criminologia minorile cap. 1 miti e ricerche sulle...

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Scaricato da: http://formazione.forumcommunity.net Pagina 1 CRIMINOLOGIA MINORILE CAP. 1 MITI E RICERCHE SULLE PREDISPOSIZIONI FISICHE L’ampia letteratura sul problema della criminalità e delinquenza minorile ha contribuito a sviluppare le nostre conoscenze su molti aspetti relativi al crimine,alle condizioni fisiche e psicologiche degli autori di reati,alle condizioni sociali,familiari,culturali,di gruppo più frequentemente collegate al crimine.Da Lombroso in poi si sono cercati dei segni fisiologici,costituzionali,genetici,ormonali,neurologici,in grado di distinguere e rendere riconoscibile il criminale rispetto al non criminale,il cattivo,il perverso,il pericoloso sociale rispetto al normale.Compiendo studi su centinaia di detenuti,Lombroso,nel 1876,nella sua opera più nota,L’uomo delinquente,formulò la sua ipotesi del “delinquente nato” come tipo antropologico distinto,con tendenza a commettere crimini,caratterizzato da anomalie,malformazioni e asimmetrie dello scheletro,del cranio e della faccia,con altri segni fisici indicativi di degenerazione,come le dimensioni del cervello (troppo grande o troppo piccolo),zigomi sporgenti,grandi orecchie,sopracciglia folte,naso storto,occhi strabici,ecc.Inoltre osservò all’interno di questa sua tipologia,anche altre caratteristiche non fisiche,come la mancanza di senso morale,l’uso di un gergo delinquenziale,disprezzo della morte e della sofferenza,tendenza al tatuaggio,epilessia,vanità,crudeltà,pigrizia.Nel corso degli anni Lombroso delimitò al 35% di tutti i criminali la quota dei delinquenti nati,sostenendo che questi dovevano possedere per essere considerati tali almeno cinque delle caratteristiche proposte;aggiunse a tale categoria il “delinquente folle ” e il “delinquente occasionale ”,e concluse il suo itinerario scientifico affermando che ogni delitto ha la sua origine in una molteplicità di cause. Oggi gli studiosi non fanno più riferimento a quest’ipotesi per spiegare il comportamento criminale,ma dalla fine dell’800 in poi,per alcuni decenni,molti ricercatori hanno accettato la tesi dell’ereditarietà del delitto ,anche se è sempre mancato ilo consenso su ciò che viene ereditato e su come avviene la trasmissione.Dapprima le ricerche si sono orientate su quelle che venivano chiamate le “famiglie criminali ”,che sembravano mostrare una particolare concentrazione di delinquenti e devianti in genere.Agli studiosi di allora,queste famiglie apparivano come esempi evidenti di una inevitabile trasmissione della devianza dai genitori ai figli,per generazioni,probabilmente su base ereditaria innata.Gli innumerevoli lavori successivi non hanno confermato quest’ipotesi,poiché la non rappresentatività dei campioni e le incompletezze metodologiche non hanno mai consentito di affermare se viene trasmessa,nell’ambito di quelle famiglie,un’eredità “criminale” biologica,o un’eredità deviante ambientale,culturale,di stili comportamentali,psicologica,ecc. Alla fine degli anni ’40 Norwood East sembrava archiviare la questione affermando che le sue ricerche sugli adolescenti criminale e tutte le sue esperienze di studioso non gli avevano mai fornito prove che la criminalità in quanto tale fosse trasmissibile. Però a partire dagli anni ’30,la questione dell’ereditarietà del crimine trasse nuovo impulso dalle ricerche sui gemelli delinquenziali inaugurate dallo psichiatra tedesco Lange.L’obiettivo era quello di cercare di separare le influenze biologiche da quelle ambientali,confrontando i destini sociali e criminali dei gemelli identici (omozigoti) con quelli dei gemelli fraterni (dizigoti).Se i gemelli identici dovessero mostrare una maggiore frequenza di “comportamenti concordanti” rispetto ai gemelli fraterni,risulterebbe evidente in quei casi uno specifico ruolo della base ereditaria innata.Lange lavorò su gemelli istituzionalizzati nelle carceri bavaresi:trovò dati per ricostruire la storia di 13 coppie di gemelli monozigote e 17 dizigote.Nel primo gruppo,in 10 casi entrambi i gemelli avevano conosciuto l’esperienza del carcere;nel secondo solo in due casi c’era tale concordanza.Le conclusioni tratte da questi dati sono state ampiamente dibattute e criticate,sia per il piccolo numero di casi presi in esame,sia perché la maggior parte dei gemelli monozigoti avevano in comune anche lo stesso ambiente di sviluppo,sia perché Lange aveva assunto come dato concordante o discordante la semplice incarcerazione,che evidentemente non è un comportamento del soggetto,ma può avere alla base tipi anche molto diversi di comportamento criminale,e perfino nessun tipo di azione deviante. All’interno dell’approccio biologico-antropologico notevole fortuna ha riscosso la scuola del “tipo corporeo ”,secondo cui la conoscenza dell’organismo somatico umano permette di comprendere i suoi processi psicologici. Il più noto sostenitore di questo orientamento fu Ernest Kretschmer,uno psichiatra tedesco che mise in relazione tre tipi costituzionali principali (l’astenico,l’atletico e il picnico) con forme specifiche di malattia mentale (la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva).

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CRIMINOLOGIA MINORILE CAP. 1 MITI E RICERCHE SULLE PREDISPOSIZIONI FISICHE L’ampia letteratura sul problema della criminalità e delinquenza minorile ha contribuito a sviluppare le nostre

conoscenze su molti aspetti relativi al crimine,alle condizioni fisiche e psicologiche degli autori di reati,alle

condizioni sociali,familiari,culturali,di gruppo più frequentemente collegate al crimine.Da Lombroso in poi si

sono cercati dei segni fisiologici,costituzionali,genetici,ormonali,neurologici,in grado di distinguere e rendere

riconoscibile il criminale rispetto al non criminale,il cattivo,il perverso,il pericoloso sociale rispetto al

normale.Compiendo studi su centinaia di detenuti,Lombroso,nel 1876,nella sua opera più nota,L’uomo

delinquente,formulò la sua ipotesi del “delinquente nato” come tipo antropologico distinto,con tendenza a

commettere crimini,caratterizzato da anomalie,malformazioni e asimmetrie dello scheletro,del cranio e della

faccia,con altri segni fisici indicativi di degenerazione,come le dimensioni del cervello (troppo grande o troppo

piccolo),zigomi sporgenti,grandi orecchie,sopracciglia folte,naso storto,occhi strabici,ecc.Inoltre osservò

all’interno di questa sua tipologia,anche altre caratteristiche non fisiche,come la mancanza di senso

morale,l’uso di un gergo delinquenziale,disprezzo della morte e della sofferenza,tendenza al

tatuaggio,epilessia,vanità,crudeltà,pigrizia.Nel corso degli anni Lombroso delimitò al 35% di tutti i criminali la

quota dei delinquenti nati,sostenendo che questi dovevano possedere per essere considerati tali almeno cinque

delle caratteristiche proposte;aggiunse a tale categoria il “delinquente folle” e il “delinquente occasionale”,e

concluse il suo itinerario scientifico affermando che ogni delitto ha la sua origine in una molteplicità di cause.

Oggi gli studiosi non fanno più riferimento a quest’ipotesi per spiegare il comportamento criminale,ma dalla

fine dell’800 in poi,per alcuni decenni,molti ricercatori hanno accettato la tesi dell’ereditarietà del delitto,anche

se è sempre mancato ilo consenso su ciò che viene ereditato e su come avviene la trasmissione.Dapprima le

ricerche si sono orientate su quelle che venivano chiamate le “famiglie criminali”,che sembravano mostrare una

particolare concentrazione di delinquenti e devianti in genere.Agli studiosi di allora,queste famiglie apparivano

come esempi evidenti di una inevitabile trasmissione della devianza dai genitori ai figli,per

generazioni,probabilmente su base ereditaria innata.Gli innumerevoli lavori successivi non hanno confermato

quest’ipotesi,poiché la non rappresentatività dei campioni e le incompletezze metodologiche non hanno mai

consentito di affermare se viene trasmessa,nell’ambito di quelle famiglie,un’eredità “criminale” biologica,o

un’eredità deviante ambientale,culturale,di stili comportamentali,psicologica,ecc.

Alla fine degli anni ’40 Norwood East sembrava archiviare la questione affermando che le sue ricerche sugli

adolescenti criminale e tutte le sue esperienze di studioso non gli avevano mai fornito prove che la criminalità

in quanto tale fosse trasmissibile.

Però a partire dagli anni ’30,la questione dell’ereditarietà del crimine trasse nuovo impulso dalle ricerche sui

gemelli delinquenziali inaugurate dallo psichiatra tedesco Lange.L’obiettivo era quello di cercare di separare le

influenze biologiche da quelle ambientali,confrontando i destini sociali e criminali dei gemelli identici

(omozigoti) con quelli dei gemelli fraterni (dizigoti).Se i gemelli identici dovessero mostrare una maggiore

frequenza di “comportamenti concordanti” rispetto ai gemelli fraterni,risulterebbe evidente in quei casi uno

specifico ruolo della base ereditaria innata.Lange lavorò su gemelli istituzionalizzati nelle carceri bavaresi:trovò

dati per ricostruire la storia di 13 coppie di gemelli monozigote e 17 dizigote.Nel primo gruppo,in 10 casi

entrambi i gemelli avevano conosciuto l’esperienza del carcere;nel secondo solo in due casi c’era tale

concordanza.Le conclusioni tratte da questi dati sono state ampiamente dibattute e criticate,sia per il piccolo

numero di casi presi in esame,sia perché la maggior parte dei gemelli monozigoti avevano in comune anche lo

stesso ambiente di sviluppo,sia perché Lange aveva assunto come dato concordante o discordante la semplice

incarcerazione,che evidentemente non è un comportamento del soggetto,ma può avere alla base tipi anche

molto diversi di comportamento criminale,e perfino nessun tipo di azione deviante.

All’interno dell’approccio biologico-antropologico notevole fortuna ha riscosso la scuola del “tipo

corporeo”,secondo cui la conoscenza dell’organismo somatico umano permette di comprendere i suoi processi

psicologici.

Il più noto sostenitore di questo orientamento fu Ernest Kretschmer,uno psichiatra tedesco che mise in

relazione tre tipi costituzionali principali (l’astenico,l’atletico e il picnico) con forme specifiche di malattia

mentale (la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva).

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Sheldon si interessò della relazione tra la forma del corpo e tendenza verso la delinquenza.La sua tipologia

distingueva tre componenti costituzionali fondamentali:l’endomorfia che produce rotondità,la mesomorfia

caratteristica dei soggetti muscolosi e l’ectomorfia a cui corrisponderebbe la magrezza e la fragilità;a queste

componenti venivano associati determinati tipi di temperamento.In seguito ad uno studio su 200 ragazzi di una

casa di riabilitazione,Sheldon affermò che la costituzione dei mesomorfi,cioè dei soggetti muscolosi,si prestava

più favorevolmente come base per la delinquenza.

I coniugi Glueck,riprendendo la tipologia di Sheldon,misero in relazione questi tipi somatici con una lista di

tratti di personalità e di fattori socio-culturali.Dai risultati non emersero comunque prove sufficienti di una

relazione particolare e specifica tra aspetti fisici,caratteriali e ambientali,tale da sostenere e giustificare l’ipotesi

di una personalità predisposta alla delinquenza.

Le critiche effettuate nei confronti di queste ricerche riguardano essenzialmente la carenza delle metodologie

adottate;inoltre il campione preso in considerazione era spesso viziato in partenza,in quanto la popolazione

criminale veniva identificata con la popolazione istituzionalizzata.

Verso la metà degli anni ’60 gli studi criminologici si sono interessati del ruolo dei cromosomi sessuali nella

spiegazione del comportamento deviante.Questo tentativo è avvenuto in seguito alla scoperta di alcune

anomalie cromosomiche,tra cui la “sindrome dell’extra Y”,consistente nel fatto che alcuni individui di sesso

maschile ereditano un cromosoma sessuale in più,cioè presentano una situazione cromosomica XXY o XYY

(invece della normale coppia XY).I primi studi rilevarono una frequenza maggiore di queste anomalie in

soggetti maschi detenuti per crimini violenti,da cui venne ipotizzata una relazione tra sindrome dell’extra Y e

tendenza all’aggressività.Ricerche successive hanno invece evidenziato che non esistono prove sufficienti per

sostenere tali ipotesi.

Nonostante le continue critiche riemergono continuamente,da parte di studiosi di impostazione

neurologica,fisiopsicologica,ecc.,sempre nuovi tentativi di trovare fattori fisici costituzionali esplicativi del

comportamento deviante.

Una sintesi attuale di queste tendenze è quella che muove dallo studio dell’instabilità psicomotoria con

l’obiettivo di individuare un insieme di fattori neurologici che,quasi necessariamente,portano i ragazzi verso

carriere devianti.Questi fattori neurologici vengono considerati determinanti nella spiegazione di alcune

sindromi come il discontrollo episodico,il danno minimo cerebrale (DMC) e il disturbo della personalità

antisociale,sindromi che sarebbero frequentemente associate a comportamenti violenti e aggressivi.Ancora una

volta mancano,però,prove sufficienti per sostenere la validità di questi passaggi:non è stato dimostrato né il

ruolo significativo dei fattori genetici in queste sindromi,né il fatto che tali disturbi siano più frequenti nei

soggetti criminali e violenti.Il DMC è caratterizzato da un deficit della capacità di attenzione,impulsività e

iperattività,con o meno ulteriori segni neurologici e neuropsicologici.I sintomi di questa sindrome non possono

essere considerati predittivi rispetto a un’eventuale devianza in quanto si tratta,in genere,di fasi evolutive che

tendono ad attenuarsi con il tempo,fino a scomparire nel periodo adolescenziale.Le difficoltà manifestate

inizialmente da questi ragazzi (iperattività motoria,labilità attentava,ecc.) interagiscono con le risposte non

sempre adeguate dell’ambiente circostante che può non riuscire ad entrare in rapporto con queste persone per

rispondere ai loro specifici bisogni di socializzazione e apprendimento;si arriva così ad un irrigidimento dei

sintomi iniziali,da cui può derivare un comportamento aggressivo.

