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Viaggio nella Tuscia, erede dellaciviltà etrusca
di Ivo CarezzanoVice Direttore Vicario de “Il Messaggero”
Una ragione c’è, se i ricchiinglesi e americani stannoscendendo lentamente dalla Toscana, dal Chiantishire e dalla Maremma, verso la Tuscia: quella vasta areacompresa (oggi) tra il Tirreno,al confine tra le province di Viterbo e Grosseto,e l’entroterra di colline ora dolciora orride che corrono fino e oltre il Lago di Bolsena,il più grande di originevulcanica d’Italia, per arrivarealle selve profonde nel cuoreverde dell’Umbria, esattamentea metà strada tra i due mari che profilano la Penisola...
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La parola tra parentesi - oggi - sta a indicare che ieri, e cioè tra l’VIII e il V secolo avan-
ti Cristo, la Tuscia - come la chiamarono i Romani - rappresentava il cuore dell’Etru-
ria, e comprendeva anche gran parte della Toscana, dell’Emilia Romagna, del versan-
te umbro della Valle del Tevere, con puntate espansionistiche fin verso la Liguria spezzina.
Dunque, Tuscia. Nome che scivola in bocca e accende la fantasia ed eccita soprattutto lo-
ro, gli inglesi, che furono fra i primi a scoprire quel che restava della straordinaria civiltà
etrusca: fu infatti lo scozzese Thomas Dempster, vissuto a cavallo tra cinque e seicento, a
dare sistemazione nel “De Etruria Regali” alla consapevolezza, tutta medioevale, che nel-
l’Italia preromana erano esistite civiltà importanti diverse da quella classica greco-roma-
na, le quali, nella logica della conquista e dell’impero, Roma aveva teso a cancellare.
Allora, da dove erano spuntati, gli Etruschi? Come spiegano gli studiosi Antonio Giuliano
e Giancarlo Buzzi le ipotesi sono tre. In sintesi: popoli arrivati in Italia attraverso le Alpi
Retiche; popoli discendenti dai protoitalici, che abitavano la penisola prima ancora delle
invasioni indoeuropee; popoli, infine, emigrati in Italia via mare dall’Oriente. Per tante
ragioni noi siamo per questa terza ipotesi e per avere spiegazioni maggiori ci lasciamo pren-
dere per mano da Erodoto, storico greco nato nel 484 avanti Cristo ad Alicarnasso. Nelle
sue “Storie” (I, 94) racconta che al tempo di Atìs, figlio di Mane, diciamo noi intorno al XIII
o XII secolo avanti Cristo, un po’ dopo la fine della Guerra di Troia, una tremenda carestia
si sarebbe abbattuta sulla Lidia. La Lidia si trova nella parte meridionale della penisola ana-
tolica: luoghi straordinari dove bisogna recarsi per vedere quel che i Romani lasciarono in
quella loro Asia Minore, dove, nella purezza della Turchia profonda che si affaccia verso Ci-
pro e la Siria e le coste dell’Africa settentrionale, spuntano ovunque resti archeologici si-
tuati in modo tale che il viaggiatore ha ancora oggi la sensazione di scoprirli lui, più che
vederli da turista. La stessa sensazione che si ha anche qui nella Tuscia, oggi, scoprendo gli
insediamenti etruschi di Bolsena o Ferento,Vulci o Grotte di Castro, Tarquinia o Blera, Nor-
chia o Tuscania, eccetera eccetera.
Così i Lidi, dopo aver cercato di resistere alle disgrazie - pensate un po’ - inventando pas-
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“Tombe etrusche” di Castel d’Asso, vicino a Viterbo. Xilografia dal volume ViaggioPittoresco dall’Alpiall’Etna di W. Kaden,Stoccarda, 1876.Collezione della Galleriagenovese San Lorenzoal Ducale.
