottomissio-ne del subalterno inibito dal padrone. L’altro, il più

implicito e interiorizzato, frutto del montaggio-sintesidi quattro scene diverse, tre in video e una in audio,proviene da Nous ne vieillirons pas ensemble(L’amante giovane, 1972) di Maurice Pialat e svolgeuna funzione connotativa: Zora, che ha messo a lettoErwin/Elvira dopo averlo salvato da un’aggressione ecurato dalle ferite, gli racconta, per farlo addormenta-re, la favola di due bimbi sperduti in un bosco e muta-ti da una strega in fungo e lumaca, con il fungo/sorel-lina, che, affamato, mangia un po’ per volta la luma-ca/fratellino; dopodiché accende il televisore e, tra unozapping e l’altro, capita per caso sulle immagini diNous ne vieillirons pas ensemble – selezionate confilologica cura da Fassbinder tra le più cruente delfilm, quelle in cui il dispotico Jean (Jean Yanne) mal-tratta verbalmente e non la succuba Catherine(Marlène Jobert) –, alternandole con quelle di undocumentario celebrativo della dittatura di Pinochet:a mezzo tra le due fasi di zapping, fa da inserto l’istan-tanea di Fassbinder in persona, appena percettibile, atitolo evidentemente di marchio di fabbrica o copy-right per il riuso delle frame impiegate.

Le due citazioni parlano chiaro. La prima fa dasupporto: esplicita qualcosa che è già nelle cose, inquello che vediamo e in quello che stiamo decodifi-cando fin dall’inizio del film attraverso una fabulache è senza dubbio una fabula relativa alla legge delpiù forte (per citare un titolo celebre di Fassbinder)e a quel fascismo quotidiano (per citare un altrotitolo celebre di Fassbinder, questa volta teatrale)che s’impernia sulla sopraffazione e sul dominiosistematici. La seconda, invece, fa da contrappunto:implica qualcosa che, finora occultato tra le righe,attende ancora di essere decodificato appieno eapprofitta dell’occasione per filtrare tra le magliedel film, per trasmigrare da un film archetipo al filmin atto, a titolo di complemento dialettico e di sup-plemento ermeneutico.

È da quando Fassbinder ha scoperto i melodrammimanieristi di Douglas Sirk, più o meno dai primianni Settanta, che è diventato il cineasta barocco,transteatrale e “corporale” che è: «Dopo aver visto ifilm di Douglas Sirk mi convinco sempre più chel’amore è lo strumento migliore, più insidioso ed effi-cace, di oppressione sociale. […] Nessuno dei prota-gonisti [di Imitation of Life, Lo specchio della vita,1958] si rende conto che tutto, pensieri, sogni, desi-deri, deriva dalla realtà sociale e ne viene manipola-to». Le biopolitiche della sopraffazione e del dominiosi elaborano dunque attraverso la manipolazione e lamacellazione del corpo – interventi più che maidichiarati in In einem Jahr mit 13 Monden. Tantodichiarati da fare dell’Erwin giovane inesperto unaspirante macellaio, dell’Anton in ascesa un aiutomacellaio, e da ambientare l’immediata confessione

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di Erwin/Elvira a Zora sua samaritana in un macel-lo autentico, esplorato dalla mdp nei dettagli piùripugnanti, tra buoi squartati e zampilli di sangue –torna alla mente un lontano prodromo, il documen-tario Le sang des bêtes (1949) di Georges Franju,sennonché il b/n di allora è qui sostituito dal colore,accesissimo, con un effetto-verità che moltiplicaquella particolare enfasi dell’orrore che è così conge-niale a Fassbinder.

Le logiche del conflitto sociale come conflitto ses-suale, dell’abuso del padrone dissoluto sul servoassoluto, della violenza psicofisica, della coartazionedella volontà, della dipendenza sadomaso della vitti-ma consenziente, della violazione irreversibile dell’-habeas corpus, sono da tempo al centro dell’antitea-ter o dell’anticinema di Fassbinder, in altri terminidella sua messa in scena dei rapporti umani comerapporti di forza, imposti a prezzo del sacrificio men-tale e corporeo del soggetto più vulnerabile. Che cosatrova allora di inedito, il disincantato Fassbinder, nelcrudo Maurice Pialat – tra l’altro un regista, per cul-

tura e tecnica, molto lontano da lui? Trova appuntola crudezza, non ammantata di piume e lustrini esfarzi – il trans, per quanto decaduto, è sempre inqualche modo sontuoso nelle sue esotiche divise, siamaschili sia femminili, fuori e dentro l’appartamentolussuosamente kitsch di sua proprietà –, bensì colti-vata in tutta la sua primordiale, ruvida sauvagerie. Ilvilloso Jean Yanne che impersona Jean in Nous nevieillirons pas ensemble non è più il Jean Yanne chein Le boucher (Il tagliagole, 1969) di Claude Chabrolha impersonato il macellaio killer delle bambine, maè come se lo fosse.

Proprio nei primi due dei quattro frammenti fintamen-te pescati in televisione da Zora – dalla sequenza piùallucinante di Nous ne vieillirons pas ensemble, con Jeanche insulta fino al parossismo Catherine, seduta in mac-china con lui e del tutto sbalordita, non tanto per la vio-lenza verbale del partner quanto per l’assoluta incapaci-tà di reagire – Jean fa letteralmente a pezzi Catherineinvestendola con un tale climax d’ingiurie da lasciarlasenza parole davanti alla porta di casa, oltre che del tutto

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In questa pagina e nelle seguenti: Nous ne vielleirons pas ensamble di Maurice Pialat.

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impreparata ad aprirla. E nel terzo frammento Jeanaccoglie Catherine, di ritorno dal viaggio in Camarguecon un involontario ritardo, prendendola a schiaffi, sbat-tendola sul letto, denudandola e manipolandole il sessoper spregio e sfregio. Finché, nel quarto, solo posto insituazione e non in visione da Zora/Fassbinder, Jean silamenta vittimisticamente di essere stato lasciato daCatherine, codificando come meglio non potrebbe latopica della conflittualità gerarchica, con il sopraffattoreche, da temporaneamente sopraffatto, rivendica insiemealla sconfitta anche la corona da martire del vittorioso, esi predispone a tornare il sopraffattore di sempre.

Quale auctoritas più inattaccabile e, nel caso, più cal-zante, per il libertino Fassbinder, di quella garantita dalgiansenista Maurice Pialat (1925-2003), avviato fin dalsecondo lungometraggio (tra il primo, L’infance nue,1969, e Nous ne vieillirons pas ensemble, 1972, si situalo sceneggiato per la tv di trecentosessanta minuti, Lamaison des bois, 1971) in direzione di un cinema tantoduro e puro quanto quello di Fassbinder è duro e impu-ro? Corteggiano entrambi, da non riconciliati, il demonemeschino della tracotanza e della manomissione digolem inoffensivi. Pialat, però, lo fa senza lasciarsi mini-mamente inquinare dalla transitività voluttuosa delleperversioni mostrate, mentre Fassbinder lo fa lasciando-sene assorbire fino al midollo. Per il francese, rigorista eascetico, il demone della brutalità e dello spossessamen-to dei corpi si riduce, ancor prima di essere destituito, alrango di un pupazzo spennacchiato. Per il tedesco,romanzesco e iperbolico, il medesimo demone, pur desti-tuito o sul punto di esserlo, rimane un totem inghirlan-dato di trofei.

4. Anche Pialat muove dalla coscienza infelice e col-pevole di un’esperienza biografica. Selvatico, ostico,temperamentale – un vero alverniate –, il regista havissuto nel 1967 un rapporto sentimentale contrasta-to e (auto)distruttivo e ha cercato di elaborarlo rac-contandolo, prima di filmarlo, in un “diario intimo”chepubblica nel 1972, in concomitanza con il film. Il tito-lo, comune a entrambi, lo ricava da un verso di PaulÉluard (1895-1952), Nous ne viellirons pas ensemble,scritto di getto il giorno stesso della morte di Nouch(28 novembre 1946), la moglie amatissima stroncataall’improvviso, a quarant’anni, da un collasso cardia-co, mentre il poeta è fisicamente lontano, in Svizzera.Tanto che l’immedicabile rammarico, alimentato dalcomplesso di colpa, fa scrivere a Paul una terzina-epi-taffio di tragica intensità e di travagliata stesura:«Nous ne veillirons pas ensemble. / Voici le jour / entrop: le temps déborde». Dove, come testimonia ilmanoscritto di cui per fortuna disponiamo, in unprimo tempo al posto di en trop: le temps déborde erascritto en supplement: horreur. Con l’ossessione delsupplemento di un giorno in più da vivere, compreso

lo stesso 28 novembre, senza la compagna di una vita,e dell’orrore che un tale pensiero comporta: ossessio-ne che, nella variante definitiva, si risolve più poetica-mente in quella del trop de temps, del tempo chedeborda, che sovrabbonda, regalando al poeta nonsolo un giorno in più, bensì un mese, un anno, un seco-lo (saranno otto anni) da vivere in solitudine.

5. No, non invecchieranno insieme nemmeno ilJean e la Catherine di Nous ne vieillirons pas ensem-ble. Entrambi, come Éluard, hanno in orrore il tropde temps, intendendolo tuttavia non come temposenza bensì come tempo con. Lui sarà pure un bruto,un intrattabile, un manesco, un villano, ma anche lasua vittima Catherine, così chiusa nel suo autismo,non coltiva progetti di lunga durata con il propriocarnefice: tra l’altro appena separato dalla moglie, ladolce Françoise, e ancora sistemato nella casa di lei,a Saint-Path, in difetto con se stesso al punto daapparire allarmato quando Catherine si affaccia allafinestra, con il rischio di essere spiata dai vicini. IlJean di Pialat non è soltanto un figlio viziato – lo siveda quando va a visitare i genitori a Cunlhat, il pic-colo borgo alverniate dove appunto Pialat è nato –, èanche un figlio rancoroso e sospettoso di quella“Francia profonda” che diffida per partito preso ditutto e tutti, che tiene a distanza, che s’inviluppa nelproprio microcosmo ed esclude il resto del mondo.La sindrome di Jean non è solamente una sindromeda malumore cronico – Jean, che fa il cineoperatoreper la televisione, scaccia dalla propria visualechiunque gli dia noia, come accade nell’affollatasequenza del mercato del pesce in Camargue –, è unasindrome da possesso isterico dell’altro, chiunqueesso sia, una sindrome da persecuzione ritualisticadell’umiliato e offeso, connessa con una primitivitàantropologica che affonda le sue radici in una cultu-ra retriva.

L’homme nu: così definiva il tipo Georges Simenon,vero connaisseur in materia di bordelli privati struttu-rati, se non come metodici lager, come metodici serba-toi di eros continuato e manipolato, gestito come unlavoro – parallelo a quello non meno metodico dellascrittura – su corpi ogni giorno diversi e ogni giornoperversi, resi tali dal voyeurismo e dalla complicità,spesso attiva, della moglie Thérèse. Anche la dolceFrançoise è complice di Jean nei suoi tour de force ero-tici, ne conosce la febbre compulsiva, l’irresistibilecoazione a ripetere: a ripetere ora la grazia e ora lamalagrazia sul corpo di Catherine, concepito come sefossero mille Catherine diverse e perverse, tutte con-senzienti e assuefatte al suo modus operandi. Il pren-dere e lasciare di Jean prevede “stazioni”tormentose insquallide camere d’albero (Honfleur, Marsiglia), inter-vallate da altrettante “stazioni” sui sedili di un’auto

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che diviene, di sequenza in sequenza, un vero e pro-prio habitat per la giostra quotidiana degli accogli-menti e dei respingimenti (Catherine non è autonomaneppure nel suo spostarsi: non guida la macchina). Ea ogni “stazione” corrisponde una scena o, meglio, ite-rativamente, una scenata, scandita in base a quellasintassi paratattica e iterativa che è la cifra dellamessa in scena di Pialat, fatta di poche inquadraturefisse e giustapposte (in Nous ne vieillirons pas ensem-ble se ne contano appena centoventi), perlopiù inpiano-sequenza, con brusche cesure o ellissi o spezza-ture ritmiche tra l’una e l’altra.

