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CRIMINOLOGIA MINORILE CAP. 1 MITI E RICERCHE SULLE PREDISPOSIZIONI FISICHE L’ampia letteratura sul problema della criminalità e delinquenza minorile ha contribuito a sviluppare le nostre
conoscenze su molti aspetti relativi al crimine,alle condizioni fisiche e psicologiche degli autori di reati,alle
condizioni sociali,familiari,culturali,di gruppo più frequentemente collegate al crimine.Da Lombroso in poi si
sono cercati dei segni fisiologici,costituzionali,genetici,ormonali,neurologici,in grado di distinguere e rendere
riconoscibile il criminale rispetto al non criminale,il cattivo,il perverso,il pericoloso sociale rispetto al
normale.Compiendo studi su centinaia di detenuti,Lombroso,nel 1876,nella sua opera più nota,L’uomo
delinquente,formulò la sua ipotesi del “delinquente nato” come tipo antropologico distinto,con tendenza a
commettere crimini,caratterizzato da anomalie,malformazioni e asimmetrie dello scheletro,del cranio e della
faccia,con altri segni fisici indicativi di degenerazione,come le dimensioni del cervello (troppo grande o troppo
piccolo),zigomi sporgenti,grandi orecchie,sopracciglia folte,naso storto,occhi strabici,ecc.Inoltre osservò
all’interno di questa sua tipologia,anche altre caratteristiche non fisiche,come la mancanza di senso
morale,l’uso di un gergo delinquenziale,disprezzo della morte e della sofferenza,tendenza al
tatuaggio,epilessia,vanità,crudeltà,pigrizia.Nel corso degli anni Lombroso delimitò al 35% di tutti i criminali la
quota dei delinquenti nati,sostenendo che questi dovevano possedere per essere considerati tali almeno cinque
delle caratteristiche proposte;aggiunse a tale categoria il “delinquente folle” e il “delinquente occasionale”,e
concluse il suo itinerario scientifico affermando che ogni delitto ha la sua origine in una molteplicità di cause.
Oggi gli studiosi non fanno più riferimento a quest’ipotesi per spiegare il comportamento criminale,ma dalla
fine dell’800 in poi,per alcuni decenni,molti ricercatori hanno accettato la tesi dell’ereditarietà del delitto,anche
se è sempre mancato ilo consenso su ciò che viene ereditato e su come avviene la trasmissione.Dapprima le
ricerche si sono orientate su quelle che venivano chiamate le “famiglie criminali”,che sembravano mostrare una
particolare concentrazione di delinquenti e devianti in genere.Agli studiosi di allora,queste famiglie apparivano
come esempi evidenti di una inevitabile trasmissione della devianza dai genitori ai figli,per
generazioni,probabilmente su base ereditaria innata.Gli innumerevoli lavori successivi non hanno confermato
quest’ipotesi,poiché la non rappresentatività dei campioni e le incompletezze metodologiche non hanno mai
consentito di affermare se viene trasmessa,nell’ambito di quelle famiglie,un’eredità “criminale” biologica,o
un’eredità deviante ambientale,culturale,di stili comportamentali,psicologica,ecc.
Alla fine degli anni ’40 Norwood East sembrava archiviare la questione affermando che le sue ricerche sugli
adolescenti criminale e tutte le sue esperienze di studioso non gli avevano mai fornito prove che la criminalità
in quanto tale fosse trasmissibile.
Però a partire dagli anni ’30,la questione dell’ereditarietà del crimine trasse nuovo impulso dalle ricerche sui
gemelli delinquenziali inaugurate dallo psichiatra tedesco Lange.L’obiettivo era quello di cercare di separare le
influenze biologiche da quelle ambientali,confrontando i destini sociali e criminali dei gemelli identici
(omozigoti) con quelli dei gemelli fraterni (dizigoti).Se i gemelli identici dovessero mostrare una maggiore
frequenza di “comportamenti concordanti” rispetto ai gemelli fraterni,risulterebbe evidente in quei casi uno
specifico ruolo della base ereditaria innata.Lange lavorò su gemelli istituzionalizzati nelle carceri bavaresi:trovò
dati per ricostruire la storia di 13 coppie di gemelli monozigote e 17 dizigote.Nel primo gruppo,in 10 casi
entrambi i gemelli avevano conosciuto l’esperienza del carcere;nel secondo solo in due casi c’era tale
concordanza.Le conclusioni tratte da questi dati sono state ampiamente dibattute e criticate,sia per il piccolo
numero di casi presi in esame,sia perché la maggior parte dei gemelli monozigoti avevano in comune anche lo
stesso ambiente di sviluppo,sia perché Lange aveva assunto come dato concordante o discordante la semplice
incarcerazione,che evidentemente non è un comportamento del soggetto,ma può avere alla base tipi anche
molto diversi di comportamento criminale,e perfino nessun tipo di azione deviante.
All’interno dell’approccio biologico-antropologico notevole fortuna ha riscosso la scuola del “tipo
corporeo”,secondo cui la conoscenza dell’organismo somatico umano permette di comprendere i suoi processi
psicologici.
Il più noto sostenitore di questo orientamento fu Ernest Kretschmer,uno psichiatra tedesco che mise in
relazione tre tipi costituzionali principali (l’astenico,l’atletico e il picnico) con forme specifiche di malattia
mentale (la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva).
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Sheldon si interessò della relazione tra la forma del corpo e tendenza verso la delinquenza.La sua tipologia
distingueva tre componenti costituzionali fondamentali:l’endomorfia che produce rotondità,la mesomorfia
caratteristica dei soggetti muscolosi e l’ectomorfia a cui corrisponderebbe la magrezza e la fragilità;a queste
componenti venivano associati determinati tipi di temperamento.In seguito ad uno studio su 200 ragazzi di una
casa di riabilitazione,Sheldon affermò che la costituzione dei mesomorfi,cioè dei soggetti muscolosi,si prestava
più favorevolmente come base per la delinquenza.
I coniugi Glueck,riprendendo la tipologia di Sheldon,misero in relazione questi tipi somatici con una lista di
tratti di personalità e di fattori socio-culturali.Dai risultati non emersero comunque prove sufficienti di una
relazione particolare e specifica tra aspetti fisici,caratteriali e ambientali,tale da sostenere e giustificare l’ipotesi
di una personalità predisposta alla delinquenza.
Le critiche effettuate nei confronti di queste ricerche riguardano essenzialmente la carenza delle metodologie
adottate;inoltre il campione preso in considerazione era spesso viziato in partenza,in quanto la popolazione
criminale veniva identificata con la popolazione istituzionalizzata.
Verso la metà degli anni ’60 gli studi criminologici si sono interessati del ruolo dei cromosomi sessuali nella
spiegazione del comportamento deviante.Questo tentativo è avvenuto in seguito alla scoperta di alcune
anomalie cromosomiche,tra cui la “sindrome dell’extra Y”,consistente nel fatto che alcuni individui di sesso
maschile ereditano un cromosoma sessuale in più,cioè presentano una situazione cromosomica XXY o XYY
(invece della normale coppia XY).I primi studi rilevarono una frequenza maggiore di queste anomalie in
soggetti maschi detenuti per crimini violenti,da cui venne ipotizzata una relazione tra sindrome dell’extra Y e
tendenza all’aggressività.Ricerche successive hanno invece evidenziato che non esistono prove sufficienti per
sostenere tali ipotesi.
Nonostante le continue critiche riemergono continuamente,da parte di studiosi di impostazione
neurologica,fisiopsicologica,ecc.,sempre nuovi tentativi di trovare fattori fisici costituzionali esplicativi del
comportamento deviante.
Una sintesi attuale di queste tendenze è quella che muove dallo studio dell’instabilità psicomotoria con
l’obiettivo di individuare un insieme di fattori neurologici che,quasi necessariamente,portano i ragazzi verso
carriere devianti.Questi fattori neurologici vengono considerati determinanti nella spiegazione di alcune
sindromi come il discontrollo episodico,il danno minimo cerebrale (DMC) e il disturbo della personalità
antisociale,sindromi che sarebbero frequentemente associate a comportamenti violenti e aggressivi.Ancora una
volta mancano,però,prove sufficienti per sostenere la validità di questi passaggi:non è stato dimostrato né il
ruolo significativo dei fattori genetici in queste sindromi,né il fatto che tali disturbi siano più frequenti nei
soggetti criminali e violenti.Il DMC è caratterizzato da un deficit della capacità di attenzione,impulsività e
iperattività,con o meno ulteriori segni neurologici e neuropsicologici.I sintomi di questa sindrome non possono
essere considerati predittivi rispetto a un’eventuale devianza in quanto si tratta,in genere,di fasi evolutive che
tendono ad attenuarsi con il tempo,fino a scomparire nel periodo adolescenziale.Le difficoltà manifestate
inizialmente da questi ragazzi (iperattività motoria,labilità attentava,ecc.) interagiscono con le risposte non
sempre adeguate dell’ambiente circostante che può non riuscire ad entrare in rapporto con queste persone per
rispondere ai loro specifici bisogni di socializzazione e apprendimento;si arriva così ad un irrigidimento dei
sintomi iniziali,da cui può derivare un comportamento aggressivo.
E’ necessario sempre mantenere distinte l’aggressività e la criminalità.L’aggressività può essere funzionale o
disfunzionale al comportamento criminale come a qualunque altro tipo di comportamento.Inoltre l’aggressività
non ha una base neurologica univoca;non esiste una prova sicura di “centri” neurali la cui stimolazione
provochi inevitabilmente aggressività.
Ogni azione violenta,criminale è specifica in relazione al soggetto che l’ha messa in atto,alla situazione,alle
particolari condizioni,e non può mai essere legata solo a un deficit neurologico o a lesioni cerebrali.
CAP. 2 SIGNIFICATI E LIMITI DELLE SPIEGAZIONI
PSICOPATOLOGICHE E PSICHIATRICHE I disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una causa idonea a spiegare il comportamento
criminale.Gli studi condotti su soggetti dimessi da istituzioni psichiatriche hanno messo in evidenza come la
percentuale dei reati commessa da queste persone non fosse superiore a quella del resto della popolazione.La
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malattia mentale non può essere considerata una causa diretta del comportamento criminale.Il malato mentale
può mettere in atto comportamenti aggressivi,violenti,che possono anche costituire reato da un punto di vista
del codice penale,ma tali reati non possono essere riferiti solo alla malattia mentale e devono essere invece
analizzati in termini di dinamica situazionale con la vittima,con gli altri partecipanti,con il contesto.
Nel nostro sistema legislativo,come in molti altri,il motivo principale che può stabilire l’imputabilità è la
malattia mentale.Accertare se un malato di mente è capace o meno di intendere e di volere è una questione che
va affrontata caso per caso ma non può essere generalizzata ai fini della spiegazione del comportamento
criminale.Se un soggetto che ha commesso un crimine viene dichiarato incapace di intendere e di volere in
quanto malato mentale,ciò non vuol dire che i malati di mente in genere siano incapaci di intendere e di volere.
La nevrosi,la psicosi,la personalità psicopatica,sono state considerate cause di predisposizione a comportamenti
criminali.Però,le ricerche partono da errati presupposti di generalizzazione.Vengono infatti scelti soggetti che si
trovano in carcere o in manicomio criminale,che hanno commesso dei reati e nel momento della commissione
del reato,o prima o dopo,che presentano una sintomatologia psicopatologica evidenziata,diagnosticata dagli
psichiatri.
Per quanto riguarda le psicosi,alcuni sintomi come deliri,allucinazioni,distacco dalla realtà,hanno indotto a
credere che l’imprevedibilità della condotta degli psicotici avrebbe potuto,in qualsiasi momento,sfociare in
comportamenti criminali.
Tra le varie forme di psicosi sono state prese in considerazione soprattutto la schizofrenia e la paranoia.La
schizofrenia,caratterizzata da profonde alterazioni della personalità e da una conseguente compromissione e
rottura del rapporto con la realtà,può provocare atteggiamenti bizzarri,disordinati,abnormi e fra questi possono
emergere azioni definite come reati.Ciò però non vuol dire che lo schizofrenico è un soggetto sempre e
comunque pericoloso e che la sua pericolosità è una conseguenza diretta di quei disturbi.Bisogna infatti
considerare anche i problemi legati ai disagi personali che derivano dalle alterazioni delle percezioni e delle
rappresentazioni mentali,molto frequenti in queste sindromi.Inoltre la pericolosità degli schizofrenici potrebbe
anche essere una risposta all’emarginazione,a un atteggiamento eccessivamente ostile dell’ambiente circostante.
Ugualmente,la rigidità dei “convincimenti” che si sviluppano nel paranoico con carattere di delirio e i suoi
sentimenti di grandezza e persecuzione possono portarlo a comportamenti di tipo aggressivo,violento,e anche
ad azioni che costituiscono reato;questi passaggi vanno però esaminati dal punto di vista dell’interazione tra
paranoico e ambiente.Il crimine non è un effetto puro e semplice della paranoia,ma è la risultante di un processo
che può essere ricostruito e in cui la vittima può aver svolto anche una parte attiva.Un’analisi processuale è
importante non solo per esaminare la situazione,ma anche per vedere come si sono formate e organizzate nel
soggetto quelle idee deliranti di persecuzione.E’ importante svolgere un’analisi processuale a più livelli che
tenga conto di come la malattia mentale si inserisce nel rapporto tra soggetto e comportamento,e tra
soggetto,comportamento e risposta degli altri nelle interazioni sociali,in moda da avere una spiegazione più
completa sia della malattia mentale che del comportamento criminale.
Un problema particolare che si incontra nel trattare il rapporto tra criminalità e nevrosi è quello relativo alla
definizione dello stesso termine di “nevrosi”.Si tratta di una categoria molto vasta,troppo spesso generalizzata e
confusa.E’ difficile individuare le componenti nevrotiche che caratterizzano la personalità di un delinquente in
quanto i disturbi nevrotici (ansia,insicurezza,fobie,nervosismi) fanno parte della realtà quotidiana di tutti e
possono diventare particolarmente evidenti nei periodi di maggiore stress.La nevrosi non agisce direttamente
sul comportamento criminale.Si tratta di una difficoltà personale che produce ansia,insicurezza;questi problemi
si ripercuotono nell’ambiente circostante,nella famiglia,nel lavoro,creando disagi nei rapporti che possono
accentuare le difficoltà del soggetto.