Alle pagine precedentiItalia Antica. Incisionesu rame con coloriturad’epoca di GeorgMatthäus Seutter,Augsburg, 1730 ca.Collezione della Galleriagenovese San Lorenzoal Ducale.
satempi per sfuggire la fame, come i dadi, gli astragali, persino il gioco della palla, dopo 18
anni, decisero di dividersi in due gruppi: uno sarebbe rimasto per continuare comunque
la stirpe, l’altro avrebbe preso il mare. A capo della flotta che doveva partire dal porto an-
tenato dell’odierna Smirne, fu messo Tirreno, figlio del re. Partirono, dunque, e dopo tan-
te peripezie degne di un’altra “Odissea”, giunsero secondo Erodoto tra gli Umbri, e lì si
fermarono, cambiando il loro nome da Lidi in Tirreni. In questa metamorfosi, a dare una
mano a Erodoto arriva niente meno che Virgilio, il quale - nell’ “Eneide” (VIII libro, 478 e
seguenti) - identifica i Tirreni nei Lidi. E molti storici greci e romani confermarono, in ba-
se a infiniti riscontri più o meno mitici, che “i Tirreni sono chiamati Etruschi e Tusci dai
romani; gli Elleni li denominarono Tirreni da Tirreno, figlio di Ati, uno dei discendenti di
Ercole...”, così Anticlide, citato da Strabone (“Geografia”, V, 2, 4).
Allora è in questo contesto, che continua a essere avvolto dalle suggestioni della leggenda,
che americani e inglesi arrivano da Nord a comprarsi casali sperduti nella campagna o ca-
se negli infiniti centri storici della Tuscia, a due passi, non va mai dimenticato, da Roma. E
che strada usano e che tappe fanno nelle loro moderne migrazioni?
Per scendere dalla Toscana, ormai per loro già troppo frequentata dal jet set che abusa di
notorietà e mondanità, i nostri pionieri a bordo delle Suv seguono l’antica Via Francige-
na. Anche loro, come i pellegrini a cavallo del Mille, vanno alla ricerca “della perduta Pa-
tria Celeste”. In quel tempo, e da allora fino all’altroieri per secoli e secoli, prìncipi e preti,
cardinali e monaci, popolo grasso e bifolchi in grazia di Dio, in tanti cercarono di salvarsi
l’anima con un pellegrinaggio nelle capitali della cristianità. Per i musulmani, la Mecca
era e resta una sola, ma per i cristiani, soprattutto quelli dei secoli bui dell’alto medioevo,
i poli di attrazione erano tre: Santiago de Compostela, estrema punta dell’Europa occi-
dentale che finisce nell’Atlantico della Spagna gallega, dove l’apostolo Giacomo aveva
scelto di riposare in pace; la Terra Santa, sui luoghi della passione di Cristo; infine Roma,
dove erano stati martirizzati Pietro e Paolo, fondatori della comunità ecclesiale cristiana e
dove risiedeva il Papa, vicario di Cristo in Terra.
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Giuseppe Morozzo,carta del Patrimonio di San Pietro, 1792.
In un reticolo impressionante di strade, basato su quell’autentico capolavoro insuperato
che restano gli assi viari dell’Impero romano, i pellegrini si avviavano verso la pianura pa-
dana arrivando da Nord. Partivano magari dal Vallo di Adriano, ai confini scozzesi della
Britannia, superavano la Manica e scendevano lungo il Reno o per altre vie e oltrepassava-
no le Alpi Occidentali: itinerari standard, secondo le memorie che ci ha tramandato Sige-
rico, arcivescovo di Canterbury, che tornando nel 994 alla sua diocesi da Roma, scrisse il
diario del suo viaggio. Così, dopo più di mille anni, torniamo noi a seguire le tappe di quel-
l’avventura rivissuta milioni di volte lungo almeno sette secoli, sulle tracce della Via Fran-
cigena, che nella Tuscia si sovrappone per tratti considerevoli alla Via Cassia. E scopriamo
che già i romani avevano approntato lungo questa come le altre vie consolari il sistema del-
le “mutationes” , ovvero i posti di cambio (dei cavalli) dislocati a intervalli compresi tra 7
e 12 miglia: cosicché i tabellarii, o corrieri a cavallo, potevano già all’epoca percorrere 50
miglia al giorno, e un dispaccio inviato da Brindisi a Roma impiegava con l’Appia circa una
settimana, più o meno quanto ci mette anche oggi per posta normale. Ma le consolari, e
quindi le vie maestre come più tardi la Francigena, prevedevano anche luoghi di sosta
notturni, situati a un giorno di viaggio l’uno dall’altro, chiamati “mansiones”, forniti di ogni
genere di comfort: locande, stalle, rimesse, che fornivano l’assistenza di personale specia-
lizzato, quali stallieri, fabbri, maniscalchi, carpentieri per i carri, veterinari, cocchieri, per
non dire degli “stationarii”, autentici agenti di polizia della strada, che dovevano regolare
il traffico e presidiare le consolari contro ladri e briganti che le infestavano. Sulla Cassia è
possibile vedere il sito di una di queste “mansiones” nella Valle di Baccano, verso Roma.