6. Nudi frammenti irrelati, quelli di Pialat, che nonconosce né dissolvenze né flashback. L’uomo nudo diSimenon tagliuzzato da altrettanti tagli di coltello (cen-todiciannove, nello specifico), in una consecutio chesmarrisce il senso del tempo e dello spazio e affonda perintero in una sostanziale morte delle stagioni (in quantigiorni, mesi, anni si consuma il trop de temps di Jean eCatherine? e dove, a parte i pochi luoghi citati in quantoriconoscibili?). Come sotto i colpi di un macellaio in un

macello. Un’unica inquadratura non rimane monca – nelsenso che in un’unica occasione il corpo di Catherine nonappare mutilato –, un’unica iterazione viene declinata suun registro diverso dal primo: quella di lei che fa infan-tilmente le capriole tra le onde del Mediterraneo.L’inquadratura a, disturbata dalla consueto assalto vol-gare di Jean che cerca di sfilarle gli slip sott’acqua, risul-ta qui doppiata, e in qualche modo elisa, dall’inquadra-tura b – tra l’altro in coda e in sovrapposizione con i tito-li finali, quasi non appartenesse al film o vi appartenessecome un extra, un’utopia, un a futura memoria –,“salva-ta”grazie all’unico intervento musicale ammesso dall’au-stero Pialat nella sua scabra partitura per immagini, pro-grammaticamente priva di ogni commento: la sequenzan. 30 dall’oratorio «Die Schöpfung» («La Creazione»,1798) di Joseph Haydn, ossia il duetto di Adamo ed Eva:«Voi, selve oscure, voi, monti e valli / voi che siete testi-moni della nostra gratitudine, / dovete fare eco tutto ilgiorno / al nostro canto di lode».

Ora, si sa che, secondo il biblismo laico più accredi-tato, non è Eva la colpevole, essendo proprio lei a insi-stere per attingere all’albero della conoscenza del bene

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e del male. E Pialat sembra tenere conto di una taleesegesi, fino a ritenere salvabile – per extrema ratio –la fragile Eva di Nous ne vieillirons pas ensemble sol-tanto se mutilata del suo Adamo, mutilato a sua volta,e per sempre, della propria costola. Solo alle condizio-ni di una scomposizione perenne, il corpo virtualmen-te doppio di Adamo può scontare la propria arrogan-za, quella in primo luogo di nascere, e sparire in secon-do luogo dalla scena, onde lasciare campo libero allesolitarie, gioiose, liberatorie capriole della ex compa-gna. Sennonché, come ci premuravamo di dire, aleggiasull’explicit di La rabbia giovane il sospetto dell’uto-pia, del salto-capriola nell’irrealizzabile. E, a farci tor-nare con i piedi per terra ci pensa l’explicit puntual-mente antitetico di un film tutt’altro che antitetico,anzi, notevolmente consonante, come In einem Jahrmit 13 Monden. Dove l’Eva che è diventata Elvira pervolontà del suo Adamo si emancipa definitivamente,dopo l’illusorio escapismo della mutilazione, solamen-te attraverso il suicidio. Il quale, sì, è una capriola soli-taria e liberatoria come quella dell’Eva di Nous nevieillirons pas ensemble, ma non è gioiosa per niente.

Tant’è che a vegliare il corpo di Erwin/Elvira amputa-to per la seconda volta ci sono tutti i suoi carnefici sto-rici: da Anton a Zora, da Irene a Marie-Ann, daHacker, il giornalista scandalistico, a Sybille, la suaamante, da Smolik, il faccendiere di Anton, a Gudrun,la suora, la severa “madre superiora” insediatasi alposto del Dio Padre assente.

BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE DI RIFERIMENTO)Paul Éluard, «Le temps déborde», pubblicato sotto lo pseudoni-mo di Didier Desroches, con fotografie di Nouch Benz Éluardeseguite da Dora Maar e Man Ray, Les Cahiers d’Art, Paris1947; Rainer Werner Fassbinder, «I film liberano la testa», a curadi G. Spagnoletti, Ubulibri, Milano 1988; Hans Günther Pflaum(a cura di), «Rainer Werner Fassbinder. Bilder und Dokumente»,Spangenberg, München 1992; Michel Foucault, «Sorvegliare epunire. Nascita della prigione», Einaudi, Torino 1976, ried.1993; id., «Nascita della biopolitica», Feltrinelli, Milano 2005;Maurice Pialat, «Nous ne vieillirons pas ensemble», ÉditionsGalliera, Paris 1972, ried. Les Éditions de l’Olivier, Paris 2005;Joël Magny, «Maurice Pialat», Éditions de l’Étoile/Cahiers duCinéma, Paris 1992; Sergio Toffetti, Aldo Tassone (a cura di),«Maurice Pialat. L’enfant nu», Lindau, Torino 1992; DanielMendelsohn, «Gli scomparsi», Neri Pozza,Vicenza 2007, pp. 84-124 (le pagine su Adamo ed Eva).

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V FestivalInternazionale del Film di Roma

Cinque edizioni, gli stessi proble-mi. Roma, inteso come Festival (manon sarebbe un azzardo allargare ildiscorso alla città stessa), pare nonvoler maturare, ma al contrariorimanere nel limbo di una situazio-ne anche abbastanza grottesca.Tanti soldi, si parla di un bilancioche supera i tredici milioni di euro,eppure la sostanza è ancora assaialtalenante. Roma, nata “Festa” conVeltroni e divenuta “Festival” conAlemanno, offre fin dagli esordi lostesso spettacolo: un evento senzauna vera identità, che prova a inse-guire gli epigoni più illustri (nell’or-dine: Cannes, per il glamour, Berli-no, come manifestazione cittadina,Venezia, per la ricerca cinematogra-fica), distratto molto più dalla suaimmagine piuttosto che essere con-centrato sulla propria essenza.

E c’è anche da ringraziare il movi-mento dei lavoratori del cinema edello spettacolo che al grido di«Tutti a casa» ha inscenato una pro-testa che ha praticamente bloccatol’Auditorium e catalizzato l’atten-zione dei media per un paio di gior-ni (evento che è stato largamentereso possibile dal “non interventi-smo”, per non dire altro, della dire-zione del Festival).

Addirittura qualcuno (un quoti-dianista) ha provato a trasformarein notizia da sbattere in prima pagi-na quella di una presunta molestiasessuale avvenuta all’interno di unasala cinematografica, con protagoni-sti un noto critico/operatore cultu-rale (il presunto molestatore) e unaragazza (la presunta vittima).Recrudescenza della professione cri-tico-giornalistica o ennesima dimo-strazione dell’efficacia della chiac-

chierata “macchina del fango”nostrana (che funziona ovviamentea trecentosessanta gradi, da notareil titolo dell’articolo sopra citato chegià da solo è tutto un programma:«Il critico che palpava le donne»),fatto sta che anche questo è stato unpretesto per parlare d’altro.

Comunque sia, di polemiche cine-matografiche dalle parti dell’Audi-torium non è che siano rimastisprovvisti, tutt’altro. Un esempio èla querelle inerente al Carlos di Oli-vier Assayas: cancellato/rimanda-to/ricancellato infine proiettato acausa di una copia (digitale) difetto-sa mandata da Canal+. E se dell’in-conveniente la Direzione del Festivalè giustamente priva di responsabili-tà, ci consentirete un’amara rifles-sione: sarebbe possibile immaginareun evento del genere, che so, a Vene-zia o a Cannes? Oggettivamente no,e questo è un chiaro sintomo delpoco “peso” internazionale che ha ilFestival (perché la distribuzione nonha mandato subito la copia in35mm del film invece di mandarnedue in digitale?).

Va invece catalogata sotto l’eti-chetta “figuraccia” la proiezione dellacopia doppiata in italiano di TheSocial Network di David Fincher. Lagià poca stampa straniera presente alFestival deve aver avuto la sensazio-

ne di sentirsi stranamente fuoriposto, e in un festival (torniamo adirlo) che vuol dirsi “internazionale”ciò è senza dubbio inconcepibile.

Ma se l’essenza vera di un festival,nonostante tutto ciò, si misuraessenzialmente con i film, noi è suquesti che vorremmo basare ilnostro discorso. È per questo sem-plice motivo che preferiamo concen-trarci sull’unica sezione che a nostropersonalissimo avviso, sia chiaro,meriti davvero attenzione all’internodel Festival, la sola sulla quale sipossa imbastire un discorso di este-tica cinematografica che non siapiatto e conservativo. Sì, perché sefossimo costretti a parlare in unlungo e in largo del Festival, e nonsolo di “Extra – L’altro cinema” (checi pare davvero, lo continuiamo aripetere da quattro anni circa, unevento a sé, una rassegna in nuce),dovremmo misurarci con la proso-popea femminista più deteriore eautoindulgente di Last Night (diMassy Tadjedin, in Concorso), o conla voglia di affastellare frammentisconclusionati, alla ricerca di chissàquali verità sulla dimensione inson-dabile dell’uomo, propria di FiveDay Shelter (di Ger Leonard, inConcorso), col solo fine di riuscire aelevare al rango di capolavoro unaseppur buona commedia molto nera

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Last Night di Massy Tadjedin; nella pagina a fianco, Five Day Shelter di Ger Leonard e Kill Me Please di Olias Barco. A pag. 80, Inside Job di Charles Ferguson.

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(Kill Me Please di Olias Barco) allaquale è ovviamente andato, data laconcorrenza, il Marc’Aurelio d’Oroquale Miglior Film dell’intero lotto.

Giacché non vogliamo continuarea farci del male, troviamo molto piùsensato e piacevole parlare di unaparte di Festival che propone “sguar-di” alternativi, anche alieni e strabi-ci. In questo, senza ombra di dub-bio, possiamo affermare come Extrasia l’unica “zona” del Festival cheabbia una sua identità, anche spuriamagari, ma genuina, dove la ricercac’è, e si vede. Non è un caso, e per-metteteci un’altra piccola incursionepolemica, che la direzione del Festi-val abbia tentato in parte di “ricon-durla” con le buone o con le cattiveverso un recinto, è il caso di dirlo,dove potesse essere “guardata avista” (l’idea era quella di trasfor-marla semplicemente in un concorsodocumentari, epurandola dunquedella parte di più stretta innovazio-ne linguistica). Tutto ciò è poi, comedetto, parzialmente rientrato, anchein seguito ad alcune mobilitazionidella rete, ma era chiaro il tentativodi bloccare l’ascesa di una sezioneche vede ampliarsi di edizione inedizione il novero dei suoi estimato-ri. Da parte nostra non possiamoche auspicare un’estrema quantoimprobabile soluzione: ovvero cheExtra, come un “Blob”, risucchi pianpiano lustrini e paillettes dell’intero

Festival riuscendo a trasformare lostesso in una rassegna finalmente efieramente indipendente, una Sun-dance del Mediterraneo.

In attesa (paziente) di tutto ciònon ci resta che parlare di quello cheExtra ci ha proposto quest’anno.Sul podio, tre titoli, ottimi per farcapire l’universo indie e anti-main-stream (ma con costrutto, non persemplice partito preso) della sezio-ne. Sul gradino più basso PeteSmalls Is Dead di Alexander Rock-well: un tempo vate del cinema indi-pendente americano, oggi cadutoabbastanza in disgrazia, Rockwelltorna al cinema (senza JenniferBeals) con una commedia degnafiglia di un hard-boiled, metalingui-stica e singhiozzante come poche.Un capolavoro, magari solo didiscontinuità, dal quale è difficile senon impossibile restare a distanza.

L’ipotetica medaglia d’argento vaall’ennesimo capitolo della “rivincitadei nerd”: lo firma Alexandre O.Philippe, giunto al terzo personalesegmento documentario sull’Ameri-can way of life (declinato nella suaversione ultrapop), con The PeopleVs. George Lucas, canzonatoria (maneanche tanto) messa in scena del-l’America schizoide e paranoica chesi rinchiude (autisticamente) in unmondo fittizio, creato per lo più daaltri (in questo caso sono i fan dellasaga di Star Wars), e sul quale sem-

bra poter tiranneggiare come in unsultanato arabo.

Il primo premio, si sarà forse giàintuito leggendo gli altri due, nonpuò che andare a Burke & Hare diJohn Landis: ridanciano come diconsueto, l’autore di Un lupo man-naro americano a Londra ritroval’ispirazione più libera ancora lonta-no dai produttori di Hollywood (aiquali, evidentemente, non deve averperdonato lo scempio di Blues Bro-thers 2000) con una black-comedyanarcoide e grottesca che non a casosi diverte a distruggere uno dei mitidell’Occidente illuminato (il pro-gresso scientifico). E se due indizifanno una prova, incluso l’ottimopassaggio nella serie televisiva dei«Masters of Horror» (il suo DeerWoman è un piccolo cult da recupe-rare assolutamente), dopo i passaggia vuoto degli anni Novanta per Lan-dis possiamo tranquillamente parla-re di un autore in fase di risalitaanche grazie, appunto, a una faseproduttiva più dichiaratamenteindipendente.