E’ necessario sempre mantenere distinte l’aggressività e la criminalità.L’aggressività può essere funzionale o

disfunzionale al comportamento criminale come a qualunque altro tipo di comportamento.Inoltre l’aggressività

non ha una base neurologica univoca;non esiste una prova sicura di “centri” neurali la cui stimolazione

provochi inevitabilmente aggressività.

Ogni azione violenta,criminale è specifica in relazione al soggetto che l’ha messa in atto,alla situazione,alle

particolari condizioni,e non può mai essere legata solo a un deficit neurologico o a lesioni cerebrali.

CAP. 2 SIGNIFICATI E LIMITI DELLE SPIEGAZIONI

PSICOPATOLOGICHE E PSICHIATRICHE I disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una causa idonea a spiegare il comportamento

criminale.Gli studi condotti su soggetti dimessi da istituzioni psichiatriche hanno messo in evidenza come la

percentuale dei reati commessa da queste persone non fosse superiore a quella del resto della popolazione.La

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malattia mentale non può essere considerata una causa diretta del comportamento criminale.Il malato mentale

può mettere in atto comportamenti aggressivi,violenti,che possono anche costituire reato da un punto di vista

del codice penale,ma tali reati non possono essere riferiti solo alla malattia mentale e devono essere invece

analizzati in termini di dinamica situazionale con la vittima,con gli altri partecipanti,con il contesto.

Nel nostro sistema legislativo,come in molti altri,il motivo principale che può stabilire l’imputabilità è la

malattia mentale.Accertare se un malato di mente è capace o meno di intendere e di volere è una questione che

va affrontata caso per caso ma non può essere generalizzata ai fini della spiegazione del comportamento

criminale.Se un soggetto che ha commesso un crimine viene dichiarato incapace di intendere e di volere in

quanto malato mentale,ciò non vuol dire che i malati di mente in genere siano incapaci di intendere e di volere.

La nevrosi,la psicosi,la personalità psicopatica,sono state considerate cause di predisposizione a comportamenti

criminali.Però,le ricerche partono da errati presupposti di generalizzazione.Vengono infatti scelti soggetti che si

trovano in carcere o in manicomio criminale,che hanno commesso dei reati e nel momento della commissione

del reato,o prima o dopo,che presentano una sintomatologia psicopatologica evidenziata,diagnosticata dagli

psichiatri.

Per quanto riguarda le psicosi,alcuni sintomi come deliri,allucinazioni,distacco dalla realtà,hanno indotto a

credere che l’imprevedibilità della condotta degli psicotici avrebbe potuto,in qualsiasi momento,sfociare in

comportamenti criminali.

Tra le varie forme di psicosi sono state prese in considerazione soprattutto la schizofrenia e la paranoia.La

schizofrenia,caratterizzata da profonde alterazioni della personalità e da una conseguente compromissione e

rottura del rapporto con la realtà,può provocare atteggiamenti bizzarri,disordinati,abnormi e fra questi possono

emergere azioni definite come reati.Ciò però non vuol dire che lo schizofrenico è un soggetto sempre e

comunque pericoloso e che la sua pericolosità è una conseguenza diretta di quei disturbi.Bisogna infatti

considerare anche i problemi legati ai disagi personali che derivano dalle alterazioni delle percezioni e delle

rappresentazioni mentali,molto frequenti in queste sindromi.Inoltre la pericolosità degli schizofrenici potrebbe

anche essere una risposta all’emarginazione,a un atteggiamento eccessivamente ostile dell’ambiente circostante.

Ugualmente,la rigidità dei “convincimenti” che si sviluppano nel paranoico con carattere di delirio e i suoi

sentimenti di grandezza e persecuzione possono portarlo a comportamenti di tipo aggressivo,violento,e anche

ad azioni che costituiscono reato;questi passaggi vanno però esaminati dal punto di vista dell’interazione tra

paranoico e ambiente.Il crimine non è un effetto puro e semplice della paranoia,ma è la risultante di un processo

che può essere ricostruito e in cui la vittima può aver svolto anche una parte attiva.Un’analisi processuale è

importante non solo per esaminare la situazione,ma anche per vedere come si sono formate e organizzate nel

soggetto quelle idee deliranti di persecuzione.E’ importante svolgere un’analisi processuale a più livelli che

tenga conto di come la malattia mentale si inserisce nel rapporto tra soggetto e comportamento,e tra

soggetto,comportamento e risposta degli altri nelle interazioni sociali,in moda da avere una spiegazione più

completa sia della malattia mentale che del comportamento criminale.

Un problema particolare che si incontra nel trattare il rapporto tra criminalità e nevrosi è quello relativo alla

definizione dello stesso termine di “nevrosi”.Si tratta di una categoria molto vasta,troppo spesso generalizzata e

confusa.E’ difficile individuare le componenti nevrotiche che caratterizzano la personalità di un delinquente in

quanto i disturbi nevrotici (ansia,insicurezza,fobie,nervosismi) fanno parte della realtà quotidiana di tutti e

possono diventare particolarmente evidenti nei periodi di maggiore stress.La nevrosi non agisce direttamente

sul comportamento criminale.Si tratta di una difficoltà personale che produce ansia,insicurezza;questi problemi

si ripercuotono nell’ambiente circostante,nella famiglia,nel lavoro,creando disagi nei rapporti che possono

accentuare le difficoltà del soggetto.

Uno dei concetti più usato in campo criminologici è quello di “personalità psicopatica”.Per “personalità

psicopatica” si intende una sindrome che presenta una serie di caratteristiche psicologiche comunemente non

accettate come normali (mancanza di senso morale,incapacità di apprendere dall’esperienza e dalle

punizioni,assenza di sensi di colpa,inaffettività,impulsività) che la rendono costantemente fonte di sofferenza

per sé e per gli altri.Lo psicopatico,conservando lucidità intellettiva e cognitiva,sarebbe incapace di stabilire

relazioni approfondite,di prevedere gli effetti del proprio comportamento,di mettersi nei panni degli altri;queste

caratteristiche farebbero di lui un soggetto portato al comportamento criminale,alla delinquenza.

E’ stata spesso sottolineata una caratteristica dello psicopatico riguardante la ripetitività di atteggiamenti e

comportamenti,una ripetitività che può coinvolgere anche atteggiamenti e comportamenti dannosi per la

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società.Ci si potrebbe chiedere perché questi comportamenti tendono a ripetersi,che cosa c’è alla base di questa

ripetitività,e bisognerebbe quindi ricostruire la storia del soggetto,i vari processi collegati con le interazioni,con

le rappresentazioni mentali e le elaborazioni cognitive del soggetto stesso.La ripetitività e la rigidità di queste

persone non è mai totale,ma riguarda solo alcune aree del comportamento.

Il concetto di personalità psicopatica è più uno stereotipo che una categoria scientifica e andrebbe quindi

eliminato.Ma anche nei manuali più recenti di criminologia il concetto permane.

Un tema importante è quello del rapporto tra intelligenza e criminalità;si riteneva che la maggior parte dei

criminali fossero persone con deficit intellettivi,con un’intelligenza scarsa,debole o perfino subnormali.Gli studi

più recenti hanno invece dimostrato che per alcuni tipi di reato come frodi,truffe,falsificazione della

moneta,sono stati trovati indici di intelligenza superiori alla media.

Certamente esiste il problema del debole di mente,esistono persone che presentano carenze nell’esprimere le

proprie potenzialità intellettive,che hanno una debole capacità di simbolizzazione e concettualizzazione,tutti

aspetti che possono causare difficoltà,momenti di conflitto nelle interazioni con gli altri,in quanto queste

persone,non avendo sviluppato le più astratte competenze cognitive,simboliche,concettuali,possono usare più

frequentemente l’azione come modalità di difesa e di risoluzione dei problemi;ciò però non significa che il

debole di mente sia più portato a commettere reati.

Nell’adolescenza raramente si manifestano quadri patologici definiti.Potrebbero insorgere dei disturbi

psicotici,ma che conservano comunque una notevole potenzialità di reversibilità e di evolutività.Riguardo la

nevrosi è difficile fare una diagnosi precisa di questo tipo in adolescenza,si preferisce invece parlare di modalità

nevrotiche che hanno un carattere temporaneo e che frequentemente tendono a sfumare e a scomparire

nell’adulto.E’ ancora più fuorviante usare le categorie della personalità psicopatica per la delinquenza

minorile.Definire un minorenne come psicopatico significa trascurare le sue potenzialità evolutive.Nella

classificazione nosografia proposta dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV)

dell’American Psychiatric Association,le condotte socialmente inadeguate ad esordio infantile rientrano per lo

più all’interno della categoria di “Disturbi da Deficit di Attenzione e da Comportamento dirompente”.Vi sono

in particolare:il “Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività”,il Disturbo della Condotta”,il “Disturbo

Oppositivo-Provocatorio”.La prima di queste sindromi conosciuta anche come “ipercinetica” include una serie

di manifestazioni che compaiono in genere prima dei 7 anni specialmente nelle situazioni di gruppo:invasione

nell’attività altrui,difficoltà a rispettare il proprio turno nella relazione o nel gioco strutturato.Nel caso

dell’adolescente,l’iperattività motoria tenderebbe in genere ad attenuarsi o a scomparire,lasciando il posto ad

una difficoltà nel controllo degli impulsi che può sfociare in un’infrazione delle regole familiari,interpersonali e

scolastiche.

Nei “Disturbi della Condotta” rientrano comportamenti che trovano la loro specificità nel conflitto

sociale:aggressioni,menzogne,disobbedienze,furti,fenomeni di vandalismo,fughe da casa,precocità

sessuale,abuso di alcolici e droghe.Tali problematiche tendono ad emergere frequentemente in epoca

scolare,nella fase,cioè,di sperimentazione delle appartenenze extra-familiari.

Numerose sono state le ricerche longitudinali avviate per verificare il significato predittivo dei disturbi precoci

della condotta in relazione allo sviluppo di successivi comportamenti delinquenziali.Le manifestazioni ad

esordio adolescenziale si presentano più comunemente in forme socializzate,sembrano più lievi e tendono a

risolversi negli anni.Le manifestazioni precoci,invece,comparse prima del decimo anno di età,sono

caratterizzate in genere dalla predominanza di un comportamento fisicamente aggressivo verso gli

altri,difficoltà di integrazione sociale e mostrano un maggiore rischio di residuare il disturbo anche in età

adulta.Questo secondo gruppo prevede,rispetto al primo,una probabilità maggiore di sviluppare un successivo

“Disturbo di Personalità Antisociale”.

Il “Disturbo Oppositivo-Provocatorio” è caratterizzato da forme ostili,litigiose,ma che non mostrano

ripetutamente aggressioni e violazioni delle norme.Queste forme assumono una rilevanza clinica tra l’ottavo

anno di età e la prima adolescenza.La comparsa dell’oppositività,invece,nell’adolescenza vera e propria,viene

riferita al bisogno di autonomia e di individuazione affettiva che caratterizzata questa fase della vita ed è

ascritta pertanto ad un ambito di normalità e di significato evolutivo.

Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio ha maggiore prevalenza nelle famiglie in cui l’accudimento del bambino è

turbato da un susseguirsi di diverse persone,o in famiglie in cui sono comuni pratiche educative

rigide,incoerenti o distratte.

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Ci sono,poi,i “Disturbi del Controllo degli Impulsi”.A differenza delle compulsioni vere e proprie,con le

quali condivide la persistenza e l’invasività,il comportamento impulsivo si accompagna a un’esperienza di

piacere o liberazione al momento in cui viene eseguito.

Abbiamo in particolare il “Disturbo Esplosivo Intermittente”,caratterizzato da crisi brevi ed episodiche di

perdita del controllo dell’aggressività,tali da poter sfociare in atti distruttivi nei confronti delle proprietà;la

“Cleptomania” ossia l’incapacità di resistere alla tentazione di rubare oggetti indipendentemente dalla loro

utilità e dal valore commerciale;la “Piromania” cioè la tendenza deliberata e finalizzata a produrre incendi.

Il “Disturbo della personalità” si ha quando la difficoltà di rapportarsi a sé e agli altri non rimane confinata a

uno stadio dello sviluppo,ma tende a stabilizzarsi nel tempo.La caratteristica essenziale è un modello di

comportamento che devia rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo,e si manifesta in almeno due delle

seguenti aree:cognitiva,affettiva,interpersonale o controllo degli impulsi.

Tra le diverse diagnosi proposte ci sono:il “Disturbo Antisociale di Personalità” e il “Disturbo Borderline di

Personalità”.Il Disturbo Antisociale di Personalità raggruppato insieme a quello Borderline,Istrionico e

Narcisistico si manifesta sin dall’età di 15 anni.Tratti caratteristici sono:inadattabilità alle norme sociali o agli

standard del gruppo,tendenza all’inganno,incapacità di riflettere sul proprio

comportamento,aggressività,irresponsabilità,mancanza di rimorso.

La sindrome borderline è caratterizzata da un’instabilità interpersonale ed affettiva,impulsività e un marcato

disturbo dell’identità personale:condotte dannose per sé e per gli altri,collera,impulsività nelle spese,disturbi

alimentari,pratiche sessuali indiscriminate,abusi di sostanze,guida spericolata,ecc.Un senso di sé incoerente e

scarsamente integrato è alla base delle sensazioni di vuoto e di noia in questi soggetti.Le intense oscillazioni

dell’umore testimoniano una marcata instabilità della sfera affettiva.La presenza di rabbia come emozione

prevalente sembra evidenziare una vita relazionale intensa ma precaria,soggetta all’alternanza tra

l’iperidealizzazione e la svalutazione dell’altro e dominata dal timore di un potenziale o temporaneo abbandono

che spesso finisce con il trasformare i forti vissuti di dipendenza in risentita ostilità.E’ uno stile

comportamentale che può sfociare in minacce di suicidio o in agiti autolesivi.