Moderni pellegrini, che troviamo noi, a fianco di sofisticati lord inglesi e magnati ameri-
cani, lungo la Francigena? Dalla Padania abbiamo valicato l’Appennino presso Berceto e
siamo scesi lungo la Toscana sulla Cassia, partendo da Siena e fermandoci magari a Mon-
talcino, sulle colline del mitico Brunello, o a San Quirico d’Orcia, nei suoi splendidi Hor-
ti Leonini, tra i primi esempi di giardini all’italiana, o a Bagno Vignoni, dove ci si immer-
ge nelle meravigliose vasche di acqua calda che sgorga dal sottosuolo, oppure infine a Ra-
dicofani, la celebre rocca che sovrasta da 900 metri la Val d’Orcia e dalla quale il Ghino di
Tacco di craxiana memoria taglieggiava quanti di lì dovevano passare.
Ci siamo affacciati sul viterbese a nord, attraversando il fiume Paglia sul ponte a cinque
arcate che fece costruire Gregorio XIII nel 1580 per sfuggire alle insidie delle frequenti
piene che travolgevano i vetusti ponti di barche. Siamo all’esterno della cinta craterica del
Le famose vasche d’acqua termale a Bagno Vignoni.
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Lago di Bolsena e incontriamo Acquapendente. E’ la città medioevale dei Pugnaloni.
Niente paura, niente paurose storie gotiche. Si tratta solo di una festa di Mezzo Maggio col-
legata al miracolo del ciliegio fiorito e alla cacciata del Barbarossa nel 1166, ricordata con
la processione della “Madonna del Fiore”, in cui gli acquesiani, divisi in gruppi, realizzano
degli stupendi mosaici istoriati utilizzando fiori e foglie: si chiamano i Pugnaloni e vengo-
no portati in corteo lungo il centro storico nella giornata governata dal “Signore di Mezzo
Maggio”. Vince il quartiere che ha creato il Pugnalone più ricco e stupefacente. Ma non ce
ne possiamo andare da Acquapendente prima di aver fatto un’escursione alla Riserva na-
turale del Monte Rufeno, tremila ettari di boschi dove sono di casa nibbi, caprioli e cin-
ghiali e dove, soprattutto, crescono le rarissime orchidee: provare per credere.
Ora siamo a Bolsena, la città dei miracoli, la patria del Corpus Domini. E’ la Volsinii dei
romani, l’erede dell’etrusca Velzna (Orvieto): adagiata sulla riva nord-orientale del lago,
al centro del complesso dei monti Volsini, è esattamente a metà strada tra Siena e Roma.
Un tempo questo gigantesco specchio d’acqua, che arriva a 151 metri di profondità, un
vero mare interno posteggiato dagli dei nel cono del vulcano, si chiamava Lacum Chri-
stinae, in ricordo di una bambina di 11 anni, figlia del prefetto Urbano. Accadde che Dio-
cleziano avesse deciso uno dei tanti pogrom contro i cristiani e accadde che lei, proprio
lei figlia del legato dell’imperatore, avesse abbracciato la fede. Il padre, implacabile, ordi-
nò di metterla a morte, ma i carnefici non riuscivano a eseguire la sentenza per tante mi-
racolose ragioni. Allora Urbano ordinò: legatele una macina al collo e gettatela nel lago.