Uno dei concetti più usato in campo criminologici è quello di “personalità psicopatica”.Per “personalità
psicopatica” si intende una sindrome che presenta una serie di caratteristiche psicologiche comunemente non
accettate come normali (mancanza di senso morale,incapacità di apprendere dall’esperienza e dalle
punizioni,assenza di sensi di colpa,inaffettività,impulsività) che la rendono costantemente fonte di sofferenza
per sé e per gli altri.Lo psicopatico,conservando lucidità intellettiva e cognitiva,sarebbe incapace di stabilire
relazioni approfondite,di prevedere gli effetti del proprio comportamento,di mettersi nei panni degli altri;queste
caratteristiche farebbero di lui un soggetto portato al comportamento criminale,alla delinquenza.
E’ stata spesso sottolineata una caratteristica dello psicopatico riguardante la ripetitività di atteggiamenti e
comportamenti,una ripetitività che può coinvolgere anche atteggiamenti e comportamenti dannosi per la
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società.Ci si potrebbe chiedere perché questi comportamenti tendono a ripetersi,che cosa c’è alla base di questa
ripetitività,e bisognerebbe quindi ricostruire la storia del soggetto,i vari processi collegati con le interazioni,con
le rappresentazioni mentali e le elaborazioni cognitive del soggetto stesso.La ripetitività e la rigidità di queste
persone non è mai totale,ma riguarda solo alcune aree del comportamento.
Il concetto di personalità psicopatica è più uno stereotipo che una categoria scientifica e andrebbe quindi
eliminato.Ma anche nei manuali più recenti di criminologia il concetto permane.
Un tema importante è quello del rapporto tra intelligenza e criminalità;si riteneva che la maggior parte dei
criminali fossero persone con deficit intellettivi,con un’intelligenza scarsa,debole o perfino subnormali.Gli studi
più recenti hanno invece dimostrato che per alcuni tipi di reato come frodi,truffe,falsificazione della
moneta,sono stati trovati indici di intelligenza superiori alla media.
Certamente esiste il problema del debole di mente,esistono persone che presentano carenze nell’esprimere le
proprie potenzialità intellettive,che hanno una debole capacità di simbolizzazione e concettualizzazione,tutti
aspetti che possono causare difficoltà,momenti di conflitto nelle interazioni con gli altri,in quanto queste
persone,non avendo sviluppato le più astratte competenze cognitive,simboliche,concettuali,possono usare più
frequentemente l’azione come modalità di difesa e di risoluzione dei problemi;ciò però non significa che il
debole di mente sia più portato a commettere reati.
Nell’adolescenza raramente si manifestano quadri patologici definiti.Potrebbero insorgere dei disturbi
psicotici,ma che conservano comunque una notevole potenzialità di reversibilità e di evolutività.Riguardo la
nevrosi è difficile fare una diagnosi precisa di questo tipo in adolescenza,si preferisce invece parlare di modalità
nevrotiche che hanno un carattere temporaneo e che frequentemente tendono a sfumare e a scomparire
nell’adulto.E’ ancora più fuorviante usare le categorie della personalità psicopatica per la delinquenza
minorile.Definire un minorenne come psicopatico significa trascurare le sue potenzialità evolutive.Nella
classificazione nosografia proposta dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV)
dell’American Psychiatric Association,le condotte socialmente inadeguate ad esordio infantile rientrano per lo
più all’interno della categoria di “Disturbi da Deficit di Attenzione e da Comportamento dirompente”.Vi sono
in particolare:il “Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività”,il Disturbo della Condotta”,il “Disturbo
Oppositivo-Provocatorio”.La prima di queste sindromi conosciuta anche come “ipercinetica” include una serie
di manifestazioni che compaiono in genere prima dei 7 anni specialmente nelle situazioni di gruppo:invasione
nell’attività altrui,difficoltà a rispettare il proprio turno nella relazione o nel gioco strutturato.Nel caso
dell’adolescente,l’iperattività motoria tenderebbe in genere ad attenuarsi o a scomparire,lasciando il posto ad
una difficoltà nel controllo degli impulsi che può sfociare in un’infrazione delle regole familiari,interpersonali e
scolastiche.
Nei “Disturbi della Condotta” rientrano comportamenti che trovano la loro specificità nel conflitto
sociale:aggressioni,menzogne,disobbedienze,furti,fenomeni di vandalismo,fughe da casa,precocità
sessuale,abuso di alcolici e droghe.Tali problematiche tendono ad emergere frequentemente in epoca
scolare,nella fase,cioè,di sperimentazione delle appartenenze extra-familiari.
Numerose sono state le ricerche longitudinali avviate per verificare il significato predittivo dei disturbi precoci
della condotta in relazione allo sviluppo di successivi comportamenti delinquenziali.Le manifestazioni ad
esordio adolescenziale si presentano più comunemente in forme socializzate,sembrano più lievi e tendono a
risolversi negli anni.Le manifestazioni precoci,invece,comparse prima del decimo anno di età,sono
caratterizzate in genere dalla predominanza di un comportamento fisicamente aggressivo verso gli
altri,difficoltà di integrazione sociale e mostrano un maggiore rischio di residuare il disturbo anche in età
adulta.Questo secondo gruppo prevede,rispetto al primo,una probabilità maggiore di sviluppare un successivo
“Disturbo di Personalità Antisociale”.
Il “Disturbo Oppositivo-Provocatorio” è caratterizzato da forme ostili,litigiose,ma che non mostrano
ripetutamente aggressioni e violazioni delle norme.Queste forme assumono una rilevanza clinica tra l’ottavo
anno di età e la prima adolescenza.La comparsa dell’oppositività,invece,nell’adolescenza vera e propria,viene
riferita al bisogno di autonomia e di individuazione affettiva che caratterizzata questa fase della vita ed è
ascritta pertanto ad un ambito di normalità e di significato evolutivo.
Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio ha maggiore prevalenza nelle famiglie in cui l’accudimento del bambino è
turbato da un susseguirsi di diverse persone,o in famiglie in cui sono comuni pratiche educative
rigide,incoerenti o distratte.
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Ci sono,poi,i “Disturbi del Controllo degli Impulsi”.A differenza delle compulsioni vere e proprie,con le
quali condivide la persistenza e l’invasività,il comportamento impulsivo si accompagna a un’esperienza di
piacere o liberazione al momento in cui viene eseguito.
Abbiamo in particolare il “Disturbo Esplosivo Intermittente”,caratterizzato da crisi brevi ed episodiche di
perdita del controllo dell’aggressività,tali da poter sfociare in atti distruttivi nei confronti delle proprietà;la
“Cleptomania” ossia l’incapacità di resistere alla tentazione di rubare oggetti indipendentemente dalla loro
utilità e dal valore commerciale;la “Piromania” cioè la tendenza deliberata e finalizzata a produrre incendi.
Il “Disturbo della personalità” si ha quando la difficoltà di rapportarsi a sé e agli altri non rimane confinata a
uno stadio dello sviluppo,ma tende a stabilizzarsi nel tempo.La caratteristica essenziale è un modello di
comportamento che devia rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo,e si manifesta in almeno due delle
seguenti aree:cognitiva,affettiva,interpersonale o controllo degli impulsi.
Tra le diverse diagnosi proposte ci sono:il “Disturbo Antisociale di Personalità” e il “Disturbo Borderline di
Personalità”.Il Disturbo Antisociale di Personalità raggruppato insieme a quello Borderline,Istrionico e
Narcisistico si manifesta sin dall’età di 15 anni.Tratti caratteristici sono:inadattabilità alle norme sociali o agli
standard del gruppo,tendenza all’inganno,incapacità di riflettere sul proprio
comportamento,aggressività,irresponsabilità,mancanza di rimorso.
La sindrome borderline è caratterizzata da un’instabilità interpersonale ed affettiva,impulsività e un marcato
disturbo dell’identità personale:condotte dannose per sé e per gli altri,collera,impulsività nelle spese,disturbi
alimentari,pratiche sessuali indiscriminate,abusi di sostanze,guida spericolata,ecc.Un senso di sé incoerente e
scarsamente integrato è alla base delle sensazioni di vuoto e di noia in questi soggetti.Le intense oscillazioni
dell’umore testimoniano una marcata instabilità della sfera affettiva.La presenza di rabbia come emozione
prevalente sembra evidenziare una vita relazionale intensa ma precaria,soggetta all’alternanza tra
l’iperidealizzazione e la svalutazione dell’altro e dominata dal timore di un potenziale o temporaneo abbandono
che spesso finisce con il trasformare i forti vissuti di dipendenza in risentita ostilità.E’ uno stile
comportamentale che può sfociare in minacce di suicidio o in agiti autolesivi.
CAP. 3 L’INFLUENZA DELLE DROGHE Il problema della tossicodipendenza e dell’alcolismo è legato a qualcosa di esogeno,la sostanza che viene
introdotta nell’organismo e che produce delle modifiche fisiologiche e psicologiche.
Ci troviamo di fronte a un forte stereotipo sociale che considera la tossicodipendenza e l’alcolismo strettamente
collegati alla criminalità.Ma le ricerche statistiche propongono spesso il difetto del falso campione.Il
fenomeno,infatti,è molto più diffuso di quanto si crede e si sappia.C’è un vastissimo “numero oscuro” di
tossicodipendenti e alcolisti con caratteristiche psicologiche,sociologiche,culturali,ambientali,ben diverse da
quelle del gruppo di tossicodipendenti istituzionalmente noti.I dati di cui disponiamo non sono quindi
oggettivi,generalizzabili,in quanto mancano rilevazioni attendibili sull’intera popolazione coinvolta in queste
problematiche.
In genere si distingue fra un rapporto “diretto”,che riguarda i reati commessi “sotto l’effetto delle droghe”,e un
rapporto “indiretto”,inerente invece la delinquenza strumentale alla necessità di procurarsi la droga,alla
criminalità legata allo spaccio,al traffico delle droghe,a certe aree e subculture devianti.
Vi sono sostanze stimolanti,altre che rallentano l’attività della mente,altre che modificano la percezione della
realtà.Queste alterazioni non sono uniformi e costanti,ma dipendono da una serie di variabili,di dimensioni
psicologiche,culturali,che modificano lo stesso effetto che la sostanza produce sia a livello psicologico che
fisiologico.Sono determinanti i fattori legati al singolo individuo che fa uso di droghe,come l’età,la
personalità,l’atteggiamento,le componenti imitative e di sfida.Importanza hanno anche il tipo di contesto in cui
avviene l’assunzione,se c’è o meno l’approvazione dell’ambiente circostante,il tipo di legame che si viene a
creare tra i consumatori,ecc.
Non è stata dimostrata una relazione diretta tra assunzione di droga e commissione di reati;è la persona a
mettere in atto i propri comportamenti:la sostanza può interagire insieme ad una serie di altri fattori,ma non
impedisce la mediazione cognitiva,anche se può alterarla.
E’ necessario operare delle distinzioni riguardo al tipo di droga o al grado di tossicodipendenza.
Per quanto riguarda il nesso diretto,le sostanze a effetto depressivo,come gli oppiacei (morfina,eroina,ecc.)
generalmente non sono associate alla violenza,in quanto provocano uno stato di rilassamento generale,sia pure
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con variabili soggettive.Il legame tra eroina e criminalità quindi è soprattutto di tipo indiretto,dovuto alla
necessità di procurarsi dosi sempre maggiori a prezzi altissimi;frequenti fra questa popolazione sono i reati
contro la proprietà.
Vengono considerate sostanze particolarmente dannose gli stimolanti,soprattutto le anfetamine e la cocaina,le
quali,se assunte per lungo tempo e per dosi massicce,possono alterare la percezione della realtà alimentando
idee allucinatorie di tipo paranoico.Ma neanche qui si può parlare di un rapporto diretto tra droghe e
comportamento criminale;queste sostanze preparano il terreno alla violenza in persone che hanno già strutturato
disposizioni aggressive.Anche per quanto riguarda droghe come l’LSD e altri allucinogeni che producono
alterazioni a livello cognitivo,percettivo,motorio,non ci sono prove che dimostrano che queste sostanze causino
violenza e aggressività.
Molti crimini violenti sono legati all’assunzione di alcol.Questo però non ci permette di affermare che
l’alcolismo causi la criminalità.L’alcolismo come malattia è un problema alquanto diffuso e se andiamo a
vedere i reati a carico di questi soggetti,essi probabilmente non sono superiori a quelli del resto della
popolazione.L’alcol agisce rapidamente sul sistema nervoso centrale interferendo sui centri inibitori;ciò
significa che può abbassare la soglia di controllo rispetto a qualsiasi tipo di comportamento e non solo rispetto
al comportamento criminale.Si parla molto spesso di violenze e omicidi in famiglia (in particolare uxoricidi),in
cui l’alcol è uno dei tanti fattori implicati,ma non necessariamente l’unico e non necessariamente tali azioni
sono causate direttamente dall’alcol.E’ probabile che quell’omicidio,quella violenza siano dovuti a un periodo
di conflitti,di deterioramento del rapporto tra i coniugi forse collegato con l’inizio dell’alcolismo.Il soggetto in
stato di intossicazione cronica o acuta si trova come se non riuscisse a utilizzare tutte le sue competenze sociali
(controllo,capacità di gestire le situazioni,di rapportarsi agli altri,di ottenere riconoscimenti e di evitare
svalutazioni,ecc.),queste condizioni possono provocare risposte più problematiche da parte delle persone con
cui entra in rapporto,si possono instaurare dimensioni relazionali contorte da cui il soggetto forse ritiene di non
poter più uscire se non attraverso un comportamento violento,aggressivo.
Lo stato attuale delle ricerche è che nessuna droga,né l’LSD,né le anfetamine,né l’alcol determinano in modo
specifico un qualche tipo di comportamento sociale.Queste sostanze possono disorganizzare i
comportamenti,creare varie difficoltà,modificare la percezione,la rappresentazione della realtà,ma bisogna poi
vedere come il soggetto è arrivato ad assumere quelle sostanze e poi a mettere in atto il comportamento
criminale.
Più rilevanti sono i rapporti indiretti tra droga e comportamenti devianti.Un primo effetto indiretto è legato alle
droghe illegali e al loro alto prezzo sul mercato;nel momento in cui c’è una dipendenza dalla sostanza,il costo
alto può facilitare una commissione di reati.Il soggetto ruba per procurarsi la “roba”;quel reato non è quindi una
conseguenza diretta della sostanza,ma è legato a processi sociali.
Un altro effetto indiretto è legato al fatto che l’acquisto delle droghe illegali porta i giovani a contatto con
ambienti criminali.Ciò può facilitare la permanenza in questi ambienti o l’abitudine a frequentarli.La
criminalità ha interesse affinché la tossicodipendenza si diffonda e attrae soggetti emarginati,che si orientano
verso le zone della devianza e tende a inserirli nel sistema della droga dove diventano fonti stabili di guadagno.
