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di Roberta Trischitta Washington DC - 2013. Elija sa che drogandosi sta facendo del male a se stesso e alle persone che ama, lo legge negli occhi della sua fidanzata Delia ogni volta che la guarda e negli occhi colmi di rabbia e delusione di suo fratello, ma proprio non riesce a smettere. Giorno dopo giorno manda a rotoli la sua vita cosciente, per nulla preoccupato del fatto che le sue azioni finiscono per danneggiare anche chi gli sta intorno. Quando finalmente Delia riesce a convincerlo a entrare nella migliore clinica di disintossicazione della città, grazie alle ottime cure l’uomo inizia a riprendersi e realizza di essersi lasciato dietro una notevole scia di dolore e di problemi. Nella rehab che ha l'arduo compito di salvargli la vita, in qualche modo, Elija ritroverà ciò che aveva perduto, ma farlo non sarà affatto facile.

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ROBERTA TRISCHITTA

COME UN ALBERO SPOGLIO

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COME UN ALBERO SPOGLIO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-722-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A chi, dopo una caduta, trova sempre il coraggio di rialzarsi.

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«Per prima cosa sottoporremo il suo fidanzato ai controlli medici di routine, che ci permetteranno di avere un'approvazione scritta per l'ini-zio del trattamento. Se il paziente dovesse presentare condizioni di salu-te non del tutto ottimali, verrà elaborato per lui un trattamento alternati-vo con un medico personalizzato». Delia annuì incrociando le gambe sotto la grande sedia di legno sopra la quale era seduta. Dio solo poteva sapere quante volte aveva ascoltato quei discorsi negli ultimi tre anni. I dottori la facevano accomodare, le sorridevano accondiscendenti e iniziavano a spiegarle passo passo il programma al quale Elija avrebbe preso parte. C'era il punto uno: i controlli medici per accertarsi se e quanto gli stu-pefacenti avessero danneggiato il suo corpo. Se i reni, il cuore, la pres-sione e la conta dei globuli rossi risultavano nella norma, sarebbe stato subito pronto a prendere parte al programma, altrimenti la preparazione di un programma personalizzato avrebbe allungato i tempi di almeno qualche giorno. Su questo Delia si sentiva abbastanza tranquilla. Fortu-natamente la salute di Elija si era rivelata sempre piuttosto buona e non aveva mai avuto problemi nell'entrare nei programmi tradizionali. Poi c'era il punto due, che consisteva nel fare altri test, esaminare i pun-ti del programma stilato durante il punto uno e convincere il paziente che la dipendenza poteva essere sconfitta solo ed esclusivamente se la scala della guarigione veniva percorsa insieme al medico, senza mai mollare. Su questo era sempre stata scettica. Esaminare il programma punto per punto era la parte semplice, convincersi che un drogato par-lasse sul serio quando sosteneva che sarebbe salito su per quei gradini immaginari senza mai mollare era la parte dura. Non aveva mai capito come potessero prendere sul serio le parole di un uomo che si era fatto di cocaina per anni, soprattutto durante il primo colloquio e con un principio di crisi d’astinenza, per giunta. Ma supponeva che provare a fidarsi facesse parte di quell'immenso meccanismo che era la guerra alla tossicodipendenza. Probabilmente

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nessuno l’avrebbe biasimata se avesse confessato di non credere più nemmeno a una sola parola di quelle che uscivano dalla bocca di Elija. Non dopo cinque tentativi falliti di uscire da quello stramaledetto tunnel. «La fase tre, che è il vero e proprio inizio del processo di disintossica-zione, consiste…». «Nello svolgimento di un’adeguata attività fisica, per aiutare il corpo a liberarsi delle tossine e quindi dei residui degli stupefacenti. Ho sba-gliato qualcosa, dottore? » lo interruppe Delia. «No signora Bloom, ha detto tutto correttamente». Delia sorrise amaramente alzandosi dalla sedia. «Già, lo immaginavo. Sa, dopo cinque tentativi falliti i problemi persistono, ma almeno ho imparato a memoria le espressioni che voi medici usate in queste circo-stanze» spiegò. «Ho sempre affrontato queste situazioni con tutto l'ot-timismo di cui sono capace e mi creda, dottor Calvin, io sono una per-sona molto ottimista. Ma questa è la sesta volta e credo che non avrei la forza di affrontarne una settima. Quindi la imploro, lo aiuti». Il dottore si alzò a sua volta, lo sguardo distaccato con cui l'aveva guar-data per tutta la durata del colloquio si trasformò in uno sguardo carico di compassione. Non proprio il tipo di sentimenti che servivano a elija. Ma lo capiva, in fondo lui poteva semplicemente fare del suo meglio. Chi sosteneva che una persona deve aiutarsi da sé prima di poter riceve-re aiuto dagli altri aveva ragione, e lei non era certa che Elija fosse ca-pace di aiutare se stesso. «Faremo del nostro meglio per prenderci cura del suo fidanzato». «Grazie» rispose lei tendendo la mano per stringere quella del dottore. «Quando potrò venire a trovarlo?». «Questa è una clinica privata quindi può venire a trovarlo anche domani stesso, ma professionalmente credo sia meglio limitare i rapporti a semplici telefonate di mezz'ora al massimo, per almeno le prime due settimane» spiegò. «Va bene. La ringrazio dottore. Arrivederci». Delia uscì dall'ufficio del dottor Calvin sistemandosi la borsa sulla spal-la e percorse il lungo corridoio cercando di camminare il più veloce possibile. Le porte di alcune stanze erano socchiuse e poté sentire le imprecazioni dei pazienti risuonare lungo tutto il corridoio bianco e puzzolente di disinfettante. Non aveva mai capito perché gli ospedali avessero tutti quell'assurdo odore che faceva venire mal di testa, ma in fondo non era così importante. Girò a sinistra e sobbalzò fermandosi di

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colpo davanti a Elija. Aveva appena finito le visite di routine e due in-fermieri lo stavano accompagnando nella sua camera. Aveva sperato di non incrociarlo mentre se ne andava, ma ancora una volta le sue spe-ranze erano crollate. «Delia…dove vai?» le chiese avvicinandosi. La sua voce tradiva paura. «Vado al lavoro». «Oggi è venerdì, tu non lavori mai il venerdì». «Oggi è mercoledì Elija e comunque sto facendo degli extra. Ci vedia-mo presto okay?». Le lacrime le pungevano gli occhi e i singhiozzi erano pronti a esplode-re in tutta la loro disperazione. Forse aveva sbagliato a parlare degli ex-tra al lavoro. Lui le avrebbe chiesto perché e davanti al suo silenzio a-vrebbe ricominciato con quella dannata fissazione degli ultimi tempi; da quando era convinto che lei lo tradisse con il suo capo. Cercò di al-lontanarsi senza apparire troppo tesa, ma lui la afferrò per un braccio costringendola a fermarsi e voltarsi. «Stai andando da lui, vero?» le domandò furioso, come lei aveva previ-sto. «Elija, non esiste nessun lui». «Sì invece. Quel pallone gonfiato, quel bastardo del tuo capo. Ha sem-pre avuto un debole per te. Te lo scopi vero? Da quanto?». Quegli occhi azzurri che lei tanto amava erano iniettati di sangue e rab-bia. Le occhiaie viola e il viso scavato gli davano un’espressione stanca e spaventosa allo stesso tempo. Le prese il viso tra due dita e strinse forte. Gli infermieri balzarono in avanti per soccorrerla, ma Delia li fermò alzando una mano. Poteva gestire quella situazione, l'aveva già fatto altre volte. «Elija, mi stai facendo male. Lasciami andare» gli disse, bloccata nella sua presa. Agitarsi l'avrebbe semplicemente fatto arrabbiare di più. «Delia. Se scopro che te lo scopi davvero io lo ammazzo mi hai capito? Vi ammazzo entrambi» urlò stringendo più forte. «Tu appartieni a me, sei solo mia!» La donna tirò indietro la testa liberandosi dalla presa. Si toccò le guance indolenzite, ma era più forte il dolore che sentiva in fondo al cuore. «Ti prego, lasciati aiutare» gli sussurrò prima di allontanarsi. «Delia!» urlò lui guardandola andare via. «Delia!» gridò ancora, questa volta con la voce incrinata dal pianto.

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Ma lei non si voltò, nonostante ogni fibra del suo essere volesse farlo. Uscì dalla clinica e salì in auto. Soltanto quando fu lontana da lì si la-sciò andare a un pianto disperato e amaro. Pregò Dio che Elija si la-sciasse aiutare, pregò che quell'incubo finisse una volta per tutte.