Detto dei primi tre in classifica cirimane giusto lo spazio per citarequasi distrattamente, o forse brutal-mente, gli altri che in ordine variohanno partecipato, accontentandosimagari di un piazzamento Uefa. Lemenzioni vanno a: Inside Job, docu-mentario di “scavo” (è il caso didirlo) sulla crisi economica a opera

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di Charles Ferguson; due documen-tari dalla tematica affine (il sesso),The Canal Street Madam e Yoyochu– Sex to Yoyogi Tadashi No Sekai(mirabile lavoro sull’industria delcinema porno giapponese che neglianni Settanta ha in pratica rettol’intero comparto del paese nipponi-co). Chiudiamo con il “genere”, quihorror, altro tassello irrinunciabiledi Extra: parliamo di Proie, esordioal lungo del francese Antoine Blos-sier, il quale senza alcun problemafa propri tutti gli stilemi del genereper allestire un weirdo-movie chegioca abilmente con il mostro (unacovata di malefici cinghiali!), nonrisparmiando una serie di mortiammazzati da far invidia a Carpen-ter. Tra una decina d’anni magari(come Martyrs) riuscirà anche adapprodare nelle nostre sale.

Ci piace dunque chiudere con unfilm che avrebbe (ha) davvero pocheoccasioni per essere visto, se nonfosse per spazi festivalieri necessari,questi sì, come quello di Extraall’interno del Festival Internaziona-le del Film di Roma. Di tanti altrifilm, e festival, la stessa “necessità” èdavvero difficile da trovare. Se poi sicontinuano a tagliare i fondi, saran-no ancora meno.

Lorenzo Leone

IstanbulIl Festival di Istanbul offre, da

sempre, una splendida occasioneper tastare il polso alla cinemato-grafia di questa Nazione. Così èstato anche per la trentesima edi-zione, che ha presentato una riccasezione di film turchi. In lineagenerale si può dire che questocinema continua a muoversi su unduplice terreno. Da un lato ci sonoi film che guardano con sempremaggiore coraggio ai nodi irrisoltidella storia del Paese, dall’altro leopere che tendono a giostrare iracconti sulla psicologia dei perso-naggi e sul linguaggio filmico. Nondi rado queste due tendenze s’in-tersecano fornendo un quadroartisticamente complesso e appro-fondito della vita nel paese.

È il caso, ad esempio, di LuksOtel (Albergo di lusso) operad’esordio nel lungometraggio deldocumentarista Kenan Korkmaz.Il titolo deve essere inteso in modoironico, trattandosi di un alber-ghetto pulcioso, sporco, che cade apezzi e in cui si rifugia un pugno didisperati. C’è il militante curdo cheha abbandonato la lotta disgustatodalla violenza, la prostituta incintaalla quale il magnaccia ruba il pic-

colo appena nato, c’è una coppiadi giovani omosessuali che siamano teneramente e sono allaricerca di un angolo in cui appar-tarsi e sottrarsi all’oppressionedella pubblica moralità, c’è lafamiglia afgana, emigrata per sfug-gire alle violenze insensate deitalebani, c’è un drogato agli ultimistadi. Infine c’è un portiere grassoe svuotato di ogni energia, cheguarda in continuazione film por-nografici. È un piccolo universoche ben rappresenta altrettantesituazioni sociali segnate da fero-cia e degrado. Il film è giocatoquasi interamente sulle immagini,i dialoghi sono ridotti al minimo,ma questo non scalfisce la com-prensione delle varie storie né atte-nua il dolore che le permea. Dav-vero un’opera di grande valore.

Qualche cosa di simile la ritro-viamo in Sac (Capelli) di YayfunPirselimoglu. Anche questo è unautore il cui lavoro rientra nel filo-ne del nuovo cinema turco, unatendenza fatta di racconti caden-zati da lunghi silenzi, ritmo lento,paesaggi deruti, personaggi predadella degradazione e dell’autodi-struzione. La figura al centro delracconto è un fabbricante e vendi-tore di parrucche, gestore di unnegozietto in un quartiere di Istan-

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Luks Otel di Kenan Korkmaz

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bul caratterizzato da esercizi diquesto tipo frequentati, in maggio-ranza, da travestiti. Un giorno, lamonotonia della sua vita è rottadall’arrivo di una donna venuta avendere la sua fluente capigliatu-ra. Lui gliela taglia, la paga, mavorrebbe continuare questa cono-scenza casuale. La pedina, scopreche vive con un uomo che la tradi-sce e che, di mestiere, fa il prepara-tore di cadaveri. Segue anche lui elo accoltella a morte. Ora può pre-sentarsi alla vedova che, in unprimo tempo, lo respinge, ma poilo accoglie. Solo che l’appartamen-to continua a essere abitato anchedal fantasma silente del morto, asignificare che il delitto ha inseritouna terza presenza nella coppia eche questa continuerà ad alimen-tare rimorsi e sensi di colpa. L’ulti-ma immagine ci mostra l’uomodelle parrucche nuovamente solonel suo bugigattolo, una solitudinecui non esiste rimedio. Il film èfotografato molto bene, interpreta-to in modo efficace e ci mostra unoscenario tutt’altro che turisticodella grande città. È un tipo dicinema segnato da una grandematurità e percorso da un laceran-te dolore del vivere. Un approccionarrativamente maturo e disperatoche la regia sorregge con immaginisbiadite, segnate da colori marce-scenti, che disegnano uno scenariodi abbrutimento morale che nonammette vie d’uscita.

Un altro filone di questa cinema-tografia è quello, citato in apertu-ra, del rapporto stretto con la cro-naca e la realtà. Press (Stampa) diSedat Yimaz racconta una storiarealmente accaduta e rende omag-gio al piccolo gruppo di giornalistiche, nel 1990, ebbero il coraggio diaprire a Diyarbakır la redazionedel primo giornale in lingua curda,l’«Özgür Gündem». Indagando,scoprirono l’esistenza di squadreparamilitari, legate a polizia edesercito, che torturavano, seque-stravano, uccidevano, e per questofurono perseguitati dalle forze del-l’ordine: alcuni di loro furono ucci-si, altri finirono in prigione. Il lorocalvario è raccontato attraverso gli

occhi di un giovane garzone d’uffi-cio, che dorme nell’appartamentoin cui è ospitata la redazione svol-gendo i lavori più umili, ma sen-tendo crescere dentro di se unapassione, quella del giornalismo dilotta e denuncia, che lo porterà adiventare un reporter di primopiano. È un film dalla strutturalineare e classica, più impostatasull’indignazione e la militanzapolitica che non sulla ricerca lin-guistica, ma l’effetto complessivo èdi grande forza e commozione.

La sezione competitiva interna-zionale comprendeva una dozzinadi titoli; fra questi ci piace segnala-re Elisa K. È un bel ritratto psico-logico diretto da due registi, uncastigliano e un catalano, che sisono ispirati al racconto «ElisaKiseljak» di Lolita Bosch in cui sisviluppano i turbamenti e le ango-sce di una donna, che a undici anniè stata stuprata da un amico difamiglia, sino a un’esplosione cherasenta la follia. È un testo raffina-to e sottile in cui il finale arriva peraccumulo di frustrazioni e incubi.Il film deve molto ad Aina Clotet,che tratteggia con sensibilità emisura le età della protagonista,dall’adolescenza alla maturità.

Umberto Rossi

Diagonale a GrazA differenza della Viennale, la cui

ispirazione metropolitana si traducein un’attenzione per tutto ciò che èemerso sulla scena internazionale nelcorso dell’anno, Diagonale, che sisvolge a Graz nel mese di marzo(quest’anno dal 22 al 27), è un festi-val interamente dedicato al cinemaaustriaco, la cui produzione scanda-glia con paritetico interesse sia per ilversante fiction che per quello diricerca. L’impostazione del festival, vadetto, è conseguente alla peculiarecaratteristica di una cinematografiache si connota per una produzione “diricerca”, sostenuta con forza da unsistema concreto (si va dalla storicaesperienza della Sixpackfilm all’inve-stimento del settore pubblico, testi-moniato dal catalogo «if – InnovativeFilm Austria», pubblicato annual-mente dal Ministero della Cultura).

Il polso del rilievo dato al cinemadi ricerca dalla direzione del Festi-val di Graz (affidata a BarbaraPichler, in carica del 2008 e confer-mata sino al 2014) viene dal filmd’apertura di Diagonale 2011:Abendland di Nikolaus Geyrhalter,documentario a grado zero chetaglia trasversalmente l’Europa

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Abendland di Nikolaus Geyrhalter; a pag. 82 Farben einer langen Nacht di Judith Zdesar.

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contemporanea visualizzandola neisuoi scenari di vita notturni, tragente che lavora, si diverte, soprav-vive: la prospettiva del grandangoloottiene l’effetto del rilievo e del det-taglio, elaborando in chiave visiva ilconflitto tra identità e spersonaliz-zazione (delle figure e del paesag-gio) che è nel cuore della cultura edella vita nel mondo occidentale.

Il punto di fuga notturno perl’analisi della vita quotidiana di unametropoli occidentale è, del resto,quello scelto anche da Ivette Löckerper Nachtschichten, che ha vinto ilconcorso documentari con un’inda-gine (in realtà abbastanza conven-zionale nei presupposti e nella fattu-ra) dedicata a una serie di figure –homeless, vigilantes e quant’altro –che trascorrono la loro esistenza innotturna simbiosi con il buio.

Più interessante, a dire il vero, unaltro documentario che ha scelto lanotte – o meglio il buio – come scena-rio per un’indagine che in realtà parteda presupposti personali (la pauradell’oscurità dell’autrice) per confron-tarsi con la notte come stato esisten-ziale: si tratta di Farben einer langenNacht, in cui Judith Zdesar si calanella lunga notte polare dell’invernoin Groenlandia per affrontare la suafobia, partendo da una condizione dipaura indotta (per autosuggestione)

per confrontarsi con la varia umanitàdel posto e con le loro esistenze. L’esi-to non è adeguato, per interesse, allepremesse, ma l’operazione restacuriosa quanto meno per il presuppo-sto emotivo che presiede all’impulsodocumentario.

Da una prospettiva personale eautobiografica nascono anche i duenuovi lavori di Elfi Mikesch cheaffiancavano, dal programma del con-corso documentari, la personale dedi-cata da Diagonale 2011 alla fotografafilmmaker formatasi con Rosa vonPraunheim e a lungo vicina a WernerSchroeter. Se Mondo Lux (già vistoanche alla Berlinale) è un vibranteritratto proprio di Schroeter negli ulti-mi anni di vita, Judenburg findetStadt è invece un ritorno alla cittànatale dell’autrice a cinquant’annidalla sua partenza: tra recupero deiluoghi degli inizi (la bottega del foto-grafo dove ha imparato l’arte) e con-fronto con la fluidità del presente(l’incontro della giovane musicologache la accompagna con il compositoredi musica liquida che fa suonareoggetti e ambienti), Elfi Mikesch rea-lizza un progetto forse dall’esito trop-po rigido, soprattutto in relazione aipresupposti a metà tra storia persona-le e storia della città, impalpabilitàdell’immagine come memoria e delsuono come risonanza dei luoghi.

Sul versante fiction, invece, il Con-corso lungometraggi di Diagonale2011 ha consegnato la vittoria a DieVaterlosen, drammone familiare diMarie Kreutzer (e suo lungometrag-gio d’esordio) che riunisce attorno alletto di morte di un patriarca figlie efigli con l’immancabile carico disegreti, dolori, affetti, fratture ericonciliazioni: la sostanza dramma-tica è prevedibile ma tutto sommatoben sviluppata, come d’altro canto lamessa in scena.