Per un adolescente l’effetto “diretto” è ancora più marcato,in quanto per un’identità psicofisica non
consolidata,ancora in evoluzione,le varie droghe possono avere conseguenze più forti.
La commissione di reati per procurarsi la droga sarà più probabile per i giovani,in quanto soggetti in genere
senza reddito o comunque con un reddito troppo basso rispetto al notevole costo delle sostanze.
Becker identifica tre momenti nella carriera deviante:
- il primo passo consiste nell’eseguire un atto che infrange un determinato insieme di norme;
- il secondo è rappresentato dall’esperienza di essere etichettato come deviante.Tale definizione ha delle
conseguenze sul soggetto che deve riorganizzare la sua identità sulla base del ruolo che gli hanno attribuito;
- il terzo passo consiste nell’entrare a far parte di un gruppo deviante organizzato.
Come Becker stesso ha scritto,il suo maggiore studio della devianza in generale,e quindi della
tossicodipendenza,è quello di aver fornito un modello di ricerca che permette di analizzare i fenomeni come
processi e non come prodotti di fattori e cause antecedenti.Sulla base di questo modello sequenziale si è cercato
di prefigurare tre fasi del percorso costruttivo della devianza.
La prima fase riguarda gli antecedenti storici della devianza.Si tratta di fattori come carenze
infantili,deprivazioni genitoriale,rapporti conflittuali,nodi psicopatologici.Si parla di indicatori di rischi
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aspecifici,poiché queste precondizioni,anche se sono presenti in molte carriere devianti,rimangono tuttavia
aperte ad esiti di tipo diverso,non deviante.
La seconda fase riguarda in genere un periodo di breve durata,ma intenso,in cui emerge nella storia del soggetto
una crisi che si manifesta in episodi devianti.Si tratta di una fase molto rischiosa in cui gli antecedenti storici
possono riorganizzarsi ed essere filtrati dalla crisi con il risultato della comparsa della devianza.Nonostante
tutto,però,tale processo tende a rimanere aperto verso altri percorsi con un aumento,però,di sensibilità verso le
interazioni devianti.
La terza fase riguarda la probabilità di stabilizzazione del percorso deviante che può risultare tormentata e
molto lunga nel tempo.Sembra caratterizzata dalla tendenza a usare la devianza come funzione selettiva per
attrarre comportamenti,emozioni e pensieri,con il risultato di un progressivo irrigidimento del percorso e una
meno probabile apertura verso altri percorsi di vita alternativi alla devianza.
Si è cercato,mediante una ricerca su un gruppo di tossicodipendenti (1992),di ricostruire la loro carriera
tossicomania e di comprendere il processo attraverso il quale sono divenuti tossicodipendenti.Si è preso in
considerazione un gruppo di cinque tossicodipendenti che stavano in una comunità terapeutica del Lazio per
compiere un percorso su loro stessi dopo la decisione di smettere di drogarsi.
Il metodo privilegiato è quello clinico-casistico di tipo longitudinale.Esso è un metodo che permette di cogliere
gli aspetti evolutivi di un fenomeno,di acquisire informazioni non solo sulla presenza o sull’assenza di
comportamenti devianti,ma anche sui cambiamenti del comportamento nel tempo.
Con il metodo longitudinale è stato possibile condurre la ricerca in modo retrospettivo attraverso
l’autobiografia,intesa nel senso di un racconto di ciò che si pensa di aver fatto,in quali situazioni,come e per
quali ragioni soggettive.L’autobiografia è un racconto fatto da un narratore,riguarda un protagonista che porta il
suo stesso nome e la storia finisce nel presente quando il protagonista si fonde con il narratore.
La tecnica utilizzata per ricostruire la carriera del tossicodipendente è stata un’intervista clinica sulla storia di
vita dei soggetti a partire da una domanda in cui si chiede di parlare dei diversi periodi della propria vita,dei
diversi periodi di rapporto con la droga,e di dire come è avvenuto il passaggio da un periodo all’altro.Questa
domanda ha come presupposto che i diversi periodi della vita e quindi della carriera del tossicodipendente
hanno livelli di autonomia l’uno rispetto all’altro.In ogni periodo ci sarebbe la riorganizzazione di
relazioni,comportamenti,emozioni e pensieri ad opera di nuovi eventi che diventano predominanti in quel
periodo.
Per analizzare le interviste realizzate,è stata elaborata una “griglia di lettura” composta da 4 categorie attraverso
le quali è stato filtrato il contenuto delle interviste:
1) Autoattribuzioni: qualità e caratteristiche che il soggetto attribuisce a se stesso;
2) Eteroattribuzioni: qualità e caratteristiche che gli altri attribuiscono al soggetto;
3) Espressioni indirette: espressioni pronunciate dal soggetto che rivelino indirettamente le qualità e le
caratteristiche del Sé del soggetto;
4) Posizionamento della soggettività agente: è l’indicatore del Sé agente e può essere scomposto a sua volta in
due sottocategorie:
- attività/passività: a seconda del tipo di orientamento verso l’azione
- responsabilità/non responsabilità: in relazione al senso di controllo delle proprie azioni.
Si è riscontrata la presenza di cinque fasi.
Il primo periodo comprende l’infanzia e la prima adolescenza.I soggetti raccontano di avere un padre rigido e
autoritario che impone regole e comportamenti o un padre assente che ha abbandonato la famiglia;altri elementi
frequenti sono il conflitto tra i genitori,le punizioni senza spiegazioni,le difficoltà di comunicare con i genitori
stessi.Tutti i soggetti si definiscono bambini vivaci,socievoli,amanti della compagnia,vitali.
Il secondo periodo comprende l’adolescenza,caratterizzata dalle prime esperienze al di fuori della famiglia.I
comportamenti aggressivi,le violenze contro gli altri,la ribellione contro i genitori,i primi contatti con le
sostanze,sono tutte espressioni di una rabbia interna,di una difficoltà di comunicare le proprie emozioni e i
propri pensieri.Il problema rilevante sembra essere quello di spiegare come si sia potuti passare da un periodo
infantile in cui i soggetti sono socievoli,vivaci,amanti della compagnia e della vita,a un periodo in cui si
descrivono come introversi,chiusi in se stessi,con una rabbia interna che hanno bisogno di scaricare attraverso
comportamenti a rischio.Una possibile spiegazione sembra individuabile nel fatto che alle carenze infantili si
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aggiungono nuovi eventi come l’impatto duro con una realtà esterna alla famiglia,o la morte di una persona cara
o l’incontro occasionale e ricercato con individui devianti.
Il terzo periodo è quello in cui si inizia a saggiare la possibilità della tossicodipendenza.Per alcuni c’è il primo
impatto con l’eroina,per altri con l’alcol,le anfetamine,gli acidi,gli psicofarmaci,l’haschisch.Emergono altri
eventi come il peggioramento delle situazioni familiari,il vissuto di solitudine e di abbandono,il contatto con
persone tossicodipendenti che spiegano gli effetti positivi e piacevoli della droga.Ed è proprio l’apprendimento
di questi effetti,il superamento di situazioni di noia,l’assopimento di problemi,paure,malesseri,che favorisce la
continuazione dell’assunzione.I soggetti non si percepiscono tossicodipendenti perché per loro i
tossicodipendenti sono i vigliacchi,i passivi,quelli che hanno perso rispetto per sé e per gli altri,mentre loro
continuano a studiare,a lavorare,a essere rispettati e riescono perfino a nascondere la loro situazione.Questo
significa che la tossicodipendenza non occupa tutta la vita del soggetto che rimane aperta a nuove possibilità.
Il quarto periodo è caratterizzato dalla tendenza all’autodistruzione.L’arresto da parte dei carabinieri e la
conseguente esperienza carceraria,l’overdose,la percezione di essere un vero tossicodipendente sono eventi che
riorganizzano le relazioni,i pensieri,le emozioni,con il risultato che ora la più probabile via percorribile sembra
quella della tossicodipendenza.
Dopo un periodo di oscurità e di chiusura,il percorso si riapre verso nuove possibilità.I soggetti sono
consapevoli di aver toccato il fondo nella propria carriera tossicomania e ciò permetta la riflessione e la
possibilità di scegliere tra la morte e la vita;se questa consapevolezza non c’è,allora la possibilità di scegliere
non si presenta e l’unica via percorribile è quella che porta alla morte.Tale consapevolezza è il risultato di nuovi
eventi ed esperienze che possono essere la permanenza in carcere,il sostegno emotivo dei genitori e delle
persone care,il vedere un amico nel quale ci si rispecchia morire di overdose,l’overdose stessa.
CAP. 4 L’EVOLUZIONE DEI CONTRIBUTI PSICOLOGICI Il contributo psicologico allo studio della devianza e della criminalità cerca di individuare caratteristiche di tipo
fisiologico,psicologico,psichiatrico o caratteristiche di personalità particolari,che possono differenziare il
delinquente,il deviante dal resto della popolazione.
Però la psicologia si è limitata a usare test,a parlare di tratti di personalità,di psicologia della personalità,di
apprendimento sociale,contributi che hanno senz’altro una loro validità,ma che si rivelano insufficienti e
incompleti di fronte alla complessa articolazione e all’estrema differenziazione del problema della devianza.E’
importante comunque prendere in considerazione questi tipi di studi.
Psicologici e psicanalisti hanno utilizzato strumenti clinici e in particolare test di personalità.E’ stato
frequentemente usato l’MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) per confrontare le caratteristiche
di personalità dei delinquenti rispetto ai non delinquenti.I risultati non hanno rivelato relazioni tra elementi di
personalità e criminalità,e sono stati anche sottoposti a due critiche fondamentali.La prima riguarda i dubbi
espressi circa l’effettiva capacità dell’MMPI di differenziare i tratti di personalità delinquenziali da quelli non
delinquenziali.L’altra critica consiste nel fatto che i tratti di personalità possono eventualmente avere un
qualche significato rispetto ad alcuni tipi di reato,ma non rispetto alla criminalità in genere.
La categoria comportamento criminale comprende infatti condotte e azioni molto complesse e diverse fra
loro,che non possono certo essere spiegate basandosi solo ed esclusivamente su costanti di personalità.
Anche gli studi che si sono interessati alle relazioni più specifiche tra singoli tipi di reato e tratti di
personalità,non hanno dato risultati indicativi in quanto è comunque difficile trovare tipologie omogenee:ogni
tipo di reato infatti non è un comportamento univoco,ma estremamente differenziato al suo interno.
Un altro test utilizzato è il Rosenzweig Picture-Frustration Study,per valutare l’orientamento dell’aggressività e
della punitività;si pensava che la delinquenza fosse associata con l’extra-punitività,cioè con una tendenza a
considerare persone o oggetti esterni come responsabili delle proprie frustrazioni.La scarsa chiarezza dei
risultati non ha permesso di ritenere valida quest’ipotesi,anche perché i gruppi di campioni utilizzati,oltre a non
essere rappresentativi della popolazione criminale,non erano affatto omogenei e costanti,ma si differenziavano
molto a seconda dei casi.
Alcuni autori hanno individuato tratti di personalità come l’immaturità,la mancanza di
adattamento,l’indifferenza affettiva,che sembravano collegarsi con comportamenti criminali,ma si tratta di
categorie profondamente discusse.Non tutte le personalità immature o scarsamente adattate mettono in atto
comportamenti devianti,criminali.Il concetto di “personalità delinquenziale” è stato criticato perché basato sul
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confronto dei tratti di un individuo ignorando la personalità globalmente considerata e perché non valorizza gli
aspetti evolutivi e dinamici di un individuo e l’importanza dei processi interattivi e interpersonali.
Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’aspetto differenziale fosse dato dalle condizioni di oppressione vissute
dai soggetti:vita familiare difficile,esperienze negative,istituzionalizzazione,mancanza di
lavoro,emarginazione,ecc.;a maggiori condizioni di oppressione poteva corrispondere una maggiore tendenza
all’aggressività e all’extra-punitività.Questi studiosi hanno trovato delle relazioni tra gradi di oppressione e
delitti,anche in relazione alla gravità dei delitti,ma altri autori hanno criticato queste ricerche mettendo in
evidenza che le popolazioni utilizzate non erano omogenee e che non era ben chiaro cosa si intendesse per
grado di oppressione.
Secondo la teoria della frustrazione-aggressività di Dollard e dei suoi collaboratori,a ogni frustrazione segue
sempre una qualche forma di aggressività.Questi autori sostenevano che i criminali fossero persone con una
minore capacità di tolleranza alla frustrazione o che,nella loro vita,fossero stati sottoposti a una quantità
maggiore di frustrazioni.
Molte sono le critiche nei confronti di questi lavori,innanzitutto per una difficoltà a chiarire termini come
“frustrazione” e “aggressività”.Spesso la definizione di frustrazione è così vaga da diventare quasi sinonimo di
“esperienza spiacevole”;inoltre la gravità di una frustrazione varia in base alle mete che si vogliono raggiungere
o all’intensità delle aspettative deluse.E’ stato dimostrato che non c’è un rapporto diretto tra frustrazione e
aggressività;l’aggressività è solo una delle risposte possibili.Alcuni esperimenti hanno dimostrato che la
risposta a un’esperienza frustrante può variare in base al fatto che siano presenti o meno altre persone e in base
a quali persone siano presenti.
Thomas ha evidenziato quattro bisogni fondamentali dell’età evolutiva che possono essere fonti di
frustrazione:il bisogno di sicurezza,di fare nuove esperienze,di avere risposta e di riconoscimento da parte degli
altri.La frustrazione di questi bisogni,quando supera certi limiti,potrebbe favorire comportamenti
antisociali,devianti.
Il nucleo centrale della teoria di Bandura ruota attorno alle nozioni di “determinismo triadico
reciproco”,human agency,perceived self efficacy e moral disengagement.Con la nozione di “determinismo
triadico reciproco” Bandura intende che l’azione compiuta è sempre il risultato di un’interazione tra
persona,ambiente e condotta.Qualsiasi cosa una persona pensi o voglia può generare un comportamento che
inciderà sull’ambiente circostante;allo stesso modo,il luogo o la situazione,nella quale il soggetto si
trova,influenzerà i pensieri,le aspettative e di conseguenza anche il comportamento;il comportamento che verrà
prodotto dal soggetto imporrà a sua volta delle modifiche sia sull’ambiente sia sulla persona stessa.