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1. Delia lasciò cadere il capo all'indietro. Il suo collo e le sue spalle scric-chiolarono e la sua schiena sembrò trovare pace. Roteò la testa due vol-te per lato e poi alzò le braccia per stirarsi incrociando in alto le dita. Non sapeva neppure da quanto tempo era seduta a quella scrivania, da ore probabilmente. Quello che sapeva con certezza era che aveva biso-gno di mangiare e di dormire. Il suo ultimo pasto completo era stato un panino al formaggio abbinato a un bicchiere di soda, e l'ultima volta che aveva toccato il letto per almeno un paio d’ore era stato ventiquat-tro ore prima. Elija era in clinica da sei giorni e ogni giorno – o quasi – lei poteva par-largli per mezz'ora al massimo. Trenta minuti in cui tutto quello che gli ripeteva era di stare tranquillo e di mettercela tutta. I primi due giorni lui non aveva fatto altro che insultarla, insinuando che se l'aveva rinchiuso lì dentro era perché voleva avere la totale liber-tà di tradirlo. L'aveva etichettata con ogni aggettivo possibile e la se-conda telefonata si era conclusa con loro in un silenzio assordante dopo che Elija l'aveva incolpata di essere il motivo per cui aveva iniziato a drogarsi. Perché lo pensasse, rimaneva un mistero che Delia preferiva non appro-fondire. Il terzo giorno era stato calmo e le era sembrato sereno. Si era scusato per le urla dei giorni precedenti e poi le aveva detto che durante la cor-setta mattutina la sua istruttrice gli aveva assicurato che, con l'impegno necessario, il suo corpo sarebbe tornato allo splendore di un tempo, quando la cosa più faticosa a cui il suo cuore veniva sottoposto era loro due che si rincorrevano durante un'improvvisata partita di calcio o si stringevano l'uno all'altra fino a farsi venire il fiato corto. Le aveva ri-portato alla mente il giorno in cui si erano dati il primo bacio. Il vento soffiava leggero scompigliandole i capelli. Il respiro di Elija era caldo e sapeva di menta. Le loro bocche se ne stavano lì, a un sof-

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fio l'una dall'altra e i loro cuori erano preda dello stesso battito. Non sarebbero stati capaci di dire da quanto tempo se ne stavano così, co-me sospesi nel tempo, stretti l'uno all'altra, prigionieri di quell'abbrac-cio impossibile da sciogliere. Tutto quello che sapevano era che si de-sideravano, desideravano sentire le proprie bocche una sopra l'altra, le proprie lingue intrecciate nel gioco erotico più semplice e romantico del mondo. Un movimento e sarebbe successo. Poi accadde. «Te lo ricordi Delia?» le aveva chiesto. E Delia lo aveva sentito sorri-dere. Lei aveva annuito nel buio della sua stanza, ma non aveva risposto. Forse per questo il giorno successivo lui non aveva voluto parlarle. For-se, la violenza del ricordo e la violenza del suo silenzio lo avevano co-stretto a un esame di coscienza che non era pronto ad affrontare. Forse se lei avesse detto qualcosa... Il giorno dopo, la telefonata quotidiana le aveva fatto molto male. L'uomo che amava piangeva disperato, maledicendo il destino e male-dicendo se stesso. Implorandola di andare da lui, promettendo che tutto sarebbe stato diverso. E lei si era sentita morire, da vittima a carnefice si era sentita crudele, incapace di realizzare che costringendolo a disin-tossicarsi gli stava facendo solo del bene. La telefonata di quel sesto giorno invece era stata una conversazione monosillabica di trenta minuti. Elija era sembrato spento e svogliato e lei aveva risposto stanca e frustrata. Dopo era tornata al lavoro, perché tra tutto quello che non sapeva, tutto quello che sfuggiva al suo controllo e che non la faceva dormire, c'era una cosa che sapeva perfettamente: aveva bisogno di fare ogni extra possibile perché curare Elija era una priorità, ma una priorità che presto l'avrebbe lasciata senza un soldo. Si rimise dritta e poggiò le dita sulla tastiera; quelle cifre non si sareb-bero calcolate da sole. La sua mente la portò indietro nel tempo, fino a un momento bello e indimenticabile, così bello da cancellare ogni stan-chezza.

* * *

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«Delia, hai un aspetto orribile. Sei stata qui tutta la notte?». La donna scosse piano il capo bevendo un sorso del suo caffè extra for-te. Dubitava che sarebbe stato capace di svegliarla a dovere, ma ne ave-va bisogno per non crollare addormentata da qualche parte. Sorrise a Kayla che ancora la fissava in attesa di una vera risposta e fece spalluc-ce. «Non proprio» disse. «Ma sono tornata a casa all'una di notte e alle sei ero di nuovo in piedi. Sono qui dalle sette, questo è il mio terzo caffè, o forse il quarto. Ho perso il conto». La sua collega, seduta alla scrivania di fronte a lei, sgranò gli occhi sor-presa e la raggiunse poggiandosi alla sua scrivania «Delia, così finirai per avere un crollo. Quanti extra hai fatto questa settimana?». «Non so» rispose lei massaggiandosi le tempie «credo quattro giorni su cinque». «Sono decisamente troppi e tu lo sai. Cosa dice Elija di tutto questo? Anche lui fa gli extra? Scommetto di no. Dovreste fare le valigie e par-tire per un bel week end, so che avete passato dei brutti momenti ulti-mamente, vi farà bene». Delia abbassò gli occhi e si guardò le mani. Il suo bell'anello di diaman-ti dal taglio quadrato brillava di una luce magnifica quel giorno, non esattamente la stessa luce che splendeva sulla sua relazione con Elija. Un week end insieme sarebbe stato bellissimo, ma non era fattibile. «Già...» mormorò, «ma credo che non si possa fare». «Non dovete di certo andare lontano. Sai una cosa? Mia cognata pos-siede un piccolo e delizioso chalet in montagna. Dovreste solo portarvi del cibo e dei vestiti molto pesanti. Fa un freddo terribile. Ma sono cer-ta che tu ed Elija saprete come scaldarvi» ammiccò sorridendo e Delia ebbe la sensazione che da lì a poco i suoi occhi avrebbero iniziato a piangere a dirotto. «Non è questo» disse con voce tremante «Lui ha... è in disintossicazio-ne. Di nuovo. Ecco perché devo fare quanti più extra possibili, devo pagare la retta mensile della clinica». Kayla assunse l'espressione indecifrabile di chi si sente terribilmente in imbarazzo e preferirebbe sprofondare piuttosto che continuare a parlare. «Mi dispiace Delia, io non... Dio come sono stupida! Avrei dovuto ca-pire». «Come avresti potuto? Non ci capisco nulla neppure io oramai».

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Kayla, lunghi capelli neri lucenti e pelle color caramello, sospirò e la guardò comprensiva. «Da quanto tempo?». «Una settimana oggi». «Credi che ce la farà stavolta?». Delia si schiarì la voce e guardò dall'altra parte della stanza «Non lo so. Ma lo spero con tutto me stessa. Vorrei solo che tutto tornasse come prima, quando stavamo bene. Quando questo anello al mio dito era una promessa d'amore e non un'assicurazione per il pagamento della mensi-lità alla clinica». «Un'assicurazione? Cosa... Oh no Delia, hai intenzione di impegnare il tuo anello?». «Non ho molta scelta purtroppo». Il telefono sulla sua scrivania squillò col suono che indicava che l'interno quattro – l'ufficio del capo – la sta-va chiamando. Rispose cercando di ridarsi un tono e annuì silenziosa. Poi riattaccò e guardo Kayla. «Il capo vuole vedermi.» annunciò. «Vai» sussurrò l'altra annuendo «e digli di darti un aumento visto che ci sei». Delia rise per la prima volta dopo settimane e si lisciò la gonna con le mani: «Grazie». «Figurati. E fammi sapere se hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa». La guardò allontanarsi a passo deciso ma lento verso l'ascensore e di-spiaciuta tornò alla sua scrivania pensando che forse per Delia sarebbe stato meglio lasciare Elija una volta per tutte. Quando tornò a casa quella sera, sentiva le gambe pesanti e i piedi le facevano male da morire. Aveva rinunciato agli extra per quel giorno, perché se li avesse fatti, sarebbe crollata sul serio. Era stanca e si vede-va, tanto che il suo capo le aveva detto di andare a casa a riposarsi, do-po averla guardata a lungo quando alle otto gli aveva portato le relazio-ni che le aveva chiesto. Distrutta dalla stanchezza, Delia aveva deciso di seguire il suo consiglio e tornarsene a casa presto. Per questo, mentre l'orologio a muro segnava le otto e mezzo, lei si stava togliendo quei dannati tacchi che portava ogni giorno e pregustava già il momento in cui avrebbe abbandonato il suo corpo stanco sul divano, o meglio ancora sul letto. Raggiunse fati-cosamente la cucina e si preparò una tazza di latte bollente, era troppo stanca anche solo per pensare di cucinare qualcosa che richiedesse più

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di cinque minuti di cottura e un impegno che andava al di là di una taz-za e un cucchiaino di zucchero. Davvero, non ce la faceva. Con la tazza in mano raggiunse il salotto e sprofondò sui cuscini del di-vano color crema. Tutti i suoi muscoli sembrarono tirare un sospiro di sollievo e la sua mente si soffermò al suo colloquio mattutino con Liam. Le aveva offerto una promozione, osannando la sua ottima capa-cità comunicativa le aveva offerto di essere la responsabile del persona-le. Avrebbe avuto un ufficio tutto suo, un discreto aumento di stipendio e la libertà di prendere delle decisioni di sua volontà senza chiedere il permesso. Avrebbe inoltre potuto avere una segretaria e un posto mac-china tutto suo. Un'offerta da sogno, se non fosse che questo lavoro, di-versamente da quello che faceva ora, la voleva seduta nel suo ufficio a volte anche di sabato, e ancor peggio della sua attuale posizione lavora-tiva aveva orari non proprio umani. Perché, come aveva detto Liam, es-sere il responsabile del personale era molto di più che assumere qualcu-no e fargli firmare un contratto quanto più possibile conveniente per l'azienda. Si trattava di delicate indagini statistiche per capire quale fos-se il momento giusto per assumere o licenziare, di puntigliosi colloqui che andavano oltre la lettura dei curricula e che dovevano scavare quan-to più profondamente possibile nella vita dei candidati, che ovviamente dovevano essere di un certo spessore per poter far parte di quella, come l'aveva chiamata? Ah sì, grande famiglia. Questo dettaglio era l'unico che le impediva di dire sì urlando. Anche se Elija era in clinica, aveva bisogno di lei e se lei non aveva il tempo necessario neppure per badare a se stessa, come avrebbe potuto aiutare lui? Lo squillo del telefono la ridestò. Lo prese e ripose. «Pronto?» disse con gli occhi chiusi. «Sono io». La voce di Elija, limpida e calma come quella di un tempo, le fece pro-vare un brivido lungo la schiena. «Elija!» esclamò «Sono già passate le nove, credevo che non mi avresti più telefonato». «Scusa amore mio, oggi è stata una giornata difficile». Sul viso di Delia spuntò un sorriso tenero. L'aveva chiamata amore mio e non ricordava da quanto non la chiamava più così. «Stai bene?» chie-se. «Sì. Adesso sì». Ci fu silenzio per qualche istante, poi Elija parlò di nuovo. «Mi manchi Delia. Voglio vederti, voglio stringerti e baciarti.