Del resto tra i lungometraggi di fin-zione non spiccavano opere di mag-gior rilievo, se non forse Adams Endedi Richard Wilhelmer, anche questaun’opera prima che, però, spiazzaabilmente le sue coordinate da com-media giovanile: due amici e le rispet-tive ragazze, una gita che muta le pro-spettive della loro relazione tra gelosiae attrazione, facendola sconfinarenella follia latente e nell’(im)prevedi-bile finale. Il film parte come una sto-ria di amicizie e sentimenti, ma vira inmaniera inattesa verso il mistero, conuna torsione che palesa con violenzala vera natura dei personaggi. Al di làdei limiti dell’opera, piace in partico-lare il modo in cui l’autore disegna lefigure, come fossero adolescenti eter-ni, sagome da Nouvelle Vague calatein un incubo alla Haneke…

Per il resto, al di là del già “vecchio”(uscito lo corso ottobre in Patria, eraanche al Forum berlinese) ma pursempre notevolissimo Folge mir diJohannes Hammel, va detto che si èrivelato interessante più sulla cartache negli esiti effettivi Persona Beachdi Georg Tiller, viaggio mentale sullabergmaniana isola di Fårö, dove l’au-tore fa muovere attorno al set e ai luo-ghi appartenuti al Maestro personag-gi che paiono sagome spiritualiaggrappate a un’inquietudine moltoprogrammatica e poco vissuta.

Sicuramente trascurabile, invece, ilpretenzioso Tape end, produzioneaustriaca del tedesco Ludwig Wüst,tipico kammerspiel che mette a nudola pochezza umana di un regista tea-trale che tenta di riconquistare unavecchia fiamma organizzando a casasua un pretestuoso provino.

Massimo Causo

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Rencontres du Cinémad’Amérique Latine a Tolosa

Giunti alla edizione numero venti-tre (grazie alle alleanze, istituzionali eprofessionali, pazientemente tessutedell’Associazione Arcalt) i Rencon-tres du Cinèmas d’Amérique Latinedi Tolosa (www.cinelatino.com.fr)condividono con la bella città fran-cese che li ospita l’atmosfera infor-male e di curiosità culturale (che siesprime anche nell’impegno di benduecento volontari, per lo più stu-denti universitari), proiettata allaricerca dei giovani talenti, uomini edonne, di un cinema che – dal Mes-sico alla Patagonia – si estende tradue continenti.

Con oltre duecento titoli nelle suevarie sezioni, gli incontri di Tolosahanno dato prova ulteriore della rin-novata vitalità del cinema latinoa-mericano (purtroppo quasi invisibi-le sugli schermi europei), tanto nelcampo della fiction che del docu-mentario. E che riguarda non solocinematografie come la cilena e l’ar-gentina, ma anche la colombiana, e,risalendo i meridiani, quelle messi-cana e guatemalteca; paesi, infatti,che hanno affollato il palmarès deiRencontres. A questa rinascita delcinema continentale, contribuisconoda tempo, oltre a numerosi pro-grammi governativi, le piattaformeprofessionali di sostegno al cinemaindipendente, come Cine en Costruc-ción, che vede uniti dal 2002 i Ren-contres di Tolosa e il festival di SanSebastian. E proprio il film premia-to a Tolosa dalla giuria di Cine enCostrucción, Bonsai del cileno Cri-stián Jiménez, è stato accolto nelprogramma ufficiale (Un certainregard) di Cannes 2011.

Tra i lungometraggi di fiction, ilpremio principale (la giuria era pre-sieduta dal regista argentino CarlosSorin) è andato a Las marimbas del

infierno, opera seconda del guate-malteco Julio Hernández Cordón,classe 1975. Un progetto nato comeun documentario (il protagonista,Don Alfonso, è un vero suonatore dimarimbas, il tipico strumento nazio-nale, taglieggiato dalle gang locali) edivenuto poi una fiction dai tonisurreali (a tratti degna di Aki Kau-rismäki) che racconta l’incontro-scontro di Don Alfonso con il leaderdi una nota band locale di heavymetal per un improbabile progettodi fusion musicale (ma la terribilerealtà sociale e criminale del Paeseresta ben presente sullo sfondo).

Al film cileno Lucía, primo lungo-metraggio di Niles Atallah (nato nel1978 e che ha studiato arti visuali eanimazione in California), sonoandati invece il premio della criticafrancese e il premio Fipresci. Un’ope-ra (very) low budget che si segnalasia per gli aspetti formali (il registaha utilizzato un nuovo standard digi-tale dagli effetti tridimensionali,coniugando tecniche di stop-motioncon le riprese dei personaggi reali)che narrativi (ed emozionali). Unpadre anziano e una figlia nubilenon più tanto giovane abitano dasoli una casa ormai cadente e gron-dante umidità in un vecchio quartie-re di Santiago. Per le tecniche e lescenografie adoperate, la casa si tra-

sformerà via via in una inquietante“casa-foresta”, avviluppante metafo-ra di quella “rimozione del passato”che il nuovo cinema cileno staaffrontando con esiti importanti (sipensi solo al notevolissimo Postmortem di Pablo Larraín, ignoratodalla giuria di Venezia 67.). Non acaso le vicende del film hanno luogonel dicembre 2006, ovvero nei giornitra la morte e i funerali di Pinochet(di cui nel film giunge un’eco lonta-na eppure ingombrante) e il Natale(da citare, al riguardo, anche dueintense opere documentarie come Eleco de las canciones della filmaker diorigine italiana Antonia Rossi e Eledificio del los chilenos di MacarenaAguilo, riproposti a Tolosa).

Il Premio del Pubblico è andato aMedianeras dell’argentino Gu-stavoTaretto, commedia agrodolce sul-l’incomunicabilità affettiva in unametropoli come Buenos Aires aitempi di Internet e dei social media.Infine, il Premio Signis per il docu-mentario è stato assegnato a Impu-nity di Juan José Lozano, durissimatestimonianza sulla guerra civile cheinsanguina la Colombia e sui crimi-ni dei gruppi paramilitari al serviziodei proprietari terrieri e delle multi-nazionali.

Sergio Di Giorgi

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Bonsai di Cristián Jiménez

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LA PORTA D’ORO(HOLD BACK THE DAWN, 1942)di Mitchell Leisen

Flamingo Video/Teodora, 2010 - ! 14,99

Un uomo si presenta agli studios della Paramount e pro-pone a un regista, che dice di aver conosciuto in passato,la sua storia in cambio di denaro. Quel regista – èMitchell Leisen, proprio quello che ha diretto il film chestiamo vedendo. Film nel film? Non esattamente: la par-tenza fa parte della vicenda stessa, che comincerà a scio-gliersi, più tardi, proprio su quel set.Il fatto è che Iscovescu, un rumeno che fino allora hasbarcato il lunario facendo il gigolò sulla Costa Azzurra,dopo lo scoppio della guerra in Europa vorrebbe siste-marsi in America e raggiunge una cittadina messicana alconfine con gli Usa, deciso a varcare il confine. Non è cosìfacile: ci sono delle quote da rispettare, la città è piena diespatriati europei in attesa. Se però riuscisse a sposareuna americana, ecco che potrebbe ottenere la sospiratacittadinanza. Il trucco riesce, Iscovescu conquista consguardi languidi e complimenti sapienti – è CharlesBoyer, il bel tenebroso: è tutto dire – una maestrina chedagli States è venuta in gita con la sua scolaresca e se lasposa. Deciso a lasciarla subito dopo aver ottenuto ilsospirato certificato, tanto è vero che intanto si rimettecon un’antica fiamma. Ma l’amore ciecamente devoto chelei gli dimostra fa leva su quel fondo di sentimenti onestiche cova nonostante tutto nell’ani-mo del cinico opportunista; perfarla breve, dopo varie vicende ilrumeno ricambia l’amore del-l’americana e tutto il groviglio sidipana dopo l’iniziale scena sul setdella Paramount.Melodramma, certo, con tutti irequisiti del genere, ma di catego-ria extra. Occorre tener conto che,oltre alla direzione di MitchellLeisen – un regista incresciosa-mente non considerato al suo giu-sto valore – c’è una sceneggiaturafirmata da Charles Brackett e BillyWilder. Una sceneggiatura super-ba, tutt’altro che priva di svoltesarcastiche, anche se afferma deci-samente un patriottismo (il film èdel 1942) sentito sinceramente. La“porta d’oro” dell’indovinato titoloitaliano è così definita in una poe-

sia iscritta sulla Statua della Libertà: «Dammi le tue stan-che, povere, umiliate masse che anelano alla libertà…mandami questi infelici, scombussolati dalle tempeste. Iosollevo la lampada a fianco della Porta d’oro». Poesia, tral’altro, erroneamente attribuita dall’ufficiale americanodell’immigrazione a Jefferson: viene corretto da un euro-peo in attesa di entrare negli Usa che evidentemente cono-sce meglio la storia americana degli americani stessi.Volendo, poi – ma senza sforzarsi troppo – in quel varcosospirato possiamo anche vedere la porta del paradiso:l’Hotel Esperanza in cui attendono gli europei è il pur-gatorio, e la maestrina redime il protagonista con laforza dell’amore, strappandolo alla sua vita sciagurata eportandolo con sé, mondato dei suoi peccati, oltre lafatidica porta.Da antologia alcune soluzioni filmiche, come quella visi-vo-sonora del tergicristallo dell’autovettura che, secondola trepida innamorata (e Olivia De Havilland è naturalitertrepida), quando è in azione ripete: «Insieme, insieme…»(il together dell’originale, con le sue palatali e gutturali, èmolto più onomatopeico). E nel sottofinale lui, finalmentescosso dall’affetto di lei e innamorato a sua volta, l’assistenell’ospedale dov’è ricoverata per un incidente di macchi-na (ha lo sterno schiacciato, respira a fatica e, disperataperché le è stato rivelato l’atroce inganno dello “sposo”, silascia andare): «Respira, Emmy, respira», le dice «Ricordi,quella notte, il modo in cui il tergicristalli ci parlava?Insieme, insieme… Respira, tesoro. Siamo insieme».Proposta vincente, quella di Vieri Razzini – che nella Rai-Tv d’antan aveva offerto una bellissima retrospettiva diLeisen – curatore dalla collana “Il piacere del cinema”cuiil dvd appartiene.

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ITALIANAMERICAN (1974)di Martin ScorseseDvd + libro Catherine Scorsese, «Italianamerican.Il libro di ricette della famiglia Scorsese»Cineteca di Bologna, 2010 - ! 18,00

Nel corso della recente visita di stato in Irlanda, BarackObama è stato festeggiato con particolare affetto nel vil-laggio di Moneygall, situato nella contea di Offaly, sullastrada fra Dublino e Limerick. È da questa località chepartì, nel lontano 1850, il ciabattino Falmouth Kearney,trisavolo dell’attuale Presidente degli Stati Uniti. La cosa,nell’Isola di Smerando, si sapeva già fin dai tempi dellasua elezione, tanto che in suo onore un gruppo localeaveva composto la canzone «O’Leary, O’Reilly, O’Hareand O’Hara, There’s no one as Irish as Barack O’Bama».Gran rimpatriata coi cugini, e doverosa pinta di scura alpub del villaggio.A questa circostanza (che rivela appieno, fra l’altro, lapochezza di quei quattro deficienti che esigevano la visio-ne del certificato di nascita del Presidente, i quali hannodimostrato di non sapere che uno dei punti di forza delloro Paese scaturisce proprio dal melting pot), a questacircostanza, dicevamo, abbiamo collegato uno dei passag-gi più gustosi di Italianamerican, il documentario giratoda Martin Scorsese nel 1974 e uscito di recente in unabellissima edizione curata dalla Cineteca di Bologna, conun volume allegato di cui parleremo più avanti. È ilmomento in cui, parlando dei primi tempi della comuni-tà italiana di Elizabeth Street, a New York, papà Scorsese,seduto comodamente in salotto, dice che, originariamen-te, la zona era abitata in prevalenza da irlandesi, e fra ledue comunità non c’è mai stato buon sangue; non si sa secredergli o no: la maniera con la quale parla è un po’ sor-niona, e non capisci se dice sul serio o ti sta prendendo ingiro. A ogni modo, mamma Scorsese chiama subito aparte suo figlio, lo porta con sé in cucina con la scusa difarsi aiutare e gli dice: «Non far caso a quel che dice tuopadre. È vero, nei primi tempi non ci si vedeva di buonocchio, ma presto le cose sono cambiate: hanno iniziatoad andare tutti d’accordo e siamo diventati una grandefamiglia. Si sono abituati all’idea. Ma all’inizio è stata unpo’ dura. Succede così dappertutto». È un film che rac-conta di ponti, Italianamerican. Ponti fra vecchi e nuovicontinenti, ponti fra comunità, ponti fra generazioni.Il film nasce da un progetto del National Endowment forthe Humanities, ufficio culturale governativo che, in vistadel Bicentenario dell’Indipendenza (1776-1976), com-missiona a diversi registi dei documentari sulle varieminoranze presenti nel Paese e sulla loro storia. Scorsese,al quale viene affidato quello sulla comunità italoameri-cana, ha la riuscitissima trovata di non fare il solito lavo-ro composto da fotografie, immagini di repertorio e testoletto da una voce off; piazza invece la troupe in casa deisuoi genitori, che lascia parlare a ruota libera sulla scor-ta di poche domande. Ne viene fuori un lavoro vivo, pal-pitante, in cui, in un’atmosfera estremamente rilassata e