Human agency,secondo Bandura,è una proprietà delle mente umana,per cui è in grado di reagire non solo a
stimoli esterni e biologici,ma anche di agire attivamente nel mondo.Per agire attivamente nel mondo,l’uomo ha
bisogno di alcune capacità fondamentali:
- la capacità di simbolizzare attraverso la quale il soggetto è in grado di trasformare le esperienze in simboli,sia
di tipo verbale sia immaginativo,questi formano dei modelli interni,che sono in grado di dare significato e
continuità al rapporto tra l’individuo e la realtà;
- la capacità di anticipare;
- la capacità di apprendimento per imitazione che permette di aumentare il proprio repertorio
comportamentale,senza dover sperimentare sulla propria persona nessun tipo di azione,ma osservando quella
altrui;
- la capacità di autoriflessione;
- la capacità di autoregolazione.
La terza delle componenti centrali della teoria di Bandura è l’autoefficacia percepita.L’autore considera
importante la capacità che il soggetto ha di portare a termine un compito.La convinzione di riuscire può
condizionare l’esito al di là dell’impiego reale delle risorse interne del soggetto e delle opportunità che
l’ambiente è in grado di offrire.
Il disimpegno morale è stato studiato da Bandura allo scopo di individuare quali strategie cognitive-sociali
utilizzano gli individui per svincolarsi dalle norme e dalla responsabilità.Si tratta di processi che le persone
possono utilizzare,individualmente o in gruppo,sia prima che durante e dopo azioni trasgressivi o comunque
implicanti responsabilità.Un costante utilizzo di questi meccanismi sembra legato con un probabile
orientamento verso la devianza.
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Secondo Bandura le modalità di disimpegno morale sono:
a) “la giustificazione morale”,attraverso la quale il comportamento reprensibile viene considerato accettabile
attribuendone la causa a scopi socialmente e moralmente elevati;
b) “l’etichettamento eufemistico”:l’uso di un linguaggio eufemistico consente di trasformare azioni in sé non
accettabili in accettabili;
c) “il confronto vantaggioso”:un’azione riprovevole viene resa più accettabile attraverso il confronto con
un’azione ancora più riprovevole;
d) “il dislocamento della responsabilità”:la responsabilità delle proprie azioni viene subordinata alla volontà di
un’autorità superiore ,con il risultato di considerarsi non più responsabili;
e) “la diffusione della responsabilità”:ad altri specifici o in senso generale;
f) “la distorsione delle conseguenze”:ignorare e distorcere gli effetti delle proprie azioni;
g) “la de-umanizzazione della vittima”,per cui vengono attribuite caratteristiche non umane o spregevoli alla
vittima.
Tra i contributi della psicanalisi in questo campo il più noto è quello che ha inaugurato la categoria del
“delinquente per senso di colpa”.Secondo Freud e altri autori successivi,il alcuni individui il delitto ha la
funzione di alleviare il loro senso di colpa collegato alla fantasia inconscia,edipica,del parricidio e
dell’incesto.Freud aveva notato come in alcuni criminali il senso di colpa era molto più intenso prima della
commissione del reato e non dopo,per cui aveva ipotizzato che questo senso di colpa funzionava come
meccanismo attivante l’azione criminale.Il crimine e la ricerca di punizione sono legati al bisogno di attenuare
il senso di colpa.Il soggetto può in questo modo sentirsi colpevole per reati che ha veramente commesso:per
aver rubato,per aver ucciso una persona e non per l’inconscia e angosciante fantasia edipica.In tali situazioni il
delitto può portare al sollievo psichico solo se viene scoperto.Ciò spiega perché spesso questi delinquenti
commettono i loro delitti in modo da farli scoprire,e perché mostrino così spesso un desiderio irresistibile di
confessare,a volte persino mentendo.
Reik aveva evidenziato come grossi criminali si erano traditi con atti mancati,lasciando delle tracce che
avevano portato alla loro scoperta.Per Reik questi atti mancati erano dovuti al senso di colpa e alla ricerca di
punizione.
Gli psicanalisti quando tentano di spiegare il comportamento deviante prestano attenzione soprattutto
all’organizzazione dell’Io e del Super-Io (posto che l’Es è asociale per definizione).
Il soggetto è tanto più responsabile quanto più risulta una partecipazione dell’Io cosciente al comportamento
deviante.
Se non con maggiore frequenza si sottolineano anche le funzioni del Super-Io.Johnson e Szurek hanno
evidenziato come un Super-Io mal strutturato,carente o lacunoso,possa facilitare comportamenti
devianti.Alexander e Staub parlavano anche di Super-Io criminale,quando il soggetto è cresciuto in una cultura
che contiene indicazioni positive nei confronti della criminalità;o di criminale genuino caratterizzato da una
carenza totale di Super-Io.
Adler ha elaborato una teoria del “complesso di inferiorità”.Un complesso di inferiorità può indurre a
commettere un delitto poiché questo è il modo migliore per attrarre su di sé l’attenzione,per diventare il centro
dell’interesse e compensare la propria inferiorità.
I contributi psicologici che sono rimasti più a lungo nella letteratura criminologica minorile sono quelli di
Mead.L’interesse di Mead è centrato sulla condotta sociale dell’individuo,cioè sulla condotta di un individuo
inserito in un sistema di rapporti all’interno dei quali si confronta con la sua esperienza interiore e con i
problemi legati alla sua appartenenza a un gruppo sociale.Attraverso questo processo di interazione sociale
l’individuo cresce acquistando la capacità di interpretare i gesti che mette in atto e di anticipare le conseguenze
delle proprie azioni.Ciò si realizzerebbe grazie a due meccanismi che contraddistinguono la mente umana:la
caratteristica interpretativa e soprattutto quella riflessiva.L’interpretazione riflessiva permette all’individuo di
valutare le proprie azioni secondo le interpretazioni che potrebbero darne gli altri.
Mead concepisce la mente come un complesso sistema organizzato secondo tre formazioni interdipendenti che
chiama Io-Mè-Sé.
Il Me rappresenta l’organizzazione interiorizzata degli atteggiamenti,delle immagini,delle definizioni degli altri
nei nostri confronti.
L’Io rappresenta l’organizzazione delle nostre risposte interne agli atteggiamenti altrui.
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Dal continuo scambio tra queste due dimensioni emerge il Sé come sistema differenziato e autonomo rispetto
agli altri e che rappresenta la base per l’identità.E’ grazie al Sé che l’uomo può essere oggetto delle proprie
azioni,può agire verso se stesso come verso gli altri.
La teoria dell’identità utilizzata nello studio della devianza minorile si riferisce al lavoro svolto da Erikson e da
altri psicologi e psicanalisti di impostazione psico-sociale.Erikson evidenzia come nell’adolescenza,per una
serie di cambiamenti legati alla crescita,allo sviluppo della sessualità,alla modifica dei rapporti interpersonali,si
determina una “crisi d’identità”.Questa crisi è legata alla ricerca di un nuovo vissuto di continuità e unità che
deve tener conto dei limiti e delle esigenze non solo della famiglia,ma anche della società.E’ in questo periodo
che può iniziare un’organizzazione dell’identità in termini devianti.L’adolescente potrebbe esprimere la sua
perdita del senso di identità,i suoi conflitti,attraverso quella che Erikson chiama “la scelta di identità
negativa”,cioè un’identità fondata su quelle identificazioni e quei ruoli che erano stati presentati come
indesiderabili o pericolosi.
Mailloux ha elaborato una teoria centrata sul concetto di “identità negativa”,mettendo in evidenza come in un
bambino giochino un ruolo fondamentale le aspettative,la fiducia che vengono emanate nei suoi confronti dalle
persone per lui significative.Se percepisce dall’ambiente circostante messaggi negativi,di sfiducia,di mancanza
di stima,potrebbe assumere un’immagine di Sé che lo caratterizza come diverso dagli altri,cattivo,predestinato
al male e quindi fa corrispondere il suo comportamento a ciò che in realtà da lui si attendono gli altri.
Un altro importante contributo riguarda le ricerche di un gruppo di studiosi dell’Università di Oxford
(Marsh,Rosser,Harrè),che si sono occupati delle violenze giovanili e dei disordini nelle scuole e negli stadi di
calcio.Alcuni risultati evidenziano che i gruppi di giovani,nello stadio e nelle scuole,non esprimono violenza
disordinata,gratuita,ma producono situazioni complesse nelle quali l’aggressività è per lo più ritualizzata in
forme simboliche che hanno un significato di comunicazione,competizione,conflitto fra
individui,ruoli,gruppi.Questa forma rituale,”ordinata”,di violenza può degenerare e produrre morte e violenza
incontrollata soprattutto quando entra in relazione con forme violente di controllo sociale.
CAP. 5 LE RICERCHE SU FAMIGLIA E DELINQUENZA MINORILE Nella letteratura criminologica minorile l’ambiente familiare occupa un posto centrale per l’influenza che la
famiglia ha nello sviluppo del soggetto,nella formazione della sua personalità e per la sua funzione di filtro tra
l’individuo e la società.Molti autori hanno cercato di fornire una lettura e una spiegazione della devianza
minorile attraverso l’individuazione di caratteristiche particolari relative all’ambiente familiare,alle sue
dinamiche,alle figure parentali,ecc.
Una delle principali aree d’indagine in questo campo riguarda la carenza e/o l’assenza di cure materne nella
prima infanzia,aspetto considerato spesso determinante nella genesi di atteggiamenti e comportamenti
delinquenziali.
Bowlby ha studiato gli effetti delle carenze materne sul bambino.In alcune ricerche condotte su gruppi di
giovani delinquenti e non,egli ha trovato una forte differenza fra i due gruppi in rapporto alla separazione
prolungata dalla madre,o dalla figura materna,nei primi 4-5 anni di vita.Aveva notato che la deprivazione
materna nei primi anni di vita è tanto più dannosa quanto più avviene in età precoce e quanto più è
prolungata.L’incapacità di stabilire un valido legame affettivo si ha in particolare quando c’è
un’istituzionalizzazione precoce,una privazione delle cure materne per almeno tre mesi nei primi 3-4 anni di
vita,quando si verificano ripetuti cambiamenti della figura materna nello stesso periodo di tempo.
La tesi di Bowlby ha avuto anche conseguenze sulle politiche di prevenzione e trattamento della delinquenza
minorile;per un certo periodo c’è stata una forte tendenza,soprattutto da parte dei Tribunali minorili,a tenere i
bambini in situazioni familiari disastrose pur di non mandarli in istituiti.
Tra le critiche rivolte al lavoro di Bowlby c’è quella di Andry che,oltre ad aver messo in evidenza l’eccessiva
importanza data dall’autore alla deprivazione materna,trascurando invece la figura paterna,ha anche sottolineato
la necessità di distinguere tra separazione fisica e psicologica dalla madre.
Attualmente,c’è una forte critica a questo concetto di carenza di cure materne,così com’è stato suggerito da
Bowlby,non perché si vuole negare che esista la carenza,l’assenza della figura materna,ma ciò che si mette in
discussione è il legame lineare tra queste carenze e la delinquenza minorile.
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E’ stato anche studiato il problema della qualità delle cure materne,con la madre presente.Gli studi hanno
individuato una connessione fra madri possessive,assenti,crudeli e figli delinquenti;ugualmente per le madri con
amore nevrotico o ansioso.Si tratta comunque di categorie complesse,abbastanza discutibili,poco chiare.
La privazione paterna è un aspetto che è stato per lungo tempo trascurato.Oggi assistiamo a una rivalutazione di
questo ruolo,sia perché il padre rappresenta un modello di identificazione importante sul piano normativo,ma
soprattutto perché,fin dai primi giorni di vita,l’atteggiamento del padre esercita un’influenza rilevante sul
rapporto madre-bambino e sulla dinamica familiare in genere.
Ciò che è sembrato rilevante non è la privazione paterna,quanto i rapporti disturbati o inesistenti in presenza del
padre.I coniugi Glueck hanno notato che l’affetto del figlio per il padre,la qualità del loro
legame,rappresenterebbero il fattore che più discrimina i ragazzi delinquenti da quelli non delinquenti.Tra i
giovani delinquenti esiste più frequentemente un rapporto affettivamente molto intenso con la madre,anche
confusivo,e un’assenza della figura paterna,o un sentimento da parte del ragazzo di essere respinto,di non essere
accettato dal padre.
Il rifiuto affettivo o la trascuratezza da parte dei genitori hanno un’incidenza più forte della loro assenza o
separazione.Si è poi parlato di privazioni emozionali precoci,di mancanza d’affetto,di percezione e
consapevolezza da parte del bambino di essere poco considerato e amato,tutti aspetti facilmente correlati con
aggressività,disadattamento,indifferenza affettiva,antisocialità,ecc.
Un altro fattore che ha suscitato interesse è quello della separazione dei genitori,studiato soprattutto per quanto
riguarda la differenza fra divorzio legale ed emotivo,dove per divorzio emotivo si intende una situazione di
convivenza in cui c’è una frattura emotiva in atto.Non è tanto il divorzio legale a essere legato con
disagi,devianze,quanto il divorzio emotivo in cui c’è un conflitto che viene occultato e può essere alla base di
atteggiamenti incongrui,confusivi e disorientati.
Molti autori hanno considerato gli stili educativi e i sistemi disciplinari come fattori determinanti.Sono stati
individuati vari tipi di disciplina:per es. la disciplina orientata verso l’amore,o una disciplina debole o
punitiva,si è parlato di eccessiva severità o permissività,di punizioni fisiche o psicologiche,ma i risultati di
queste ricerche non hanno rilevato relazioni significative tra qualche tipo specifico di stile educativo e
comportamenti devianti.La maggior parte degli autori concorda sul fatto che ciò che conta non è tanto il tipo di
stile disciplinare,quanto piuttosto una sua applicazione costante e coerente.
Alcuni autori hanno evidenziato come nell’ambiente familiare possano instaurarsi particolari dinamiche
relazionali che facilitano un percorso deviante.Questo potrebbe verificarsi se la famiglia fa parte di una
sottocultura deviante o criminale,o se uno dei suoi membri ha già intrapreso una carriera deviante e magari può
porsi come modello negativo di identificazione.Però la presenza di un fratello ladro,per es.,non è
necessariamente causa di delinquenza,ossia non basta avere un fratello ladro per diventare delinquente.E’
importante tener presente l’intero sistema familiare.