CAP. 3 L’INFLUENZA DELLE DROGHE Il problema della tossicodipendenza e dell’alcolismo è legato a qualcosa di esogeno,la sostanza che viene

introdotta nell’organismo e che produce delle modifiche fisiologiche e psicologiche.

Ci troviamo di fronte a un forte stereotipo sociale che considera la tossicodipendenza e l’alcolismo strettamente

collegati alla criminalità.Ma le ricerche statistiche propongono spesso il difetto del falso campione.Il

fenomeno,infatti,è molto più diffuso di quanto si crede e si sappia.C’è un vastissimo “numero oscuro” di

tossicodipendenti e alcolisti con caratteristiche psicologiche,sociologiche,culturali,ambientali,ben diverse da

quelle del gruppo di tossicodipendenti istituzionalmente noti.I dati di cui disponiamo non sono quindi

oggettivi,generalizzabili,in quanto mancano rilevazioni attendibili sull’intera popolazione coinvolta in queste

problematiche.

In genere si distingue fra un rapporto “diretto”,che riguarda i reati commessi “sotto l’effetto delle droghe”,e un

rapporto “indiretto”,inerente invece la delinquenza strumentale alla necessità di procurarsi la droga,alla

criminalità legata allo spaccio,al traffico delle droghe,a certe aree e subculture devianti.

Vi sono sostanze stimolanti,altre che rallentano l’attività della mente,altre che modificano la percezione della

realtà.Queste alterazioni non sono uniformi e costanti,ma dipendono da una serie di variabili,di dimensioni

psicologiche,culturali,che modificano lo stesso effetto che la sostanza produce sia a livello psicologico che

fisiologico.Sono determinanti i fattori legati al singolo individuo che fa uso di droghe,come l’età,la

personalità,l’atteggiamento,le componenti imitative e di sfida.Importanza hanno anche il tipo di contesto in cui

avviene l’assunzione,se c’è o meno l’approvazione dell’ambiente circostante,il tipo di legame che si viene a

creare tra i consumatori,ecc.

Non è stata dimostrata una relazione diretta tra assunzione di droga e commissione di reati;è la persona a

mettere in atto i propri comportamenti:la sostanza può interagire insieme ad una serie di altri fattori,ma non

impedisce la mediazione cognitiva,anche se può alterarla.

E’ necessario operare delle distinzioni riguardo al tipo di droga o al grado di tossicodipendenza.

Per quanto riguarda il nesso diretto,le sostanze a effetto depressivo,come gli oppiacei (morfina,eroina,ecc.)

generalmente non sono associate alla violenza,in quanto provocano uno stato di rilassamento generale,sia pure

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con variabili soggettive.Il legame tra eroina e criminalità quindi è soprattutto di tipo indiretto,dovuto alla

necessità di procurarsi dosi sempre maggiori a prezzi altissimi;frequenti fra questa popolazione sono i reati

contro la proprietà.

Vengono considerate sostanze particolarmente dannose gli stimolanti,soprattutto le anfetamine e la cocaina,le

quali,se assunte per lungo tempo e per dosi massicce,possono alterare la percezione della realtà alimentando

idee allucinatorie di tipo paranoico.Ma neanche qui si può parlare di un rapporto diretto tra droghe e

comportamento criminale;queste sostanze preparano il terreno alla violenza in persone che hanno già strutturato

disposizioni aggressive.Anche per quanto riguarda droghe come l’LSD e altri allucinogeni che producono

alterazioni a livello cognitivo,percettivo,motorio,non ci sono prove che dimostrano che queste sostanze causino

violenza e aggressività.

Molti crimini violenti sono legati all’assunzione di alcol.Questo però non ci permette di affermare che

l’alcolismo causi la criminalità.L’alcolismo come malattia è un problema alquanto diffuso e se andiamo a

vedere i reati a carico di questi soggetti,essi probabilmente non sono superiori a quelli del resto della

popolazione.L’alcol agisce rapidamente sul sistema nervoso centrale interferendo sui centri inibitori;ciò

significa che può abbassare la soglia di controllo rispetto a qualsiasi tipo di comportamento e non solo rispetto

al comportamento criminale.Si parla molto spesso di violenze e omicidi in famiglia (in particolare uxoricidi),in

cui l’alcol è uno dei tanti fattori implicati,ma non necessariamente l’unico e non necessariamente tali azioni

sono causate direttamente dall’alcol.E’ probabile che quell’omicidio,quella violenza siano dovuti a un periodo

di conflitti,di deterioramento del rapporto tra i coniugi forse collegato con l’inizio dell’alcolismo.Il soggetto in

stato di intossicazione cronica o acuta si trova come se non riuscisse a utilizzare tutte le sue competenze sociali

(controllo,capacità di gestire le situazioni,di rapportarsi agli altri,di ottenere riconoscimenti e di evitare

svalutazioni,ecc.),queste condizioni possono provocare risposte più problematiche da parte delle persone con

cui entra in rapporto,si possono instaurare dimensioni relazionali contorte da cui il soggetto forse ritiene di non

poter più uscire se non attraverso un comportamento violento,aggressivo.

Lo stato attuale delle ricerche è che nessuna droga,né l’LSD,né le anfetamine,né l’alcol determinano in modo

specifico un qualche tipo di comportamento sociale.Queste sostanze possono disorganizzare i

comportamenti,creare varie difficoltà,modificare la percezione,la rappresentazione della realtà,ma bisogna poi

vedere come il soggetto è arrivato ad assumere quelle sostanze e poi a mettere in atto il comportamento

criminale.

Più rilevanti sono i rapporti indiretti tra droga e comportamenti devianti.Un primo effetto indiretto è legato alle

droghe illegali e al loro alto prezzo sul mercato;nel momento in cui c’è una dipendenza dalla sostanza,il costo

alto può facilitare una commissione di reati.Il soggetto ruba per procurarsi la “roba”;quel reato non è quindi una

conseguenza diretta della sostanza,ma è legato a processi sociali.

Un altro effetto indiretto è legato al fatto che l’acquisto delle droghe illegali porta i giovani a contatto con

ambienti criminali.Ciò può facilitare la permanenza in questi ambienti o l’abitudine a frequentarli.La

criminalità ha interesse affinché la tossicodipendenza si diffonda e attrae soggetti emarginati,che si orientano

verso le zone della devianza e tende a inserirli nel sistema della droga dove diventano fonti stabili di guadagno.

Per un adolescente l’effetto “diretto” è ancora più marcato,in quanto per un’identità psicofisica non

consolidata,ancora in evoluzione,le varie droghe possono avere conseguenze più forti.

La commissione di reati per procurarsi la droga sarà più probabile per i giovani,in quanto soggetti in genere

senza reddito o comunque con un reddito troppo basso rispetto al notevole costo delle sostanze.

Becker identifica tre momenti nella carriera deviante:

- il primo passo consiste nell’eseguire un atto che infrange un determinato insieme di norme;

- il secondo è rappresentato dall’esperienza di essere etichettato come deviante.Tale definizione ha delle

conseguenze sul soggetto che deve riorganizzare la sua identità sulla base del ruolo che gli hanno attribuito;

- il terzo passo consiste nell’entrare a far parte di un gruppo deviante organizzato.

Come Becker stesso ha scritto,il suo maggiore studio della devianza in generale,e quindi della

tossicodipendenza,è quello di aver fornito un modello di ricerca che permette di analizzare i fenomeni come

processi e non come prodotti di fattori e cause antecedenti.Sulla base di questo modello sequenziale si è cercato

di prefigurare tre fasi del percorso costruttivo della devianza.

La prima fase riguarda gli antecedenti storici della devianza.Si tratta di fattori come carenze

infantili,deprivazioni genitoriale,rapporti conflittuali,nodi psicopatologici.Si parla di indicatori di rischi

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aspecifici,poiché queste precondizioni,anche se sono presenti in molte carriere devianti,rimangono tuttavia

aperte ad esiti di tipo diverso,non deviante.

La seconda fase riguarda in genere un periodo di breve durata,ma intenso,in cui emerge nella storia del soggetto

una crisi che si manifesta in episodi devianti.Si tratta di una fase molto rischiosa in cui gli antecedenti storici

possono riorganizzarsi ed essere filtrati dalla crisi con il risultato della comparsa della devianza.Nonostante

tutto,però,tale processo tende a rimanere aperto verso altri percorsi con un aumento,però,di sensibilità verso le

interazioni devianti.

La terza fase riguarda la probabilità di stabilizzazione del percorso deviante che può risultare tormentata e

molto lunga nel tempo.Sembra caratterizzata dalla tendenza a usare la devianza come funzione selettiva per

attrarre comportamenti,emozioni e pensieri,con il risultato di un progressivo irrigidimento del percorso e una

meno probabile apertura verso altri percorsi di vita alternativi alla devianza.

Si è cercato,mediante una ricerca su un gruppo di tossicodipendenti (1992),di ricostruire la loro carriera

tossicomania e di comprendere il processo attraverso il quale sono divenuti tossicodipendenti.Si è preso in

considerazione un gruppo di cinque tossicodipendenti che stavano in una comunità terapeutica del Lazio per

compiere un percorso su loro stessi dopo la decisione di smettere di drogarsi.

Il metodo privilegiato è quello clinico-casistico di tipo longitudinale.Esso è un metodo che permette di cogliere

gli aspetti evolutivi di un fenomeno,di acquisire informazioni non solo sulla presenza o sull’assenza di

comportamenti devianti,ma anche sui cambiamenti del comportamento nel tempo.

Con il metodo longitudinale è stato possibile condurre la ricerca in modo retrospettivo attraverso

l’autobiografia,intesa nel senso di un racconto di ciò che si pensa di aver fatto,in quali situazioni,come e per

quali ragioni soggettive.L’autobiografia è un racconto fatto da un narratore,riguarda un protagonista che porta il

suo stesso nome e la storia finisce nel presente quando il protagonista si fonde con il narratore.

La tecnica utilizzata per ricostruire la carriera del tossicodipendente è stata un’intervista clinica sulla storia di

vita dei soggetti a partire da una domanda in cui si chiede di parlare dei diversi periodi della propria vita,dei

diversi periodi di rapporto con la droga,e di dire come è avvenuto il passaggio da un periodo all’altro.Questa

domanda ha come presupposto che i diversi periodi della vita e quindi della carriera del tossicodipendente

hanno livelli di autonomia l’uno rispetto all’altro.In ogni periodo ci sarebbe la riorganizzazione di

relazioni,comportamenti,emozioni e pensieri ad opera di nuovi eventi che diventano predominanti in quel

periodo.

Per analizzare le interviste realizzate,è stata elaborata una “griglia di lettura” composta da 4 categorie attraverso

le quali è stato filtrato il contenuto delle interviste:

1) Autoattribuzioni: qualità e caratteristiche che il soggetto attribuisce a se stesso;

2) Eteroattribuzioni: qualità e caratteristiche che gli altri attribuiscono al soggetto;

3) Espressioni indirette: espressioni pronunciate dal soggetto che rivelino indirettamente le qualità e le

caratteristiche del Sé del soggetto;

4) Posizionamento della soggettività agente: è l’indicatore del Sé agente e può essere scomposto a sua volta in

due sottocategorie:

- attività/passività: a seconda del tipo di orientamento verso l’azione

- responsabilità/non responsabilità: in relazione al senso di controllo delle proprie azioni.

Si è riscontrata la presenza di cinque fasi.

Il primo periodo comprende l’infanzia e la prima adolescenza.I soggetti raccontano di avere un padre rigido e

autoritario che impone regole e comportamenti o un padre assente che ha abbandonato la famiglia;altri elementi

frequenti sono il conflitto tra i genitori,le punizioni senza spiegazioni,le difficoltà di comunicare con i genitori

stessi.Tutti i soggetti si definiscono bambini vivaci,socievoli,amanti della compagnia,vitali.

Il secondo periodo comprende l’adolescenza,caratterizzata dalle prime esperienze al di fuori della famiglia.I

comportamenti aggressivi,le violenze contro gli altri,la ribellione contro i genitori,i primi contatti con le

sostanze,sono tutte espressioni di una rabbia interna,di una difficoltà di comunicare le proprie emozioni e i

propri pensieri.Il problema rilevante sembra essere quello di spiegare come si sia potuti passare da un periodo

infantile in cui i soggetti sono socievoli,vivaci,amanti della compagnia e della vita,a un periodo in cui si

descrivono come introversi,chiusi in se stessi,con una rabbia interna che hanno bisogno di scaricare attraverso

comportamenti a rischio.Una possibile spiegazione sembra individuabile nel fatto che alle carenze infantili si

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aggiungono nuovi eventi come l’impatto duro con una realtà esterna alla famiglia,o la morte di una persona cara

o l’incontro occasionale e ricercato con individui devianti.

Il terzo periodo è quello in cui si inizia a saggiare la possibilità della tossicodipendenza.Per alcuni c’è il primo

impatto con l’eroina,per altri con l’alcol,le anfetamine,gli acidi,gli psicofarmaci,l’haschisch.Emergono altri

eventi come il peggioramento delle situazioni familiari,il vissuto di solitudine e di abbandono,il contatto con

persone tossicodipendenti che spiegano gli effetti positivi e piacevoli della droga.Ed è proprio l’apprendimento

di questi effetti,il superamento di situazioni di noia,l’assopimento di problemi,paure,malesseri,che favorisce la

continuazione dell’assunzione.I soggetti non si percepiscono tossicodipendenti perché per loro i

tossicodipendenti sono i vigliacchi,i passivi,quelli che hanno perso rispetto per sé e per gli altri,mentre loro

continuano a studiare,a lavorare,a essere rispettati e riescono perfino a nascondere la loro situazione.Questo

significa che la tossicodipendenza non occupa tutta la vita del soggetto che rimane aperta a nuove possibilità.