conviviale, mamma e babbo Scorsese parlano di se stessi,dei loro genitori, delle circostanze a seguito delle quali lerispettive famiglie vennero in America dalla Sicilia, deirapporti con le altre comunità, di una vita costruita ognigiorno mettento mattone su mattone. Sono dei veri feno-meni, i coniugi Scorsese: sornione, come dicevamo, dietroi suoi spessi occhiali Charles; energica, ma al tempo stes-so dolcissima Catherine. E grande narratrice: talmentebrava che il racconto di come si conobbero e innamora-rono i di lei genitori, al paesello in Sicilia (lui, ufficiale dicavalleria con tanto di berretto piumato, impettito sullasua cavalcatura, durante una parata incrociò gli occhi dilei, affacciata a un balconcino poco più alto del livellostradale: fu colpo di fulmine) rimane vivido nella memo-ria come fosse la sequenza di un film.Al dvd, come accennato all’inizio, è allegata un’autenticagemma, «Italianamerican. Il libro di ricette della famigliaScorsese». È un volume redatto dalla stessa CatherineScorsese nel 1996, con la collaborazione della giornalistaculinaria Georgia Downard, in cui sono riportate lemigliori ricette della cucina della madre del regista, infra-mezzate da foto di famiglia, interventi vari e brani estrat-ti da Italianamerican. Si viene a sapere di ricette traman-date di generazione in generazione, dell’importanza dieventi come la festa di Santa Lucia (occasione in cui sipreparano le squisite panelle), di come la cucina degli ita-liani d’America si sia evoluta in maniera parzialmente asé stante rispetto alla tradizione del Paese d’origine purmantenendo tuttavia intatta la propria identità, di comesuggestioni da altri popoli non solo non siano staterespinte, ma abbiano rappresentato fonte di arricchimen-to (i knish gustati nella vicina Houston Street, abitata inprevalenza da ebrei). Anche con la cucina, si costruisco-no ponti. Evitando di prendersi troppo sul serio: comedice mamma Scorsese, «se veniva bene, bene; altrimenti,pazienza». La disposizione d’animo migliore, forse, perpreparare i migliori manicaretti. E per gettare ponti.

Arturo Invernici

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ROCCELLA JAZZ FESTIVAL (2005)JAZZ CONFUSION (2006)MIMESI (2007)STORIE DELL’OCCHIO (2008)LE CORBUSIER IN CALABRIA (2009)BEIRA MAR (2010)di Fabio Badolato e Jonny CostantinoPer contatti e acquisti: www.bacoproductions.org

Se andate a cercare sul web all’indirizzo www.bacopro-ductions.org, aprendo la finestra “about baco”, trovere-te la seguente scritta: «BACO is an independent bodywith its main focus in the productions of film docu-mentary and multimedia contents». Laconicità sparta-na relativamente alla mission della company, così comeal profilo dei due titolari e responsabili del progetto:«Fabio Badolato is an indipendent film producer and iscurrently based in London – Jonny Costantino is a wri-ter and film critic and is currently based in Bologna».E se aprite la finestra “Projects” troverete le altrettanto

stringate presentazioni dellesei opere finora prodotte epubblicate in dvd da questoduo di arrischiati (economi-camente) ma ben saldi (este-ticamente) cineasti.Dai loro primi Roccella JazzFestival (2005) e JazzConfusion (2006) fino al piùrecente Beira Mar (2010), illavoro di Badolato eCostantino si muove ostina-tamente intorno e dentro aigangli vitali del testo audio-visivo. Volutamente cercheròdi evitare fin quando possi-bile il termine “film”, perchépotrebbe indurre chi legge apensare a prodotti conven-zionalmente definiti in que-sto modo in quanto rispon-denti a caratteristiche, ingre-dienti, finalità che li inseri-scono in un circuito di aspet-tative e di desideri precosti-tuiti. Ciò che fanno Badolatoe Costantino è spingersi inun territorio differente, late-rale, trasversale: anche il ter-mine “documentario”, che

pure – immagino per comodità ed encomiabile mode-stia – essi stessi utilizzano per descrivere sinteticamen-te la loro attività, risulta stretto nel dar conto dell’ef-fettivo approccio e dei risultati.Prendiamo, per esempio, Le Corbusier in Calabria(2009). Muovendo da un nucleo costituito dalla com-binazione inquadratura + movimento, prende formaattraverso il montaggio un tessuto di immagini, unatrama visiva che fa della minimalità dei soggetti inqua-drati la sostanza estetica del testo d’arrivo, che si pro-pone come una miniera di innumerevoli sollecitazionipercettive, culturali, storico-sociali, nel rimando conti-nuo tra la sfera lirico-individuale e quella collettivadella denuncia “ambientale”, per così dire, passandoattraverso una miriade di sfumature intermedie.Questo il cuore immaginifico. Ma l’idea che trasformail tutto in un’opera che programmaticamente si sottraeal proprio prevedibile destino per rilanciarsi in unaprospettiva (in un moltiplicarsi di prospettive) definiti-vamente spiazzante è il lavoro condotto sulla colonnasonora: ci vengono consegnate otto versioni dell’ogget-to visivo, la cui individualità è definita dalle differenticolonne musicali. La variabilità dell’interazione musi-ca/immagine produce riverberi, echi, ridefinisceapprocci concettuali, trasforma reciprocamente i duedati percettivi in uno scambio dialettico dalle implica-zioni virtualmente inesauribili. Si ha la sensazione ditrovarsi di fronte a una rilettura cinematografica deglistudi e delle sperimentazioni albersiane sull’accosta-mento tra forme e colori puri in pittura, alla ricercadell’alfabeto dei cromatismi nelle profondità dell’oc-

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chio di chi guarda. È chiaro che etichettare come“documentario” un film come questo significa traccia-re confini che non possono reggere alla prova: la poro-sità della materia di cui è fatto quel limite mette incomunicazione universi di produzione di senso prontia fare faville nel reciproco accostamento.Questa vocazione a scompaginare le sicurezze del “nor-male” testo audiovisivo trova conferma in titoli comeMimesi (2007) e Storie dell’occhio (2008), esplicita-mente mirati alla messa in questione dell’atto stessodel guardare. Il primo, mettendo in scena apparente-mente la preparazione di un vernissage e la sua trasfor-mazione in live action di fronte agli occhi sorpresi degliintervenuti, trasferisce la perplessità dei visitatori dellamostra nello sguardo stesso dell’obbiettivo: recadra-ges, sfocature, instabilità congenita all’atto stesso delvedere sottolineata anche qui dall’uso sapiente delmontaggio, ci rendono con forza la posizione criticadell’occhio rispetto a una realtà maldisposta a lasciar-si osservare e interpretare toutcourt. Posizione critica che in Storiedell’occhio – appunto – si trasformain “crudeltà della visione”, condu-cendo il confronto tra presente e“passato” a dichiarare una sostan-ziale resa dello sguardo nell’attostesso del vedere (almeno quandosia inteso secondo una formulazioneconvenzionalmente mirata a estrar-re ammaestramenti didattici, indi-cazioni sui meri significati relativa-mente all’oggetto del guardare).Il recente Beira Mar (settembre2010) giunge a conseguenze radica-li, condensando nei suoi dieci minu-ti le premesse costruite nelle opereprecedenti: lo sorregge una inten-zionale casualità che imbuca la real-tà di cui dovrebbe farsi “documen-to” in un affollato palcoscenico difantasmi colti tra l’enigma e unaprecaria disposizione a esporsi, iro-nica e struggente.Vero punto di partenza teorico-pra-tico di questo lavorìo che si misuracon gli elementi del linguaggiodecodificando e ricodificandoinstancabilmente, nel rifiuto ribadi-to di accostarsi al reale secondo leleggi del realismo, è, a mio modo divedere, Jazz Confusion. Sul setcostituito dal festival jazz diRoccella Ionica del 2005, Badolatoe Costantino costruiscono un mosai-co visivo, verbale, musicale, istigan-do musicisti (Nicola Piovani, VirgilMihaiu, Enrico Rava, SalvatoreBonafede) e cineasti (Daniele Ciprì,Franco Maresco) a ragionare suirispettivi universi di riferimento chestanno alla base del loro lavoro

creativo, tra cinema musica pensiero. Universi interio-ri che si nutrono di immagini, di suoni, di amore per ilMondo e per le trasfigurazioni che l’atto artistico puòdarne, tra mille difficoltà, nella sublime precarietà del-l’esistenza che il lavoro dell’artista sa incarnare; maanche di disgusto (Ciprì e Maresco) per la contempora-neità, votata allo svilimento sistematico della ricchezzasimbolica del reale a causa di una forma ormai patolo-gica di terrore di fronte alle possibilità della poesia.Quella poesia che, del resto, ritorna in ognuno dei lavo-ri citati attraverso lo strumento con cui tradizionalmen-te si identifica: la parola. Le immagini di questi filmsono intessute di parole, di testi scritti, didascalie, cita-zioni: solidi ponti che ribadiscono con vertiginosa sem-plicità quanto sia necessario che l’atto di guardare sap-pia nutrirsi del logos e del mythos per progettare e dareforma al luogo da cui poterci mostrare l’indicibile.

Adriano Piccardi

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Sopra, Jazz COnfusion; sotto, Le Corbusier in Calabria. Nella pagina a precedente, Beira Mar.

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1 APRILE 2011Si ha notizia della scomparsa, intervenuta il 30 marzoa Mosca a 75 anni per postumi di frattura del femore,di Lyudmila Markivna Hurchenko, per gli occidentaliLudmila Gurchenko, l’attrice-cantante ucraina (nata aKharkiv il 12 novembre 1935) diplomatasi alla Vgik diMosca con Sergei Gherasimov e Tamara Makarovoj, epostasi in evidenza nel musical con Notte di Carnevaledi Eldar Ryazanov (1956). Per lei un centinaio di tito-li, compresi, nel più recente periodo, Il secondo tentati-vo di Viktor Krodim (1977, di Igor Sheshukov), Il lupo

del rock’n roll (id., di Elisaveta Bostan), Siberiade(1979, di Andrej Konchalovskij), Cinque serate (1979,di Nikita Michalkov), Stazione per due (1982, ancoradi Ryazanov), Venti giorni senza guerra (id., di AlekseiGerman) ed Esiste Karotin? (1989, di GennadijPoloka). È stata tra i rarissimi artisti russi contempo-ranei a ricevere i più alti riconoscimenti sia in erasovietica (“Artista del Popolo dell’URSS” 1983) che

nella successiva (“Ordini al merito della Patria” 2000,2005 e 2010…).

1 APRILE 2011Serrata delle tredici sale romane già appartenute al cir-cuito Cecchi Gori e ora gestite dal gruppo Mediaport diMassimo Ferrero. È la risposta alla prosecuzione dellosciopero decisa dall’assemblea dei dipendenti, cherichiedono «il mantenimento dell’attività in tutte le saledel circuito, non soltanto in quelle più remunerative; ilrispetto delle normative previste dalla contrattazioneaziendale; la fine degli attacchi operati nei confrontidella Cub informazione, dei suoi iscritti e responsabilisindacali».

3 APRILE 2011Muore a 56 anni a Santa Monica lo sceneggiatoreKevin Jarre, nato a Detroit nel 1954: figlio adottivo delmusicista Maurice e di Laura Devon, e quindi fratella-stro del musicista Jean Michel. Tra i suoi copioni,Rambo II: la vendetta e Tombstone (1985 e 1993,entrambi di George Pan Cosmatos), Ricercato vivo omorto (1988, di John Guillermin), Glory. Uomini digloria (1989, di Edward Zwick), L’ombra del diavolo(1997, di Alan Pakula) e La mummia (1999, diStephen Sommers).

5 APRILE 2011Il Sindacato Nazionale Giornalisti CinematograficiItaliani annuncia anticipatamente (nomination pubbli-cate dopo il Festival di Cannes, la consegna dei premi il25 giugno) che il Nastro d’argento per il miglior filmverrà assegnato a Noi credevamo: «Non solo come film-caso in controtendenza nell’anno della commedia, maper il valore e l’impegno che esprime, oltre il cinema, inun passaggio storico centrale nella vita dellaRepubblica italiana, a centocinquant’anni dall’Unitàdel Paese».