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Mi manca il tuo profumo, l'odore dei tuoi bellissimi capelli, la delica-tezza delle tue mani quando mi accarezzi. Ti prego, vieni a trovarmi». Delia chiuse gli occhi lasciando cadere qualche lacrima e sospirò. «Mi manchi anche tu Elija. Non immagini quanto. Ma presto starai meglio e tutto tornerà come prima. Te lo prometto». «Il dottore dice che potrò vederti fra una settimana. Una settimana è pa-recchio tempo». «È come una piccola eternità». «Sì, lo è. È tutta colpa mia. Tu e io eravamo perfetti, avevamo tutto e io ho rovinato ogni cosa». Delia poggiò la tazza sul tavolino e si mise dritta sul divano. Elija ave-va affrontato la disintossicazione tantissime volte, ma era la prima volta che le parlava così, tristemente consapevole di essere stato l'artefice della propria rovina. Il barlume di speranza che Delia si preoccupava di tenere vivo sembrò risplendere di una luce nuova e brillante. «Delia» continuò lui «Sei ancora lì?». «Sì. Sono qui» rispose la donna spostandosi indietro i capelli. «So che non me lo merito ma ho bisogno che tu mi prometta una cosa». «Cosa?». «Ho bisogno che tu mi prometta che non ti arrenderai, che non rinunce-rai a me, a noi. Ti prego. Promettimelo». Delia guardò l'anello al suo dito e scosse il capo. Non avrebbe mai ri-nunciato a loro, nemmeno se lui non glielo avesse chiesto. Perché lo amava, di un amore forte come nessun altro amore. Lui era la sua anima gemella, lo sapeva dal primo istante in cui lo aveva visto. Insieme a-vrebbero sistemato le cose. «E per favore» disse ancora lui cercando di smorzare i toni, «prometti-mi che quando verrai a trovarmi, indosserai quel maglioncino grigio che mi piace tanto». Delia alzò le sopracciglia perplessa e scosse il capo. «Queste però sono due promesse». «Beh che posso dire, sono un uomo esigente». Entrambi risero come non facevano da parecchio e quando la risata scemò, Delia si accorse che Elija stava piangendo. «Elija,» gli disse «io ti amo. Ti amo da sempre e ti amerò per sempre. Quindi sì, prometto tutto quello che mi hai chiesto e anche di più se tu lo vuoi. Stai tranquillo okay?».

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L'uomo si schiarì la voce e Delia poté immaginarlo asciugarsi gli occhi con un'espressione sofferente. «Ti amo anche io» le disse. «Devo anda-re ora, la nostra mezz'ora è finita». «Va bene. A domani allora». «Fai bei sogni Delia». «Anche tu». Delia lasciò cadere il telefono sul divano accanto a lei. Improvvisamen-te le fu tutto chiaro, i tasselli sembrarono lentamente tornare al proprio posto e la certezza di sapere ciò che doveva fare la avvolse facendola rilassare all'istante. Poggiò il capo sul grande cuscino accanto a lei e senza accorgersene davvero si abbandonò al sonno con la voce dolce di Elija a farle da ninna nanna.

* * * Si sentiva un po' stupida a farlo, ma era più forte di lei. Se ne stava da un'ora davanti allo specchio del bagno, indecisa se truccarsi o meno, o peggio ancora se usare colori chiari o scuri. E i vestiti? Cosa avrebbe dovuto indossare? Davvero il maglioncino grigio che Elija le aveva chiesto di mettere? Scosse il capo mettendosi a sedere sul bordo della vasca e si poggiò le mani sulle ginocchia nude. Elija era il suo compagno da anni, l'aveva vista in tutti i modi possibili: in preda a terribili raffreddori, vittima di violente reazioni allergiche e ricoperta di macchie rosse a causa della sua tardiva varicella, ma non lo vedeva da due settimane che le erano sembrate un'eternità, così voleva apparire al meglio. Nei giorni precedenti aveva immaginato diversi scenari per il momento in cui si sarebbero rivisti. In uno di questi Elija era tornato l'uomo di cui si era innamorata anni prima, al cento per cento. Se lo era immaginato sorridente e in forma andarle incontro con quegli occhi chiari che sape-vano scaldarle il cuore. Si stringevano forte in quel pensiero, si bacia-vano felici di rivedersi e tutto andava bene. Negli altri scenari invece Elija era solo l'ombra di quello che lei ricor-dava. Pallido e smagrito, con gli occhi cupi e gonfi per l'astinenza. Lo vedeva chiuso in se stesso, silenzioso, sgarbato e paranoico come nei suoi giorni peggiori fuori da quella costosissima clinica di disintossica-zione che stava prosciugando le loro finanze.

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Si era sforzata di dare per buono lo scenario migliore e aveva deciso che non avrebbe parlato a Elija della loro delicata situazione economica, né della promozione che aveva ricevuto al lavoro. Quella giornata do-veva semplicemente rendere piacevole il loro rivedersi, tutto il resto doveva essere fatto di baci, carezze e abbracci di un tempo infinito che solo il ritmo dei loro cuori sapeva scandire. Si spostò indietro i capelli e si alzò cercando un elastico. Aprì il primo cassetto del mobile di legno di noce e ne tirò fuori uno nero con una piccola farfalla di tessuto sopra. Glielo aveva regalato proprio Elija, un giorno dopo aver parlato di quanto le stessero bene i capelli legati. De-cise di indossarlo e bloccò i suoi lunghi capelli castani all'interno di quel ricordo. Chissà se Elija se ne sarebbe accorto. Raggiunse la camera da letto e aprì l'armadio. Doveva decisamente dare una sistemata a quel caos, c'erano un sacco di abiti che non indossava più da tempo, che stavano lì solo a rivestire il fondo del mobile e che per di più avrebbero fatto comodo a qualcuno che ne aveva bisogno, come un senzatetto o una di quelle associazioni no-profit che da assi-stenza a chi non ha niente e nessuno al mondo. Si ripromise di fare una selezione durante il prossimo week end e tirò fuori il maglioncino gri-gio che voleva indossare. Vi abbinò un paio di jeans scuri e stretti e una giacchetta di pelle in stile motociclista che si era fatta confezionare su misura dopo che Elija si era comprato quella bellissima Harley-Davidson spendendo i risparmi di un'intera vita. Ricordava perfettamente il momento in cui gliel'aveva mostrata. Era maggio e fuori il sole scaldava anche l'animo più freddo. «Elija dove stiamo andando? Perché mi hai bendato gli occhi?». «Oh andiamo...» rispose lui. «Smetti di fare domande e seguimi. È una sorpresa». «Non amo le sorprese, tu lo sai benissimo». «Ma ami me e questo è sufficiente o no?». Delia rise allungando le mani davanti a sé. Sentì il rumore di una porta aprirsi e poi il sole sfiorarle il viso bendato «Siamo fuori» disse a metà tra la sorpresa e l'affermazione. «Oh no ti prego, dimmi che non hai comprato un asino come hai sempre desiderato». La risata di Elija le riempì le orecchie. «No sciocca, non ho comprato un asino, ma ci sei andata vicino». Si fermò e di conseguenza anche lei

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si bloccò «Ora ti tolgo la benda, ma non aprire ancora gli occhi, okay?». «Okay» ripose Delia incrociando le braccia. Elija si mise dietro di lei, lentamente sciolse il nodo della benda e le poggiò le mani sui fianchi avvicinando la bocca al suo orecchio. «Apri-li» le disse. Delia contò fino a tre e poi li aprì decisa. La moto fiammante che se ne stava parcheggiata lì davanti al suo sguardo la fece sorridere. «Hai comprato una moto?». «No amore mio» le rispose Elija andandole di fronte. «Quella non è una moto, è una Harley, è diverso» puntualizzò. «Se lo dici tu» sussurrò lei avvicinandosi. «Immagina la scena;» le disse Elija, «tu e io con il vento sulla faccia mentre sfrecciamo sulla strada in sella a questa fantastica moto, che ne dici?» Delia sembrò rifletterci un attimo, lo guardò riducendo gli occhi a una fessura e poi sospirò: «Avrei preferito un asino, almeno non mi sarei dovuta preoccupare della velocità». Elija era scoppiato a ridere a quella battuta, l'aveva sollevata da terra e tenuta stretta per lunghi minuti con la bocca sulla sua, dolce e decisa. La Harley adesso non c'era più, l'aveva data a uno spacciatore che per settimane gli aveva intimato di pagargli la roba o l'avrebbe ucciso. Delia ricacciò indietro il pensiero e anche le lacrime, si passò un legge-ro strato di crema sul viso smagrito, indossò il maglione grigio e i pan-taloni scuri, si mise la giacca e prese la borsa pronta a uscire di casa.