Il quarto periodo è caratterizzato dalla tendenza all’autodistruzione.L’arresto da parte dei carabinieri e la

conseguente esperienza carceraria,l’overdose,la percezione di essere un vero tossicodipendente sono eventi che

riorganizzano le relazioni,i pensieri,le emozioni,con il risultato che ora la più probabile via percorribile sembra

quella della tossicodipendenza.

Dopo un periodo di oscurità e di chiusura,il percorso si riapre verso nuove possibilità.I soggetti sono

consapevoli di aver toccato il fondo nella propria carriera tossicomania e ciò permetta la riflessione e la

possibilità di scegliere tra la morte e la vita;se questa consapevolezza non c’è,allora la possibilità di scegliere

non si presenta e l’unica via percorribile è quella che porta alla morte.Tale consapevolezza è il risultato di nuovi

eventi ed esperienze che possono essere la permanenza in carcere,il sostegno emotivo dei genitori e delle

persone care,il vedere un amico nel quale ci si rispecchia morire di overdose,l’overdose stessa.

CAP. 4 L’EVOLUZIONE DEI CONTRIBUTI PSICOLOGICI Il contributo psicologico allo studio della devianza e della criminalità cerca di individuare caratteristiche di tipo

fisiologico,psicologico,psichiatrico o caratteristiche di personalità particolari,che possono differenziare il

delinquente,il deviante dal resto della popolazione.

Però la psicologia si è limitata a usare test,a parlare di tratti di personalità,di psicologia della personalità,di

apprendimento sociale,contributi che hanno senz’altro una loro validità,ma che si rivelano insufficienti e

incompleti di fronte alla complessa articolazione e all’estrema differenziazione del problema della devianza.E’

importante comunque prendere in considerazione questi tipi di studi.

Psicologici e psicanalisti hanno utilizzato strumenti clinici e in particolare test di personalità.E’ stato

frequentemente usato l’MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) per confrontare le caratteristiche

di personalità dei delinquenti rispetto ai non delinquenti.I risultati non hanno rivelato relazioni tra elementi di

personalità e criminalità,e sono stati anche sottoposti a due critiche fondamentali.La prima riguarda i dubbi

espressi circa l’effettiva capacità dell’MMPI di differenziare i tratti di personalità delinquenziali da quelli non

delinquenziali.L’altra critica consiste nel fatto che i tratti di personalità possono eventualmente avere un

qualche significato rispetto ad alcuni tipi di reato,ma non rispetto alla criminalità in genere.

La categoria comportamento criminale comprende infatti condotte e azioni molto complesse e diverse fra

loro,che non possono certo essere spiegate basandosi solo ed esclusivamente su costanti di personalità.

Anche gli studi che si sono interessati alle relazioni più specifiche tra singoli tipi di reato e tratti di

personalità,non hanno dato risultati indicativi in quanto è comunque difficile trovare tipologie omogenee:ogni

tipo di reato infatti non è un comportamento univoco,ma estremamente differenziato al suo interno.

Un altro test utilizzato è il Rosenzweig Picture-Frustration Study,per valutare l’orientamento dell’aggressività e

della punitività;si pensava che la delinquenza fosse associata con l’extra-punitività,cioè con una tendenza a

considerare persone o oggetti esterni come responsabili delle proprie frustrazioni.La scarsa chiarezza dei

risultati non ha permesso di ritenere valida quest’ipotesi,anche perché i gruppi di campioni utilizzati,oltre a non

essere rappresentativi della popolazione criminale,non erano affatto omogenei e costanti,ma si differenziavano

molto a seconda dei casi.

Alcuni autori hanno individuato tratti di personalità come l’immaturità,la mancanza di

adattamento,l’indifferenza affettiva,che sembravano collegarsi con comportamenti criminali,ma si tratta di

categorie profondamente discusse.Non tutte le personalità immature o scarsamente adattate mettono in atto

comportamenti devianti,criminali.Il concetto di “personalità delinquenziale” è stato criticato perché basato sul

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confronto dei tratti di un individuo ignorando la personalità globalmente considerata e perché non valorizza gli

aspetti evolutivi e dinamici di un individuo e l’importanza dei processi interattivi e interpersonali.

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’aspetto differenziale fosse dato dalle condizioni di oppressione vissute

dai soggetti:vita familiare difficile,esperienze negative,istituzionalizzazione,mancanza di

lavoro,emarginazione,ecc.;a maggiori condizioni di oppressione poteva corrispondere una maggiore tendenza

all’aggressività e all’extra-punitività.Questi studiosi hanno trovato delle relazioni tra gradi di oppressione e

delitti,anche in relazione alla gravità dei delitti,ma altri autori hanno criticato queste ricerche mettendo in

evidenza che le popolazioni utilizzate non erano omogenee e che non era ben chiaro cosa si intendesse per

grado di oppressione.

Secondo la teoria della frustrazione-aggressività di Dollard e dei suoi collaboratori,a ogni frustrazione segue

sempre una qualche forma di aggressività.Questi autori sostenevano che i criminali fossero persone con una

minore capacità di tolleranza alla frustrazione o che,nella loro vita,fossero stati sottoposti a una quantità

maggiore di frustrazioni.

Molte sono le critiche nei confronti di questi lavori,innanzitutto per una difficoltà a chiarire termini come

“frustrazione” e “aggressività”.Spesso la definizione di frustrazione è così vaga da diventare quasi sinonimo di

“esperienza spiacevole”;inoltre la gravità di una frustrazione varia in base alle mete che si vogliono raggiungere

o all’intensità delle aspettative deluse.E’ stato dimostrato che non c’è un rapporto diretto tra frustrazione e

aggressività;l’aggressività è solo una delle risposte possibili.Alcuni esperimenti hanno dimostrato che la

risposta a un’esperienza frustrante può variare in base al fatto che siano presenti o meno altre persone e in base

a quali persone siano presenti.

Thomas ha evidenziato quattro bisogni fondamentali dell’età evolutiva che possono essere fonti di

frustrazione:il bisogno di sicurezza,di fare nuove esperienze,di avere risposta e di riconoscimento da parte degli

altri.La frustrazione di questi bisogni,quando supera certi limiti,potrebbe favorire comportamenti

antisociali,devianti.

Il nucleo centrale della teoria di Bandura ruota attorno alle nozioni di “determinismo triadico

reciproco”,human agency,perceived self efficacy e moral disengagement.Con la nozione di “determinismo

triadico reciproco” Bandura intende che l’azione compiuta è sempre il risultato di un’interazione tra

persona,ambiente e condotta.Qualsiasi cosa una persona pensi o voglia può generare un comportamento che

inciderà sull’ambiente circostante;allo stesso modo,il luogo o la situazione,nella quale il soggetto si

trova,influenzerà i pensieri,le aspettative e di conseguenza anche il comportamento;il comportamento che verrà

prodotto dal soggetto imporrà a sua volta delle modifiche sia sull’ambiente sia sulla persona stessa.

Human agency,secondo Bandura,è una proprietà delle mente umana,per cui è in grado di reagire non solo a

stimoli esterni e biologici,ma anche di agire attivamente nel mondo.Per agire attivamente nel mondo,l’uomo ha

bisogno di alcune capacità fondamentali:

- la capacità di simbolizzare attraverso la quale il soggetto è in grado di trasformare le esperienze in simboli,sia

di tipo verbale sia immaginativo,questi formano dei modelli interni,che sono in grado di dare significato e

continuità al rapporto tra l’individuo e la realtà;

- la capacità di anticipare;

- la capacità di apprendimento per imitazione che permette di aumentare il proprio repertorio

comportamentale,senza dover sperimentare sulla propria persona nessun tipo di azione,ma osservando quella

altrui;

- la capacità di autoriflessione;

- la capacità di autoregolazione.

La terza delle componenti centrali della teoria di Bandura è l’autoefficacia percepita.L’autore considera

importante la capacità che il soggetto ha di portare a termine un compito.La convinzione di riuscire può

condizionare l’esito al di là dell’impiego reale delle risorse interne del soggetto e delle opportunità che

l’ambiente è in grado di offrire.

Il disimpegno morale è stato studiato da Bandura allo scopo di individuare quali strategie cognitive-sociali

utilizzano gli individui per svincolarsi dalle norme e dalla responsabilità.Si tratta di processi che le persone

possono utilizzare,individualmente o in gruppo,sia prima che durante e dopo azioni trasgressivi o comunque

implicanti responsabilità.Un costante utilizzo di questi meccanismi sembra legato con un probabile

orientamento verso la devianza.

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Secondo Bandura le modalità di disimpegno morale sono:

a) “la giustificazione morale”,attraverso la quale il comportamento reprensibile viene considerato accettabile

attribuendone la causa a scopi socialmente e moralmente elevati;

b) “l’etichettamento eufemistico”:l’uso di un linguaggio eufemistico consente di trasformare azioni in sé non

accettabili in accettabili;

c) “il confronto vantaggioso”:un’azione riprovevole viene resa più accettabile attraverso il confronto con

un’azione ancora più riprovevole;

d) “il dislocamento della responsabilità”:la responsabilità delle proprie azioni viene subordinata alla volontà di

un’autorità superiore ,con il risultato di considerarsi non più responsabili;

e) “la diffusione della responsabilità”:ad altri specifici o in senso generale;

f) “la distorsione delle conseguenze”:ignorare e distorcere gli effetti delle proprie azioni;

g) “la de-umanizzazione della vittima”,per cui vengono attribuite caratteristiche non umane o spregevoli alla

vittima.

Tra i contributi della psicanalisi in questo campo il più noto è quello che ha inaugurato la categoria del

“delinquente per senso di colpa”.Secondo Freud e altri autori successivi,il alcuni individui il delitto ha la

funzione di alleviare il loro senso di colpa collegato alla fantasia inconscia,edipica,del parricidio e

dell’incesto.Freud aveva notato come in alcuni criminali il senso di colpa era molto più intenso prima della

commissione del reato e non dopo,per cui aveva ipotizzato che questo senso di colpa funzionava come

meccanismo attivante l’azione criminale.Il crimine e la ricerca di punizione sono legati al bisogno di attenuare

il senso di colpa.Il soggetto può in questo modo sentirsi colpevole per reati che ha veramente commesso:per

aver rubato,per aver ucciso una persona e non per l’inconscia e angosciante fantasia edipica.In tali situazioni il

delitto può portare al sollievo psichico solo se viene scoperto.Ciò spiega perché spesso questi delinquenti

commettono i loro delitti in modo da farli scoprire,e perché mostrino così spesso un desiderio irresistibile di

confessare,a volte persino mentendo.

Reik aveva evidenziato come grossi criminali si erano traditi con atti mancati,lasciando delle tracce che

avevano portato alla loro scoperta.Per Reik questi atti mancati erano dovuti al senso di colpa e alla ricerca di

punizione.

Gli psicanalisti quando tentano di spiegare il comportamento deviante prestano attenzione soprattutto

all’organizzazione dell’Io e del Super-Io (posto che l’Es è asociale per definizione).

Il soggetto è tanto più responsabile quanto più risulta una partecipazione dell’Io cosciente al comportamento

deviante.

Se non con maggiore frequenza si sottolineano anche le funzioni del Super-Io.Johnson e Szurek hanno

evidenziato come un Super-Io mal strutturato,carente o lacunoso,possa facilitare comportamenti

devianti.Alexander e Staub parlavano anche di Super-Io criminale,quando il soggetto è cresciuto in una cultura

che contiene indicazioni positive nei confronti della criminalità;o di criminale genuino caratterizzato da una

carenza totale di Super-Io.

Adler ha elaborato una teoria del “complesso di inferiorità”.Un complesso di inferiorità può indurre a

commettere un delitto poiché questo è il modo migliore per attrarre su di sé l’attenzione,per diventare il centro

dell’interesse e compensare la propria inferiorità.

I contributi psicologici che sono rimasti più a lungo nella letteratura criminologica minorile sono quelli di

Mead.L’interesse di Mead è centrato sulla condotta sociale dell’individuo,cioè sulla condotta di un individuo

inserito in un sistema di rapporti all’interno dei quali si confronta con la sua esperienza interiore e con i

problemi legati alla sua appartenenza a un gruppo sociale.Attraverso questo processo di interazione sociale

l’individuo cresce acquistando la capacità di interpretare i gesti che mette in atto e di anticipare le conseguenze

delle proprie azioni.Ciò si realizzerebbe grazie a due meccanismi che contraddistinguono la mente umana:la

caratteristica interpretativa e soprattutto quella riflessiva.L’interpretazione riflessiva permette all’individuo di

valutare le proprie azioni secondo le interpretazioni che potrebbero darne gli altri.

Mead concepisce la mente come un complesso sistema organizzato secondo tre formazioni interdipendenti che

chiama Io-Mè-Sé.

Il Me rappresenta l’organizzazione interiorizzata degli atteggiamenti,delle immagini,delle definizioni degli altri

nei nostri confronti.

L’Io rappresenta l’organizzazione delle nostre risposte interne agli atteggiamenti altrui.

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Dal continuo scambio tra queste due dimensioni emerge il Sé come sistema differenziato e autonomo rispetto

agli altri e che rappresenta la base per l’identità.E’ grazie al Sé che l’uomo può essere oggetto delle proprie

azioni,può agire verso se stesso come verso gli altri.

La teoria dell’identità utilizzata nello studio della devianza minorile si riferisce al lavoro svolto da Erikson e da

altri psicologi e psicanalisti di impostazione psico-sociale.Erikson evidenzia come nell’adolescenza,per una

serie di cambiamenti legati alla crescita,allo sviluppo della sessualità,alla modifica dei rapporti interpersonali,si

determina una “crisi d’identità”.Questa crisi è legata alla ricerca di un nuovo vissuto di continuità e unità che

deve tener conto dei limiti e delle esigenze non solo della famiglia,ma anche della società.E’ in questo periodo

che può iniziare un’organizzazione dell’identità in termini devianti.L’adolescente potrebbe esprimere la sua

perdita del senso di identità,i suoi conflitti,attraverso quella che Erikson chiama “la scelta di identità

negativa”,cioè un’identità fondata su quelle identificazioni e quei ruoli che erano stati presentati come

indesiderabili o pericolosi.