Il lago di Bolsena.
Bolsena: un particolaredell’“infiorata” del Corpus Domini,lunga tre chilometri.
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Così fu fatto, ma l’enorme pietra, invece di trascinare a fondo la sventurata, la tenne a
galla e la riportò a riva, salva. Fatela a pezzi: fu la soluzione finale. E morte, finalmente,
fu. Il povero corpo finì sull’Isola Martana (una delle due splendide isole del lago), da do-
ve lo fecero traslare a Bolsena nientepopodimenoche Gregorio VII e Matilde di Canossa,
campioni della fede quant’altri mai. Il feretro della santa finì nel 1078 nelle catacombe cri-
stiane (ancora oggi in gran parte inesplorate) sottostanti quel tempio che è diventato in
seguito la collegiata di Santa Cristina, una chiesa romanica dell’XI secolo, con un super-
bo campanile del XIII, che svetta aperto su tre piani di bifore. E qui arriviamo al secondo
miracolo che si intreccia in maniera inestricabile col primo. La cappella di Santa Cristina
è nella navata a sinistra: lì sono custodite le sue reliquie, compresa la pietra che doveva uc-
ciderla e invece la salvò dall’annegamento trasformandosi in salvagente, e nella pietra ci
sono le impronte dei suoi piedini. Che cosa volere di più come segno del trascendente?
Sotto una splendida opera policroma di Giovanni della Robbia, è stata dunque posta quel-
la sacra pietra ed è lì che nel 1263 avvenne il Miracolo del Corporale. Successe che un
prete boemo - Pietro da Praga - mentre celebrava la messa venne colto dal dubbio sulla
transustanziazione, ovvero l’effettiva trasformazione in sangue e carne del vino e dell’o-
stia consacrati. Allora la particola che il sacerdote aveva in mano cominciò a sanguinare
e bagnò il corporale e macchiò il marmo del pavimento: il corporale, ovvero il telo di li-
no su cui vengono posti il calice e l’ostia, segnato dal miracolo fu portato in processione
a Orvieto, dove risiedeva Papa Urbano IV, che l’11 agosto
1264 promulgò la Bolla che istituiva la festa del Corpus
Domini, immortalata nello splendido duomo di Orvieto e
nell’ insuperabile affresco di Raffaello nelle Stanze in Va-
ticano. Naturalmente, se per il Corpus Domini vi capita di
passare da queste parti, non perdetevi la solenne proces-
sione che si snoda per le vie del borgo fronte lago, sopra
un tappeto di fiori di ben tre chilometri: ovvero siamo
davanti all’infiorata più lunga del mondo.
Ma non di soli miracoli si vive. E infatti Bolsena vive di tu-
rismo ed è meta di villeggianti, molti stranieri, che affolla-
no nelle giornate di sole, tutto l’anno, i piccoli bar in riva
al lago. Tanti giovani preferiscono d’estate il lago al mare e
i loro sorrisi spensierati e i loro corpi, costellati di piercing
e orecchini - come ha ben notato Corrado Augias in un suo
reportage sul numero dei Meridiani del luglio scorso dedi-
cato alla Cassia - concorrono a togliere ai luoghi quell’au-
ra di misticismo esagerato che rischierebbe altrimenti di
soffocare questi splendidi paesaggi. Così per ritrovare la
gioia di vivere basta lasciarsi prendere dall’envie de flaner
dans le soleil o di navigare fino all’Isola Bisentina, che ab-
biamo giusto di fronte, lontana sull’orizzonte verso sud e
ovest: allo sguardo si presenta con le pareti a picco sull’ac-
qua e per raggiungerla in barca bisogna chiedere il permesso
ai prìncipi del Drago. Sull’isola potrà essere “orrendamen-
te” affascinante visitare il carcere, scavato nel tufo, riserva-
to agli ecclesiastici eretici. E poi salire alla Rocca, costru-
zione ottagonale opera di Antonio da Sangallo il giovane,
e ascendere al Monte Tabor seguendo le cinque cappelle del
XV secolo, affrescate dai seguaci di Benozzo Gozzoli, im-
maginandosi che sull’isola, nel IX secolo, in seguito alle
incursioni dei Saraceni, trovarono rifugio stabile per più di
cent’anni tutti gli abitanti di Capodimonte.
