con il cantastorie otello perazzoli · prof. gianni storari: ricchi e poveri, ovvero siori e...
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Con il Cantastorie Otello Perazzoli
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MMiinneerrbbee
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Seguirà il risotto e …
Prof. Gianni Storari:
Ricchi e poveri, ovvero siori e pitòchi
Credo che le disuguaglianze sociali ed economiche siano sempre esistite; anche se ci illudiamo che
nei momenti iniziali della vita dell‟uomo, in una realtà arretrata e primitiva, non si riscontrassero
stridenti contrasti, dobbiamo però ammettere che vi fosse chi, per abilità, capacità, astuzia,
intraprendenza, forza, prepotenza ecc., si imponeva sugli altri e lo dava a vedere.
Le disuguaglianze poi, a quanto risulta, apparivano in forma più vistosa nei momenti di
accelerazione delle dinamiche economiche perchè i più capaci o scaltri o arruffoni sapevano tuffarsi
a testa bassa negli affari per trarne profitto, e gli altri restavano indietro, sempre di più.
Una dimostrazione eclatante ce la offre frate Francesco: in un‟Italia in rapida crescita per
l‟artigianato prospero e i traffici assai remunerativi, il giovane rampollo di messer Pietro
Bernardone rifiuta la sua condizione di giovane ricco, si spoglia di tutti i suoi beni che offendono la
sua coscienza e tende la mano per sollecitare la carità a beneficio dei più poveri.
Altro momento importante per capire il fenomeno di cui stiamo parlando è la seconda metà dell‟
„800 in Italia, epoca più vicina a noi, che ha lasciato tracce ancora presenti nella memoria della
gente. L‟Europa occidentale corre veloce, Francia e soprattutto Inghilterra sono all‟avanguardia sul
piano economico industriale, allargano il loro potere nelle colonie, danno vita ad un sistema politico
che farà scuola; l‟altra Europa invece, l‟Austria, la Prussia e ancor più la Russia, hanno un ritmo
diverso, più lento, appaiono votate al conservatorismo in economia e ancor più sul piano politico;
gli Asburgo in particolare, sembrano abbarbicati ad una concezione autoritaria superata, tanto che i
nostri imprenditori agrari, i capitalisti dell‟epoca, i poteri forti, dato che da noi l‟industria era ancora
di là da venire, parteggiano apertamente per Cavour, per il Piemonte, forse anche per spirito
patriottico, ma certamente di più per scelta di parte, sul piano economico e politico. “Come
sappiamo governare la nostra azienda, la nostra economia”, dicono, “così vogliamo dimostrare di
essere in grado di governare il nostro paese!”
Questa fu la loro parte di storia.
E il balzo in avanti sarà notevole; dopo il 1866, diventati Italia, prende velocità l‟ammodernamento
della struttura economica, in Italia e nel Veneto: via le paludi e le terre incolte, avanti con i
miglioramenti tecnici, la selezione delle sementi, le arature profonde e le concimazioni, sviluppo
delle linee di comunicazione, delle ferrovie, del mercato, della concorrenza e balzo in avanti nella
produzione del frumento e del mais, del riso (la colonna portante della nostra economia fin dal
„600) e delle barbabietole (che col nuovo secolo sostituiranno il riso)
Ma aumenta anche la povertà, si moltiplicano i nuovi poveri, i piccoli proprietari ricacciati indietro
per la mancanza di capitali, per la scarsità di terre, per il numero eccessivo di figli, perchè vittime
dei commercianti scaltri ed imbroglioni, delle cattive annate (alternativamente ”la suta” e
l‟eccessiva pioggia), frenati dalla loro ignoranza e dalla mentalità chiusa e ottusa; sono ricacciati fra
i nullatenenti, i braccianti, che hanno solo braccia per lavorare, i proletari, che hanno una sola
motivazione per continuare a lavorare, anzi un solo dovere: la prole, il numero di figli da
mantenere.
Girano di qua e di là come massa affamata, cambiano padrone alla ricerca di quello che abbia pietà
di loro (il “san martin dei pitochi”), accorrono alla chiamata dei comuni quando ci sono le strade da
sistemare o gli argini dei fiumi da alzare (gli scariolanti) oppure i grandi lavori per costruire le
fornaci o gli zuccherifici all‟inizio del „900, ma è una manna che dura poco; finito il lavoro
ritornano nella miseria e l‟agricoltura non li accoglie più perchè la modernizzazione introduce
macchine, non uomini.