Mailloux ha elaborato una teoria centrata sul concetto di “identità negativa”,mettendo in evidenza come in un

bambino giochino un ruolo fondamentale le aspettative,la fiducia che vengono emanate nei suoi confronti dalle

persone per lui significative.Se percepisce dall’ambiente circostante messaggi negativi,di sfiducia,di mancanza

di stima,potrebbe assumere un’immagine di Sé che lo caratterizza come diverso dagli altri,cattivo,predestinato

al male e quindi fa corrispondere il suo comportamento a ciò che in realtà da lui si attendono gli altri.

Un altro importante contributo riguarda le ricerche di un gruppo di studiosi dell’Università di Oxford

(Marsh,Rosser,Harrè),che si sono occupati delle violenze giovanili e dei disordini nelle scuole e negli stadi di

calcio.Alcuni risultati evidenziano che i gruppi di giovani,nello stadio e nelle scuole,non esprimono violenza

disordinata,gratuita,ma producono situazioni complesse nelle quali l’aggressività è per lo più ritualizzata in

forme simboliche che hanno un significato di comunicazione,competizione,conflitto fra

individui,ruoli,gruppi.Questa forma rituale,”ordinata”,di violenza può degenerare e produrre morte e violenza

incontrollata soprattutto quando entra in relazione con forme violente di controllo sociale.

CAP. 5 LE RICERCHE SU FAMIGLIA E DELINQUENZA MINORILE Nella letteratura criminologica minorile l’ambiente familiare occupa un posto centrale per l’influenza che la

famiglia ha nello sviluppo del soggetto,nella formazione della sua personalità e per la sua funzione di filtro tra

l’individuo e la società.Molti autori hanno cercato di fornire una lettura e una spiegazione della devianza

minorile attraverso l’individuazione di caratteristiche particolari relative all’ambiente familiare,alle sue

dinamiche,alle figure parentali,ecc.

Una delle principali aree d’indagine in questo campo riguarda la carenza e/o l’assenza di cure materne nella

prima infanzia,aspetto considerato spesso determinante nella genesi di atteggiamenti e comportamenti

delinquenziali.

Bowlby ha studiato gli effetti delle carenze materne sul bambino.In alcune ricerche condotte su gruppi di

giovani delinquenti e non,egli ha trovato una forte differenza fra i due gruppi in rapporto alla separazione

prolungata dalla madre,o dalla figura materna,nei primi 4-5 anni di vita.Aveva notato che la deprivazione

materna nei primi anni di vita è tanto più dannosa quanto più avviene in età precoce e quanto più è

prolungata.L’incapacità di stabilire un valido legame affettivo si ha in particolare quando c’è

un’istituzionalizzazione precoce,una privazione delle cure materne per almeno tre mesi nei primi 3-4 anni di

vita,quando si verificano ripetuti cambiamenti della figura materna nello stesso periodo di tempo.

La tesi di Bowlby ha avuto anche conseguenze sulle politiche di prevenzione e trattamento della delinquenza

minorile;per un certo periodo c’è stata una forte tendenza,soprattutto da parte dei Tribunali minorili,a tenere i

bambini in situazioni familiari disastrose pur di non mandarli in istituiti.

Tra le critiche rivolte al lavoro di Bowlby c’è quella di Andry che,oltre ad aver messo in evidenza l’eccessiva

importanza data dall’autore alla deprivazione materna,trascurando invece la figura paterna,ha anche sottolineato

la necessità di distinguere tra separazione fisica e psicologica dalla madre.

Attualmente,c’è una forte critica a questo concetto di carenza di cure materne,così com’è stato suggerito da

Bowlby,non perché si vuole negare che esista la carenza,l’assenza della figura materna,ma ciò che si mette in

discussione è il legame lineare tra queste carenze e la delinquenza minorile.

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E’ stato anche studiato il problema della qualità delle cure materne,con la madre presente.Gli studi hanno

individuato una connessione fra madri possessive,assenti,crudeli e figli delinquenti;ugualmente per le madri con

amore nevrotico o ansioso.Si tratta comunque di categorie complesse,abbastanza discutibili,poco chiare.

La privazione paterna è un aspetto che è stato per lungo tempo trascurato.Oggi assistiamo a una rivalutazione di

questo ruolo,sia perché il padre rappresenta un modello di identificazione importante sul piano normativo,ma

soprattutto perché,fin dai primi giorni di vita,l’atteggiamento del padre esercita un’influenza rilevante sul

rapporto madre-bambino e sulla dinamica familiare in genere.

Ciò che è sembrato rilevante non è la privazione paterna,quanto i rapporti disturbati o inesistenti in presenza del

padre.I coniugi Glueck hanno notato che l’affetto del figlio per il padre,la qualità del loro

legame,rappresenterebbero il fattore che più discrimina i ragazzi delinquenti da quelli non delinquenti.Tra i

giovani delinquenti esiste più frequentemente un rapporto affettivamente molto intenso con la madre,anche

confusivo,e un’assenza della figura paterna,o un sentimento da parte del ragazzo di essere respinto,di non essere

accettato dal padre.

Il rifiuto affettivo o la trascuratezza da parte dei genitori hanno un’incidenza più forte della loro assenza o

separazione.Si è poi parlato di privazioni emozionali precoci,di mancanza d’affetto,di percezione e

consapevolezza da parte del bambino di essere poco considerato e amato,tutti aspetti facilmente correlati con

aggressività,disadattamento,indifferenza affettiva,antisocialità,ecc.

Un altro fattore che ha suscitato interesse è quello della separazione dei genitori,studiato soprattutto per quanto

riguarda la differenza fra divorzio legale ed emotivo,dove per divorzio emotivo si intende una situazione di

convivenza in cui c’è una frattura emotiva in atto.Non è tanto il divorzio legale a essere legato con

disagi,devianze,quanto il divorzio emotivo in cui c’è un conflitto che viene occultato e può essere alla base di

atteggiamenti incongrui,confusivi e disorientati.

Molti autori hanno considerato gli stili educativi e i sistemi disciplinari come fattori determinanti.Sono stati

individuati vari tipi di disciplina:per es. la disciplina orientata verso l’amore,o una disciplina debole o

punitiva,si è parlato di eccessiva severità o permissività,di punizioni fisiche o psicologiche,ma i risultati di

queste ricerche non hanno rilevato relazioni significative tra qualche tipo specifico di stile educativo e

comportamenti devianti.La maggior parte degli autori concorda sul fatto che ciò che conta non è tanto il tipo di

stile disciplinare,quanto piuttosto una sua applicazione costante e coerente.

Alcuni autori hanno evidenziato come nell’ambiente familiare possano instaurarsi particolari dinamiche

relazionali che facilitano un percorso deviante.Questo potrebbe verificarsi se la famiglia fa parte di una

sottocultura deviante o criminale,o se uno dei suoi membri ha già intrapreso una carriera deviante e magari può

porsi come modello negativo di identificazione.Però la presenza di un fratello ladro,per es.,non è

necessariamente causa di delinquenza,ossia non basta avere un fratello ladro per diventare delinquente.E’

importante tener presente l’intero sistema familiare.

Un altro tema importante riguarda la disgregazione familiare (broken home).I coniugi Glueck hanno messo in

evidenza come la stabilità della famiglia fosse il fattore più importante per un sano e positivo sviluppo del

bambino.Dalle loro ricerche è risultato che nelle famiglie dei delinquenti la percentuale di disgregazione

familiare era doppia rispetto alle famiglie dei non delinquenti.

Attualmente non si affronta più il problema della famiglia dando per scontato un modello standard:due

genitori,i figli e i parenti (nonni,zii,ecc.).Oggi ci sono una pluralità di modelli familiari,complessi,eterogenei e

tra loro differenziati.Ad es.,sono sempre più frequenti le famiglie monoparentali (un solo genitore con dei

figli),e i nuclei compositi (con genitori provenienti da altre famiglie).

La famiglia monoparentale,per es.,e la famiglia che unisce parti di nuclei diversi,non può più essere considerata

una famiglia patologica o disgregata.La famiglia,nel suo cambiare,sta inventando nuove forme di convivenza

che non possono essere assunte fin dall’inizio come patologiche,disfunzionale,ma vanno considerate come

sistemi familiari in cui le persone sperimentano nuovi modi di vivere,in qualche caso con difficoltà molto

gravi,in altri casi senza particolari problemi,in altri casi ancora riuscendo addirittura a ricostruire un equilibrio

migliore rispetto alla famiglia precedente.

Il sistema familiare influenza il comportamento deviante.Però non esiste una configurazione familiare specifica

a cui corrisponda sempre un comportamento deviante.

La devianza viene considerata come un processo e non il prodotto di fattori e cause antecedenti.

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La prima fase riguarda gli antecedenti storici della devianza:le carenze,le deprivazioni,i problemi.Questi sono

indicatori di rischio aspecifici.Queste precondizioni,pur essendo presenti in molte carriere devianti,rimangono

tuttavia aperte ad esiti di tipo diverso,non deviante.

La seconda fase riguarda il periodo,di breve durata e intenso,in cui emerge nella storia del soggetto una crisi

che si manifesta in episodi devianti.Questo micro-processo tende a rimanere aperto verso altri percorsi.

La terza fase,la fase della stabilizzazione del percorso deviante,può risultare tormentata e molto lunga nel

tempo,sembra caratterizzata dalla tendenza a usare la devianza per orientare azioni e attribuzioni,che possono

dare luogo a progressivi irrigidimenti del processo,rendendo meno probabili alternative alla devianza.

Nella fase degli antecedenti aspecifici,molti autori hanno trovato fattori di rischio rilevanti,fra cui la carenza di

cure materne e familiari,la privazione della figura paterna o la crisi di questo ruolo,la presenza di problemi

come la tossicodipendenza,l’alcolismo,la criminalità,la malattia mentale,nei genitori o nel contesto

parentale,diverse forme di disgregazione familiare ,separazioni traumatiche.

Le deprivazioni,carenze,disgregazioni,possono essere valutate rischiose in modo diverso a seconda di come

vengono organizzate e gestite nella e dalla famiglia.

CAP. 6 LE CONDIZIONI E I PROCESSI SOCIALI Con il paradigma sociologico lo studio della devianza e della criminalità sposta il suo interesse dall’individuo

con il suo corpo,le sue patologie,la sua personalità,il suo ambiente familiare,alla struttura sociale con le sue

caratteristiche,al rapporto individuo-società,alla reazione della società ai comportamenti dell’individuo.

Un contributo basilare è quello di Durkheim.Tra i concetti fondamentali di questo autore,c’è quello di “fatto

sociale”,inteso come realtà che non può essere influenzata tanto dall’individuo,quanto dalla società.Anche il

crimine è visto come un fatto sociale perché sta al di fuori della coscienza individuale e appartiene alla

dimensione della società.

L’importanza di D. riguarda anche il suo studio circa l’evoluzione storica della società e le implicazioni che

derivano da questo processo sotto il profilo di quella dimensione culturale che egli,per primo,ha chiamato

ANOMIA,intendendo con essa disorientamento normativa ed esperenziale che l’individuo avverte e vive in

quanto sottoposto a spinte socio-culturali contrastanti.Durkheim è stato il primo a considerare il crimine come

un fenomeno normale,socialmente necessario.Secondo l’autore il crimine è un fatto sociale che consente di

rinforzare i confini normativi tra ciò che è lecito e ciò che è illecito.

La Scuola di Chicago aveva ipotizzato l’esistenza di un legame fra criminalità e determinate aree urbane.La

delinquenza sarebbe più diffusa in quelle aree con densità di popolazione,presenza di culture

diverse,deterioramento delle abitazioni,insufficienza dei servizi.Questa scuola tende a orientare gli studi e le

ricerche su specifiche aree di concentrazione della criminalità.Ciò trova riscontro in molti dati

istituzionali,anche attuali,riguardanti la delinquenza giovanile,da cui risulta che i ragazzi denunciati,i ragazzi

che arrivano in carcere provengono tendenzialmente da aree ben individuabili.

Attualmente si guarda alla marginalità urbana e al rapporto fra questa e la delinquenza giovanile.Marginalità

urbana significa mancanza di opportunità,marginalità rispetto alle risorse,allo spazio,ai servizi sociali.

Questa teoria è stata criticata.Innanzitutto si basa su dati ufficiali e non tiene conto del sommerso della

criminalità.La criminalità è presente anche in altre aree urbane,ma è più occulta,agisce con altre

modalità.Inoltre pone un rapporto lineare troppo rigido tra disorganizzazione sociale,immigrazione,zone

particolarmente deteriorate e criminalità,tant’è vero che chiama “aree delinquenziali” queste zone,rinforzando

così lo stereotipo rispetto a certe aree urbane,a determinati gruppi sociali.

Un altro contributo riguarda quelle correnti che si sono sviluppate soprattutto negli Stati Uniti:lo struttural-

funzionalismo,le teorie delle associazioni differenziali,delle subculture criminali,che tentano di individuare

quali possano essere le condizioni sociali criminogene,sulla base di un’analisi funzionale di tipo

strutturalista.Gli autori più rilevanti sono Cloward,Ohlin,Cohen,Parsons e Merton.

Secondo Parsons la società è un insieme di parti integrate in cui il presupposto principale è l’equilibrio,la

necessità del consenso,raggiunti attraverso un processo di socializzazione.Quindi la devianza,la criminalità

sono legate a un difetto del processo di socializzazione.

Si tratta però di un concetto che non è provato scientificamente,anche perché ci possono essere ragazzi con

adeguati processi di socializzazione che mettono in atto comportamenti devianti.