5 APRILE 2011Muore a Roma a 68 anni il danzatore, coreografo, atto-re e regista Gianni Brezza, nato a La Spezia il 9 novem-bre 1942. Primo ballerino nel corpo di ballo Rai neglianni Sessanta e Settanta («Canzonissima», «Milleluci»,«Studio Uno»), poi collaboratore, come interprete eregista, di Rita Pavone, e successivamente di LorettaGoggi, della quale ha condiviso la vita per quasi untrentennio, ha figurato nel cast di Ragazzi della Marina(1958, di Francesco De Robertis), Rapporto Fuller.Base Stoccolma (1967, di Sergio Grieco), Little Ritanel West (1967) e Preparati la bara! (1968) diFerdinando Baldi, Non stuzzicare la zanzara (id., diLina Wertmüller), Commandos (id., di ArmandoCrispino), Valeria dentro e fuori (1972, di BrunelloRondi).

LE LUNE DEL CINEMAA CURA DI NUCCIO LODATO

[email protected]

La quiete prima di tornare nella tempesta: Ludmila Gurchenko riceve uncavalleresco omaggio da Yuri Niculin, nei panni quest’ultimo di unpersonaggio ispirato al corrispondente di guerra e poeta KonstantinSimonov, in Venti giorni senza guerra (1982), di Aleksei German.

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5 APRILE 2011A Udine, inaugurando il FilmForum Festival, grazie allavoro della Cineteca di Bologna e della MartinScorsese Film Foundation, due inediti felliniani: unadecina di minuti di La dolce vita espunti dal regista supressione del produttore Peppino Amato, e venti inuti-lizzati per Lo sceicco bianco. Tra gli altri appuntamen-ti, la proiezione post-restauro di Vanina di Arthur vonGerlach (1922).

8 APRILE 2011Esce l’edizione italiana di Offside di Jafar Panahi, ilfilm del 2006 che il regista iraniano incarcerato dalregime degli ayatollah aveva presentato al Festival diBerlino.

8 APRILE 2011Esce in circuito contemporaneamente anche GoodbyeMama, il film di Dragomira Boneva, in arte MichelleBonev, già star della fiction Rai, rocambolescamentepremiato a Venezia lo scorso settembre: «Imposto dal-l’alto (ma da chi realmente?) e visto pare da nessuno,anche se la Bonev dice che Müller lo ha visto cinquevolte. Proiezione fantasma, non risulta nemmeno nelcalendario ufficiale, premio patacca, “Action forWomen”, ideato dalla senatrice Deborah Bergamini(già attiva nel cinema come attrice in Zombi 3 di LucioFulci) e consegnato dal ministro Mara Carfagna allapresenza di Galan e del sottosegretario Giro (Bondiaveva la scusa della frana a Pompei). Ma soprattuttoaereo privato e soggiorno pagato per un gruppo ditrentadue (chiamiamoli vip) bulgari capitanati da VezdiRashidov, il Bondi bulgaro. Un totale di quattrocento-mila euro.“Chi ha pagato?”è la domanda che due valo-rosi giornalisti bulgari non si sono stancati di ripetereal ministro Vedzi Rashidov in un video, un hit suYoutube che vale molto di più del film della Bonev»(Marco Giusti, «il manifesto»). «Goodbye Mama è undrammone femminile e anticomunista, presentatocome autobiografico, con mamme senza cuore, nonne

rincoglionite e ragazze forti che cercano fortuna inItalia. Ovviamente la mamma della Bonev se ne è tira-ta fuori (“Mi vergogno di mia figlia!”) ma fa lo stesso.Produce Rai Cinema con un milione di euro elargiti[…] anche se, si legge sui giornali bulgari, gran parte dichi ci ha lavorato questi soldi non li ha mai visti, comenessuno ha ancora visto il film in Patria. Al festival diVarna aspettano ancora la copia…» (ibidem).

9 APRILE 2011Muore a New York a 86 anni Sidney Lumet, nato aFiladelfia il 25 giugno 1924. Figlio d’arte (padre atto-re, madre danzatrice), debuttante nella regìa fra teatroe tv, nel 1957 coglie un successo mondiale sugli scher-mi con l’opera prima La parola ai giurati. Prolifico einstancabile, nel decennio successivo firma tra gli altriPelle di serpente (1960), Uno sguardo dal ponte eLungo viaggio verso la notte (1962), L’uomo del bancodei pegni e A prova di errore (1964), La collina deldisonore (1965), Il gruppo e Chiamata per il morto(1966), Il gabbiano (1968). Negli anni che vanno daiSettanta ai Novanta tende, pur nella sistematicità dellaproduzione, a un progressivo ulteriore innalzamentodel livello qualitativo, con film tra i quali Rapinarecord a New York (1971), Serpico (1973), Assassiniosull’Orient Express (1974), Quel pomeriggio di ungiorno da cani (1975), Quinto potere (1976), Il princi-pe della città (1981), Il verdetto (1982), Trappola mor-tale (1983), Daniel (1983), Vivere in fuga (1988), Sonoaffari di famiglia (1989), Prova a incastrarmi (2006)fino a concludere in bellezza col capolavoro Onora ilpadre e la madre (2007). Quasi presaga ma assai feli-

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Che giustizia sia fatta, oltre di ogni ragionevole dubbio: la giuria di La parola ai giurati (1957), esordio cinematografico di Sidney Lumet.

Un’immagine di Offside (2006) di Jafar Panahi,attualmente incarcerato a Teheran.

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ce, lo scorso anno, l’edizione italiana, merito di mini-mum fax, del suo bellissimo «Fare un film», con prefa-zione di Ethan Hawke, impegnato tra gli interpreti delsuo film d’addio.

11 APRILE 2011Nel suo primo (e probabilmente unico…) week-end diprogrammazione, l’appena ricordato Goodbye Mama,circuitato in settantanove copie – tre più di quelle diNoi credevamo, strappate però a furor di popolo dalsuccesso alla terza settimana di programmazione… –raggranella complessivamente ben sessantacinquemilaeuro, alla vertiginosa media di circa ottocentotrenta,pari a un afflusso tendenziale di quasi centoventi spet-tatori, per ciascuna sala programmata! «Il film è costa-to tre milioni e trecentomila euro e in Bulgaria giuranodi non aver sborsato più di centosessanta euro. Per far-celo vedere in ottanta cinema, Rai Cinema ha pagatoun milione» (Natalia Aspesi, «la Repubblica», 2 aprile).Consoliamoci (cfr. “luna” del 30 c.m.) pensando che lacasamadre Rai ha pagato una volta e mezzo in piùper… non farci rivedere sui teleschermi Il Caimano!

11 APRILE 2011Forte stato di agitazione dei cineasti hollywoodiani, conin testa James Cameron, per opporsi alle nuove moda-lità di visione dei film on line lanciata da alcunemajors: «Salvate i film in sala dal video on demand sel-vaggio», è lo slogan, in opposizione al progetto, sotto-scritto da Fox, Universal, Sony e Warner, di consentire,attraverso il canale DirectTv, di vedere i film nuovi al

prezzo di ventinove dollari e novantanove centesimiciascuno a soli due mesi dalla loro uscita. Si affiancanoalla lotta i due maggiori circuiti di sale statunitensi,Cinemark e Amc Entertainment – che controllanoinsieme quasi la metà dei locali in attività… – prean-nunciando il rifiuto dei trailers e delle iniziative promo-zionali riguardanti i film compresi nel pacchetto.

12 APRILE 2001Al festival di Lecce, si apre una retrospettiva completadi Toni Servillo, alla presenza dell’attore e in concomi-tanza con l’uscita del libro curato da Enrico Magrelli(Besa edizioni) e con l’inizio delle riprese, a Brindisi,del film che lo vede protagonista sotto la direzione diDaniele Ciprì, per la prima volta sul set senza FrancoMaresco.

14 APRILE 2011Muore a Los Angeles a 89 anni Arthur Julius Marx,nato il 21 luglio 1921. Figlio di Groucho e accomuna-bile per il primo nome anagrafico allo zio Harpo, sog-gettista cinematografico e televisivo, noto soprattuttoper l’autobiografia «La mia vita con Groucho» (1954,con sequel nel 1972 e nel 1992), che gli causò ancheproblemi legali sollevati proprio dal genitore che loaccusava di “scurrilità”a proprio danno, aveva lavoratoanche per Bob Hope, sceneggiandogli, tra l’altro, I guaidi papà (1964, di Jack Arnold), Lezioni d’amore allasvedese (1965, di Frederick de Cordova) e Otto in fuga(1967, di George Marshall). A Hope aveva anche dedi-cato un volume (seguìto ad altri tributati a SamuelGoldwyn, 1976; a Red Skelton, 1979; a MickeyRooney, 1988) della sua copiosa produzione: «The

Secret Life of Bob Hope» (1993). Nel 2002 aveva trat-to personalmente dall’ulteriore proprio libro del 1974

Un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo: Al Pacino per le strade di New York in Serpico (1973), di Sidney Lumet.

Sentire il peso della Storia patria: Toni Servillo, nei panni e coi pensieri diGiuseppe Mazzini, in Noi credevamo, di Mario Martone.

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su Jerry Lewis e Dean Martin, «Everybody LovesSomebody Sometimes (Especially Himself)», il film perla televisione Martin and Lewis.

17 APRILE 2011A Pordenone, concludendo “Le voci dell’inchiesta”, ilfestival di “Cinemazero”, la scrittrice iraniana MarinaNehmat rompe il silenzio artistico cui il regime diTeheran ha condannato Jafar Panahi, leggendone lelettere dal carcere.

17 APRILE 2001Muore a Tokyo a 67 anni di cancro ai polmoni OsamuDezaki, alias Makura Saki, nato nel sobborgo diShimagawa il 18 novembre 1943. Rinomato “animato-re di anime” e sperimentatore tra i primi delle applica-zioni del digitale al loro mondo, è noto soprattutto,nella sua copiosissima produzione iniziatasi a metàdegli anni Sessanta, per Remì (1977, da «Senza fami-glia» di Malot), Lady Oscar («Le rose di Versailles»,1979: dal diciannovesimo episodio in poi…) e l’altret-tanto fortunatissima serie Lupin III (1989-95). Tra lesue realizzazioni più recenti, le ulteriori serie Caro fra-tello (1991) e Black Jack (1993-2000) col relativo filmLa sindrome di Moria (1996), seguito infine da Air(2005) e Clannad (2007).

18 APRILE 2011Muore di cancro a Montreal a 70 anni Jacques MichelAndré Sarrazin, in arte Michael Sarrazin, nato aQuebec il 22 maggio 1940. Lo si ricorderà soprattuttocome partner di Jane Fonda in Non si uccidono così

anche i cavalli? (1969, di Sydney Pollack). Ma nellasua non breve carriera, iniziata alla tv dell’Ontario diToronto a metà degli anni Sessanta, essendovi notatodalla Universal che gli propose un contratto, nella tren-tina di titoli dei quali è ricca, spiccano anche Carta chevince, carta che perde (1967, di Irvin Kershner),Sparatorie ad Abilene (id., di William Hale), La ragaz-za del Greenwich Village (1971, di Stuart Hagmann),Le avventure e gli amori di Scaramouche (1975, diEnzo G. Castellari), Il misterioso caso di Peter Proud(id., di John Lee Thompson).

18 APRILE 2001Bruno Volpe, nella sua qualità di co-animatore e legalerappresentante del “blog Cattolico non secolarizzato”pontifex.roma (la visita del quale consigliamo viva-mente a quanti tra i lettori lunari non l’avessero anco-ra navigato…), presenta alla questura di Bari unadenuncia a carico di Nanni Moretti con l’accusa di offe-sa all’onore e al prestigio del Papa (art. 278 C.P., com-binato con art. 8 Patti Lateranensi, che estende alPontefice la pena da uno a cinque anni di reclusioneper offese all’onore e al prestigio del Capo dello Statoitaliano). Ce n’è anche per il produttore DomenicoProcacci, per il presidente pro tempore Rai Galimberti,in qualità di coinvolto nella coproduzione, e per FabioFazio, cui si fa colpa di aver ospitato promozionalmen-te Moretti a «Che tempo che fa». Non si salva per con-seguenza neppure – ed era ora! – Luciana Littizetto,

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Di mamma ce n’è una sola: Robert Sterling e Bob Hope in I guai di papà(1964) di Jack Arnold, sceneggiatura di Arthur Julius Marx.