Un altro tema importante riguarda la disgregazione familiare (broken home).I coniugi Glueck hanno messo in
evidenza come la stabilità della famiglia fosse il fattore più importante per un sano e positivo sviluppo del
bambino.Dalle loro ricerche è risultato che nelle famiglie dei delinquenti la percentuale di disgregazione
familiare era doppia rispetto alle famiglie dei non delinquenti.
Attualmente non si affronta più il problema della famiglia dando per scontato un modello standard:due
genitori,i figli e i parenti (nonni,zii,ecc.).Oggi ci sono una pluralità di modelli familiari,complessi,eterogenei e
tra loro differenziati.Ad es.,sono sempre più frequenti le famiglie monoparentali (un solo genitore con dei
figli),e i nuclei compositi (con genitori provenienti da altre famiglie).
La famiglia monoparentale,per es.,e la famiglia che unisce parti di nuclei diversi,non può più essere considerata
una famiglia patologica o disgregata.La famiglia,nel suo cambiare,sta inventando nuove forme di convivenza
che non possono essere assunte fin dall’inizio come patologiche,disfunzionale,ma vanno considerate come
sistemi familiari in cui le persone sperimentano nuovi modi di vivere,in qualche caso con difficoltà molto
gravi,in altri casi senza particolari problemi,in altri casi ancora riuscendo addirittura a ricostruire un equilibrio
migliore rispetto alla famiglia precedente.
Il sistema familiare influenza il comportamento deviante.Però non esiste una configurazione familiare specifica
a cui corrisponda sempre un comportamento deviante.
La devianza viene considerata come un processo e non il prodotto di fattori e cause antecedenti.
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La prima fase riguarda gli antecedenti storici della devianza:le carenze,le deprivazioni,i problemi.Questi sono
indicatori di rischio aspecifici.Queste precondizioni,pur essendo presenti in molte carriere devianti,rimangono
tuttavia aperte ad esiti di tipo diverso,non deviante.
La seconda fase riguarda il periodo,di breve durata e intenso,in cui emerge nella storia del soggetto una crisi
che si manifesta in episodi devianti.Questo micro-processo tende a rimanere aperto verso altri percorsi.
La terza fase,la fase della stabilizzazione del percorso deviante,può risultare tormentata e molto lunga nel
tempo,sembra caratterizzata dalla tendenza a usare la devianza per orientare azioni e attribuzioni,che possono
dare luogo a progressivi irrigidimenti del processo,rendendo meno probabili alternative alla devianza.
Nella fase degli antecedenti aspecifici,molti autori hanno trovato fattori di rischio rilevanti,fra cui la carenza di
cure materne e familiari,la privazione della figura paterna o la crisi di questo ruolo,la presenza di problemi
come la tossicodipendenza,l’alcolismo,la criminalità,la malattia mentale,nei genitori o nel contesto
parentale,diverse forme di disgregazione familiare ,separazioni traumatiche.
Le deprivazioni,carenze,disgregazioni,possono essere valutate rischiose in modo diverso a seconda di come
vengono organizzate e gestite nella e dalla famiglia.
CAP. 6 LE CONDIZIONI E I PROCESSI SOCIALI Con il paradigma sociologico lo studio della devianza e della criminalità sposta il suo interesse dall’individuo
con il suo corpo,le sue patologie,la sua personalità,il suo ambiente familiare,alla struttura sociale con le sue
caratteristiche,al rapporto individuo-società,alla reazione della società ai comportamenti dell’individuo.
Un contributo basilare è quello di Durkheim.Tra i concetti fondamentali di questo autore,c’è quello di “fatto
sociale”,inteso come realtà che non può essere influenzata tanto dall’individuo,quanto dalla società.Anche il
crimine è visto come un fatto sociale perché sta al di fuori della coscienza individuale e appartiene alla
dimensione della società.
L’importanza di D. riguarda anche il suo studio circa l’evoluzione storica della società e le implicazioni che
derivano da questo processo sotto il profilo di quella dimensione culturale che egli,per primo,ha chiamato
ANOMIA,intendendo con essa disorientamento normativa ed esperenziale che l’individuo avverte e vive in
quanto sottoposto a spinte socio-culturali contrastanti.Durkheim è stato il primo a considerare il crimine come
un fenomeno normale,socialmente necessario.Secondo l’autore il crimine è un fatto sociale che consente di
rinforzare i confini normativi tra ciò che è lecito e ciò che è illecito.
La Scuola di Chicago aveva ipotizzato l’esistenza di un legame fra criminalità e determinate aree urbane.La
delinquenza sarebbe più diffusa in quelle aree con densità di popolazione,presenza di culture
diverse,deterioramento delle abitazioni,insufficienza dei servizi.Questa scuola tende a orientare gli studi e le
ricerche su specifiche aree di concentrazione della criminalità.Ciò trova riscontro in molti dati
istituzionali,anche attuali,riguardanti la delinquenza giovanile,da cui risulta che i ragazzi denunciati,i ragazzi
che arrivano in carcere provengono tendenzialmente da aree ben individuabili.
Attualmente si guarda alla marginalità urbana e al rapporto fra questa e la delinquenza giovanile.Marginalità
urbana significa mancanza di opportunità,marginalità rispetto alle risorse,allo spazio,ai servizi sociali.
Questa teoria è stata criticata.Innanzitutto si basa su dati ufficiali e non tiene conto del sommerso della
criminalità.La criminalità è presente anche in altre aree urbane,ma è più occulta,agisce con altre
modalità.Inoltre pone un rapporto lineare troppo rigido tra disorganizzazione sociale,immigrazione,zone
particolarmente deteriorate e criminalità,tant’è vero che chiama “aree delinquenziali” queste zone,rinforzando
così lo stereotipo rispetto a certe aree urbane,a determinati gruppi sociali.
Un altro contributo riguarda quelle correnti che si sono sviluppate soprattutto negli Stati Uniti:lo struttural-
funzionalismo,le teorie delle associazioni differenziali,delle subculture criminali,che tentano di individuare
quali possano essere le condizioni sociali criminogene,sulla base di un’analisi funzionale di tipo
strutturalista.Gli autori più rilevanti sono Cloward,Ohlin,Cohen,Parsons e Merton.
Secondo Parsons la società è un insieme di parti integrate in cui il presupposto principale è l’equilibrio,la
necessità del consenso,raggiunti attraverso un processo di socializzazione.Quindi la devianza,la criminalità
sono legate a un difetto del processo di socializzazione.
Si tratta però di un concetto che non è provato scientificamente,anche perché ci possono essere ragazzi con
adeguati processi di socializzazione che mettono in atto comportamenti devianti.
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Il contributo di Merton riguarda lo studio di una contraddizione del sistema sociale americano,quella fra
dimensione della struttura sociale e dimensione della struttura culturale.Mentre da un punto di vista culturale la
società è investita da contenuti e mete tendenzialmente uguali per tutti (successo,denaro,prestigio),la stessa
società non propone lo stesso tipo di uguaglianza dal punto di vista delle posizioni occupate all’interno della
struttura social,per il conseguimento di quelle mete.Il problema sta in questa contraddizione alla quale gli
individui reagiscono con varie possibilità di adattamento (conformismo,innovazione,rinuncia,ribellione).Per
Merton la devianza è appunto una delle possibili forma di adattamento alle pressioni contradditorie,anomiche.
Lo schema mete-mezzi sembrava particolarmente adatto per i ragazzi deprivilegiati che sono,in vari modi,
colpiti dalle pressioni culturali del consumismo (la macchina,i soldi,ecc.) e che si trovano impossibilitati ad
arrivare a queste mete attraverso i mezzi normali,essendo disoccupati,emarginati,ecc.
La teoria di Merton è stata sottoposta a numerose critiche,per es. per il fatto che è una teoria a “medio
raggio”,che non considera in realtà i nessi che legano la struttura sociale a quella culturale.Inoltre,le varie forme
di adattamento proposte mostrano gli individui come manichini sociali,soggetti che hanno un’esclusiva
reattività a quelle pressioni,senza una rielaborazione personale o di gruppo.Infine non è sostenibile che le mete
culturali sono uguali per tutti.
Cloward e Ohlin propongono una teoria delle subculture criminali secondo cui gli individui si trovano ad agire
in sistemi differenziali di opportunità.In rapporto al prevalere di opportunità legittime o illegittime si creano
determinate sottoculture.Se prevalgono opportunità illegittime si possono avere tre tipi di sottoculture
devianti:la subcultura criminale caratteristica delle zone in cui è diffuso l’uso della criminalità organizzata;la
subcultura conflittuale in cui la violenza e il vandalismo sono le opportunità più frequenti;la subcultura
astensionistica caratterizzata da esperienze e stili di vita particolari,come per es. quelli legati all’uso della droga.
Cohen si è occupato delle sottoculture delinquenziali con riferimento alle bande e ai gruppi giovanili.Le
subculture devianti sono dovute al conflitto fra classi basse e medie.I giovani della classe proletaria,pur
aspirando alle stesse mete dei ragazzi delle classi medie,si trovano svantaggiati,tendono quindi a sviluppare una
reazione negativistica contro quegli standard culturali che comunque hanno interiorizzato.Cohen parla di
“formazione reattiva”,per indicare il rifiuto del sistema di valori dominanti,lo strutturarsi di una cultura che si
esprime nelle bande delinquenziali,nel teppismo,in atteggiamenti distruttivi.Si tratta di fenomeni diffusi in varie
forme:nello sport,nei parchi pubblici,nei confronti di oggetti pubblici come le cabine telefoniche,i muri delle
città,ecc.
Attualmente invece si tende a interpretare diversamente il fenomeno delle bande giovanili,il vandalismo,il
teppismo,ecc.;si tende infatti a vederli come comportamenti comunicativi,cioè ci si chiede cosa i soggetti
comunicano attraverso questi comportamenti.Certamente comunicano anche il loro “negativismo”,ma non solo
questo,poiché vi si possono cogliere funzioni e bisogni legati all’identità,alle relazioni,spesso atteggiamenti
critici e domande sociali rispetto alle politiche dello sport,del tempo libero,della città,degli spazi pubblici,della
scuola,ecc.E’ possibile estrarre da questi comportamenti messaggi conflittuali e partecipativi,che sarebbe molto
importante cogliere e decifrare adeguatamente,piuttosto che fermarsi al loro aspetto negativistico,in modo da
impostare altrettanto adeguatamente le risposte e gli interventi.
Un’altra ipotesi che tenta di fornire una spiegazione della devianza minorile è la “teoria del controllo”,il cui
esponente principale è Hirschi il quale afferma che l’elemento determinante per la strutturazione di un processo
deviante non è tanto la posizione occupata nella struttura sociale,ma la “forza del legame sociale”.Un ragazzo
ha più probabilità di diventare delinquente quanto più è debole o interrotto il suo legame con il mondo degli
adulti.
Sutherland propone la “teoria delle associazioni differenziali”,secondo cui la criminalità e la devianza vengono
apprese attraverso il contatto con individui o gruppi favorevoli al crimine.Si è occupato dei crimini dei colletti
bianchi,intendo con ciò i reati commessi da persone rispettabili nel corso della loro occupazione.Era interessato
a mettere in evidenza quanto,nel mondo degli affari americano,fossero diffuse le pratiche illegali.
La criminalità dei colletti bianchi ha messo in evidenza il problema della criminalità occulta,del numero oscuro.
Un più recente approfondimento in tal senso è quello di Chapman che cerca di delineare le caratteristiche dello
“stereotipo criminale”,mettendo in evidenza come la dimensione nota e istituzionale della criminalità non è
collegata all’effettiva commissione di reati,ma a un criterio di “immunità differenziale” che opera
essenzialmente discriminando i soggetti in rapporto alla loro classe sociale,all’appartenenza istituzionale,alla
loro visibilità pubblica,ecc.
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Gli studi sul numero oscuro della delinquenza giovanile sono iniziati molto tardi.Si pensava che questo
fenomeno non esistesse tra i giovani,o che avesse una minore importanza.D’altra parte Sutherland ha fatto
ricerche sugli uomini d’affare e le ricerche di Chapman riguardavano prevalentemente la criminalità adulta.Era
quindi difficile individuare il numero oscuro della delinquenza giovanile fino a quando non sono iniziate
ricerche attraverso lo strumento dell’auto confessione,della vittimizzazione,ecc.
Queste ricerche hanno evidenziato come quasi nessun ragazzo vive esperienze completamente esenti da
comportamenti devianti;soprattutto i furti e i piccoli furti nei negozi sono molti diffusi in età evolutiva,in tutte
le classi sociali.Naturalmente non bisogna generalizzare in quanto i comportamenti delinquenziali sono di tipo e
gravità diversa,quindi non si può sostenere che tutti gli adolescenti sono delinquenti o hanno commesso qualche
atto criminale.
Scoprire un giovane delinquente appartenente ai ceti più alti è difficile.Se un ragazzo o una ragazza ben vestiti
entrano in un negozio e rubano probabilmente non vengono notati,perché non vengono controllati;mentre
vengono osservati soggetti con particolari caratteristiche fisiche,di abbigliamento,di razza,come,ad es. gli
zingari.Anche quando vengono presi,sia chi ha interesse a denunciare,sia la polizia,agiscono con modalità
diverse:se si tratta delle classi più alte si preferisce far riferimento alla famiglia,mentre per i ceti più bassi,per i
nomadi,per gli stranieri,il ricorso alla polizia è più frequente.
Un nuovo paradigma criminologico è quello dell’interazionismo simbolico.Alcuni esponenti principali sono
Lemert,Becker e Matza.
Tra i concetti principali di Lemert c’è la distinzione tra devianza primaria e secondaria.
La devianza primaria riguarda quei comportamenti che,anche se infrangono le norme,vengono
riassorbiti,”normalizzati”,dalla società senza subire un’etichetta deviante.Il soggetto riesce a trovare delle
giustificazioni per il suo comportamento,senza per questo sentirsi cambiato,egli cioè non ha ancora assunto,né
gli è stato ancora attribuito uno stabile ruolo deviante.
La devianza secondaria consiste invece nel comportamento deviante come mezzo di difesa,di attacco,o di
adattamento nei confronti dei problemi creati dalla reazione della società alla devianza primaria.Il soggetto
deve riorganizzare la sua identità psicosociale,il suo Sé in base al ruolo deviante che gli è stato attribuito e in
cui anche egli si riconosce.
La devianza primaria è importante perché mette in evidenza tutte le strategie di normalizzazione che vengono
adottate,in campo minorile,quando si vuole evitare che la devianza diventi di dominio istituzionale.