* * * «Hey amico, come mai sei così in tiro oggi?». Elija sorrise al riflesso di Martin allo specchio, si sciacquò il viso e si-stemò i capelli alla meno peggio. Avrebbe rivisto Delia, dopo giorni lontano da lei l'avrebbe stretta di nuovo tra le braccia. Poteva immaginare il suo profumo avvolgerlo fino a inebriarlo, la sua pelle morbida e fresca scontrarsi con la sua. Quel viso bello, quelle fossette meravigliose. Quei giorni erano stati un inferno e un paradiso. Si sentiva meglio e questo lo doveva alle atten-

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zioni e alle cure che gli riservavano lì dentro, ma il mondo fuori gli era dannatamente mancato. «Oggi la mia fidanzata viene a trovarmi,» rispose al suo amico. «Non la vedo da parecchio, voglio apparire al meglio». «Al meglio?» replicò Martin, «con quella stupida camicia azzurra sem-bri uno di quei miliardari con la puzza sotto il naso». «E tu che ne sai? Scommetto che non hai mai indossato una camicia in vita tua». «Certo che l'ho indossata. Al funerale della mia amata nonna. Che Dio l'abbia in grazia». «Piantala» gli disse Elija dandogli una leggera spinta con la mano men-tre gli passava a fianco «Tu non hai una ragazza vero?». «No amico e sto benissimo così». «Allora non puoi capire come mi sento. Delia è la donna migliore che potessi incontrare. È meravigliosa e l'ho amata sin dal primo momento in cui l'ho vista. Avrebbe potuto lasciarmi un sacco di volte ma è sem-pre rimasta al mio fianco. Noi due ci amiamo e oggi che la rivedo dopo due settimane mi sento come al nostro primo appuntamento, anzi forse più nervoso di allora». «Se lo dici tu» rispose Martin semplicemente. «Divertiti con la tua bambola. Ci vediamo dopo». Uscì piano, ciondolando così come era entrato ed Elija rimase di nuovo solo con la sua agitazione a fargli compagnia. Era ridicolo sentirsi così, Delia era la sua fidanzata da anni, si era sempre sentito totalmente a suo agio con lei, ma immaginava che quella sensazione fosse una conse-guenza della terapia che stava seguendo. Era cambiato, dentro più che fuori e in fondo quella nuova sensazione di euforica agitazione lo met-teva di buon umore. Era quell'entusiasmo che gli mancava da tempo, quella gioia che si pro-va vivendo le piccole cose e che solo chi sa vivere al meglio percepisce. Gli piaceva essere quel nuovo uomo e sperava che piacesse anche a De-lia. Aveva pensato molto a cosa fare con lei quel giorno, ma in fondo, aveva realizzato ben presto, quello che avrebbe fatto indipendentemente da tutto, sarebbe stato poggiare la bocca sulla sua e staccarsi solo se re-spirare gli fosse diventato difficile. La voce dell'infermiere che lo chiamava lo riportò alla realtà. Ingoiò le sue medicine quotidiane e poi fece un grosso respiro raggiungendo il giardino dove avrebbe rivisto la sua Delia.

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* * * Delia riuscì ad arrivare puntuale al loro appuntamento. Scese dall'auto e una donna minuta e gentile le indicò la strada che doveva seguire per raggiungere il giardino. Nonostante questo si offrì comunque di accom-pagnarla e durante il tragitto non fece altro che raccontarle di quando Elija fosse eccitato all'idea di rivederla. Lei non fece alcuna domanda, troppo emozionata e impaziente anche solo per sorridere a quella donna che in qualche modo – magari senza volerlo o forse proprio di proposito – la stava rassicurando riguardo allo stato d'animo con cui il suo fidanzato si era preparato ad affrontare quel momento. Sapere che anche lui si era sentito eccitato ed emozionato nei giorni precedenti le fece tirare un sospiro di sollievo e le diede la certezza as-soluta che gli scenari tragici che aveva immaginato potevano ormai considerarsi solo un ricordo dettato dal timore e dall'ansia di quella ri-conciliazione. Girò a destra lungo un breve corridoio dal forte odore di disinfettante e si fermò emulando le movenze dell'infermiera sul cui cartellino c'era scritto il nome Erica. «Prosegua per questo breve corridoio e troverà la porta finestra che dà sul giardino. Non credo avrà problemi a trovare il suo fidanzato» le disse la donna prima di allontanarsi rapida e sorriden-te. Delia fece un grosso respiro sistemandosi istintivamente la giacca, pre-se a camminare lenta sul pavimento bianco accompagnata dal rumore leggero dei suoi piccoli tacchi sulle mattonelle consumate. Raggiunse la porta finestra e si fermò un attimo, poi uscì decisa e si guardò intorno. Non c'era molta gente lì fuori. Una piccola famiglia se ne stava seduta sul prato alla sua destra e altre tre persone bevevano una limonata e giocavano a carte sedute a un tavolo poco distante. Tre infermieri si guardavano intorno discreti assicurandosi che tutto filasse liscio. Delia sorrise a uno di loro e avanzò di qualche metro. Era un giardino ben cu-rato e rilassante, un posto davvero piacevole capace di far dimenticare perché si stava lì dentro. Si passò una mano sui capelli in un gesto che tradiva un lieve nervosismo e sorrise ai due occhi chiari che conosceva benissimo. «Ho addosso il maglioncino che ti piace tanto» disse andandogli incon-tro.

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Elija sorrise con gli occhi lucidi di lacrime. «E io ho messo la camicia azzurra che mi da un aspetto elegante». Delia sorrise dolcemente, gli occhi le pizzicarono di lacrime e senza che nemmeno se ne rendesse conto scoppiò in un pianto liberatorio e carico di gioia. Colmò la breve distanza tra loro e si strinse a Elija quanto più forte poteva. Il suo corpo teso sembrò ritrovare la pace stret-to in quell'abbraccio forte. Le loro bocche si incontrarono a mezz'aria affamate di un sentimento che per troppo tempo era stato trascurato, le loro lingue si strinsero e accarezzarono prigioniere di quel piacere che solo loro sapevano darsi l'un l'altra. Quando si staccarono le loro labbra erano arrossate ma i loro occhi era-no felici. «Mi sei mancato tanto» sussurrò Delia. «Anche tu amore mio, non immagini quanto» le rispose Elija baciando-la di nuovo. «Ti amo da morire». «Ti amo anche io». Si strinsero di nuovo, malinconici ma vicini, e realizzarono che in fon-do nonostante tutto, in quel momento si sentivano in pace.

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2. «Questa a sinistra invece è la camera di Martin». «E Martin è il tizio che ha la dipendenza da analgesici, giusto?». Elija annuì, strinse la mano di Delia e con quella libera indicò una porta in fondo al corridoio. Era chiusa e sembrava molto più vecchia rispetto alle altre. «Quella invece» spiegò «è la stanza dove vanno a finire in isolamento i soggetti che diventano violenti durante le crisi di astinenza. A dire il vero sono molto pochi. Non so se l'hai notato, e se non l'hai fatto è per-ché fortunatamente tu non soffri di alcuna dipendenza e non puoi capire, ma qui dentro si respira un'aria abbastanza tranquilla nonostante la tipo-logia di ospiti». Delia sorrise annuendo. Era vero, in quel posto – e non serviva essere dipendenti da qualcosa per capirlo – si respirava un'aria leggera, quasi più pulita rispetto al mondo fuori. Certo, pensò, l'odore di disinfettante non era accogliente, ma la cordia-lità e la gentilezza con la quale gli ospiti venivano trattati e la pazienza con cui i pazienti venivano curati erano caratteristiche ammirevoli che valevano l'intera retta mensile. Guardò Elija vestito di tutto punto, come il più tranquillo degli uomini e uno strano brivido la percorse da capo a piedi. Era un Elija diverso, in fase di cambiamento. Era un Elija che le piace-va molto, ma non poté fare a meno di chiedersi se alla fine di quel per-corso terapeutico loro due, in quanto coppia, sarebbero stati di nuovo quelli di un tempo. Il pensiero, unito alla paura di perderlo in qualche modo, la fecero sen-tire egoista e cattiva al tempo stesso. L'ansia cercò di prendere il so-pravvento su tutto il resto, sentì freddo e si strinse le braccia intorno cercando di riprendere il controllo. «Delia» le sussurrò Elija fermandosi, «stai bene?» le strinse delicata-mente il viso tra le mani e il pensiero della donna andò all'ultima volta in cui quella scena si era proposta. Erano in quello stesso ospedale, solo