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Il contributo di Merton riguarda lo studio di una contraddizione del sistema sociale americano,quella fra

dimensione della struttura sociale e dimensione della struttura culturale.Mentre da un punto di vista culturale la

società è investita da contenuti e mete tendenzialmente uguali per tutti (successo,denaro,prestigio),la stessa

società non propone lo stesso tipo di uguaglianza dal punto di vista delle posizioni occupate all’interno della

struttura social,per il conseguimento di quelle mete.Il problema sta in questa contraddizione alla quale gli

individui reagiscono con varie possibilità di adattamento (conformismo,innovazione,rinuncia,ribellione).Per

Merton la devianza è appunto una delle possibili forma di adattamento alle pressioni contradditorie,anomiche.

Lo schema mete-mezzi sembrava particolarmente adatto per i ragazzi deprivilegiati che sono,in vari modi,

colpiti dalle pressioni culturali del consumismo (la macchina,i soldi,ecc.) e che si trovano impossibilitati ad

arrivare a queste mete attraverso i mezzi normali,essendo disoccupati,emarginati,ecc.

La teoria di Merton è stata sottoposta a numerose critiche,per es. per il fatto che è una teoria a “medio

raggio”,che non considera in realtà i nessi che legano la struttura sociale a quella culturale.Inoltre,le varie forme

di adattamento proposte mostrano gli individui come manichini sociali,soggetti che hanno un’esclusiva

reattività a quelle pressioni,senza una rielaborazione personale o di gruppo.Infine non è sostenibile che le mete

culturali sono uguali per tutti.

Cloward e Ohlin propongono una teoria delle subculture criminali secondo cui gli individui si trovano ad agire

in sistemi differenziali di opportunità.In rapporto al prevalere di opportunità legittime o illegittime si creano

determinate sottoculture.Se prevalgono opportunità illegittime si possono avere tre tipi di sottoculture

devianti:la subcultura criminale caratteristica delle zone in cui è diffuso l’uso della criminalità organizzata;la

subcultura conflittuale in cui la violenza e il vandalismo sono le opportunità più frequenti;la subcultura

astensionistica caratterizzata da esperienze e stili di vita particolari,come per es. quelli legati all’uso della droga.

Cohen si è occupato delle sottoculture delinquenziali con riferimento alle bande e ai gruppi giovanili.Le

subculture devianti sono dovute al conflitto fra classi basse e medie.I giovani della classe proletaria,pur

aspirando alle stesse mete dei ragazzi delle classi medie,si trovano svantaggiati,tendono quindi a sviluppare una

reazione negativistica contro quegli standard culturali che comunque hanno interiorizzato.Cohen parla di

“formazione reattiva”,per indicare il rifiuto del sistema di valori dominanti,lo strutturarsi di una cultura che si

esprime nelle bande delinquenziali,nel teppismo,in atteggiamenti distruttivi.Si tratta di fenomeni diffusi in varie

forme:nello sport,nei parchi pubblici,nei confronti di oggetti pubblici come le cabine telefoniche,i muri delle

città,ecc.

Attualmente invece si tende a interpretare diversamente il fenomeno delle bande giovanili,il vandalismo,il

teppismo,ecc.;si tende infatti a vederli come comportamenti comunicativi,cioè ci si chiede cosa i soggetti

comunicano attraverso questi comportamenti.Certamente comunicano anche il loro “negativismo”,ma non solo

questo,poiché vi si possono cogliere funzioni e bisogni legati all’identità,alle relazioni,spesso atteggiamenti

critici e domande sociali rispetto alle politiche dello sport,del tempo libero,della città,degli spazi pubblici,della

scuola,ecc.E’ possibile estrarre da questi comportamenti messaggi conflittuali e partecipativi,che sarebbe molto

importante cogliere e decifrare adeguatamente,piuttosto che fermarsi al loro aspetto negativistico,in modo da

impostare altrettanto adeguatamente le risposte e gli interventi.

Un’altra ipotesi che tenta di fornire una spiegazione della devianza minorile è la “teoria del controllo”,il cui

esponente principale è Hirschi il quale afferma che l’elemento determinante per la strutturazione di un processo

deviante non è tanto la posizione occupata nella struttura sociale,ma la “forza del legame sociale”.Un ragazzo

ha più probabilità di diventare delinquente quanto più è debole o interrotto il suo legame con il mondo degli

adulti.

Sutherland propone la “teoria delle associazioni differenziali”,secondo cui la criminalità e la devianza vengono

apprese attraverso il contatto con individui o gruppi favorevoli al crimine.Si è occupato dei crimini dei colletti

bianchi,intendo con ciò i reati commessi da persone rispettabili nel corso della loro occupazione.Era interessato

a mettere in evidenza quanto,nel mondo degli affari americano,fossero diffuse le pratiche illegali.

La criminalità dei colletti bianchi ha messo in evidenza il problema della criminalità occulta,del numero oscuro.

Un più recente approfondimento in tal senso è quello di Chapman che cerca di delineare le caratteristiche dello

“stereotipo criminale”,mettendo in evidenza come la dimensione nota e istituzionale della criminalità non è

collegata all’effettiva commissione di reati,ma a un criterio di “immunità differenziale” che opera

essenzialmente discriminando i soggetti in rapporto alla loro classe sociale,all’appartenenza istituzionale,alla

loro visibilità pubblica,ecc.

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Gli studi sul numero oscuro della delinquenza giovanile sono iniziati molto tardi.Si pensava che questo

fenomeno non esistesse tra i giovani,o che avesse una minore importanza.D’altra parte Sutherland ha fatto

ricerche sugli uomini d’affare e le ricerche di Chapman riguardavano prevalentemente la criminalità adulta.Era

quindi difficile individuare il numero oscuro della delinquenza giovanile fino a quando non sono iniziate

ricerche attraverso lo strumento dell’auto confessione,della vittimizzazione,ecc.

Queste ricerche hanno evidenziato come quasi nessun ragazzo vive esperienze completamente esenti da

comportamenti devianti;soprattutto i furti e i piccoli furti nei negozi sono molti diffusi in età evolutiva,in tutte

le classi sociali.Naturalmente non bisogna generalizzare in quanto i comportamenti delinquenziali sono di tipo e

gravità diversa,quindi non si può sostenere che tutti gli adolescenti sono delinquenti o hanno commesso qualche

atto criminale.

Scoprire un giovane delinquente appartenente ai ceti più alti è difficile.Se un ragazzo o una ragazza ben vestiti

entrano in un negozio e rubano probabilmente non vengono notati,perché non vengono controllati;mentre

vengono osservati soggetti con particolari caratteristiche fisiche,di abbigliamento,di razza,come,ad es. gli

zingari.Anche quando vengono presi,sia chi ha interesse a denunciare,sia la polizia,agiscono con modalità

diverse:se si tratta delle classi più alte si preferisce far riferimento alla famiglia,mentre per i ceti più bassi,per i

nomadi,per gli stranieri,il ricorso alla polizia è più frequente.

Un nuovo paradigma criminologico è quello dell’interazionismo simbolico.Alcuni esponenti principali sono

Lemert,Becker e Matza.

Tra i concetti principali di Lemert c’è la distinzione tra devianza primaria e secondaria.

La devianza primaria riguarda quei comportamenti che,anche se infrangono le norme,vengono

riassorbiti,”normalizzati”,dalla società senza subire un’etichetta deviante.Il soggetto riesce a trovare delle

giustificazioni per il suo comportamento,senza per questo sentirsi cambiato,egli cioè non ha ancora assunto,né

gli è stato ancora attribuito uno stabile ruolo deviante.

La devianza secondaria consiste invece nel comportamento deviante come mezzo di difesa,di attacco,o di

adattamento nei confronti dei problemi creati dalla reazione della società alla devianza primaria.Il soggetto

deve riorganizzare la sua identità psicosociale,il suo Sé in base al ruolo deviante che gli è stato attribuito e in

cui anche egli si riconosce.

La devianza primaria è importante perché mette in evidenza tutte le strategie di normalizzazione che vengono

adottate,in campo minorile,quando si vuole evitare che la devianza diventi di dominio istituzionale.

La devianza secondaria è un processo di reazione sociale interattiva:ciò significa che per Lemert la società

reagisce,ma anche il soggetto e il suo comportamento interagiscono con la società.Non è solo la società che

produce devianza,ma è un’interazione tra caratteristiche psicosociali dell’azione e del suo autore e l’effetto

sociopsicologico della reazione sociale.

Ci sono altri due importanti contributi di Lemert.Uno ruota attorno al concetto di “problema sociale”,inteso

come percezione del turbamento e successiva ricerca di soluzioni.Il tipo di soluzioni adottate ci fanno capire

come viene considerato il problema.

Un altro contributo di Lemert è quello relativo alle “devianze autolesionistiche”,a quelle forme di devianza

(come l’alcolismo,la tossicodipendenza,ecc.) che sembrano non recare alcun beneficio alla persona

interessata.Il soggetto deviante,quando agisce,valuta i costi,i benefici e i rischi del suo comportamento.

Nel caso della devianza autolesionistica non sembrerebbero esserci dei vantaggi,ma Lemert sottolinea come,in

realtà,bisogna approfondire le modalità di ricerca dei vantaggi e degli effetti positivi che la persona vuole

ottenere,perché ci possono essere dei vantaggi secondari,cioè gli effetti positivi possono essere di tipo

psicologico,relazionale.Per es.,essere inviato in un istituto per ragazzi delinquenti è degradante e costituisce una

minaccia per il proprio futuro,ma può rappresentare una strada per sfuggire a un’intollerabile situazione

familiare che è ancora più degradante.

Becker ha fatto ricerche attraverso l’osservazione partecipante.Se leggiamo attentamente i saggi di Outsiders

emerge la complessità e la ricchezza di questo autore che valorizza l’esperienza soggettiva.

Il suo contributo più importante è quello contenuto nel saggio Come si diventa fumatori di marijuana.Si diventa

fumatori di marijuana cambiando progressivamente significato al fumare erba,marijuana,all’atteggiamento con

cui si partecipa a tale esperienze;da un comportamento iniziale privo di rilevanza soggettiva e relazionale si

passa a un comportamento significativo,perché il soggetto apprende a fumare,a comunicare in gruppo tale

esperienza e a provare piacere.

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Importante per Becker è il significato che i soggetti danno al proprio comportamento.L’individuo può diventare

deviante attraverso un percorso complesso,fatto di tappe successive durante le quali,man mano,costruisce le

premesse per i passi da compiere in seguito.In questo percorso il soggetto non è precondizionato,ma

attivo,costruisce la propria strada e quindi la propria devianza,attraverso i contatti sociali,le dimensioni

culturali,ecc.Il soggetto diventa deviante quando ha costruito un significato sociale

gradevole,positivo,gratificante.

Il lavoro di Matza si basa sull’approccio metodologico che egli definisce NATURALISMO.Si tratta di un tipo

di osservazione partecipativa in cui si cerca di descrivere il fenomeno dal di dentro,in modo accurato e

fedele,senza la pretesa di spiegarlo e di correggerlo.

Matza critica il concetto di subcultura che presenta gli individui devianti come soggetti che hanno rifiutato o si

oppongono alla morale tradizionale per seguire un proprio sistema di valori,mentre criminali e resto della

popolazione appartengono allo stesso sistema di valori.Secondo Matza la cultura deviante è diffusa in tutte le

classi sociali;i delinquenti sono quelli che mettono in atto comportamenti devianti in maniera inappropriata,in

luoghi e contesti inadeguati.Quelli che egli chiama “valori clandestini” sono diffusi in tutti i ceti sociali;le

persone considerate normali,rispettabili,hanno le possibilità,le competenze o l’attenzione di esercitare questi

valori clandestini in modo socialmente accettato (per es. giocare d’azzardo,trafficare,ecc.).

Quelle che Matza chiama “tecniche di neutralizzazione” sono giustificazioni delle proprie azioni devianti che

permettono al soggetto di rendere più accettabile il suo comportamento e poter continuare a far parte del

sistema di valori dominante.Le principali tecniche di neutralizzazione sono:

- il diniego della responsabilità (sono malato);

- la minimizzazione del torto inflitto (loro possono permetterselo);

- la negazione da parte della vittima (non abbiamo colpito nessuno;se lo sono voluto loro);

- la condanna dei giudici (non c’è più giustizia;ognuno ha la sua droga);

- l’appello a più alti ideali (non l’ho fatto per me;non potevo tirarmi indietro).

Secondo Matza,il giovane arriva alla delinquenza attraverso l’apprendimento di queste tecniche e non attraverso

l’apprendimento di valori opposti a quelli del sistema normativo dominante.

L’aspetto interessante che Matza mette in evidenza è il modo in cui il soggetto giustifica cognitivamente la

propria devianza;generalmente infatti nessuno trasgredisce senza giustificarsi,e questo vale ancora di più per

l’adolescente.Ma queste giustificazioni sono aspetti culturali,sono argomentazioni e valori sociali che fanno

parte della nostra vita,sono “scuse” che tutti usiamo quotidianamente,che i ragazzi stessi quindi apprendono

dalla cultura di cui fanno parte,non è una loro invenzione.

CAP. 7 L’ILLUSIONE MULTIFATTORIALE L’approccio multifattoriale individua fattori riguardanti l’individuo e l’ambiente circostante che combinati

permetterebbero di spiegare il processo attraverso cui un individuo diventa delinquente.

Un esempio può essere la “teoria dei contenitori” di Reckless il quale individua dei sistemi di controllo interni

ed esterni al soggetto (chiamati “contenitori interni” e “contenitori esterni”),da cui dipende la tendenza

dell’individuo al comportamento deviante.I contenitori interni consistono principalmente di componenti

dell’Io,come autocontrollo,buon concetto di Sé,forte resistenza agli stimoli disturbanti,senso di

responsabilità,orientamento verso fini precisi.I contenitori esterni costituiscono il freno strutturale che gli

permettono di non oltrepassare i limiti normativi.E’ composto di alcuni elementi come il fornire al soggetto una

coerente linea di condotta morale,una disciplina efficace,un rafforzamento delle sue norme,fini e aspettative.