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Un tipico casale della Tuscia.
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Sarà un autentico strazio, per chi è sceso nella magia del la-
go vulcanico, abbandonarlo. C’è una calamita che vi trat-
tiene. E vi obbligherà forse a fermarvi sulla penisola lavica
dove si stende il magico centro urbano di Capodimonte,
una piattaforma sulla sponda meridionale che si incunea
nel lago. Né riuscirete a non esplorare al tramonto i cin-
que chilometri di costa del lago lungo i quali si stende la ne-
cropoli etrusca di Bisenzio, con tombe a pozzetto addirit-
tura della precedente civiltà villanoviana e con colombari
di età romana. Tutto concorre a documentare quel grande
e fiorente insediamento urbano, esistito ininterrottamente
dall’età del ferro fino a noi, una miniera inesauribile di re-
perti sparsi in tutti i maggiori musei del mondo, che anco-
ra oggi ci regala sorprese come i sandali snodabili di età
etrusca, inventati dagli abili artigiani bisentini e ritrovati
intatti e usabili, oppure le piroghe recentemente individuate
a dieci metri di profondità, e quindi visibili, che hanno la
caratteristica di essere “monossili”, ovvero scavate in un uni-
co albero, di notevoli proporzioni: lunghe fino a 10 metri,
larghe 80 centimetri, alte 60, spesse 3 centimetri. Era Bi-
senzio, dall’VIII al V secolo avanti Cristo, la vera capitale
del lago e controllava i commerci per terra e per acqua,
che incrociavano da Vetulonia a nord, da Tarquinia a sud,
da Vulci da ovest verso il mare, e da est dalle valli del Teve-
re e dei Monti Cimini. La sua successiva decadenza è lega-
ta, semplicemente, alla conquista romana del lago: nel III
secolo, i Romani creano sulla sponda opposta a Bisenzio la città di Volsinii, trasferendo lì
forzatamente i superstiti di Orvieto, la Velzna degli etruschi diruta dalle legioni, e di lì fa-
ranno più tardi transitare la Cassia, che concentrerà i traffici sulla sponda orientale.
E sulla Cassia torniamo anche noi per fare una breve tappa a Montefiascone, ormai sulla via
di Viterbo, ma anche sulla Strada dei Vini dell’Alta Tuscia. Questa strada è a Denominazio-
ne d’origine supercontrollata e superprotetta: si dice “dei vini”, ma in realtà - come spiega l’as-
sessore alla Cultura e al turismo della Provincia di Viterbo, Giovanni Maria Santucci, riassu-
mendo la Legge 90/85 della Regione Lazio - vuol dire una ventina di comuni “dove si inten-
de valorizzare i percorsi tu-
ristici e gastronomici , indi-
viduare botteghe del vino,
aziende agricole che produ-
cono colture tipiche, tratto-
rie con cucine caratteristi-
che, botteghe del pesce del
Lago, aziende e casali de-
dicate all’agriturismo, ne-
gozi e laboratori artigiani,
eccetera”. Il territorio è sta-
to diviso in tre aree di pro-
duzione dei tre vini Doc:
Est!!Est!!Est!! , Aleatico e
Orvieto. A noi, adesso, in-
teressa solo il primo. Perché
ha una storia particolaris-
sima, da raccontare.
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Caprarola: l’imponentepalazzo-fortezzarealizzato su disegnodel Vignola.
Il suggestivo casaleFornovecchino.