La devianza secondaria è un processo di reazione sociale interattiva:ciò significa che per Lemert la società
reagisce,ma anche il soggetto e il suo comportamento interagiscono con la società.Non è solo la società che
produce devianza,ma è un’interazione tra caratteristiche psicosociali dell’azione e del suo autore e l’effetto
sociopsicologico della reazione sociale.
Ci sono altri due importanti contributi di Lemert.Uno ruota attorno al concetto di “problema sociale”,inteso
come percezione del turbamento e successiva ricerca di soluzioni.Il tipo di soluzioni adottate ci fanno capire
come viene considerato il problema.
Un altro contributo di Lemert è quello relativo alle “devianze autolesionistiche”,a quelle forme di devianza
(come l’alcolismo,la tossicodipendenza,ecc.) che sembrano non recare alcun beneficio alla persona
interessata.Il soggetto deviante,quando agisce,valuta i costi,i benefici e i rischi del suo comportamento.
Nel caso della devianza autolesionistica non sembrerebbero esserci dei vantaggi,ma Lemert sottolinea come,in
realtà,bisogna approfondire le modalità di ricerca dei vantaggi e degli effetti positivi che la persona vuole
ottenere,perché ci possono essere dei vantaggi secondari,cioè gli effetti positivi possono essere di tipo
psicologico,relazionale.Per es.,essere inviato in un istituto per ragazzi delinquenti è degradante e costituisce una
minaccia per il proprio futuro,ma può rappresentare una strada per sfuggire a un’intollerabile situazione
familiare che è ancora più degradante.
Becker ha fatto ricerche attraverso l’osservazione partecipante.Se leggiamo attentamente i saggi di Outsiders
emerge la complessità e la ricchezza di questo autore che valorizza l’esperienza soggettiva.
Il suo contributo più importante è quello contenuto nel saggio Come si diventa fumatori di marijuana.Si diventa
fumatori di marijuana cambiando progressivamente significato al fumare erba,marijuana,all’atteggiamento con
cui si partecipa a tale esperienze;da un comportamento iniziale privo di rilevanza soggettiva e relazionale si
passa a un comportamento significativo,perché il soggetto apprende a fumare,a comunicare in gruppo tale
esperienza e a provare piacere.
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Importante per Becker è il significato che i soggetti danno al proprio comportamento.L’individuo può diventare
deviante attraverso un percorso complesso,fatto di tappe successive durante le quali,man mano,costruisce le
premesse per i passi da compiere in seguito.In questo percorso il soggetto non è precondizionato,ma
attivo,costruisce la propria strada e quindi la propria devianza,attraverso i contatti sociali,le dimensioni
culturali,ecc.Il soggetto diventa deviante quando ha costruito un significato sociale
gradevole,positivo,gratificante.
Il lavoro di Matza si basa sull’approccio metodologico che egli definisce NATURALISMO.Si tratta di un tipo
di osservazione partecipativa in cui si cerca di descrivere il fenomeno dal di dentro,in modo accurato e
fedele,senza la pretesa di spiegarlo e di correggerlo.
Matza critica il concetto di subcultura che presenta gli individui devianti come soggetti che hanno rifiutato o si
oppongono alla morale tradizionale per seguire un proprio sistema di valori,mentre criminali e resto della
popolazione appartengono allo stesso sistema di valori.Secondo Matza la cultura deviante è diffusa in tutte le
classi sociali;i delinquenti sono quelli che mettono in atto comportamenti devianti in maniera inappropriata,in
luoghi e contesti inadeguati.Quelli che egli chiama “valori clandestini” sono diffusi in tutti i ceti sociali;le
persone considerate normali,rispettabili,hanno le possibilità,le competenze o l’attenzione di esercitare questi
valori clandestini in modo socialmente accettato (per es. giocare d’azzardo,trafficare,ecc.).
Quelle che Matza chiama “tecniche di neutralizzazione” sono giustificazioni delle proprie azioni devianti che
permettono al soggetto di rendere più accettabile il suo comportamento e poter continuare a far parte del
sistema di valori dominante.Le principali tecniche di neutralizzazione sono:
- il diniego della responsabilità (sono malato);
- la minimizzazione del torto inflitto (loro possono permetterselo);
- la negazione da parte della vittima (non abbiamo colpito nessuno;se lo sono voluto loro);
- la condanna dei giudici (non c’è più giustizia;ognuno ha la sua droga);
- l’appello a più alti ideali (non l’ho fatto per me;non potevo tirarmi indietro).
Secondo Matza,il giovane arriva alla delinquenza attraverso l’apprendimento di queste tecniche e non attraverso
l’apprendimento di valori opposti a quelli del sistema normativo dominante.
L’aspetto interessante che Matza mette in evidenza è il modo in cui il soggetto giustifica cognitivamente la
propria devianza;generalmente infatti nessuno trasgredisce senza giustificarsi,e questo vale ancora di più per
l’adolescente.Ma queste giustificazioni sono aspetti culturali,sono argomentazioni e valori sociali che fanno
parte della nostra vita,sono “scuse” che tutti usiamo quotidianamente,che i ragazzi stessi quindi apprendono
dalla cultura di cui fanno parte,non è una loro invenzione.
CAP. 7 L’ILLUSIONE MULTIFATTORIALE L’approccio multifattoriale individua fattori riguardanti l’individuo e l’ambiente circostante che combinati
permetterebbero di spiegare il processo attraverso cui un individuo diventa delinquente.
Un esempio può essere la “teoria dei contenitori” di Reckless il quale individua dei sistemi di controllo interni
ed esterni al soggetto (chiamati “contenitori interni” e “contenitori esterni”),da cui dipende la tendenza
dell’individuo al comportamento deviante.I contenitori interni consistono principalmente di componenti
dell’Io,come autocontrollo,buon concetto di Sé,forte resistenza agli stimoli disturbanti,senso di
responsabilità,orientamento verso fini precisi.I contenitori esterni costituiscono il freno strutturale che gli
permettono di non oltrepassare i limiti normativi.E’ composto di alcuni elementi come il fornire al soggetto una
coerente linea di condotta morale,una disciplina efficace,un rafforzamento delle sue norme,fini e aspettative.
Un altro esempio di approccio multifattoriale è la ricerca dei coniugi Glueck su un campione di 1000 soggetti
minorenni (500 delinquenti e 500 non delinquenti) allo scopo di individuare fattori,relativi al periodo
infantile,che potessero differenziare i due gruppi e predire quali soggetti sarebbero diventati delinquenti.Gli
autori presero in considerazione caratteristiche individuali,familiari,ambientali e sociali.Da questa analisi risultò
determinante,per la genesi di un comportamento deviante,la combinazione dei seguenti fattori:
- caratteristiche individuali,come carattere aggressivo,estroverso,struttura fisica di tipo mesomorfico;
- disgregazione familiare e altri aspetti negativi legati alla figura materna o allo stile educativo;
- contatto con particolari zone collegate alla delinquenza,alla criminalità.
Alla base di questo tipo di approccio c’è una sorta di illusione metodologica,legata al fatto che,fallito il
tentativo di spiegare la devianza attraverso l’individuazione di una singola causa,e poiché con il proseguire
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delle ricerche venivano evidenziati fattori sempre più numerosi e diversificati,si è pensato che la combinazione
di alcuni o molti di questi fattori avrebbe risolto il problema della spiegazione della criminalità.Si tratta di
un’illusione poiché parte dal falso assunto che esista un insieme stabile e costante di fattori per spiegare la
delinquenza,fattori che possono essere individuati e combinati secondo procedure statistiche,matematiche,anche
molto articolate e complesse.Che questa sia un’illusione è dimostrato da numerose ricerche da cui è risultato
che il numero dei fattori è indefinito,che cambia in relazione al tipo di fenomeno e a molti altri aspetti legati
alle varie differenziazioni del problema.
CAP. 8 IL BISOGNO DI NUOVI PARADIGMI:DEVIANZA E AZIONE
COMUNICATIVA La devianza è una delle possibili forme di comunicazione degli esseri umani.E’ un modo per rendere più
evidente il proprio messaggio perché richiama inevitabilmente l’attenzione dei sistemi cui è riferita,soprattutto i
sistemi di controllo sociale.
Anche il controllo sociale può essere una forma di comunicazione,e parte di questa comunicazione ritorna al
soggetto deviante attraverso un processo circolare:il soggetto ha provato a mandare dei messaggi e riceve,a sua
volta,da parte del controllo sociale,dei messaggi che riguardano la sua azione,il significato sociale della sua
azione.
La devianza è una comunicazione complessa,che contiene l’aspetto del messaggio,ma anche quello del
rumore:contiene quindi sia la possibilità di veicolare messaggi,ma anche la possibilità che l’azione venga
tradotta in rumore da parte del controllo sociale.
La scelta di una teoria della devianza come comunicazione sembra rilevante per la delinquenza minorile in
quanto,in età evolutiva,la componente espressiva della devianza prevale su quella strumentale.Mentre per
quanto riguarda la criminalità in senso generale molto spesso i comportamenti messi in atto sono di tipo
strumentale (si ruba per accumulare denaro,si uccide per eliminare un avversario,ecc.),per quanto riguarda l’età
evolutiva,invece,sembra prevalere la dimensione espressiva,comunicativa.I ragazzi vivono di meno la funzione
strumentale del loro comportamento,mentre esprimono più bisogni legati all’identità,alle relazioni,ecc.
Secondo un’indagine nazionale svolta dal CENSIS sulle Attuali tendenze della delinquenza minorile,i
comportamenti devianti più frequenti e diffusi nell’area adolescenziale riguardano:diverse forme di
vandalismo,il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti,reati contro il patrimonio,reati contro la persona fra
i quali i più rilevanti sono i reati legati alla sessualità.Questi comportamenti sembrerebbero esprimere da parte
dei giovani:
- aggressività verso la società degli adulti,sentita come distante,poco disponibile e attenta;
- disadattamento sociale e disorientamento individuale;
- bisogno di protagonismo,confronto,competitività fra coetanei e verso il mondo degli adulti.
Per quanto riguarda il vandalismo in particolare il suo significato simbolico potrebbe essere:
- contestazione indiretta delle politiche sociali nella scuola,negli spazi pubblici,nello sport,nello
spettacolo;
- indifferenza verso i beni materiali di consumo;
- risposte e reazioni verso una società satura di valori materialistici ed economistici.
Per “azione deviante comunicativa” si intende quella complessa dimensione riguardante la sequenza di azioni
e interazioni strettamente collegata all’episodio deviante.
L’azione,in questo tipo di impostazione,non coincide con il comportamento,il quale è solo una parte
dell’azione.Si preferisce parlare non di comportamento,ma di soggetto che agisce,nel senso che elabora
socialmente e cognitivamente i vari tipi di condizionamento trasformandoli e ricostruendoli continuamente.
Un passaggio importante tra comportamento ed azione è costituito dall’atto sociale,un movimento a cui viene
attribuito un significato sociale,culturale che è sempre in rapporto alla situazione nella quale il movimento ha
luogo.
L’azione si colloca su un piano diverso rispetto all’atto sociale perché essa è un insieme di movimenti e
significati attribuibili ad un attore e diretti verso uno scopo.
In questi termini il discorso sull’azione implica allora due livelli:quello “sistemico” o “riflessivo” che si
riferisce al sistema personale,all’elaborazione interiore,a ciò che ha senso per la singola persona.L’altro è
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l’aspetto intersistemico,che indica i rapporti con gli altri,la comunicazione fra sistemi diversi,il significato
sociale.
Von Cranach,per analizzare l’azione,propone uno schema a forma di triangolo composto da tre dimensioni:
a) comportamento osservabile (riguarda le tappe dell’azione,le sue caratteristiche,i livelli di organizzazione;può
essere indagato attraverso l’osservazione diretta)
b) cognizioni consapevoli dell’attore (processi mentali messi in atto dal soggetto riguardo alcune componenti
dell’azione come scopi,strategie,norme,valori;sono detti consapevoli perché legati al momento ricostruttivo
dell’azione indagato attraverso interviste e questionari)
c) significati sociali che l’azione può assumere nei diversi contesti.
Un contributo importante che ci viene dallo schema di Von Cranach riguarda l’anticipazione mentale degli
effetti.Le azioni sono sempre rivolte a uno scopo.Il soggetto implicitamente o esplicitamente,consapevolmente
o inconsapevolmente,anticipa gli effetti delle sue azioni e interazioni.Si tratta di un’anticipazione che evolve
man mano che il soggetto agisce,ma che è una guida per il suo agire.
Gli effetti possono essere suddivisi in:
- effetti strumentali (per es. “prendo l’ombrello perché piove”,”rubo una macchina perché mi serve”);sono
effetti anticipati in maniera cosciente e consapevole dal soggetto;
- effetti espressivi,comunicativi (a questo livello,attraverso l’azione,vengono comunicate prevalentemente
esigenze di organizzazioni del Sé e dei contesti relazionali significativi).
Tra gli effetti espressivi possiamo distinguere:
- effetti legati all’identità,al Sé (ogni azione comunica all’autore stesso e agli altri,segni e significati
relativi all’identità soggettiva);
- effetti relazionali (poiché l’azione contiene schemi e messaggi di relazione interpersonale che
riguardano sia le persone direttamente coinvolte in quell’azione,sia,simbolicamente,i propri gruppi di
appartenenza – famiglia,amici e le istituzioni in genere;
- effetti legati a regole interpretative d’azione (l’azione infatti è il risultato di processi interpretativi
regolati da codici generalizzati);
- effetti normativi e di controllo (che riguardano il rapporto con le sanzioni,con le norme penali;le nostre
azioni sono sempre inserite in contesti normativi).
Il soggetto è un membro sociale competente,che fa continuamente esperienza di azioni,di effetti che
retroagiscono sulle azioni;può non avere una capacità adeguata alle regole dei contesti,può sbagliare,ma gli
effetti reali di un’azione sono sempre,a qualche livello ricercati dall’autore.Il soggetto intende,consapevolmente
o no,ottenere proprio quegli effetti,anche se si tratta di effetti
negativi,paradossali,autolesionistici,dannosi.Bisogna allora valutare le funzioni di questi effetti,capire quali
significati legano quell’azione a quell’attore e ai suoi contesti più rilevanti.
In questa prospettiva si fa spesso riferimento al concetto di ridondanza che può essere inteso in due modi:come
ripetitività di un comportamento e come parte che “parla” per il tutto.