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quindici giorni prima, ma la stretta di Elija intorno al suo volto non era stata così gentile come lo era in quel momento. «Sì» mormorò sforzandosi di sorridere. «Ho solo un po' di freddo» si giustificò. «Questo è un posto tranquillo e molto carino ma mi mette addosso un po' di tristezza. E aumenta il mio senso di colpa». «Senso di colpa?» ripeté sorpreso Elija, «quale senso di colpa?». Delia si schiarì la voce e allargò le braccia guardandosi intorno. «Guar-dati intorno Elija» gli disse. «Tu stai meglio e sembri a tuo agio qui dentro, ma è così silenzioso, e la camera di isolamento è proprio lì di fronte a me e io non posso fare altro che pensare che a volte vivi dei giorni orribili e difficili e lo fai senza di me, senza che io ti stia vicina e…». «Basta Delia» le disse lui poggiandole un dito sulle labbra. «Non hai alcun motivo di sentirti in colpa. Prima di tutto io non divento violento durante l'astinenza quindi non ho mai visto l'interno di quella stanza. Secondo... è vero, a volte vivo giorni difficili, giorni in cui vorrei urlare o... beh qualunque cosa piuttosto che stare qui, ma se tu non mi fossi stata vicina, se non avessi perseverato e pazientato con me, se tu non avessi trovato questo posto probabilmente adesso staresti visitando i miei resti in una bara tre metri sotto terra e non me in carne e ossa» le disse provocandole una smorfia di disappunto. «Tu mi hai salvato la vi-ta e, credimi, non è una frase di circostanza. E non ti ringrazierò mai abbastanza per questo». La donna sorrise con gli occhi tristi, trasse un profondo respiro e si la-sciò stringere da quelle braccia forti che conosceva bene. Chiuse gli oc-chi e un ricordo le sfiorò le ciglia. «Non morirò Delia. Non lo farò». Delia scosse il viso e le lacrime si sparsero sulle sue guance. «Come diavolo fai a dire una cosa del genere?» urlò con quanto fiato aveva in gola «Ti fai da mattina a sera, quanto credi che reggerà il tuo corpo?». «Il mio corpo reagisce benissimo. Non devi avere paura tesoro, starò bene perché io voglio vivere». Delia represse un singulto, si asciugò il viso e serrò gli occhi per guar-darlo meglio. «Tu vuoi vivere?» ripeté allibita. «E credi che la tua vo-glia di vivere basterà a salvarti la vita? Credi di essere immortale per caso?». «No Delia, tu non capisci».

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«No!» lo interruppe duramente Delia. «Tu non capisci. Morirai se con-tinui così. Morirai Elija. Lascia che ti aiuti ti prego. Se lavoriamo in-sieme possiamo salvarti, darti la possibilità di una vita nuova». Elija rise di gusto, alzò gli occhi al cielo e poi li riabbassò su Delia. «Salvarmi? Chi ha detto che ho bisogno di essere salvato? Anzi no, fammi riformulare la frase Delia, così forse ti entrerà una volta per tut-te in quella fottutissima testa dura che ti ritrovi; io non voglio essere salvato» le disse. «Quello che voglio è che mi lasci in pace a vivere la mia vita nello stramaledetto modo che preferisco». Delia sgranò gli occhi, aprì la bocca per dire qualcosa, qualunque co-sa; ma tutto quello che ne uscì fu un suono strano simile a un lamento. «Voglio che tu te ne vada via» disse infine, dopo qualche minuto di si-lenzio. «Prendi le tue cose e non farti vedere mai più. E lascia che ri-formuli la frase in modo che ti entri in quella fottuta testa che ti ritrovi; stasera non voglio trovarti al mio ritorno». Si tolse l'anello e lo poggiò sul ripiano della cucina, prese la sciarpa e il cappotto, e uscì di casa. Elija sciolse l'abbraccio e le baciò amorevole la fronte, le strinse le ma-ni e le sorrise gentile. «Andiamo fuori in giardino, possiamo sdraiarci sul prato al sole, così starai al caldo. Che ne dici?». «Mi sembra un'ottima idea» rispose lei. Si alzò in punta di piedi e gli baciò il collo prima di stringersi a lui ancora qualche minuto.

* * * A Delia era sempre piaciuto il contrasto tra il dorato della pelle di Elija e il bianco della sua. Aveva sempre pensato che fosse esteticamente in-teressante e aveva sempre considerato la loro coppia molto bella da guardare, indipendentemente da tutto il resto. Era minuta in confronto a Elija e avevano colori completamente diversi, ma in qualche strano modo si completavano anche esteticamente e quelle loro differenze fisiche passavano del tutto inosservate. Incrociò le dita a quelle del suo uomo e sollevò le loro mani unite in al-to facendole ondeggiare a mezz'aria in modo casuale, poi se le avvicinò alla bocca e baciò il dorso di quella di Elija chiudendo gli occhi e respi-rando l'odore virile che emanava. Lui sorrise, le lasciò la mano e stese il braccio sul suo lato invitandola a poggiare il capo sul suo petto. Le passò il braccio intorno alle spalle e

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poi le accarezzò i capelli baciandole la fronte. «Si sta bene qui al caldo, vero?» le chiese. «Si» confermò lei. «Se chiudo gli occhi e uso la mia immaginazione sembra di stare su una spiaggia in totale relax». «Le Maldive magari. Hai sempre voluto andarci. Ti prometto che ci an-dremo quando uscirò di qui». Delia sorrise facendo un grosso respiro, giocherellò con le dita sul suo torace e chiuse gli occhi lasciando che il sole la accogliesse tra i suoi raggi e le scaldasse la pelle. Avrebbe voluto dire a Elija che le Maldive non sarebbero state una me-ta possibile per parecchio tempo dopo la fine della sua riabilitazione, sarebbero serviti mesi, forse persino un intero anno per recuperare an-che un briciolo di stabilità economica. Ma si sentivano così bene in quel momento, stretti l'uno all'altra, a sognare le Maldive stesi su un prato, che non se la sentì di rovinare quel momento. «Tra poco dovrò andare via» gli sussurrò. Il corpo dell'uomo sembrò irrigidirsi per un attimo, per poi tornare pia-no rilassato. «Non dirmelo ti prego. Non è ancora il momento. Ora vo-glio solo tenerti stretta a me». Girò il viso verso di lei e le baciò la pun-ta del naso prima di baciarle delicatamente le labbra.

* * * Richiuse piano la sua giacca di pelle e si passò una mano sugli occhi come a voler ricacciare indietro le lacrime. Erano rimasti insieme stretti sul prato per due ore senza pensare a nulla che non fossero loro, ma ben presto le infermiere erano passate per dire che era ora per gli ospiti di andare, e il momento dei saluti era diventato reale e spaventoso. Elija si era seduto in un angolo, sulla larga soglia di marmo della fine-stra. Fissava il cielo e stringeva i pugni, la mascella tesa e il corpo rigi-do. Non sembrava più nemmeno l’uomo di poco prima sul prato e Delia immaginava perché. Andarsene non era piacevole neppure per lei, a-vrebbe dato qualunque cosa per poter rimanere lì ancora un'ora, una soltanto. Ma c'erano delle regole da rispettare, regole che non potevano, per il bene del paziente, essere infrante. Sentì le lacrime di un bambino provenire dal corridoio e si ricordò della famiglia che in giardino se ne stava seduta a un tavolo. C'era un bambi-

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no lì con loro e adesso, Delia pensò, non voleva allontanarsi dal suo pa-pà. Si portò una mano sul cuore e si avvicinò piano alla finestra. «Elija» lo chiamò. «Fa così tutte le volte» rispose lui senza guardarla. «Il bambino, Luis, piange disperato ogni settimana perché non vuole allontanarsi dal padre, perché gli manca ancor prima di uscire da questo posto». «È molto triste» rispose Delia. «Sì lo è» constatò Elija. «Ma lo capisco sai? Come fai ad allontanarti da qualcuno dopo aver sentito il calore della sua pelle, l'odore dei suoi ca-pelli, quel profumo dolce di famiglia, di casa?». Delia si morse il labbro per non piangere. «Non lo so» mormorò con la voce spezzata dal pianto. «Nemmeno io». «Elija, devo andare ora. Vieni qui e salutami come si deve, ti prego». L'uomo si alzò, si asciugò gli occhi e lento la raggiunse. La stinse in un abbraccio carico di tristezza e scoppiò in un pianto tanto liberatorio quanto disperato. «Non andartene ti prego» le disse tra le lacrime. «Oh Elija... Vorrei restare ma devo andare. Sono le regole». Lui sciolse l'abbraccio, si girò di scatto e diede un calcio violento alla sedia che dondolò e poi cadde per terra. «Non me ne frega un cazzo delle regole!» urlò a denti stretti. Due infermieri comparvero sulla porta richiamando l'attenzione di De-lia, chiedendo se avesse bisogno di aiuto. Lei scosse il capo tranquillizzandoli e afferrò Elija per le braccia. «Guardami» gli disse. «Elija, guardami» ripeté. Lui puntò gli occhi dentro i suoi, col fiato corto e il viso stravolto dal dolore le accarezzò le labbra con le dita calde. «Amore mio» continuò lei. «Stai andando alla grande. Sono certa che presto potrai uscire da qui e riprenderemo la nostra vita insieme. Nel frattempo verrò a trovarti ogni volta che posso e ci sentiremo tutti i giorni al telefono e mentre saremo lontani io non farò altro che imma-ginare le tue braccia che mi stringono e queste belle labbra sulle mie,» sorrise accarezzandogli la bocca «ma ora devi stare calmo okay? Qui dentro vogliono aiutarti a stare bene e se seguire delle regole serve a darti il sostegno e l'aiuto necessario noi seguiremo queste regole Elija, perché se molli adesso è finita. Uscirai di qui e tornerai di nuovo alle vecchie abitudini. Ti farai del male, probabilmente morirai e io... io ri-

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marrò da sola, col cuore in pezzi perché l'uomo che amo più di ogni al-tra cosa al mondo è morto. Io non voglio che accada». Elija si schiarì la voce distogliendo un attimo lo sguardo. Si agitò poco nella presa di Delia e infine rialzò gli occhi su di lei. «Nemmeno io» le disse. «Ti amo troppo per lasciare che accada». «Lo so. Per questo ora devi stare tranquillo, darmi un bacio e salutarmi con serenità». «Penserò a te ogni giorno Delia». «E io penserò a te ogni minuto, te lo prometto. Ora vieni» gli disse lei materna, «mettiti a letto e riposa un po', resterò con te fin quando non ti addormenti». L'uomo annuì asciugandosi gli occhi, si sdraiò sul letto e con la mano leggera di Delia che gli accarezzava i capelli si calmò fino ad addor-mentarsi. Quando lei fu sicura che non si sarebbe svegliato, si alzò piano e lo guardò con gli occhi gonfi di lacrime. Si piegò fino a sfiorargli le labbra con le sue e poi gli baciò la fronte «A presto» gli sussurrò. Silenziosa lasciò la stanza, e, con un peso gigante-sco sullo stomaco uscì dalla clinica sperando che il cuore non le scop-piasse dentro il petto.