Entriamo a San Flaviano, chiesa romanica del XII secolo fondata su un tempio preesi-
stente del Mille. Lì è collocata la pietra tombale del barone tedesco Giovanni Fugger o
Defuck che reca un’iscrizione: “Est Est Est! propter nimium est hic joannes de fuk do-
minus meus mortuus est “. Cos’era successo? Successe che nel 1111 il barone tedesco era
sceso al seguito dell’imperatore Enrico V ed essendo un appassionato degustatore di vi-
ni di qualità, usava mandare avanti un suo furbo servitore con il compito di assaggiare i
vini locali, contrassegnando la singola osteria con la scritta “Est”, se c’era del vino buo-
no. Arrivato a Montefiascone e assaggiato il vino dell’oste del Moscatello (65% Treb-
biano, 20 Malvasia e 15 Rossetto, tutti rigorosamente vitigni toscani), contrassegnò la
mescita con tre Est!! Il barone tanto apprezzò la qualità del vino che ne bevve per due an-
ni di seguito, così da morirne nel 1113. Comunque, riconoscente per il godimento che
gli avevano fornito, il barone lasciò i suoi beni al municipio, con la precisa clausola che
ogni anno sulla sua tomba doveva essere versato un barile di quel vino. Se volete assag-
giarlo anche voi andate a Montefiascone la prima quindicina d’agosto: il nettare scorre
a fiumi, ed è gratis, offerto dal barone, che se la ride da lassù e brinda alla salute di tutti
quelli che vogliono bene al vino buono.
Ormai siamo a 20 chilometri da Viterbo: un attimo e sulla Cassia entriamo da Porta Fio-
rentina per uscirne da Porta Romana. Lasciamo la città dei papi, ampiamente descritta in
altre parti de “La Casana”, 80 chilometri ci dividono dalla Capitale. Ma non cadiamo nel-
la trappola della Cassia. Puntiamo decisamente su San Martino al Cimino e aggiriamo il
Lago di Vico lungo l’impareggiabile Via Cimina: la soluzione ci permette di viaggiare in
pizzo del cratere a 500 metri d’altezza, di scoprire colpi d’occhio sul lago assolutamente
insperati, di percorrere chilometri solitari a ogni ora in mezzo a faggete e castagneti che
l’autunno accende di colori straordinari, che non hanno nulla da invidiare al foliage del-
l’indian summer bostoniana. Ed ecco subito, già in vista di Ronciglione, la deviazione per
Caprarola. “La cittadina è inserita - spiega l’assessore Santucci - nell’Itinerario Farnesiano
della Tuscia. Sono infatti qui le radici della grande famiglia dei Farnese, da qui l’illustre ca-
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Il lago di Vico.
sato partì per la sua rapida e felice scalata al potere, che tanto dominio conquistò in Italia
e in Europa, a cominciare dal soglio pontificio a cui assurse Alessandro con il nome di Pao-
lo III. E fu certamente lui che rivelò quella vocazione al mecenatismo che qualificò per sem-
pre i Farnese tra i maggiori protettori delle lettere, delle arti, della musica. Ne beneficiaro-
no Roma, Parma, Piacenza, la Tuscia stessa. Da qui l’invito al viaggiatore curioso e sofisti-
cato a questo Itinerario farnesiano che ha la sua capitale proprio a Caprarola”. Qui il Pa-
lazzo Farnese toglie davvero il respiro: edificato da Alessandro, nipote di Paolo III, su di-
segno del Vignola, il gigantesco palazzo-fortezza è nato insieme al paese che gli è stato per
così dire spalmato tutt’intorno, secondo un preciso progetto urbanistico. Le fondamenta
ciclopiche insistono su una rocca eretta da Antonio da Sangallo il Giovane. Si tratta di uno
dei più preziosi gioielli del Rinascimento ed è amatissmo da Carlo d’Inghilterra, che per
anni ha qui soggiornato, ponendovi pure la sede del suo Istituto di studi di architettura del-
l’ambiente, poi trasferita all’Est.