Un altro esempio di approccio multifattoriale è la ricerca dei coniugi Glueck su un campione di 1000 soggetti

minorenni (500 delinquenti e 500 non delinquenti) allo scopo di individuare fattori,relativi al periodo

infantile,che potessero differenziare i due gruppi e predire quali soggetti sarebbero diventati delinquenti.Gli

autori presero in considerazione caratteristiche individuali,familiari,ambientali e sociali.Da questa analisi risultò

determinante,per la genesi di un comportamento deviante,la combinazione dei seguenti fattori:

- caratteristiche individuali,come carattere aggressivo,estroverso,struttura fisica di tipo mesomorfico;

- disgregazione familiare e altri aspetti negativi legati alla figura materna o allo stile educativo;

- contatto con particolari zone collegate alla delinquenza,alla criminalità.

Alla base di questo tipo di approccio c’è una sorta di illusione metodologica,legata al fatto che,fallito il

tentativo di spiegare la devianza attraverso l’individuazione di una singola causa,e poiché con il proseguire

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delle ricerche venivano evidenziati fattori sempre più numerosi e diversificati,si è pensato che la combinazione

di alcuni o molti di questi fattori avrebbe risolto il problema della spiegazione della criminalità.Si tratta di

un’illusione poiché parte dal falso assunto che esista un insieme stabile e costante di fattori per spiegare la

delinquenza,fattori che possono essere individuati e combinati secondo procedure statistiche,matematiche,anche

molto articolate e complesse.Che questa sia un’illusione è dimostrato da numerose ricerche da cui è risultato

che il numero dei fattori è indefinito,che cambia in relazione al tipo di fenomeno e a molti altri aspetti legati

alle varie differenziazioni del problema.

CAP. 8 IL BISOGNO DI NUOVI PARADIGMI:DEVIANZA E AZIONE

COMUNICATIVA La devianza è una delle possibili forme di comunicazione degli esseri umani.E’ un modo per rendere più

evidente il proprio messaggio perché richiama inevitabilmente l’attenzione dei sistemi cui è riferita,soprattutto i

sistemi di controllo sociale.

Anche il controllo sociale può essere una forma di comunicazione,e parte di questa comunicazione ritorna al

soggetto deviante attraverso un processo circolare:il soggetto ha provato a mandare dei messaggi e riceve,a sua

volta,da parte del controllo sociale,dei messaggi che riguardano la sua azione,il significato sociale della sua

azione.

La devianza è una comunicazione complessa,che contiene l’aspetto del messaggio,ma anche quello del

rumore:contiene quindi sia la possibilità di veicolare messaggi,ma anche la possibilità che l’azione venga

tradotta in rumore da parte del controllo sociale.

La scelta di una teoria della devianza come comunicazione sembra rilevante per la delinquenza minorile in

quanto,in età evolutiva,la componente espressiva della devianza prevale su quella strumentale.Mentre per

quanto riguarda la criminalità in senso generale molto spesso i comportamenti messi in atto sono di tipo

strumentale (si ruba per accumulare denaro,si uccide per eliminare un avversario,ecc.),per quanto riguarda l’età

evolutiva,invece,sembra prevalere la dimensione espressiva,comunicativa.I ragazzi vivono di meno la funzione

strumentale del loro comportamento,mentre esprimono più bisogni legati all’identità,alle relazioni,ecc.

Secondo un’indagine nazionale svolta dal CENSIS sulle Attuali tendenze della delinquenza minorile,i

comportamenti devianti più frequenti e diffusi nell’area adolescenziale riguardano:diverse forme di

vandalismo,il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti,reati contro il patrimonio,reati contro la persona fra

i quali i più rilevanti sono i reati legati alla sessualità.Questi comportamenti sembrerebbero esprimere da parte

dei giovani:

- aggressività verso la società degli adulti,sentita come distante,poco disponibile e attenta;

- disadattamento sociale e disorientamento individuale;

- bisogno di protagonismo,confronto,competitività fra coetanei e verso il mondo degli adulti.

Per quanto riguarda il vandalismo in particolare il suo significato simbolico potrebbe essere:

- contestazione indiretta delle politiche sociali nella scuola,negli spazi pubblici,nello sport,nello

spettacolo;

- indifferenza verso i beni materiali di consumo;

- risposte e reazioni verso una società satura di valori materialistici ed economistici.

Per “azione deviante comunicativa” si intende quella complessa dimensione riguardante la sequenza di azioni

e interazioni strettamente collegata all’episodio deviante.

L’azione,in questo tipo di impostazione,non coincide con il comportamento,il quale è solo una parte

dell’azione.Si preferisce parlare non di comportamento,ma di soggetto che agisce,nel senso che elabora

socialmente e cognitivamente i vari tipi di condizionamento trasformandoli e ricostruendoli continuamente.

Un passaggio importante tra comportamento ed azione è costituito dall’atto sociale,un movimento a cui viene

attribuito un significato sociale,culturale che è sempre in rapporto alla situazione nella quale il movimento ha

luogo.

L’azione si colloca su un piano diverso rispetto all’atto sociale perché essa è un insieme di movimenti e

significati attribuibili ad un attore e diretti verso uno scopo.

In questi termini il discorso sull’azione implica allora due livelli:quello “sistemico” o “riflessivo” che si

riferisce al sistema personale,all’elaborazione interiore,a ciò che ha senso per la singola persona.L’altro è

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l’aspetto intersistemico,che indica i rapporti con gli altri,la comunicazione fra sistemi diversi,il significato

sociale.

Von Cranach,per analizzare l’azione,propone uno schema a forma di triangolo composto da tre dimensioni:

a) comportamento osservabile (riguarda le tappe dell’azione,le sue caratteristiche,i livelli di organizzazione;può

essere indagato attraverso l’osservazione diretta)

b) cognizioni consapevoli dell’attore (processi mentali messi in atto dal soggetto riguardo alcune componenti

dell’azione come scopi,strategie,norme,valori;sono detti consapevoli perché legati al momento ricostruttivo

dell’azione indagato attraverso interviste e questionari)

c) significati sociali che l’azione può assumere nei diversi contesti.

Un contributo importante che ci viene dallo schema di Von Cranach riguarda l’anticipazione mentale degli

effetti.Le azioni sono sempre rivolte a uno scopo.Il soggetto implicitamente o esplicitamente,consapevolmente

o inconsapevolmente,anticipa gli effetti delle sue azioni e interazioni.Si tratta di un’anticipazione che evolve

man mano che il soggetto agisce,ma che è una guida per il suo agire.

Gli effetti possono essere suddivisi in:

- effetti strumentali (per es. “prendo l’ombrello perché piove”,”rubo una macchina perché mi serve”);sono

effetti anticipati in maniera cosciente e consapevole dal soggetto;

- effetti espressivi,comunicativi (a questo livello,attraverso l’azione,vengono comunicate prevalentemente

esigenze di organizzazioni del Sé e dei contesti relazionali significativi).

Tra gli effetti espressivi possiamo distinguere:

- effetti legati all’identità,al Sé (ogni azione comunica all’autore stesso e agli altri,segni e significati

relativi all’identità soggettiva);

- effetti relazionali (poiché l’azione contiene schemi e messaggi di relazione interpersonale che

riguardano sia le persone direttamente coinvolte in quell’azione,sia,simbolicamente,i propri gruppi di

appartenenza – famiglia,amici e le istituzioni in genere;

- effetti legati a regole interpretative d’azione (l’azione infatti è il risultato di processi interpretativi

regolati da codici generalizzati);

- effetti normativi e di controllo (che riguardano il rapporto con le sanzioni,con le norme penali;le nostre

azioni sono sempre inserite in contesti normativi).

Il soggetto è un membro sociale competente,che fa continuamente esperienza di azioni,di effetti che

retroagiscono sulle azioni;può non avere una capacità adeguata alle regole dei contesti,può sbagliare,ma gli

effetti reali di un’azione sono sempre,a qualche livello ricercati dall’autore.Il soggetto intende,consapevolmente

o no,ottenere proprio quegli effetti,anche se si tratta di effetti

negativi,paradossali,autolesionistici,dannosi.Bisogna allora valutare le funzioni di questi effetti,capire quali

significati legano quell’azione a quell’attore e ai suoi contesti più rilevanti.

In questa prospettiva si fa spesso riferimento al concetto di ridondanza che può essere inteso in due modi:come

ripetitività di un comportamento e come parte che “parla” per il tutto.

Ci sono alcune azioni,come per esempio gli omicidi gravi (quali il parricidio),che difficilmente presentano

ripetitività:si tratta di azioni “eccezionali” che contengono messaggi molto particolari che possono non ripetersi

in altre fasi della vita del soggetto.Proprio la gravità ci indica che in quell’azione è presente un messaggio

importante,unico,che può essere ricostruito e che ha un significato e un valore estremamente rilevanti,per

esempio rispetto al tipo di risposta e di interventi da mettere in atto.

Vi sono invece azioni che si ripetono continuamente (come la tossicodipendenza,i furti,ecc.);proprio perché si

ripetono,queste azioni esprimono delle specifiche funzionalità legate a nessi fra azione e contesti

significativi.Bisogna quindi ripercorrere questi nessi per capire che tipo di funzione svolge quell’azione rispetto

all’individuo e ai suoi sistemi di appartenenza.

Nella psicologia dell’azione molta importanza viene data anche alla dimensione delle regole.Le regole di

interpretazione attuano la loro efficacia nell’attribuire significato ad oggetti e a eventi;si riferiscono al modo in

cui le cose vengono definite e rese significative.Le regole prescrittive,al contrario,sono delle direttive per

l’azione;sono quelle norme che permettono agli individui di scegliere fra i vari modelli di comportamento e di

mantenere un senso di correttezza e di legittimità sociale.

Nell’analisi dell’azione,chiedersi a quali regole il soggetto ha fatto riferimento,significa interrogarsi sulle

ipotesi che hanno guidato il suo agire,organizzandolo cognitivamente ed emozionalmente.

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CAP. 9 L’ESPOSIZIONE DEI MINORI ALLA RAPPRESENTAZIONE

DELLA VIOLENZA Quello del rapporto tra violenza rappresentata in TV e minori è un argomento che interessa studiosi

appartenenti a diversi ambiti disciplinari delle scienze sociali.

Tra i più importanti lavori che hanno fornito dati indicativi al riguardo c’è lo studio di Comstock et al.,in cui

vengono prese in considerazione circa 700 ricerche sociopsicologiche degli anni ’60 e ’70.Queste ricerche

hanno messo in evidenza che:

1) esiste una relazione,da parte dei bambini,fra esposizione alla violenza e comportamenti aggressivi;

2) i bambini più piccoli possono apprendere nuovi comportamenti aggressivi anche da una sola esposizione ad

un breve messaggio simbolico;

3) la violenza rappresentata in TV può disinibire o facilitare comportamenti aggressivi già appresi;

4) quando è presentata come comportamento punito,l’aggressività tende ad essere inibita;quando è presentata

come giustificata,effettuata da un eroe positivo,o quando non comporta conseguenze si accresce la possibilità di

successivi comportamenti aggressivi;

5) una forte esposizione a messaggi televisivi violenti può desensibilizzare i bambini dalle conseguenze

negative della violenza nella vita reale;

6) gli effetti del messaggio televisivo violento possono essere moderati da commenti e osservazioni di adulti

che guardano il programma insieme col bambino.

Comstock e Strasburger hanno preso in considerazione diversi studi.Per quanto riguarda gli esperimenti di

laboratorio riportano le ricerche di Berkovitz,effettuate su ragazzi che frequentavano il college.Questo

esperimento consisteva nel far vedere una sequenza di un film con una trama violenta (sulla boxe) e una di un

film con una trama non violenta;durante la proiezione inoltre uno dei suoi assistenti faceva arrabbiare qualcuno

dei soggetti in esame.Le ricerche confermano l’ipotesi dell’autore secondo cui l’esposizione a programmi

violenti può istigare a comportamenti aggressivi in particolari condizioni emotive del soggetto,e cioè quando è

scosso o arrabbiato.Era inoltre sempre lo stato emozionale dei soggetti a influenzare la diversa percezione

dell’aggressività espressa ad es. in filmati riguardanti incontri di football o pugilato tra squadre:i soggetti

arrabbiati percepivano l’aggressività solo come motivo vendicativo verso l’avversario;i soggetti non

arrabbiati,invece,percepivano l’aggressività come condizione professionale di ogni giocatore.

Tra gli studi correlazionali presi in considerazione figurano:quello di Atkin su 623 soggetti adolescenti,quello

di Dominick e Greenberg su 434 maschi preadolescenti e soprattutto quello di Belson su 1500 maschi

londinesi di età tra i 12 e i 17 anni.

Dai risultati si potè concludere che i maschi che consumano una maggiore quantità di TV violenta sono quelli

che commettono un maggior numero di azioni pericolose e criminali;anche comportamenti antisociali meno

violenti sono associati con i maggiori consumatori di TV violenta;due specifici comportamenti,aggressività

nello sport e uso di un linguaggio improprio,sono associati con la più alta esposizione alla TV violenta.

Poi vengono presi in considerazione i risultati di alcuni studi longitudinali (che misurano l’effetto della visione

di TV violenta lungo un determinato periodo di tempo).Huesmann ha condotto una ricerca su un campione di

875 soggetti di circa 9 anni.Di essi 460 furono riesaminati dopo 10 anni (all’età di 19 anni) e fu trovato che la

relazione tra la visione di TV violenta a 9 anni e il comportamento aggressivo dopo 10 anni era molto

significativa.All’età di 30 anni lo stesso campione fu riesaminato e ancora una volta fu trovato un collegamento

tra l’esposizione alla TV violenta all’età di 9 anni e il comportamento antisociale.Huesmann concluse che

l’essere esposti a scene di violenza in TV può promuovere l’apprendimento di abitudini aggressive che

stabilizzandosi possono dar origine a un comportamento adulto antisociale.

Huesmann e Eron fecero una ricerca longitudinale sovrapposta,per studiare più di mille bambini negli Stati

Uniti,Australia,Finlandia,Israele,Olanda e Polonia per un periodo di tempo che andava dagli 8 ai 30 anni.Per i

ragazzi in tutti i Paesi e per le ragazze statunitensi si notò che chi era stato esposto maggiormente a scene

violente in TV risultò aver commesso reati più gravi,essere più aggressivo sotto l’influenza dell’alcool e più

brutale nel punire i propri figli.