Ci sono alcune azioni,come per esempio gli omicidi gravi (quali il parricidio),che difficilmente presentano
ripetitività:si tratta di azioni “eccezionali” che contengono messaggi molto particolari che possono non ripetersi
in altre fasi della vita del soggetto.Proprio la gravità ci indica che in quell’azione è presente un messaggio
importante,unico,che può essere ricostruito e che ha un significato e un valore estremamente rilevanti,per
esempio rispetto al tipo di risposta e di interventi da mettere in atto.
Vi sono invece azioni che si ripetono continuamente (come la tossicodipendenza,i furti,ecc.);proprio perché si
ripetono,queste azioni esprimono delle specifiche funzionalità legate a nessi fra azione e contesti
significativi.Bisogna quindi ripercorrere questi nessi per capire che tipo di funzione svolge quell’azione rispetto
all’individuo e ai suoi sistemi di appartenenza.
Nella psicologia dell’azione molta importanza viene data anche alla dimensione delle regole.Le regole di
interpretazione attuano la loro efficacia nell’attribuire significato ad oggetti e a eventi;si riferiscono al modo in
cui le cose vengono definite e rese significative.Le regole prescrittive,al contrario,sono delle direttive per
l’azione;sono quelle norme che permettono agli individui di scegliere fra i vari modelli di comportamento e di
mantenere un senso di correttezza e di legittimità sociale.
Nell’analisi dell’azione,chiedersi a quali regole il soggetto ha fatto riferimento,significa interrogarsi sulle
ipotesi che hanno guidato il suo agire,organizzandolo cognitivamente ed emozionalmente.
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CAP. 9 L’ESPOSIZIONE DEI MINORI ALLA RAPPRESENTAZIONE
DELLA VIOLENZA Quello del rapporto tra violenza rappresentata in TV e minori è un argomento che interessa studiosi
appartenenti a diversi ambiti disciplinari delle scienze sociali.
Tra i più importanti lavori che hanno fornito dati indicativi al riguardo c’è lo studio di Comstock et al.,in cui
vengono prese in considerazione circa 700 ricerche sociopsicologiche degli anni ’60 e ’70.Queste ricerche
hanno messo in evidenza che:
1) esiste una relazione,da parte dei bambini,fra esposizione alla violenza e comportamenti aggressivi;
2) i bambini più piccoli possono apprendere nuovi comportamenti aggressivi anche da una sola esposizione ad
un breve messaggio simbolico;
3) la violenza rappresentata in TV può disinibire o facilitare comportamenti aggressivi già appresi;
4) quando è presentata come comportamento punito,l’aggressività tende ad essere inibita;quando è presentata
come giustificata,effettuata da un eroe positivo,o quando non comporta conseguenze si accresce la possibilità di
successivi comportamenti aggressivi;
5) una forte esposizione a messaggi televisivi violenti può desensibilizzare i bambini dalle conseguenze
negative della violenza nella vita reale;
6) gli effetti del messaggio televisivo violento possono essere moderati da commenti e osservazioni di adulti
che guardano il programma insieme col bambino.
Comstock e Strasburger hanno preso in considerazione diversi studi.Per quanto riguarda gli esperimenti di
laboratorio riportano le ricerche di Berkovitz,effettuate su ragazzi che frequentavano il college.Questo
esperimento consisteva nel far vedere una sequenza di un film con una trama violenta (sulla boxe) e una di un
film con una trama non violenta;durante la proiezione inoltre uno dei suoi assistenti faceva arrabbiare qualcuno
dei soggetti in esame.Le ricerche confermano l’ipotesi dell’autore secondo cui l’esposizione a programmi
violenti può istigare a comportamenti aggressivi in particolari condizioni emotive del soggetto,e cioè quando è
scosso o arrabbiato.Era inoltre sempre lo stato emozionale dei soggetti a influenzare la diversa percezione
dell’aggressività espressa ad es. in filmati riguardanti incontri di football o pugilato tra squadre:i soggetti
arrabbiati percepivano l’aggressività solo come motivo vendicativo verso l’avversario;i soggetti non
arrabbiati,invece,percepivano l’aggressività come condizione professionale di ogni giocatore.
Tra gli studi correlazionali presi in considerazione figurano:quello di Atkin su 623 soggetti adolescenti,quello
di Dominick e Greenberg su 434 maschi preadolescenti e soprattutto quello di Belson su 1500 maschi
londinesi di età tra i 12 e i 17 anni.
Dai risultati si potè concludere che i maschi che consumano una maggiore quantità di TV violenta sono quelli
che commettono un maggior numero di azioni pericolose e criminali;anche comportamenti antisociali meno
violenti sono associati con i maggiori consumatori di TV violenta;due specifici comportamenti,aggressività
nello sport e uso di un linguaggio improprio,sono associati con la più alta esposizione alla TV violenta.
Poi vengono presi in considerazione i risultati di alcuni studi longitudinali (che misurano l’effetto della visione
di TV violenta lungo un determinato periodo di tempo).Huesmann ha condotto una ricerca su un campione di
875 soggetti di circa 9 anni.Di essi 460 furono riesaminati dopo 10 anni (all’età di 19 anni) e fu trovato che la
relazione tra la visione di TV violenta a 9 anni e il comportamento aggressivo dopo 10 anni era molto
significativa.All’età di 30 anni lo stesso campione fu riesaminato e ancora una volta fu trovato un collegamento
tra l’esposizione alla TV violenta all’età di 9 anni e il comportamento antisociale.Huesmann concluse che
l’essere esposti a scene di violenza in TV può promuovere l’apprendimento di abitudini aggressive che
stabilizzandosi possono dar origine a un comportamento adulto antisociale.
Huesmann e Eron fecero una ricerca longitudinale sovrapposta,per studiare più di mille bambini negli Stati
Uniti,Australia,Finlandia,Israele,Olanda e Polonia per un periodo di tempo che andava dagli 8 ai 30 anni.Per i
ragazzi in tutti i Paesi e per le ragazze statunitensi si notò che chi era stato esposto maggiormente a scene
violente in TV risultò aver commesso reati più gravi,essere più aggressivo sotto l’influenza dell’alcool e più
brutale nel punire i propri figli.
Tra gli studi longitudinali viene riportato inoltre quello svolto da Williams (1986),in cui una cittadina del
Canada che non aveva ancora la televisione venne comparata con una comunità vicina che riceveva solamente
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un canale e un’altra che ne riceveva più di uno.Queste tre comunità erano praticamente identiche eccetto che
per la presenza della televisione;i dati poterono inoltre essere rilevati nella prima comunità,prima e dopo
l’introduzione della TV.Inizialmente meno aggressivi,gli studenti della prima comunità raggiunsero i loro pari
appena due anni dopo l’introduzione della TV nella loro comunità.
Paik e Comstock (lavoro di meta-analisi) dedicano particolare attenzione a due studi sperimentali del
1963:quello di Bandura,Ross e Ross,secondo cui i bambini adottavano un comportamento aggressivo dopo
essere stati spettatori di comportamenti violenti espressi sia da persone vere che dai personaggi dei cartoni
animati;e quella di Berkovitz e Rawlings,dove fu trovato che gli studenti di college esaminati esprimevano una
maggiore ostilità verso qualcuno che li infastidiva e percepivano le punizioni per le vittime come giustificate
per il loro comportamento antisociale,dopo aver assistito ad un film che riproduceva un violento incontro di
boxe.
Sempre in questo studio di Paik e Comstock vengono prese in considerazione anche alcune meta-analisi tra cui
quella di Herold e quella di Wood.Entrambi gli autori concludono affermando che esiste una stretta relazione
tra l’esposizione alla violenza televisiva e il comportamento aggressivo e antisociale.
Secondo Paik e Comstock i cartoni animati e i personaggi fantastici esercitano una forte influenza sul
comportamento,in contrasto con la convinzione secondo cui tali effetti fossero inesistenti perché irreali;molto
stretta è risultata anche la relazione tra programmi a contenuto erotico-violento e comportamento
aggressivo;inoltre gli episodi di violenza giustificata risultano avere un’influenza maggiore rispetto a quelli
ingiustificati.
Nel 1960 Klapper,offrendo una sintesi delle più importanti ricerche fino a quel momento condotte,concluse
che l’esposizione ad atti criminosi o di violenza nei mezzi non è una delle determinanti cruciali del
comportamento.D’altra parte,vi sono alcuni indizi che ci fanno supporre che questo materiale possa funzionare
in modo particolare per coloro che siano già socialmente mal adattati.
La gran mole di dati a disposizione porta attualmente gli studiosi di scienze sociali a sostenere pressoché in
maniera concorde l’esistenza di una relazione più o meno stretta tra esposizione alla violenza televisiva e
comportamento.
CAP. 10 LA GIUSTIZIA DI FRONTE ALLA DEVIANZA DEI MINORI
IMMIGRATI Ogni nuovo processo di immigrazione mette in evidenza nel paese di arrivo interazioni d’emergenza prima con
le strutture della giustizia e con quelle sanitarie di base,poi con le strutture pubbliche di assistenza e con il
volontariato sociale,mentre incontra,nel frattempo,i mercati illegali del lavoro e delle abitazioni.Solo in seguito
arriva ai servizi sanitari e sociali,pubblici e privati,con maggiore specializzazione.
Il problema oggi in Italia è grave sia in termini quantitativi che qualitativi:
a) le denunce,gli arresti e le condanne nei confronti dei minori immigrati dai 14 ai 18 anni (soprattutto nomadi
jugoslavi e clandestini nordafricani) sono costantemente aumentati,fino a raggiungere più del 50% dei ragazzi
detenuti nelle carceri minorili,a Roma e in alcune città del Centro-Nord;
b) gli istituti assistenziali pubblici e privati,che si erano progressivamente svuotati per le politiche di
deistituzionalizzazione,si vanno nuovamente riempiendo soprattutto di bambini extracomunitari;
c) l’adozione internazionale è in forte aumento;ha raggiunto livelli doppi rispetto all’adozione nazionale.
Per tutti e tre questi fenomeni,via via che crescono quantitativamente,aumenta l’insoddisfazione per la qualità e
i risultati degli interventi.A parità di reato,i minori immigrati ricevono rispetto a quelli italiani molto più
frequentemente misure cautelari detentive (carcere),vi rimangono per più tempo,e sono più spesso
condannati,mentre con molta meno frequenza ricevono misure in comunità-alloggio,in famiglia,in libertà.
Negli istituti assistenziali,soprattutto per i bambini immigrati,si osserva una totale mancanza di progetti
educativi personalizzati.
L’adozione internazionale è meno garantita di quella nazionale,da un punto di vista giuridico,psicologico e
sociale.
I giudici minorili e gli operatori sociali tendono a dare ai minori immigrati lo stesso tipo di risposte che danno
ai minori italiani,mantenendo lo stesso tipo di aspettative in merito ai risultati.Ma poiché le condizioni dei
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minori immigrati sono diverse rispetto a quelle degli italiani,i risultati saranno diversi,e giudici e operatori si
sentono legittimati a ricorrere a risposte più rigide e istituzionali.
In una ricerca svolta presso il carcere minorile di Roma sono state messe a confronto le relazioni fatte da
educatori,psicologi,assistenti sociali,per minori italiani e extracomunitari.I risultati hanno dimostrato
che,mentre le relazioni per i ragazzi italiani sono articolate e differenziate,quelle per i ragazzi extracomunitari
evidenziano un’unica differenza fra il gruppo dei nomadi e quello dei nordafricani,per il resto le relazioni si
somigliano tutte,non riescono a cogliere differenze individuali,relazionali,familiari,culturali.Poichè gli operatori
sanno di non avere competenze e strumenti per capire questo tipo di utenze preferiscono non dire nulla piuttosto
che distorcere le conoscenze,rischiando di danneggiare ancora di più quei ragazzi.
Dalla raccolta di interviste non strutturate su un certo numero di minori nomadi e nordafricani sono emersi due
aspetti in particolare:i ragazzi arabi provenienti dalla Tunisia,dall’Algeria,dal Marocco rifiutavano ogni
proposta operativa per orgoglio e lealtà rispetto alla loro religione e alla loro provenienza;essi accettano e
comprendono la punizione ma non il trattamento,infatti,per loro ha senso essere trattati solo all’interno dei loro
stessi sistemi di appartenenza.Un atteggiamento diverso è quello dei ragazzi nomadi,anche quando sono di
religione islamica:essi accettano sempre qualunque proposta operativa che li faccia uscire dal carcere,ma poi si
sottraggono al rapporto con l’operatore fuggendo dalle comunità alloggio,non andando agli
appuntamenti,facendo perdere le loro tracce.
Oggi sono evidenti le difficoltà che giudici,avvocati,psicologi e operatori incontrano nell’applicare a questa
utenza un buon criterio.Oggi il criterio basilare per regolare e gestire la tutela dei bambini e degli adolescenti è
quello dell’interesse del minore:prima delle innovazioni legislative avute tra il 1975 e il 1983 (nuovo diritto di
famiglia,affidamento eterofamiliare,adozione) gli interessi personali del minore non erano riconosciuti ed erano
spesso confusi con gli interessi della famiglia e/o dei titolari della potestà genitoriale.La legge 184/1983
afferma che il principale diritto e interesse del minore,soprattutto extracomunitario,è la sua famiglia.
Minuchin ha lavorato a New York e a Londra con famiglie povere occupandosi della dinamica fra violenza
familiare sui bambini e violenza giudiziaria e istituzionale sulla famiglia e sul bambino stesso:nei tribunali di
Londra constatò che allontanare un figlio da una madre africana troppo manesca significa che questa è morta
perché nel suo paese i figli vengono tolti ai genitori solo quando questi muoiono;a New York fece da terapista
familiare in un caso di abuso e di abbandono di un bambino mentre lo stesso caso era trattato
contemporaneamente da altre 11 istituzioni.Per questo caso,a differenza delle istituzioni che tendevano a ridurre
la natura della violenza familiare,M. propose la separazione del bambino dalla sua famiglia.
CAP. 11 MINORI E ORGANIZZAZIONI CRIMINALI DI STAMPO
MAFIOSO Il coinvolgimento di minori in attività mafiose aumenta sempre di più.
A livello legislativo la risposta al problema si è realizzata attraverso l’emanazione di alcune leggi tra cui la
legge 27 maggio 1991,n. 176,con la quale il nostro paese aderisce alla convenzione ONU circa la prevenzione
della delinquenza minorile e la legge 21 luglio 1991,n. 216,con la quale si finanziano progetti elaborati dai
Comuni e da Associazioni delle Regioni meridionali per l’attivazione di interventi di prevenzione della
delinquenza e di risocializzazione nell’area penale.