Comincia la discesa verso Roma. Arriviamo, sempre viaggiando in una stupenda campa-
gna dominata dai Cimini, al quadrivio di Ponterotto e da lì precipitiamo ai piedi di Sutri.
No, non entriamo in città, non varchiamo le mura possenti e ancora affioranti. Stiamo fuo-
ri. Entriamo piuttosto nel magnifico anfiteatro ai margini della Cassia. Si apre inaspettato,
tutto scavato a gradoni alti nelle pareti di tufo: è bello camminare sul suo prato verde, ri-
posante, dà il senso e il gusto degli spettacoli che lì dovevano svolgersi dall’inizio del I se-
colo avanti Cristo in poi. Ma come si arrivò alla costruzione di quest’opera indubbiamen-
te sorprendente in questo luogo perduto nelle gole delle ultime propaggini della Selva Ci-
mina? Per scoprirlo ci facciamo aiutare da Paolo Giannini, autore di un’ opera profonda e
affascinante sui Centri etruschi e romani dell’Etruria meridionale. Immaginiamo un alti-
piano tufaceo lungo 500 metri e largo 200, profondamente eroso ai lati, orientato nord-
ovest sud-est: era già abitato nel X secolo, età del Bronzo finale, e dominava le vie com-
merciali che legavano i centri costieri etruschi con le popolazioni falische dell’entroterra
del Tevere. Quando la minaccia di Roma si avvicina, Sutri - che deriva il suo nome da Sa-
turno - si dota di una cinta di poderose mura (ancor oggi ben visibili sul lato che guarda
la Cassia) più tardi incorporate nelle fortificazioni medioevali. Se la guardate dall’alto, Su-
tri sembra la punta di una lancia: e davvero ha a lungo balenato in battaglia, almeno da
quando i Romani conquistano Veio nel 396 avanti Cristo, avamposto etrusco a due passi
dall’Urbe, e puntano su Sutri che investono poco dopo. La conquistano, poi la perdono, la
riconquistano. Furio Camillo la perse e la riprese in un solo giorno, battendo infine gli Etru-
schi di Tarquinia nel 380. Da qui venne il detto latino: Ire Sutrium, per dire “detto fatto”.
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Acquapendente: la Riserva Naturale di Monte Rufino.
Alcune varietà di orchidee della Riserva Naturaledi Monte Rufino.
A metà del II secolo a. C. la costruzione della Cassia, della
quale resta tuttora un’importante stazione, restituisce a Su-
tri tutta la sua importanza strategica e un diffuso benesse-
re che l’accompagna da sempre. Così la città diventa mu-
nicipio romano dopo la guerra sociale - 90-88 a.C. - e con
Augusto diventa Colonia Coniuncta Iulia Sutrina e, secon-
do Strabone, cresce fino a diventare fra le cittadine più po-
polose dell’Etruria, come Arezzo e Perugia. Ed è allora che
si costruisce l’anfiteatro, e l’arcano è svelato. Due curiosi-
tà, per finire. La prima: narra la leggenda che in una grot-
ta-casa di Sutri sia vissuto con la madre Berta il paladino
Orlando, prima di essere riconosciuto dallo zio Carlo Ma-
gno. La seconda: in un grande frammento marmoreo ri-
trovato in loco, che reca ben ordinato l’elenco dei pontefi-
ci della Colonia di Sutri, compare anche il nome di Ponzio
Pilato, che pronunciò la condanna di Gesù.
Da Sutri a Roma solo Veio si pone come un baluardo. La
città, tanto nemica di Roma da essere definita l’altra e più
antica Cartagine, dista solo 17 chilometri da Ponte Milvio,
tradizionale punto d’arrivo della Cassia e della Clodia che
scendono dalla Tuscia. Dunque, Veio va vista e digerita per
capire quanto i Romani l’abbiano odiata fino a che non
l’hanno distrutta. Veio,“urbs opulentissima Etrusci nomi-
nis” è la città la cui sconfitta fece prendere coscienza ai Romani della loro forza militare e
della possibilità di dare il via a quella espansione che culminerà nell’Impero. L’etrusca Vei,
la greca Uentia, la latina Veii, era costruita su un ripiano tufaceo triangolare grande 190
ettari: i veienti, dal X secolo in poi, imbrigliarono le acque del Cremera e del Piordo, rivi
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In questa paginaAcquapendente: la realizzazione di un “pugnalone”,mosaico di foglie e fiori.