Che s’ha da fa’…: Michael Sarazzin e Jane Fonda in Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), di Sydney Pollack.

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accusata di vilipendio alla religione cattolica con ricor-so a linguaggio scurrile. Sarebbe gradito un commentodi Sua Eminenza il Cardinal Melville…

19 APRILE 2011Potrebbe essere Mohammed Al Fayed il prossimoacquirente degli studi londinesi di Pinewood, danneg-giati da un incendio alcuni anni fa e assoggettati piùdi recente alla bocciatura di una lucrosa proposta divariante urbanistica – abitazioni di lusso con unamini-Venezia e una mini-Como (?) – da parte deiresponsabili del piano regolatore della capitale bri-tannica.

20 APRILE 2011Il Consiglio regionale del Piemonte, al termine di unanimato dibattito, respinge di misura l’ordine del gior-no del gruppo Pd, contrario alla decisione della giuntaCota di togliere in zona Cesarini patrocinio e finanzia-mento al festival “Da Sodoma a Hollywood”, in pro-gramma dal 28 aprile al 4 maggio. Pdl spaccato, dalmomento che oltretutto il suo precedente assessore allaCultura, il pur fervente cattolico Giampiero Leo, avevasempre mantenuto le due forme di intervento allamanifestazione diretta da Gianni Minerba e cofondatada Ottavio Mai, in nome appunto della “libertà”. Allafine, per evitare di far finire la maggioranza in mino-ranza, decisivo il voto del presidente dell’assemblea,Valerio Cattaneo, che per esprimerlo deve accantonare

la prassi senza tempo che vuole che chi riveste il mas-simo ruolo di garanzia non voti.

23 APRILE 2011Al Festival di Pechino, che si apre al Grande TeatroNazionale di piazza Tien An Men con una prolusione diMarco Müller , ben quattro i film italiani presenti tra icentosessanta selezionati in quarantadue paesi: Sorellemai di Bellocchio, L’uomo che verrà di Diritti, Puccinie la fanciulla di Benvenuti e Baroni e La solitudine deinumeri primi di Costanzo. Hanno collaborato laBiennale e l’Istituto Italiano di Cultura pechinese, fre-sco di presentazione di una retrospettiva dello stessoBellocchio, il cui Vincere aveva già partecipato al festi-val del cinema europeo dello scorso anno. Colpisce, unavolta tanto, la serietà qualitativa e non clientelare dellaselezione.

24 APRILE 2011Muore a Saint-Cyr-sur-Mer (Var), all’età di 66 anni,annegata (suicidio o incidente?) nella piscina della suavilla, Marie-France Pisier, nata a Da Lat (Indocina) il10 marzo 1944. Scelta (e amata, prima di Dorleac,Deneuve, Ardant) da François Truffaut per l’indimenti-cabile personaggio di Colette nel ciclo Doinel, interpre-ta appunto Antoine e Colette (1962), compare in Bacirubati (1968), anima L’amore fugge (1978) da lei stes-sa cosceneggiato. Ninfa Egeria del Sessantotto (lei cheproviene da una famiglia bene e di destra), compagnadi Daniel Cohn-Bendit, battagliera sostenitrice del-l’aborto e dei diritti umani, preferisce il teatro al cine-ma, il che non le impedisce di essere un’icona per pochie selezionati registi: il Buñuel di Il fantasma della liber-tà (1974), il Rivette di Céline e Julie vanno in barca(1974), il Tacchella di Cugino cugina (1975), il Téchinédi Barocco (1976) e Le sorelle Brontë (1979), ilDelvaux di L’opera al nero (1988). [lopedeluna]

Quando si dice essere più papisti del Papa…: il cardinale Melvilleapprezzerebbe tanto zelo? Ne dubitiamo…

Il primo amore non si scorda mai: i giovanissimi Jean-Pierre Léaud eMarie-France Pisier in Antoine e Colette (1962), di François Truffaut.

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26 APRILE 2011L’autobiografia di Carlo Pedersoli, ovvero Bud Spencer,«Mein Leben, Meine Filme», dopo una sola settimana inlibreria, balza in testa alla graduatoria dei libri più ven-

duti in Germania. In Italia, lo scorso anno, l’opera,apparsa col titolo «Altrimenti mi arrabbio. La mia vita»(Aliberti editore) aveva ricevuto un’accoglienza menofrenetica. Ora ci sono il tempo e l’occasione per ripen-sarci: doverosamente.

27 APRILE 2011Dopo un decennio, Sergio Toffetti lascia la presidenzadel Virtual & Multimedia Park. Lo dovrebbe sostituireAndrea Piersanti: tra le tante altre cose, collaboratoreromano di «La Padania».

27 APRILE 2011«Noi sognavamo una casa comune. Le fondamenta e lepietre angolari erano la Costituzione italiana». Lodichiara Ermanno Olmi a «Repubblica», in un’intervi-sta rilasciata a Simonetta Fiori alla vigilia dei suoiottant’anni: «Si è perso ogni legame tra cultura popola-re e cultura d’élite […]. Eravamo convinti che con ildanaro si potessero risolvere tutti i problemi. Nonabbiamo capito che, raggiunta una certa soglia di ric-chezza dopo la miseria del dopoguerra, dovevamo for-mare il cittadino democratico. Questo è il grandeappuntamento perduto con la storia. Abbiamo preferi-

to una società di compromessi e di opportunismi. […].La critica mi considerava un regista cattolico, cosa chenon sono, ritenendomi invece “un aspirante cristiano”».

27 APRILE 2011Muore a Roma a 74 anni per un attacco cardiacoLeoncarlo Settimelli, nato a Lastra a Signa nel marzo1937. Giornalista di «“l’Unità» e musicologo di vaglia,pubblica le documentate rassegne “Canti anarchici”e “Il’68 cantato” e dà vita al “Canzoniere Internazionale”.Ha lavorato in tv con Giancarlo Governi alla serie diRai Tre dei trentacinque «Ritratti» (biografie, tra lequali quelle di Totò, Anna Magnani, Alida Valli, MonicaVitti, Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Bramieri,Macario). Nel 2004 aveva organizzato a Roma un con-certo non stop di due giorni, nel corso del quale sierano esibiti, forse per l’ultima volta tutti insieme, igrandi interpreti della canzone politica popolare italia-na: Amodei e la Bueno, Ciarchi e Della Mea, la Marinie Pietrangeli, Fabbri e Assuntino.

28 APRILE 2011Il senatore di “Coesione Nazionale”(?) Franco Cardiellopresenta un’interpellanza contro una puntata del«Commissario Montalbano», «Il giro di boa», andato inonda due giorni prima.Il parlamentare accusaCamilleri di fare «propaganda sovversiva» contro lapolizia di Stato a spese degli abbonati. Ignorandoessersi trattato di una replica, dal 2005, della trascri-zione di un romanzo uscito nel 2003. Ma soprattuttonon tenendo conto del fatto che l’intenzione del miticofunzionario di sua invenzione di dimettersi, nella fic-tion, dalla Polizia di Stato nasceva dal sacrosanto sde-gno di Camilleri per i fatti genovesi del G8 alle scuole“Diaz” e “Pertini”. E che la scena iniziale dello sdegno,magistralmente interpretata da Luca Zingaretti eCesare Bocci per la regìa di Alberto Sironi, era propriocosì sottolineata, come già nel romanzo, di proposito…

30 APRILE 2011Ospite di «In onda» su La7, Nanni Moretti chiede e sichiede perchè Rai Uno non trasmetta Il Caimano: «Hotanti difetti, e non mi piace per niente fare la vittima:infatti sono tre anni che non dico nulla. Il Caimano ècostato tantissimo, otto milioni e mezzo di euro, il ven-ticinque per cento in più del previsto. Io coproducosolo con la Rai, ma questa è stata l’unica volta che hopreferito produrlo da solo. Dopo di che, il film è uscitoed è stato acquistato dalla Rai per un milione e mezzodi euro per cinque passaggi in altrettanti anni. Eppuresono già passati tre anni e un mese e ancora non è statotrasmesso. Per ora non è stato messo in onda.Qualcuno mi spieghi il perchè». La trasmissione diCostamagna e Telese ne manda in onda il finale, l’auto-rizzazione al cui uso era stata rifiutata dalla Rai a«Parla con me», mentre Moretti aveva rifiutato di trat-tare di tagli preliminari. Alla risposta sarebbero certointeressati anche i numerosi abbonati Rai non berlu-sconiani. Ce ne sono…

[email protected]

Pirati dei mari della Cina: Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer,in Cantando dietro i paraventi (2003), di Ermanno Olmi.

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Massimo Giraldi, Enrico Lancia, Fabio Melelli

IL DOPPIAGGIO NELCINEMA ITALIANOEd. Gremese, Roma 2011pp. 333 - ! 30,00.

Andrea Lattanzio

IL CHI È DEL DOPPIAGGIOLE VOCI DEL CINEMA DI IERI E DI OGGIEd. Falsopiano, Alessandria 2011pp. 240 - ! 20,00.

Il doppiaggio, vexata quaestio.Tutti convengono che si tratta diuna pratica difficile e impegnati-va, tutti concordano sul fatto cheil doppiaggio italiano gode di pre-stigio indiscusso (qualcuno sostie-ne che in diversi casi le vociaggiunte sono superiori a quelleoriginali), ma discusso è il dop-

piaggio in sé, la sua necessità, ilsuo diritto all’esistenza. Gli autoridei due libri usciti praticamenteinsieme sull’argomento non ladiscutono, la questione, nonhanno dubbi, partono dal dato difatto: in Italia si doppia tutto ed èuna eccellente pratica d’alta spe-cializzazione.Il libro della Gremese abbracciatutti gli aspetti del lavoro e si pro-pone come un testo «organico edesaustivo» con una «prodigiosaquantità di articolate informazio-ni», come lo presenta nella prefa-zione Claudio G. Fava, che da sem-pre considera primaria questa atti-vità. Si parte dalle origini (checoincidono con le origini del sono-ro) e se ne traccia la cronologiafino ai giorni nostri: una secondaparte considera il lavoro praticodegli attori-doppiatori, ed è prodi-ga di curiosità; una terza parteraccoglie testimonianze di addettiai lavori e gli apparati di docu-mentazione.Il libro di Andrea Lattanzio intro-duce a questa attività chiarendo lecircostanze di un lavoro oscuro epoco considerato, elencando lecooperative e le strutture entro cuioperano i doppiatori, e fornendoun esauriente “chi è?” dei doppia-tori principali, tenendo contosoprattutto delle figure “storiche”.Si va da Tonino Accolla a MauroZambuto, fornendo per ciascunodati anagrafici, titoli e notizie suifilm e sui personaggi doppiati, maanche la filmografia relativa aifilm interpretati come attori e datisull’attività televisiva e radiofoni-ca, con notizie, critiche e dichiara-zioni.

Nicola Falcinella

AGNES VARDACINEMA SENZA TETTO NÈ LEGGEEd. Le Mani, Recco/Genova, 2010pp. 142 - ! 14,00.

Perché un libro sulla Varda? Perchénon si è pubblicato quasi nulla, inItalia, su questa regista, e perché «lesue emozioni, le sue scoperte sono ditutti, riguardano noi», come affermaFalcinella, il curatore. Il quale firma,oltre l’Introduzione, otto interventi suisedici che compongono questo libro, aparte la bio-film-bibliografia. Unaescursione a vasto raggio, tutto som-mato, riguardante una donna-registadalla carriera più lunga e ricca diopere di ogni altra, autrice di filmanomali e imprevedibili, un’apripistache parla sempre forte e chiaro, affa-scinata dal rapporto tra realtà e fin-zione: arte come riflesso della vita.«Come donna e come persona, la regi-sta parte dal corpo»; è una delle osser-vazioni del curatore, che della Varda sioccupa specificamente della sua auto-

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biografia filmata Les plages d’Agnès,dei suoi corti, dei suoi interessi dacinéphile, della Nouvelle Vague.Gli altri interventi sono di FlavioVergerio (che definisce la Varda «gau-chiste, con leggerezza e ironia»), diLivio Marchese (la nostra regista vistacome «cine-spigolatrice»), di VeronicaMaffizzoli (uno sul tema del caso edella necessità e uno sui compagni distrada di Agnès), di Claudia Cassotti(gli incroci con Jacques Demy, argo-mento trattato anche da CarloCaspani), di Alberto Pesce (sul femmi-nismo della nostra regista e del suocinema). Belle le tavole fuori testo.