Così vanno via, con un coraggio che nessuno avrebbe mai immaginato, vanno in Brasile e in
Argentina, confidando nella terra che viene promessa, cantando con rabbia e speranza:
“Andaremo in Merica
in tel bel Brasil
e qua i nostri siori
i laorarà la tera col baìl”
Berto Barbarani scopre questa realtà verso la fine del secolo, in un momento di vacanza a San
Vittore di Colognola ai Colli, e ce ne lascia una straordinaria descrizione:
I va in Merica
Fulminadi da un fraco de tempesta,
l‟erba dei prè, par „na metà passìa,
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;
ipotecado tutò quel che resta,
col formento che val „na carestia,
ogni paese el g‟à la so angonia
e le fameie un pelagroso a testa!
Crepà, la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir „na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,
na festa, seradi a l‟ostaria,
co un gran pugno batù sora la tola:
«Porca Italia» i bastiema: «andemo via!»
E i se conta in fra tuti. “In quanti sio?”
“Apena diese, che pol far strapasso;
el resto done co i putini in brasso,
el resto, veci e puteleti a drio”.
“Ma a star quà, no se magna no, par dio,
bisognarà pur farlo sto gran passo,
se l‟inverno el ne capita col giasso,
pori nualtri, el ghe ne fa un desìo!”
Drento l‟Otobre, carghi de fagoti,
dopo aver dito mal de tuti i siori,
dopo aver fusilà tri quatro goti;
co la testa sbarlota, imbriagada,
i se dà du struconi in tra de lori,
e tontonando i ciapa su la strada!
Chi va è un fallito, uno spiantato, uno che, appunto, non è riuscito a “piantarsi” qua; i parenti più
stretti piangono per lui, ma l‟opinione pubblica sottolinea la sua indolenza, le sue manchevolezze, la
sua scarsa voglia di lavorare, così che l‟insuccesso lo si attribuisce a lui, non alle condizioni
generali che gli stanno intorno.
Chi va, chi fallisce, è anche uno stupido, un ignorante: il male che gli grava addosso se lo è voluto
lui, con la sua ignoranza, la sua ottusità; forse, il male che gli è caduto addosso, gli era destinato da
sempre, dalla sua sorte, dalla sua condizione di contadino. Trovo in un testo riportato dal prof.
Bernardi, di ambiente trevigiano se capisco bene, questi elementi; uno torna dal mercato e il
compare gli rivolge la domanda:
“Jèreo tanta sént al marcà?”
Chiara e significativa la risposta:
“Poca sént e tanti contadini!” (1)
Non so se sia implicita l‟ironia verso il contadino che guarda e guarda, al mercato, ma non cava le
mani di tasca dove tiene stretta l‟unica monetina che alla fine non spenderà; vuoi invece mettere la
prodigalità della sént, la gente normale, la gente di paese, la gente a modo!
Poi il discorso continua e rigira il coltello nella piaga:
“Al contadin pena nato
„na sentansa Dio g‟a dato
scrivendoghe su „a pansa:
Vian! Contadin! Sensa creansa!
E soto el burgnigoeo
el ghe à scrito:
Bruta genìa!
Che parlar ben no sa cossa che sia!
L‟é pì fassie che l‟acqua devénta vin
pitost che un contadin se fassa citadin!” (2)
Anche mio nonno, nella sua presunzione di artigiano padrone del suo tempo, del suo mestiere e
della sua arte, non era tenero verso i contadini che a suo dire
“nati in te on solco
i morirà in te na scaezzagna!”
Per dire che mai si sarebbero sollevati da quella terra che costituiva la loro dannazione!
Al mio paese, San Bonifacio, dal lato opposto della piazza, a mio giudizio una delle più belle del
mondo, c‟era el canton de Marchi, un incontro tra due vie, via Roma o contrà dei siori e corso
Umberto, un angolo appunto, un canton, e lì c‟era il panificio del signor Marchi. I muri erano caldi
alla mattina, perchè dentro il fuoco era stato acceso tutta la notte; i disoccupati del paese vi si
raccoglievano e appoggiavano la schiena al muro, d‟inverno, tantopiù che il sole, alzandosi
dall‟altro lato della piazza, li riscaldava davanti; restavano le mani, infreddolite, che ricacciavano
soto le leséne; e aspettavano. Aspettavano che Brena, Cazzola, Mazzotto, Ceola e qualche altro
agrario, lo si capisce dal nome che erano grossi proprietari terrieri, uscissero dal caffè lì di fronte e
pronunciassero la frase fatidica: “Ancò me serve tri omini”; subito una decina di mani si alzavano:
“Mi, mi”; “Uno, du e on tri; nè là, in Valfonda, da Fabiàn, e disìghe che ve mando mi!”