A fronteParticolare di un “pugnalone” (in alto) e un trattodella via Francigena (in basso).
che nei millenni avevano eroso le pareti di tufo della pia-
na rendendola praticamente imprendibile. Cominciano
subito a litigare con le tribù di Romolo: le tombe di Veio
dell’VIII secolo (Roma fu fondata del 753 a. C.) restitui-
scono reperti di origine greco-euboica, colonie della Cam-
pania, il che significa che Veio commercia lungo il Tevere
con i greci degli empori a sud dell’Etruria Campana e che
Veio è padrona del Tevere, presso le cui foci ci sono le sa-
line e il cui controllo sarà il perno della politica veiate ne-
gli anni futuri e motivo di conflitto perenne con la nascente
Roma. L’Urbe, infatti, i veienti l’aveva in casa: i sentieri che
passano sotto la sua acropoli diventano infatti rapidamente
strade commerciali che da Veio partono verso Formello a
nord, verso Capena e Fidene a nord-est, a nord-ovest ver-
so Vulci, Tarquinia, Nepi e Caere. A ovest, passando pres-
so il tempio di Portonaccio dedicato a Giunone Regina, si
arrivava a Roma e alla foce del Tevere e al Tirreno. Veio
coi commerci cresce cresce, fino a 32 mila abitanti nel V
secolo, e fino a controllare tutta la riva destra del Tevere e
buona parte della sinistra, spingendo i suoi avamposti a
Monte Mario e al Gianicolo. In una parola, Veio può e vuo-
le strangolare la giovane Roma, anche se talvolta le offre
il ramoscello d’ulivo. Tuttavia è lo scontro che prevale, pri-
ma con la singola famiglia dei Fabii, che aveva interessi
in zona, poi con l’esercito romano: nel 474, dopo una bat-
taglia vinta dai consoli Valerio e Manlio, prevale un ar-
mistizio che si spera durerà 40 anni. Ma nello stesso an-
no nelle acque di Cuma la flotta etrusca subisce una tre-
menda disfatta, che segna il tramonto della sua talasso-
crazia e l’inizio della crisi economica dell’Etruria intera.
Di questa crisi Veio fa le spese, perché quando chiederà
aiuto alle dodici città etrusche convocandole al Fano di
Voltumna, si sentirà dire di no. E’ ciò che aspettava Furio
Camillo, che nel 396 la conquista e la rade al suolo e tra-
sporta a Roma la statua e il culto di Giunone Regina, ve-
nerata sulla rocca della città sconfitta, e a lei dedica un
tempio sull’Aventino. Il console non mancherà inoltre di
ringraziare anche l’Apollo di Delfi, al cui santuario invie-
rà un grande cratere d’oro.
Veio vale una visita. Per la sua storia e per quello che è ri-
masto: anche se il mitico Apollo di Veio oggi è possibile ve-
derlo solo al Museo di Villa Giulia. Abilmente restaurato,
se ne sta solitario come lo generò Vulca, l’unico artista etru-
sco di cui le fonti ci abbiano tramandato il nome, autore-
volissimo rappresentante di una scuola di coroplasti che
illustrava in quel periodo non solo Veio, se è vero che la
tradizione attribuisce a Vulca anche la statua acroteriale
del tempio di Giove Capitolino. Vulca, dunque, cotanto ar-
tista da essere chiamato anche all’estero. Ed è giusto in que-
sta saletta del ninfeo di Villa Giulia a Roma, alle falde di
Villa Borghese, dove l’Apollo ci sorride immortale, che fi-
nisce il nostro lungo viaggio.
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