A questa questione si è anche interessata la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul Fenomeno della Mafia
e sulle altre associazioni Criminali Similari” presentando una relazione,nel marzo 1991,sulla delinquenza
minorile con particolare riferimento alle zone ad alta densità criminale di stampo mafioso.
Il rapporto fra criminalità organizzata di stampo mafioso e minori sta aumentando in particolare in
Sicilia,Calabria,Puglia e Campania.
Il rischio è grosso se si pensa che in alcune aree del territorio nazionale i modelli mafiosi possono essere
fortemente attraenti per i ragazzi.Contesti in cui,tra l’altro,per molto tempo non vi è stata una netta
contrapposizione tra i valori mafiosi e quelli della società civile.
L’uomo d’onore svolgeva funzioni di mediazione,protezione e repressione dei conflitti che non sempre lo Stato
riusciva a gestire direttamente.
La mafia si è posta come struttura imprenditoriale illegale ma contenendo in sé una forte strutturazione di
regole e ruoli ben definiti.L’ingresso in una “famiglia” mafiosa non costituisce solo la possibilità di arricchirsi
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ma anche quella di costruirsi un’identità solida,uno status circondato da “rispetto”,potendo anche “fare carriera”
e assumere,quindi,una posizione elevata,anche se illegale.
Non possiamo affermare che ci si trovi di fronte a un sistematico e organico arruolamento di minori da parte
delle organizzazioni mafiose,ma va rilevato come il rischio di coinvolgimento è sempre più frequente.Se di
regola i minorenni non vengono affiliati alle consorterie mafiose,esiste però una certa attenzione alla criminalità
minorile a cui poter attingere in caso di necessità.
I potenziali candidati all’iniziazione sono innanzitutto i figli,cugini,e nipoti dei mafiosi stessi,ma anche ragazzi
qualsiasi,figli della criminalità comune,osservati e scelti con attenzione.
La criminalità organizzata sceglie un minorenne in quanto soggetto generalmente meno sospettato e controllato.
Oltre a essere meno visibile,il minorenne che delinque incorre in un sistema penale meno affittivo di quello
degli adulti.Ciò stimola la criminalità organizzata a servirsi di minorenni per attività illegali anche molto gravi.
I percorsi che i minori hanno a disposizione sono essenzialmente due:uno è di tipo familiare,l’altro può
avvenire sul campo.
In entrambi i casi l’appartenenza al gruppo mafioso rappresenta per l’adolescente la possibilità di soddisfare sia
bisogni materiali sia bisogni di tipo psicologico come godere di prestigio e rispetto,sicurezza di appartenere a
un gruppo forte.
LA CAMPANIA.La Commissione Parlamentare Antimafia è stata testimone di come in Campania i minori
vengono usati come “foderi” (trasportatori di armi),come spacciatori al minuto di stupefacenti e come
“portaordini”.
Napoli è una delle città più colpite dal fenomeno della delinquenza minorile a causa delle condizioni di degrado
sociale ed economico e all’espandersi del potere dei clan camorristici,che sviluppano il controllo del territorio
anche attraverso il reclutamento di minori.
Quello che appare preoccupante è la forza attrattiva dei modelli camorristici.I giovani tendono ad imitare
comportamenti criminali costituendo gruppi di fuoco e piccole bande allo scopo di eliminare testimoni scomodi
o rivali.
Sembrerebbe che l’area d’incontro tra la criminalità mafiosa e quella minorile sia rappresentata dallo spaccio di
droga che deve essere il più capillare possibile ma,nello stesso tempo,il più possibile invisibile alle forze
dell’ordine e quindi si fa sempre più spesso ricorso all’uso di minori come corrieri sia al minuto che
all’ingrosso.
Quando ha 9 anni il minore comincia la sua carriera come “muschillo”,spacciatore di droga;a 14 anni è già
pronto ad assumere incarichi più importanti ed è anche capace di usare le armi.
Un’area favorevole all’illegalità è la zona di confine tra la provincia di Salerno e quella di Napoli.
Un pericoloso aumento si registra nel comune di Eboli dove i clan clan camorristici imperversano in tutto il
territorio.Dai dati a disposizione del Servizio Sociale emerge che nell’area ebolitana molti minorenni risultano
coinvolti in attività estorsive come fonti di appoggio e di collegamento agli adulti dei clan.
Nella camorra si assiste a un costante ingresso di giovani che contribuiscono a mantenere bassa l’età media
degli aderenti.
Negli ultimi anni a seguito dell’opera di contrasto delle Forze dell’Ordine,la camorra ha dovuto riorganizzarsi
su base di maggiore flessibilità e riducendo anche la fase rituale d’ingresso.
LA PUGLIA.Nel corso di pochi anni anche la Puglia ha registrato un aumento non solo della criminalità
comune ma anche di quella organizzata di stampo mafioso.
La storia dei diversi gruppi mafiosi pugliesi è giovane.Altrettanto giovane è l’età degli affiliati (20/30).
In un’ordinanza emanata dal GIP del Tribunale per i Minorenni di Bari (1994) si delinea il coinvolgimento di
minori in un’organizzazione mafiosa.
Il gruppo mafioso avrebbe seguito una politica di addestramento e impiego di minorenni che,se pur non
formalmente affiliati,hanno partecipato allo spaccio di stupefacenti.I proventi di tale attività venivano versati
all’organizzazione dalla quale i ragazzi ricevevano un compenso denominato “spettanza”.Oltre allo spaccio di
stupefacenti,alcuni minori venivano utilizzati per le estorsioni,rapine,riciclaggio di auto rubate,traffico di
armi,ecc.
Un’altra inchiesta disegna un quadro del fenomeno dello spaccio di stupefacenti nella zona del rione Japigia di
Bari.L’intensa e lucrosa attività del gruppo criminale aveva determinato la necessità ad accrescere il numero
degli associati,tanto che i vertici dell’organizzazione non disdegnavano di accogliere e impegnare non solo tutti
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i parenti,anche se minori,ma anche ragazzi e giovanissimi,per lo più abitanti nella zona e nella città vecchia,già
dediti a furti,scippi e minuta vendita di tabacchi lavorati esteri di contrabbando,e/o giovani pregiudicati
desiderosi di realizzare facili guadagni senza eccessivo rischio.
I minori a bordo di ciclomotori,collaboravano con i soggetti dediti alla vendita di stupefacenti,stazionando in
prossimità dei luoghi di smercio con il compito di vigilare le vie di accesso a questi luoghi e segnalare
visivamente e tempestivamente ai “pali”,collegati a loro volta con radiotrasmittenti portatili con gli
spacciatori.Altro compito era quello di prelevare le dosi o le piccole partite di droga nascoste.Chi svolge tale
funzione viene denominato “cavallo”.
L’attività di “cavallo”,che costituisce il punto di partenza per l’introduzione a pieno titolo nel sodalizio
criminale,è ritenuta necessaria dai capi per valutare l’affidabilità dei soggetti da affiliare.
Nel corso delle indagini i minori (anche quando confessano la loro parte) non indicano mai elementi tali che
possono riferirsi ad adulti coimputati.Inoltre la scelta del difensore viene imposta dagli adulti coinvolti in
quanto complici o interessati a che quel minore non “canti” o che comunque esca quanto prima dal circuito
penale in quanto preziosa risorsa.
Il distretto giudiziario di Lecce comprende le province di Lecce,Brindisi e Taranto.Le prime due sono
considerate le sedi storiche della Sacra Corona Unita;ed è Lecce in particolare la Provincia a maggior
concentrazione mafiosa.
Dalla lettu8ra di alcuni atti giudiziari emerge una criminalità minorile sempre più spesso utilizzata nelle rapine
e,a volte,negli omicidi,oltrechè nel settore degli stupefacenti e del contrabbando (due tra le attività fondamentali
per l’economia delle organizzazioni criminali).
In particolare per quanto riguarda il reclutamento di minori è rilevabile una specifica,mirata strategia di
attenzione della criminalità organizzata verso ambienti giovanili caratterizzata da comportamenti
devianti,ambienti appartenenti a fasce sociali emarginate,povere,che trovano nell’alternativa criminale
prospettive di affermazione personale e di soluzione di problemi generali.
In genere si tratta di giovani utilizzati inizialmente in compiti secondari e di generica manovalanza cui non
segue,una vera e propria affiliazione;ma tale utilizzo dà la possibilità all’adolescente di distinguersi in senso
criminale e all’organizzazione illecita di verificare le competenze delinquenziali e l’affidabilità dello stesso.Si
costruisce,quindi,in questo modo la possibilità di una strutturazione stabile di un percorso deviante all’interno
dell’organizzazione che può arrivare ,in alcuni casi,ad un’affiliazione successiva vera e propria.Tra l’altro
bisogna anche tenere in considerazione che spesso il canale privilegiato di inserimento nei clan mafiosi è quello
familiare.
La Sacra Corona Unita si è servita di minorenni anche per la preparazione e la gestione di due attentati
dinamitardi presso il Palazzo di Giustizia di Lecce nel novembre del 1991 e nel gennaio del 1992,per intimidire
l’Autorità Giudiziaria impegnata all’epoca nella celebrazione del giudizio dibattimentale nei confronti della
Sacra Corona Unita.I due minorenni implicati nella vicenda parteciparono alla preparazione e al trasporto
dell’esplosivo,anche se materialmente non lo collocarono loro;comunque erano a conoscenza della destinazione
dell’ordigno e della finalità mafiosa dell’attentato.
Il reclutamento nei gruppi criminali pugliesi non è restrittivo.Nella Sacra Corona Unita si incontrano anche
tossicodipendenti e piccoli spacciatori,che vengono invece esclusi dalle cosche siciliane e dalla ‘ndrangheta.
LA CALABRIA.La ‘ndrangheta nel corso degli anni ha fatto parlare di sé soprattutto come organizzazione
specializzata nei sequestri di persona.
La minor attenzione di cui ha goduto la criminalità degli adulti sembra abbia anche caratterizzato quella
minorile.
A conferma della partecipazione di minorenni in attività dei clan mafiosi,vengono messe in luce le morti a
seguito di attentati di minori.Tali morti vanno considerate come il risultato di un regolamento di conti tra
cosche mafiose.
Dalla lettura di una sentenza emessa dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro (1991),si evince come alcuni
minorenni facevano parte di una cosca mafiosa che si contrapponeva per motivi di predominio e di controllo sul
territorio ad un altro gruppo e che per suo conto commettevano reati anche se si è trattato di fatti di
microcriminalità.I minori erano soliti comunicare al gruppo di appartenenza l’arrivo di nuovi ambulanti al
mercato settimanale di due cittadine della Provincia catanzarese per la riscossione della tangente che i
commercianti della zona erano costretti a pagare.
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Bisogna comunque dire che il coinvolgimento di minori imputati era solo occasionale e sganciato da qualunque
forma di inserimento ufficiale nell’ambito dell’organizzazione mafiosa.Tali forme di avvicinamento comunque
ai gruppi criminali possono amplificare i rischi di rimanere agganciati alle regole del clan.
Partecipazione certa ad un clan mafioso ci viene da un’altra sentenza in cui si parla di due minorenni di cui uno
faceva parte della cosiddetta “ala armata”,commettendo reati contro la persona,come omicidio e tentato
omicidio,e l’altro aveva compiuto estorsioni e altri reati.
La cosca calabrese si fonda in larga misura su una famiglia di sangue,ovvero la caratterizza un impianto di tipo
familistico.
L’età minima per essere iniziati all’ndrangheta e per poter far parte del primo gradino dell’organizzazione
(“picciotto liscio”) è di 14 anni.Anche prima di questa età i figli di affiliati vengono sottoposti a una forma di
iniziazione a seguito della quale si dice che sono “mezzo dentro e mezzo fuori”;spesso questa iniziazione
avviene il giorno del battesimo,quello religioso.La posizione di “mezzo dentro e mezzo fuori”,comunque,non
potrà essere superata prima dei 14 anni.Il fatto di essere già stato parzialmente affiliato da bambino favorisce in
genere l’affiliato in quanto gli conferisce una maggiore “anzianità” di partecipazione all’organizzazione,anche
se non ne determina l’affiliazione certa.Ai figli maschi degli uomini d’onore della ‘ndrangheta,per i quali si
suppone la futura appartenenza all’organizzazione,spetta la qualifica di “giovane d’onore”,che non è un vero e
proprio grado ma solo un riconoscimento della loro appartenenza alla “famiglia”;comunque essere considerati
giovani d’onore non implica un’affiliazione certa in futuro.
LA SICILIA.Cosa nostra,l’organizzazione mafiosa per eccellenza (anche se non l’unica dell’isola) si è da
sempre proposta come fonte di modelli di comportamento,stili di vita degni di rispetto.
La cerimonia di iniziazione è il punto di arrivo di un periodo di osservazione e selezione da parte degli uomini
più grandi,già uniti dal patto di sangue.
I potenziali candidati all’iniziazione sono innanzitutto i figli,i cugini e i nipoti dei mafiosi stessi,ma anche
ragazzi qualsiasi,figli della criminalità comune,osservati e scelti con attenzione.
Nella zona di Palermo i reati in materia di stupefacenti aumentano.Tale fenomeno vede coinvolte spesso intere
famiglie.Un lavoro di squadra,di solito tra madri e figli che vede questi ultimi all’età anche di 10-12 anni non
solo spacciatori al dettaglio ma anche vedette sveglie e pronte a inviare il segnale di pericolo.Uno di questi
teatri dello spaccio di droga è lo Zen,quartiere simbolo di tutte le periferie disgregate.Qui a bambini sempre più
piccoli vengono affidati incarichi quali la “staffetta”,la “vedetta” e lo smercio della droga.
Nel distretto di Caltanissetta un forte allarme proviene dalle storie di baby-killers,di baby-gang e di ragazze-
soldati della mafia.
Anche a Messina il coinvolgimento di minori nella criminalità mafiosa è alto e svolgono qualsiasi tipo di
attività:omicidi,spaccio di stupefacenti,trasporto di armi,estorsioni,ecc.
A Catania,non solo sempre più ragazzi approdano al mondo del crimine ma sempre più violente sono le azioni
di cui si rendono protagonisti.
Da una ricerca del Labos (1991) realizzata a San Giovanni Galerno (quartiere periferico di Catania) sul rapporto
criminalità minorile/malavita adulta,emerge che il ruolo dei giovani nelle organizzazioni mafiose è quello di
“mano d’opera a basso costo”.I giovani possono accedere ai gradini solo più bassi dell’organigramma mafioso
ma è preoccupante la loro forte ambizione di emergere all’interno del gruppo mafioso.