“E nantri?” “Mah, forsi doman!”
Per quelli il paradiso, per questi altri, scansafatiche, piantagrane, incapaci, l‟attesa, forse domani.
El canton de Marchi, l‟ufficio di collocamento di San Bonifacio nell‟ „800, così nella memoria della
gente. Così penso, un po‟ in tutti i paesi.
E se domani non succedeva niente, e nemmeno dopodomani, ecco che se ne andavano.
In Brasile, dove un fazendero, un agrario capitalista coltivatore di caffè, li aspettava credendo di poterli
trattare come aveva trattato fino a ieri i neri, con la scuria, quei neri che per legge non erano più suoi, ingrati
perchè diventati liberi avevano voluto andarsene da quel padrone e dalla sua fazenda, sciocchi perchè si
illudevano di andare a fare i ricchi a Rio o a Santos, invece erano finiti loro all‟osteria e le loro donne su
qualche marciapiede; vedi che è legge fatale che i poveri siano disgraziati e stupidi?
Ma i nostri emigranti scansafatiche, piantagrane e incapaci, erano abituati a lavorare la terra, amavano la
terra, curavano la terra, sognavano la terra e sapevano cosa vuol dire lavorare: faticare, certo, ma essere
trattati come cristiani, e pagati. Così fecero cambiare l‟idea del lavoro al di là dell‟oceano, dove erano
arrivati poveri in canna, diseredati, cacciati; ma si erano portati dietro quell‟idea.
I loro amici e parenti che erano rimasti qua, bravi, alcuni, fortunati, altri, raccomandati, altri ancora, quando
li cercavano al canton de Marchi, non alzavano nemmeno più la mano: erano in pochi, la terra da lavorare
tanta, il grano da raccogliere tanto: insomma erano tutti diventati buoni, o quasi. Anche al di qua dell‟oceano
l‟idea del lavoro cambiava: c‟era, per tutti, dava dignità e stipendio a tutti, li rendeva cittadini, tutti, dello
stesso paese.
I nostri pitochi avevano fatto la loro parte di storia, al di qua e al di là dell‟oceano!
1) Ulderico Bernardi, L’antica ferita, in “Bernardi – Coltro – Franchi – Perco, Lingua, dialetto e culture
subalterne” a cura di Giordano De Biasio, Longo Editore, Ravenna 1979, pag. 21
2) Ulderico Bernardi, L’antica ferita, in “Bernardi – Coltro – Franchi – Perco, Lingua, dialetto e culture
subalterne” a cura di Giordano De Biasio, Longo Editore, Ravenna 1979, pag. 22
Da Dino Coltro: “Leggende e racconti popolare del Veneto”
Più che sull’origine dell’uomo, di certo uscito dalle mani di Dio, il contadino si interroga sulla divisione dei
beni sulla Terra, che dovrebbero appartenere a tutti. Il bene e il male sono accoppiati, con una morale
drastica, alla povertà e alla ricchezza. Il Padreterno non c’entra e se la cosa riguarda solo gli uomini, è tra gli
uomini che deve essere ridiscussa. Il senso di giustizia ha quindi motivi umani e sociali e una
<<giustificazione storica».
I Dio el g'/aa creà vsrrtìquatro ámeni,
dádase el ìà méssi in te rza bòta,
e dádarse el ia molè fára,
par védare se Vera mèìo
vìvare al sole 0 soto Vombrìa.
I dádase de fora,
i g’ba csapà tuto,
tera case roba,
tuto smoma,
e quando gb’è vegaù fára
cbéi da la bòta,
Z g'/oa dito: .
' alèsso rzoàntri stémo senta ·
e voàltri ne guerrrè la nostra roba.
Cossìta s'ba fato i siári,
imbrosàrrdo anca al Padretemo.
(Coltro Augusto)
Dio creò ventiquattro uomini, dodici li mise in una botte e dodici li lasciò fuori per verificare se era migliore
la vita al sole 0 all’ombra. I dodici di fuori si sono presi tutto, terra case roba, tutto insomma, e quando sono
usciti gli uomini chiusi nella botte, dissero: adesso noi stiamo seduti e voi lavorerete per noi. J Così si sono
fatti i ricchi, imbrogliando anche il Padreterno.