* * * «Capisco. Si certo, la ringrazio infinitamente per la sua pazienza e il suo impegno. Lo farò senza dubbio, arrivederci». Delia riattaccò e si passò le mani tra i capelli tirandoli indietro. Si mas-saggiò la fronte e guardò con rassegnazione i calcoli che riguardavano le entrate e le uscite di quegli ultimi mesi. Aveva speso troppo e guadagnato troppo poco. Nemmeno il suo discre-to aumento di stipendio le avrebbe permesso di uscire da quel baratro in cui sembrava essere precipitata la sua intera vita economica. E onesta-mente dubitava che sarebbe riuscita a tenerselo dentro ancora per molto. Elija era in clinica da un mese e mezzo oramai e per un mese e mezzo lei aveva sempre provato a tenerlo fuori da quella tragica situazione fi-nanziaria. Non voleva farlo sentire in colpa dicendogli che la cosa che maggiormente danneggiava la loro stabilità in termini monetari era la retta mensile della rehab che gli stava lentamente salvando la vita.

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Qualunque cosa fosse successa, che fosse stata costretta a trovarsi un altro lavoro, a vendere i suoi gioielli o a chiedere un prestito, la guari-gione del suo amore aveva la priorità assoluta, soprattutto considerando quanto lui fosse davvero migliorato e cambiato in quei quarantacinque giorni fatti di cure e attenzioni che solo dei professionisti potevano of-frirgli. Durante la loro conversazione del giorno prima aveva fatto di tutto per apparire serena e tranquilla. Elija le aveva raccontato che le sue crisi di astinenza e i suoi scatti di ira erano notevolmente diminuiti, che anche Martin, uno dei pochissimi amici che si era fatto lì dentro, stava miglio-rando e che la corsetta quotidiana – parte integrante della riabilitazione – non gli dava più il fiatone e il batticuore forti come succedeva durante i primi giorni in cui si trovava lì. Stava riprendendo la sua forma fisica, il suo organismo reagiva bene al cambiamento e il suo cuore sembrava tornare ogni giorno di più in salu-te. Lei aveva sorriso e annuito in silenzio, seduta sul divano del soggiorno ingoiando le lacrime e le preoccupazioni, gioendo del fatto che Elija non fosse lì a vedere il suo viso pallido e smagrito carico di stress e an-sia. Si era arrovellata il cervello per settimane, giorni e ore. Aveva calcolato e ricalcolato ogni spesa cercando di capire cosa era possibile tagliare o diminuire, e alla fine era stata costretta a fare quello che non avrebbe mai voluto fare: era stata costretta a considerare in modo molto serio la possibilità di vendere la casa. Ora quella possibilità che si era solo preoccupata di considerare, era pe-rò diventata l'unica chance di uscire da quella situazione difficile e, do-po aver valutato varie opzioni sul metodo attraverso il quale metterla in vendita, era giunta alla conclusione che affidarsi alle mani di un agente immobiliare era la scelta migliore. Così aveva zittito la sua dignità, cercato di dimenticare una parte di passato e aveva deciso che sarebbe andata a casa di Seth Ross, il fratel-lo di Elija, per chiedere l'aiuto di sua moglie Susan che da anni era nel campo degli immobili come libera professionista. Guardò l'orologio e decise che non era più il caso di rimandare e anche se erano le dieci di sabato mattina e sarebbe stato più corretto fare loro prima una telefonata, si alzò dalla sedia, dando fondo alle sue riserve di coraggio e uscì di casa diretta a casa di suo cognato.

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* * * Seth Ross era sempre stato un tipo a posto. Lavorava come addetto alle pubbliche relazioni in una nota azienda automobilistica e quando sul suo unico fratello, rispettato naturopata della città, erano iniziate a cir-colare voci su un possibile uso di droga, aveva fatto di tutto per evitare che l'incoscienza di Elija potesse rovinare entrambe le loro vite e le loro carriere. Aveva disperatamente provato ad aiutare suo fratello, avevano litigato diverse volte e una di queste erano persino arrivati alle mani. Ma Elija se ne era infischiato dell'aiuto che il fratello gli aveva offerto e durante uno dei suoi periodi più neri aveva persino provato a convincere il fi-glio di Seth – nipote di cui era padrino di battesimo – che usare la droga non era poi una cosa così malvagia come tutti sostenevano. Complici l'affetto che Connor provava per lui e l'ascendente che Elija sapeva di avere, il ragazzo fumò uno spinello prima di rimettersi alla guida del suo motorino, venne fermato a un posto di blocco e messo in prigione per diverse ore prima che l'avvocato di famiglia riuscisse a far-lo uscire su cauzione. Da quel preciso istante, Seth e la sua famiglia non avevano mai più ri-volto la parola a Elija e per conseguenza neppure a Delia. Si erano ri-fiutati di aiutarlo quando lui aveva chiesto il loro aiuto e non si erano più preoccupati di conoscere le sue condizioni di salute. Semplicemente l'avevano escluso dalla loro vita, privando anche Delia della possibilità di condividere con loro il forte peso di una situazione che protraendosi era diventata sempre più insostenibile. Delia fermò l'auto davanti alla casa del cognato e fece alcuni grandi re-spiri prima di scendere e raggiungere la porta. Bussò tre volte, sperando che l'avrebbero almeno ascoltata e dopo qualche minuto Connor le aprì la porta. Era cresciuto. Era un giovane uomo dall'aria serena e tranquilla e il ri-cordo di quella maledetta sera tornò con violenza a invadere la mente di Delia. Poggiò la sua borsa da lavoro per terra all'entrata, il cappotto sull'ap-pendiabiti, e si guardò intorno annusando l'aria in casa. «Elija!» urlò raggiungendo il soggiorno.

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Dalle casse dello stereo veniva fuori una canzone rock ed Elija era di-sordinatamente sdraiato sul divano. Indossava una sola scarpa e i suoi vestiti puzzavano di fumo in un modo quasi nauseante. Per terra c'erano un cartone della pizza e bottiglie vuote di birra, una lattina di cola e delle cartine per arrotolare il tabacco, anche se Delia dubitava fortemente che lui avesse usato tabacco. Le venne da piangere e una rabbia insormontabile le fece percepire un macigno sullo stoma-co. Spense la radio e svegliò Elija scuotendolo energicamente. «Sve-gliati!» gli urlò. L'uomo aprì gli occhi lentamente, li richiuse diverse volte prima di es-sere del tutto sveglio, e si mise a sedere sistemandosi i capelli con una mano. «Ciao amore, sei tornata prima». Delia raccolse qualche bottiglia da terra, si asciugò le guance e sospi-rò «Che ora credi che sia?». «Sono le sette». «Sono le dieci brutto idiota» sbottò. «Questa casa è un disastro, tu sei un disastro». «Non urlare ti prego. Mi scoppia la testa». «Non me ne frega un cazzo!» urlò Delia guardandolo. «Dovrebbe e-sploderti sul serio quella dannata testa». Lui si alzò passandosi una mano sul viso. Cercò nelle tasche una siga-retta e la accese facendo una lunga tirata. «Non arrabbiarti. Adesso ti aiuto a mettere a posto» le disse raccogliendo il cartone della pizza. «Quel piccolo bastardo ha lasciato tutto questo disordine e se ne è an-dato». Delia sgranò gli occhi. «C'era qualcuno qui con te? Ti sei messo a fare i raduni per tossici in casa mia?» gridò. «No. Certo che no» si difese lui guardandola. «Connor è stato qui. Ab-biamo guardato un film e poi…». «Connor è stato qui in mezzo a questo casino?». Elija sorrise tenendo stretta la sigaretta tra le labbra. «Questo casino è colpa sua a dire il vero. Gli ho dato uno spinello e non appena ha finito di fumarlo è andato fuori di testa. Era euforico come mai prima». «Hai dato uno spinello a nostro nipote?» chiese Delia incredula. «Sì. Perché, che male c'è? Era solo uno spinello». La donna scosse il capo prendendo il telefono nella tasca della sua giacca. «Ti rendi conto che ha solo quindici anni vero? E probabilmen-