Emanuela Martini

CHE COSA GUARDOSTASERA?DVD PER TUTTE LE OCCASIONI(ANCHE LE PIÙ STRANE)Ed. Il Castoro, Milano 2010pp. 193 - ! 15,00

Non mancano le guide ai film davedere in tv, ma questa è decisamentediversa. Non procede per titoli in ordi-ne alfabetico, tra i quali vai a control-lare il titolo del momento, quello chehai a disposizione, ma è ordinato perscelte personalizzate secondo la tipo-logia dell’utente e i suoi umori dellasera. Sei una casalinga disperata? Haibisogno di un avvocato? Ti piace ilmare? Oppure: Se hai appena rivistoil tuo ex, Se il tuo capo è una donna,Se ti senti un sopravvissuto… Ecco

pronto, per ogni situazione, un maz-zetto di titoli adatti. Film Therapy?Più o meno. Niente cast & creditis,niente concetti alti, niente seriosità; incompenso un invito a stare al gioco.«Nel bene e nel male, con parecchiaironia e un po’ di onestà critica, conun tanto di cattiveria ma, sempre, conmolto affetto per gli oggetti di cui par-liamo», dichiara la curatrice. Lei e isuoi collaboratori (Pier Maria Bocchi,Silvia Colombo, Gualtiero De Marinis,Mauro Gervasini, Luca Malavasi) evi-dentemente si divertono, e divertonoanche il lettore.

Vasco Pratolini, Fernando Birria cura di Goffredo De Pascale

MAL D’AMERICAEd. add,Torino 2010pp. 143 - ! 12,00.

È la sceneggiatura di un film mai rea-lizzato, scritta da Fernano Birri (ancheautore del soggetto) e da VascoPratolini. Birri, cineasta argentino, aparte le deambulazioni in AmericaLatina, sempre in lotta per la libertàalle prese con governi tirannici. Birri èanche un po’ italiano, avendo studiatoe lavorato da noi: aveva conosciutoPratolini, uno scrittore e sceneggiato-re che andava spesso al cinema, quan-do studiava al Centro Sperimentale.«Nasce come una sorta di simbiosipostneorealista», ricorda Birri (il neo-realismo era stato vissuto intensa-mente da ambedue gli autori:Pratolini fra l’altro aveva collaboratocon Rossellini e con Visconti) e vieneconcluso nel 1966. È una bella sce-neggiatura, già molto “cinematografi-ca” nel senso che propone vivideimmagini. Racconta di un giovanecontadino campano della secondametà dell’Ottocento che, ribellandosialle patenti ingiustizie sociali delluogo, è costretto a emigrare inAmerica, dove si rifà una vita. Comesuona la premessa dei due autori, Mald’America intende essere «un film sto-rico che parli al presente» e privo di«retorica patriottica, senza personaggimanichei, senza facili moralismi».Sembra scritto oggi, tempo di un cine-

ma che indaga nella formazione delnostro Paese rifiutando ogni tipo divecchio schema.

Massimo Zanichelli

PSYCO & PSYCHOGENESI, ANALISI E FILIAZIONI DEL THRILLER PIÙ FAMOSO DELLA STORIA DEL CINEMAEd. Le Mani, Genova 2010pp. 182 - ! 15,00.

«Psyco per identificare il film diAlfred Hitchcock e Psycho per i trecapitoli successivi della storia diNorman Bates (i due sequel e il prese-quel) e soprattutto il remake di GusVan Sant», precisa l’introduzione.L’autore del libro amplia dunquel’analisi del film di Hitchcock – unodei più trattati dalla critica moderna –e va oltre. Sul regista di Psyco (quelsuccesso di pubblico che sappiamo,ma anche la sua opera «più eccentricae sperimentale») il giudizio è perento-rio: «Come Bach per la musica oDante per la poesia, Hitchcock rap-presenta la perfezione di un’arte»,prendere o lasciare (ma tra i “capola-vori” del Nostro non si cita neppuruno dei film del periodo inglese).Si parte dunque dal romanzo origina-rio di Robert Bloch per esplorare ilrisultato hitchcockiano, nato faticosa-mente e realizzato solo per la cocciu-taggine del regista, per poi passare alrapporto tra tale romanzo e il risulta-to filmico, indagato nei suoi valori.Magari con paragoni inediti (la

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sequenza della doccia come quelladella eisensteiniana scalinata diOdessa). Poi i Psycho II, III e IV, non-ché quello di Van Sant, che non rifà ma«interpreta» l’Ur-testo, difeso a spadatratta in quanto «lo spartito è Psyco, ilcompositore è Alfred Hitchcock, ildirettore d’orchestra è il filmaker».

Carlo Tagliabue e Flavio Vergerio

CINEMA, STORIA, MEMORIAEd. Centro Studi Cinematografici,Roma 2010 - pp. 270 - ! 15,00.

Maurizio Fantoni Minnella

PARADISE NOW! SULLEBARRICATE CON LAMACCHINA DA PRESA

CINEMA E RIVOLUZIONE NEGLIANNI SESSANTA E SETTANTA Ed. Marsilio,Venezia 2010 pp. 171 - ! 17,00.

Non mancano certo i libri che trattanodei rapporti tra il cinema e la storia(non per niente nella prefazione i cura-tori del primo libro citano, fra gli altri,Ferro e Sorlin). Ma qui, in questo volu-me che raccoglie gli interventi a unconvegno catanese del Centro Studi, èsottolineata la necessità di non perderela memoria e la coscienza del passatoattraverso un’opera di educazione con-tinua. L’aspetto didattico del cinema,in quest’ambito, è prevalente; tanto piùin un’epoca come la nostra, in cui lamemoria viene distrutta, non soloignorata, dal «fluire incontrollato eincontrollable di informazioni audiovi-sive». Tagliabue ci fa constatare che ilcinema è ancora ben lungi dall’essereconsiderato strumento valido per unaautentica conoscenza delle cose, anchequello dei generi più popolari (e fal’esempio di due film di tanti anni fache parlano sostanzialmente del pre-sente); mentre Vergerio – il quale poiintervisterà sulla “lezione di storia”compiuta dal cinema Rondolino,Ortoleva, Prono, Canova e Abruzzese –chiarisce il motivo fondamentale dellefatiche di Alain Resnais, il lavoro dellacoscienza contro l’oblio.Tra i tanti interventi (sul tempo vissu-to e su quello affidato alle storie del

cinema, sulla conoscenza della Shoah,sulle soluzioni suggerite da Tarkovskij,sul mito interessato della campagnasotto il fascismo, sulla realtà sicilianavista dai documentaristi, sul muro diBerlino, sul rapporto tra il cervello del-l’uomo e l’intelligenza artificiale) spic-cano quelli di utilità pratica per lescuole (progetti definiti, esperienzeattuate) di Paolo Castelli e di TulliaGiardina rispettivamente.Anche il secondo libro (ParadiseNow!) tratta di cinema e storia, presen-tandosi come un contributo «originale»in grado di offrire «una visione esausti-va» dei valori del linguaggio, soprattut-to del cinema, nel rapportarsi al ’68 eai successivi anni Settanta. In realtà, seil cinema è il testo e gli eventi di quel-l’epoca il contesto, il volume verte piùsul contesto che sul testo. L’autore, cheprende le distanze da chi ha messo insoffitta il ’68 ed è contrario ad ogniforma di compromesso, licenzia unatrattazione a forte connotazione politi-ca di marca marxista-leninista passan-do in rassegna vari fenomeni (come ilVietnam, gli hippies, l’underground, laSwinging London, i Beatles, la conte-stazione studentesca, la crisi di Praga,il terzomondismo, la lotta armata ecce-tera). C’è anche il cinema, ci sonoanche Zavattini e Pasolini, Godard e laCavani, Maselli e Bertolucci,Bellocchio e Costa-Gavras, Forman ePontecorvo. Un capitolo apposito èdedicato alla musica come agente etestimone del periodo.

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La Federazione Italiana Cineforum (Fic) raggruppa in tutta Italia numerosi cineforum e cineclub. La Fic organizza corsi, seminari e convegni,distribuisce film classici e inediti, fornisce consulenze in campo cinematografico, cura la pubblicazione della rivista «Cineforum»,dell’«Annuario del cinema» e di altre pubblicazioni di cultura cinematografica.

Per informazioni su come fondare un cineforum e sulle modalità di adesione alla Fic ci si può rivolgere alla segreteria (casella postale 10,31041 Cornuda, TV, segreteria telefonica 0423639255, [email protected]). I cineforum di nuova costituzione possono richiederegratuitamente nel primo anno di associazione due film distribuiti dalla Fic e dalla Lab80 Film (via Pignolo, 123 IT-24121 Bergamo, tel.035342239, Fax 035341255, [email protected]). A cinque membri di ogni nuovo cineforum viene mandata in omaggio per un anno lo rivista«Cineforum». Tutti i cineforum affiliati ricevono lo rivista «Cineforum», ottengono a prezzi speciali i film della cineteca della Fic e del Iistinodella Lab80 Film, hanno la possibilità di partecipare a convegni, corsi, mostre e festival del cinema.

Il comitato centrale della Fic, per il triennio 2008-2011, è composto da Ermanno Alpini (Arezzo), Gianluigi Bozza (presidente, Trento), ClaudiaCavatorta (Parma), Dino Chiriatti (vicepresidente, Roma), Maurizio Cau (vicepresidente, Rovereto, TN), Bruno Fornara (Omegna, VB), DiegoFragiacomo (segretario, Cornuda, TV), Giorgio Grotto (Schio, VI), Cristina Lilli (Bergamo), Roberto Marchiori (Legnago, VR), Adriano Piccardi(Bergamo), Jurij Razza (Robbiate, LC), Angelo Signorelli (Bergamo), Enrico Zaninetti (tesoriere, Novara).

Sono sindaci revisori dei conti e probiviri: Chiara Boffelli (Bergamo), Roberto Figazzolo (Pavia), Raffaella Leonardi (Oleggio, NO), PierpaoloLoffreda (Pesaro), Walter Pigato (Nove, VI), Giuseppe Puglisi (Ragusa), Piergiorgio Rauzi (Trento), Leo Rossi (Caerano San Marco, TV), ToninoTurchi (Pesaro), Sergio Zampogna (Bergamo).

II ddaattii ffoorrnniittii ddaaii ssoottttoossccrriittttoorrii ddeeggllii aabbbboonnaammeennttii vveennggoonnoo uuttiilliizzzzaattii eesscclluussiivvaammeennttee ppeerr ll’’iinnvviioo ddeellllaa ppuubbbblliiccaazziioonnee ee nnoonn vveennggoonnoocceedduuttii aa tteerrzzii ppeerr aallccuunn mmoottiivvoo..

Federazione Italiana Cineforum

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immaginariesplorazionilaboratorio di arti visivee di etnografia urbanasulle periferie contemporaneegiambellino

un progetto di:

con il patrocinio di:

con il contributo di:con: insieme a:

DYNAMOSCOPIOAssociazione Culturale X PRODUTTORI

SANTI

urbanASSOCIAZIONE CULTURALE ETEROTOPIA

media partner:

www.immaginariesplorazioni.it

dalle ore 17.00via Odazio, 7 - Milano

1 LUGLIO – ROBERTO MALIGHETTI “Centralità dei margini”

30 SETTEMBRE – M. SCOTINI con P. ZOURGANE E S. ROUSSEL “Terrain vague e mappe minori”

8 LUGLIO – GIANCARLO PABA “Corpi urbani”

21 OTTOBRE – EYAL SIVAN“Elementi per un approccio documentaristico al cinema”

16 SETTEMBRE – FRANCESCO JODICE: “Dispositivi della visione: quale poetica civile?”

4 NOVEMBRE – M. BUQUICCHIO con F. ROSSIN“L’archivio del Cinema e il Cinema d’archivio”

I venerdì di immaginariesplorazioniINCONTRI PUBBLICI APERTI

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Jones, Bigoni, Rodriguez e Maniquis, Delaporte, Torre, Craven

Focus Il cinema di Simone Massi

Il nuovo combat-film americano / I casi di Cloverfield e InceptionBikers Movie / Lo sguardo di Edward Hopper

Il cinema e il suo doppio: Quando il mondo era giovane

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TRA I FILM NEL PROSSIMO NUMEROCORPO CELESTE - THE TREE OF LIFE - IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA

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CineforumVia Pignolo, 12324121 BergamoAnno 51 - N. 4 Maggio 2011Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv.in L.27/2/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCBPoste Italiane S.p.a.

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