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te ha guidato il suo motorino fino a casa dopo aver fumato. Dio solo sa cosa può essergli successo». Compose il numero di Connor, ma la se-greteria rispose subito dopo due squilli. «Dannazione!». Elija spense la sigaretta e la guardò. «Senti,» le disse avvicinandosi a lei, «sono sicuro che Connor sta bene. Era solo uno spinello, tutti i ragazzi si fanno gli spinelli. Stai tranquil-la». Le poggiò le mani sui fianchi guardandola negli occhi. Delia si scansò dalla presa, rimise il telefono in tasca e posò lo sguar-do dentro il suo. «Non mi toccare» gli disse gelida, «e prega che Con-nor stia bene o giuro su Dio che ti ucciderò con le mie mani». Si allon-tanò da lui e riprese la borsa uscendo rapida di casa. «Zia Delia?». La voce di Connor la riportò alla realtà. Sussultò sorpresa quando il ra-gazzo la strinse in un abbraccio e ricambiò sorridendo la stretta decisa. «Sei cresciuto» gli sussurrò rompendo l'abbraccio. «Come sei bello. Scommetto che sei il ragazzo più popolare della scuola». Connor rise «Lo ero. Ora sono semplicemente un ragazzo qualunque al college». «Vai già al college?». «Sì, è il mio primo anno» spiegò lui. «Studio ingegneria e nel tempo libero scrivo qualche articolo per il giornale universitario». Delia sorrise con gli occhi lucidi di lacrime. «È grandioso Connor, scommetto che i tuoi genitori sono molto fieri di te». «Lo sono!» esclamò Seth ai piedi delle scale. Sia Delia sia Connor si girarono nella sua direzione e, dopo un cenno del padre, il ragazzo li lasciò soli e raggiunse la cucina. Seth si avvicinò alla porta e guardò Delia da capo a piedi. «Delia. Quanto tempo». Lei si schiarì la voce sistemandosi la borsa sulla spalla «Ciao Seth». «Immagino che tu non sia qui per una visita di cortesia. Ma prima che tu dica qualunque cosa, voglio che tu sappia che non serbiamo alcun rancore nei tuoi confronti. Tu ci sei sempre piaciuta, francamente mi chiedo cosa ci fai con uno come Elija, ma se sei qui per chiedermi aiuto per lui... Beh, risparmia pure il fiato». Delia abbassò lo sguardo per un attimo, poi lo rialzò sull'uomo e sospi-rò «Non sono qui per chiederti aiuto con Elija. Si trova in riabilitazione adesso, di nuovo... ma sta andando davvero alla grande stavolta» lo in-

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formò. «Tuttavia la clinica che lo ha in cura necessita del pagamento di una retta mensile che al momento mi è impossibile coprire quindi…». «Sei qui per chiedermi dei soldi?» la interruppe Seth. «No» rispose Delia. «Sono qui perché devo vendere la casa. Non ho al-tra scelta e pensavo che forse Susan potrebbe aiutarmi a venderla. Lei conosce la casa e le sue potenzialità, meglio di qualunque altra agenzia immobiliare può far sì che sia venduta a un ottimo prezzo e valutata nel migliore dei modi». Seth sospirò mettendo le mani conserte. «Perché lo fai?» le chiese. «Perché stai ancora con lui? È senza speranza Delia, lui non cambierà mai e quando te ne accorgerai sarà troppo tardi. L'Elija di un tempo non c'è più e non tornerà. Rifletti bene su questo». Delia si schiarì la voce e si avvicinò di un altro passo a lui. «Non sono qui per sentirti sputare sentenze sulla mia storia d'amore con tuo fratello. Sono qui per chiedere l'aiuto professionale di tua mo-glie. La domanda è semplice Seth, credi che Susan potrebbe aiutarmi o no? Il resto sono affari miei se non ti dispiace». Seth la guardò negli occhi per lunghi secondi, poi indietreggiò e afferrò la maniglia della porta. «Glielo chiederò e ti farò chiamare». «Ti ringrazio» replicò Delia, «e grazie anche del tuo tempo». Poi guar-dò Connor di qualche passo dietro suo padre e gli sorrise «Ciao Con-nor». «Zia Delia» le disse lui avvicinandosi, «voglio vedere lo zio Elija. Cre-di che si possa fare?». Delia aprì la bocca per rispondergli, guardò Seth e annuì. «Dovresti parlarne con i tuoi genitori prima». «Sono grande abbastanza per decidere da solo» sentenziò il ragazzo. «Connor...». «Prende le sue decisioni da solo» si intromise Seth. «Se vuole andare a trovarlo può farlo. E oltretutto se Elija sta andando così bene come so-stieni non c'è alcun pericolo, giusto?». Delia colse la provocazione e incassò senza rispondere. Sorrise a Con-nor e gli diede un bigliettino con sopra il suo numero. «Parlerò con i dottori per vedere se si può fare. Chiamami fra una settimana e saprò darti una risposta». Il ragazzo le sorrise e la guardò allontanarsi. Quando sentì il rumore della porta richiudersi Delia si rilassò all'istante, le lacrime che per giorni aveva trattenuto sgorgarono dai suoi occhi fa-

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cendole perdere il controllo delle sue emozioni. Salì in macchina e pri-ma di ripartire si prese qualche minuto per respirare.

* * * «Ross!» lo chiamò l'infermiere, «hai preso le tue medicine?». «Sissignore!» esclamò lui mimando il saluto militare. Poi sorrise e si sdraiò sul letto. Fissò il soffitto per lunghi minuti e pensò a Delia. Chis-sà cosa stava facendo in quel momento. Chiuse gli occhi immaginando di averla lì accanto. Era tutto quello che aveva. Si ripromise che una volta uscito da lì avrebbe riallacciato i rap-porti con suo fratello e la sua famiglia, avrebbe fatto di nuovo parte del-la vita del suo unico nipote, che adorava da sempre come fosse figlio suo. Aveva sbagliato con loro e ne era consapevole, ma una volta fuori di lì sarebbe stata una persona nuova e avrebbe fatto qualunque cosa per re-dimersi agli occhi della sua famiglia. Se lo era ripromesso diverse volte, ma quella era la prima volta che lo pensava sul serio. Riaprì gli occhi passandosi una mano sul viso e si chiese se Seth sarebbe andato a trovarlo prima o poi. Ma chi voleva prendere in giro? A suo fratello non importava nemmeno sapere dove si trovava. E per quello poteva incolpare solo se stesso.

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3. La canzone Fresh pair of eyes di Brooke Waggoner risuonava ancora nell'abitacolo quando Delia si fermò davanti alla Basilica of the Natio-nal Shrine of the Immaculate Conception. Era la chiesa più grande di tutta la città, forse degli interi Stati Uniti, eppure lì fuori non c'era nemmeno un'auto parcheggiata. Delia pensò che forse era un segno, come se il mondo intero sapesse che aveva bisogno di stare da sola e per questo si fosse fatto di lato per lasciarle lo spazio necessario. Ma non era in grado di dire se questa co-sa le faceva piacere o meno. Diminuì un po' il volume della radio e strinse il volante tra le mani. Era caldo, comprensibile visto che l'aveva stretto per ore vagando senza una meta precisa prima che il ricordo di lei ed Elija nella basilica facesse capolino nella sua mente e le facesse realizzare che era proprio lì che doveva andare. Abbassò il finestrino e mise una mano fuori respirando a fondo. Lei a-veva sempre adorato quella chiesa, ma quando vi aveva trovato dentro Elija strafatto quasi tre mesi prima, si era ripromessa che non ci sarebbe mai più entrata. Aveva urlato contro ogni angolo di quell'edificio in un silenzio irreale che aveva stretto tra le braccia la sua rabbia e sembrava averla assorbita come una spugna con l'acqua. Ora, mentre Elija riprendeva in mano la sua vita, lei aveva deciso di tornare lì per chiedere perdono e per ricordarsi che quella basilica rap-presentava anche qualcosa di diverso e più bello dell'Elija quasi in o-verdose e incapace persino di reggersi in piedi. Quella chiesa era anche l'inizio di un nuovo capitolo della loro vita, ini-ziato molto prima che lui decidesse di gettare tutto alle ortiche per una dose di coca e un paio di spinelli. Guardò il suo anulare sinistro e sospirò amaramente. Il suo anello non c'era più, aveva dovuto impegnarlo e presto avrebbe dovuto lasciare la sua casa. E anche se non riteneva le due cose estremamente importanti, anche se non erano vitali, le ferivano il cuore come nessun'altra cosa al

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mondo. Ricacciò indietro le lacrime e si schiarì la voce prima di scen-dere dall'auto. «Che diavolo ci facciamo qui alle dieci di sera?». Delia si portò una mano alla bocca e fissò Elija con un'espressione colpevole. «Cazzo!» esclamò. «Si può dire diavolo dentro una chiesa? Oh no... forse nemmeno le parolacce sono ammesse». Si fece il segno della cro-ce quasi bastasse a chiedere scusa per il linguaggio poco consono e diede un colpetto sulla spalla destra di Elija. «Mi vuoi rispondere?» sussurrò a denti stretti. Elija rise e la condusse esattamente al centro della basilica, poi si fer-mò. «Se tu fossi capace di pazientare solo un po', io avrei il tempo di spiegarti per bene il motivo per cui siamo qui» le disse. Delia alzò le mani facendo roteare gli occhi. «Okay, okay» sussurrò, «allora, vuoi gentilmente spiegarmi, con calma, perché siamo qui a quest'ora di sera?». «Certo!» esclamò Elija. «Siamo qui perché voglio sapere se questa ba-silica ti piace». Delia inarcò un sopracciglio perplessa, scosse il capo incredula e si guardò intorno. «Tu mi hai portata qui,» fece un gesto in aria con la mano e puntò gli occhi dentro i suoi, «alle dieci di sera di un gennaio freddissimo per sapere se mi piace questa basilica?». «Esattamente. Però tu la fai sembrare una cosa strana...». «Perché lo è!» esclamò Delia. «Lo sai che esiste una piccola cosa ma-gica chiamata internet che collega le case della gente al resto del mon-do vero? Avresti potuto usare questa piccola magia tecnologica per mostrarmi delle foto invece di portarmi qui mentre fuori ci sono tre gradi scarsi che qui dentro sembrano addirittura due». Elija rise e le baciò le labbra. «Non potevo usare internet perché vole-vo che la vedessi di persona. Volevo che tu vedessi questo posto con i tuoi bellissimi occhi nocciola. Ci tenevo molto». «Perché?». «Perché,» disse Elija inginocchiandosi davanti a lei, «volevo sapere se il posto in cui ci sposeremo presto è di tuo gradimento. Ovviamente de-vi prima dire di sì e ti conviene, io credo, altrimenti avremo sfidato il freddo per nulla». Tirò fuori dalla tasca una scatolina di velluto verde e la aprì rivelando a Delia il contenuto. Un meraviglioso anello con una splendida pietra verde era in attesa di una risposta e tutto quello

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che Delia riuscì a fare fu annuire, mentre il pianto prendeva possesso dei suoi occhi. Delia entrò nella basilica accompagnando la porta che si richiudeva die-tro di sé con un gesto delicato. Si strofinò le mani e rimase immobile quasi sulla soglia guardando la basilica. Era bella come la ricordava, con quegli splendidi marmi e mosaici che sapevano far commuovere. Decise che si sarebbe seduta su una panca al centro e si schiarì la voce salutando una vecchietta che camminava lenta verso l'uscita. Si mise a sedere e prima di ogni altra cosa spense il suo cellulare, poi si chiese se fosse meglio stare seduta o inginocchiarsi. Pensò che non avrebbe fatto differenza perché le sue preghiere sarebbe-ro comunque arrivate a destinazione, così rimase seduta immobile con le mani tremanti poggiate sui jeans all'altezza delle ginocchia. Ripassò mentalmente diverse preghiere e poi decise che avrebbe prega-to utilizzando nessuna di quelle, avrebbe semplicemente aperto il suo cuore alla Vergine Madre e a Dio e a chiunque fosse in ascolto da lassù. «Ciao» sussurrò cercando di rilassarsi, «o buongiorno, non so cosa pre-ferisci» disse. «Ehm... l'ultima volta che sono stata qui non ci siamo la-sciati nel migliore dei modi. Io ero molto arrabbiata e spaventata e tu eri... beh, silenzioso e all'apparenza assente, come sempre. E dico all'apparenza perché lo so che ci sei, ora lo so e lo sapevo anche allora, ma come ho già detto ero molto arrabbiata e spaventata. Ma che sto fa-cendo?» sussurrò nascondendo il viso tra le mani. Fece roteare il collo due volte e si rimise dritta. «L'ultima volta che so-no stata qui il mio fidanzato era quasi morto sulla seconda panca a par-tire dalla porta. Sentivo a malapena la sua voce, mentre cercava di con-centrarsi per ricordarsi chi fossi, chi fosse lui e dove ci trovassimo. Immagino che tu lo ricordi, era proprio lì» indicò un punto esatto con il dito e restò a fissarlo qualche secondo prima di tornare a guardare da-vanti a sé. «Si! Credo che tu non l'abbia dimenticato perché quel giorno ho pianto e urlato come mai prima e ti ho riversato addosso tutta la mia rabbia e la mia frustrazione». Si fissò le mani e rimase in silenzio qualche minu-to prima di andare avanti. «Sai, è per questo che sono qui. Io vorrei... vorrei chiederti scusa; e non voglio chiedere perdono per la rabbia, la paura o la frustrazione che provai quel giorno, né voglio chiedere scusa per aver dubitato di te, e

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l'ho fatto credimi. Voglio chiedere scusa per il modo in cui mi sono rapportata a te, avrei semplicemente dovuto chiedere aiuto e aspettare perché sapevo che prima o poi avresti fatto qualcosa. Solo che era trop-po difficile, troppo assurdo che stesse capitando a me. Sai, quando ero piccola al catechismo ci hanno insegnato che le tue vie sono infinite, e allora, quando trovai Elija semi incosciente su quella panca, avrei dovu-to ricordare questo particolare, avrei dovuto leggere tra le righe, capire che, se l'avevo trovato qui, al sicuro nonostante tutto, era perché tu ave-vi fatto in modo che fosse così. Sarebbe potuto morire, era così fatto che se una macchina l'avesse messo sotto forse non si sarebbe neppure reso conto di quello che stava accadendo. Ma per fortuna era qui, con te che vegliavi su di lui, che lo tenevi in vita fin quando qualcuno non fos-se arrivato ad aiutarlo. Avrei dovuto ringraziarti anche allora, ma non l'ho fatto. È solo che era difficile credere che fosse una sorta di segno. Quando vedi la persona che più ami al mondo in quello stato dentro una chiesa, dentro quella che in qualche modo è la “vostra” chiesa inizi a farti delle domande. Tipo: perché non hai fatto in modo che non si arri-vasse a questo punto? Oppure: perché non l'hai aiutato a non entrare nel tunnel o a uscirne prima? Domande difficili se non altro perché la ri-sposta non è semplice come si crede. Ti occupi del mondo intero e im-magino che anche tu abbia delle priorità, una lista chilometrica di nomi di gente da salvare o aiutare con accanto un numero di stelline pari alla gravità della situazione. Magari cinque stelline sono il grado massimo, magari Elija non ha raggiunto quel grado fin quando non si è rifugiato qui quasi in attesa di morire. E solo dopo tu hai fatto qualcosa». Si spo-stò indietro i capelli e si schiarì la voce poggiando le spalle allo schie-nale di legno. «Lui sta andando alla grande adesso. Si sta riprendendo e ha voglia di uscire per sempre dal tunnel maledetto dentro il quale è bloccato da an-ni. Vive in una clinica molto seria, ma anche molto cara. Infatti sono praticamente al verde. Ho dovuto impegnare il mio anello di fidanza-mento e dubito che fra novanta giorni avrò i soldi per poterlo riprendere. Rimarrà lì, suppongo, finché qualcuno non lo comprerà per la persona che ama e sarà il simbolo di nuove promesse che non riguarderanno né me né Elija. Qualcuno lo indosserà abbinato a un sontuoso abito color avorio, con le scarpe alte color cipria scomode ma bellissime, i capelli raccolti morbidamente in uno chignon e il mascara pronto a colare sotto l'attacco delle lacrime di gioia. O magari diventerà il simbolo di un a-

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more che dura da venticinque o cinquant'anni. Sarà il simbolo di pro-messe rinnovate e cuori colmi di gioia, il simbolo di una fine che apre le porte a un nuovo inizio, si spera più bello». Guardò il suo dito mentre calde lacrime le solcavano il viso e alzò gli occhi al cielo cercando di fermarle. «Ma immagino che questa non sia una priorità da cinque stelline, anzi forse non è affatto una priorità. Voglio dire, con tanta gente al mondo che soffre, ammalata in attesa di un aiuto, di un miracolo, come potreb-bero le mie ristrettezze economiche, il fatto che io abbia dovuto impe-gnare il mio anello e che presto dovrò lasciare la mia casa e fare ancora più turni extra al lavoro, essere una priorità. Non è così che vanno le cose, è appurato, e forse è anche giusto. Malattia batte conto in banca vuoto, uno a zero, partita finita!» si asciugò gli occhi e respirando a fondo si accorse di sentirsi meglio, un po' più sollevata anche se ancora completamente sola. Riprese la borsa e se la mise a tracolla, si asciugò gli occhi e ridiede un tono ai capelli. Poi si alzò con il fare deciso di chi è pronto a incassare ogni colpo con dignità. «Se mai dovessi avere un po' di tempo comun-que,» disse «un qualche aiuto sarebbe gradito. Grazie e buona fortuna con la tua chilometrica lista di cose da fare». Si voltò lentamente e ancor più lentamente camminò verso l'uscita. Gli occhi bassi sul parquet chiaro e consumato. Si fermò all'altezza della seconda panca a partire dalla porta e la guardò per un lungo secondo prima di uscire richiudendo piano la porta dietro di sé. Erano le otto di sera e c'era un vento freddo che teneva in scacco l'intera città. Delia raggiunse l'auto stringendosi addosso la giacca scura. Salì in auto e chiuse la portiera, diede un'ultima occhiata alla basilica e prese dalla borsa il suo cellulare, lo riaccese e notò che Susan le aveva man-dato un messaggio dieci minuti prima. «Seth ha detto che ti serve il mio aiuto per vendere la casa. Chiamami appena ricevi questo messaggio, potremmo incontrarci per un caffè e mettere una pietra sopra il passato, in fondo siamo una famiglia e io voglio aiutarti» lesse ad alta voce. Sorpresa Delia sorrise e rispose im-mediatamente invitando la donna a casa sua per mezz'ora dopo. Poggiò il cellulare sul sedile del passeggero e guardò la basilica per un lungo minuto. «Grazie» sussurrò. Poi ripartì alla volta di casa. Fine anteprima.CONTINUA...