Tra gli studi longitudinali viene riportato inoltre quello svolto da Williams (1986),in cui una cittadina del

Canada che non aveva ancora la televisione venne comparata con una comunità vicina che riceveva solamente

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un canale e un’altra che ne riceveva più di uno.Queste tre comunità erano praticamente identiche eccetto che

per la presenza della televisione;i dati poterono inoltre essere rilevati nella prima comunità,prima e dopo

l’introduzione della TV.Inizialmente meno aggressivi,gli studenti della prima comunità raggiunsero i loro pari

appena due anni dopo l’introduzione della TV nella loro comunità.

Paik e Comstock (lavoro di meta-analisi) dedicano particolare attenzione a due studi sperimentali del

1963:quello di Bandura,Ross e Ross,secondo cui i bambini adottavano un comportamento aggressivo dopo

essere stati spettatori di comportamenti violenti espressi sia da persone vere che dai personaggi dei cartoni

animati;e quella di Berkovitz e Rawlings,dove fu trovato che gli studenti di college esaminati esprimevano una

maggiore ostilità verso qualcuno che li infastidiva e percepivano le punizioni per le vittime come giustificate

per il loro comportamento antisociale,dopo aver assistito ad un film che riproduceva un violento incontro di

boxe.

Sempre in questo studio di Paik e Comstock vengono prese in considerazione anche alcune meta-analisi tra cui

quella di Herold e quella di Wood.Entrambi gli autori concludono affermando che esiste una stretta relazione

tra l’esposizione alla violenza televisiva e il comportamento aggressivo e antisociale.

Secondo Paik e Comstock i cartoni animati e i personaggi fantastici esercitano una forte influenza sul

comportamento,in contrasto con la convinzione secondo cui tali effetti fossero inesistenti perché irreali;molto

stretta è risultata anche la relazione tra programmi a contenuto erotico-violento e comportamento

aggressivo;inoltre gli episodi di violenza giustificata risultano avere un’influenza maggiore rispetto a quelli

ingiustificati.

Nel 1960 Klapper,offrendo una sintesi delle più importanti ricerche fino a quel momento condotte,concluse

che l’esposizione ad atti criminosi o di violenza nei mezzi non è una delle determinanti cruciali del

comportamento.D’altra parte,vi sono alcuni indizi che ci fanno supporre che questo materiale possa funzionare

in modo particolare per coloro che siano già socialmente mal adattati.

La gran mole di dati a disposizione porta attualmente gli studiosi di scienze sociali a sostenere pressoché in

maniera concorde l’esistenza di una relazione più o meno stretta tra esposizione alla violenza televisiva e

comportamento.

CAP. 10 LA GIUSTIZIA DI FRONTE ALLA DEVIANZA DEI MINORI

IMMIGRATI Ogni nuovo processo di immigrazione mette in evidenza nel paese di arrivo interazioni d’emergenza prima con

le strutture della giustizia e con quelle sanitarie di base,poi con le strutture pubbliche di assistenza e con il

volontariato sociale,mentre incontra,nel frattempo,i mercati illegali del lavoro e delle abitazioni.Solo in seguito

arriva ai servizi sanitari e sociali,pubblici e privati,con maggiore specializzazione.

Il problema oggi in Italia è grave sia in termini quantitativi che qualitativi:

a) le denunce,gli arresti e le condanne nei confronti dei minori immigrati dai 14 ai 18 anni (soprattutto nomadi

jugoslavi e clandestini nordafricani) sono costantemente aumentati,fino a raggiungere più del 50% dei ragazzi

detenuti nelle carceri minorili,a Roma e in alcune città del Centro-Nord;

b) gli istituti assistenziali pubblici e privati,che si erano progressivamente svuotati per le politiche di

deistituzionalizzazione,si vanno nuovamente riempiendo soprattutto di bambini extracomunitari;

c) l’adozione internazionale è in forte aumento;ha raggiunto livelli doppi rispetto all’adozione nazionale.

Per tutti e tre questi fenomeni,via via che crescono quantitativamente,aumenta l’insoddisfazione per la qualità e

i risultati degli interventi.A parità di reato,i minori immigrati ricevono rispetto a quelli italiani molto più

frequentemente misure cautelari detentive (carcere),vi rimangono per più tempo,e sono più spesso

condannati,mentre con molta meno frequenza ricevono misure in comunità-alloggio,in famiglia,in libertà.

Negli istituti assistenziali,soprattutto per i bambini immigrati,si osserva una totale mancanza di progetti

educativi personalizzati.

L’adozione internazionale è meno garantita di quella nazionale,da un punto di vista giuridico,psicologico e

sociale.

I giudici minorili e gli operatori sociali tendono a dare ai minori immigrati lo stesso tipo di risposte che danno

ai minori italiani,mantenendo lo stesso tipo di aspettative in merito ai risultati.Ma poiché le condizioni dei

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minori immigrati sono diverse rispetto a quelle degli italiani,i risultati saranno diversi,e giudici e operatori si

sentono legittimati a ricorrere a risposte più rigide e istituzionali.

In una ricerca svolta presso il carcere minorile di Roma sono state messe a confronto le relazioni fatte da

educatori,psicologi,assistenti sociali,per minori italiani e extracomunitari.I risultati hanno dimostrato

che,mentre le relazioni per i ragazzi italiani sono articolate e differenziate,quelle per i ragazzi extracomunitari

evidenziano un’unica differenza fra il gruppo dei nomadi e quello dei nordafricani,per il resto le relazioni si

somigliano tutte,non riescono a cogliere differenze individuali,relazionali,familiari,culturali.Poichè gli operatori

sanno di non avere competenze e strumenti per capire questo tipo di utenze preferiscono non dire nulla piuttosto

che distorcere le conoscenze,rischiando di danneggiare ancora di più quei ragazzi.

Dalla raccolta di interviste non strutturate su un certo numero di minori nomadi e nordafricani sono emersi due

aspetti in particolare:i ragazzi arabi provenienti dalla Tunisia,dall’Algeria,dal Marocco rifiutavano ogni

proposta operativa per orgoglio e lealtà rispetto alla loro religione e alla loro provenienza;essi accettano e

comprendono la punizione ma non il trattamento,infatti,per loro ha senso essere trattati solo all’interno dei loro

stessi sistemi di appartenenza.Un atteggiamento diverso è quello dei ragazzi nomadi,anche quando sono di

religione islamica:essi accettano sempre qualunque proposta operativa che li faccia uscire dal carcere,ma poi si

sottraggono al rapporto con l’operatore fuggendo dalle comunità alloggio,non andando agli

appuntamenti,facendo perdere le loro tracce.

Oggi sono evidenti le difficoltà che giudici,avvocati,psicologi e operatori incontrano nell’applicare a questa

utenza un buon criterio.Oggi il criterio basilare per regolare e gestire la tutela dei bambini e degli adolescenti è

quello dell’interesse del minore:prima delle innovazioni legislative avute tra il 1975 e il 1983 (nuovo diritto di

famiglia,affidamento eterofamiliare,adozione) gli interessi personali del minore non erano riconosciuti ed erano

spesso confusi con gli interessi della famiglia e/o dei titolari della potestà genitoriale.La legge 184/1983

afferma che il principale diritto e interesse del minore,soprattutto extracomunitario,è la sua famiglia.

Minuchin ha lavorato a New York e a Londra con famiglie povere occupandosi della dinamica fra violenza

familiare sui bambini e violenza giudiziaria e istituzionale sulla famiglia e sul bambino stesso:nei tribunali di

Londra constatò che allontanare un figlio da una madre africana troppo manesca significa che questa è morta

perché nel suo paese i figli vengono tolti ai genitori solo quando questi muoiono;a New York fece da terapista

familiare in un caso di abuso e di abbandono di un bambino mentre lo stesso caso era trattato

contemporaneamente da altre 11 istituzioni.Per questo caso,a differenza delle istituzioni che tendevano a ridurre

la natura della violenza familiare,M. propose la separazione del bambino dalla sua famiglia.

CAP. 11 MINORI E ORGANIZZAZIONI CRIMINALI DI STAMPO

MAFIOSO Il coinvolgimento di minori in attività mafiose aumenta sempre di più.

A livello legislativo la risposta al problema si è realizzata attraverso l’emanazione di alcune leggi tra cui la

legge 27 maggio 1991,n. 176,con la quale il nostro paese aderisce alla convenzione ONU circa la prevenzione

della delinquenza minorile e la legge 21 luglio 1991,n. 216,con la quale si finanziano progetti elaborati dai

Comuni e da Associazioni delle Regioni meridionali per l’attivazione di interventi di prevenzione della

delinquenza e di risocializzazione nell’area penale.

A questa questione si è anche interessata la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul Fenomeno della Mafia

e sulle altre associazioni Criminali Similari” presentando una relazione,nel marzo 1991,sulla delinquenza

minorile con particolare riferimento alle zone ad alta densità criminale di stampo mafioso.

Il rapporto fra criminalità organizzata di stampo mafioso e minori sta aumentando in particolare in

Sicilia,Calabria,Puglia e Campania.

Il rischio è grosso se si pensa che in alcune aree del territorio nazionale i modelli mafiosi possono essere

fortemente attraenti per i ragazzi.Contesti in cui,tra l’altro,per molto tempo non vi è stata una netta

contrapposizione tra i valori mafiosi e quelli della società civile.

L’uomo d’onore svolgeva funzioni di mediazione,protezione e repressione dei conflitti che non sempre lo Stato

riusciva a gestire direttamente.

La mafia si è posta come struttura imprenditoriale illegale ma contenendo in sé una forte strutturazione di

regole e ruoli ben definiti.L’ingresso in una “famiglia” mafiosa non costituisce solo la possibilità di arricchirsi

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ma anche quella di costruirsi un’identità solida,uno status circondato da “rispetto”,potendo anche “fare carriera”

e assumere,quindi,una posizione elevata,anche se illegale.

Non possiamo affermare che ci si trovi di fronte a un sistematico e organico arruolamento di minori da parte

delle organizzazioni mafiose,ma va rilevato come il rischio di coinvolgimento è sempre più frequente.Se di

regola i minorenni non vengono affiliati alle consorterie mafiose,esiste però una certa attenzione alla criminalità

minorile a cui poter attingere in caso di necessità.

I potenziali candidati all’iniziazione sono innanzitutto i figli,cugini,e nipoti dei mafiosi stessi,ma anche ragazzi

qualsiasi,figli della criminalità comune,osservati e scelti con attenzione.

La criminalità organizzata sceglie un minorenne in quanto soggetto generalmente meno sospettato e controllato.

Oltre a essere meno visibile,il minorenne che delinque incorre in un sistema penale meno affittivo di quello

degli adulti.Ciò stimola la criminalità organizzata a servirsi di minorenni per attività illegali anche molto gravi.

I percorsi che i minori hanno a disposizione sono essenzialmente due:uno è di tipo familiare,l’altro può

avvenire sul campo.

In entrambi i casi l’appartenenza al gruppo mafioso rappresenta per l’adolescente la possibilità di soddisfare sia

bisogni materiali sia bisogni di tipo psicologico come godere di prestigio e rispetto,sicurezza di appartenere a

un gruppo forte.

LA CAMPANIA.La Commissione Parlamentare Antimafia è stata testimone di come in Campania i minori

vengono usati come “foderi” (trasportatori di armi),come spacciatori al minuto di stupefacenti e come

“portaordini”.

Napoli è una delle città più colpite dal fenomeno della delinquenza minorile a causa delle condizioni di degrado

sociale ed economico e all’espandersi del potere dei clan camorristici,che sviluppano il controllo del territorio

anche attraverso il reclutamento di minori.

Quello che appare preoccupante è la forza attrattiva dei modelli camorristici.I giovani tendono ad imitare

comportamenti criminali costituendo gruppi di fuoco e piccole bande allo scopo di eliminare testimoni scomodi

o rivali.

Sembrerebbe che l’area d’incontro tra la criminalità mafiosa e quella minorile sia rappresentata dallo spaccio di

droga che deve essere il più capillare possibile ma,nello stesso tempo,il più possibile invisibile alle forze

dell’ordine e quindi si fa sempre più spesso ricorso all’uso di minori come corrieri sia al minuto che

all’ingrosso.

Quando ha 9 anni il minore comincia la sua carriera come “muschillo”,spacciatore di droga;a 14 anni è già

pronto ad assumere incarichi più importanti ed è anche capace di usare le armi.

Un’area favorevole all’illegalità è la zona di confine tra la provincia di Salerno e quella di Napoli.

Un pericoloso aumento si registra nel comune di Eboli dove i clan clan camorristici imperversano in tutto il

territorio.Dai dati a disposizione del Servizio Sociale emerge che nell’area ebolitana molti minorenni risultano

coinvolti in attività estorsive come fonti di appoggio e di collegamento agli adulti dei clan.

Nella camorra si assiste a un costante ingresso di giovani che contribuiscono a mantenere bassa l’età media

degli aderenti.

Negli ultimi anni a seguito dell’opera di contrasto delle Forze dell’Ordine,la camorra ha dovuto riorganizzarsi

su base di maggiore flessibilità e riducendo anche la fase rituale d’ingresso.

LA PUGLIA.Nel corso di pochi anni anche la Puglia ha registrato un aumento non solo della criminalità

comune ma anche di quella organizzata di stampo mafioso.

La storia dei diversi gruppi mafiosi pugliesi è giovane.Altrettanto giovane è l’età degli affiliati (20/30).

In un’ordinanza emanata dal GIP del Tribunale per i Minorenni di Bari (1994) si delinea il coinvolgimento di

minori in un’organizzazione mafiosa.

Il gruppo mafioso avrebbe seguito una politica di addestramento e impiego di minorenni che,se pur non

formalmente affiliati,hanno partecipato allo spaccio di stupefacenti.I proventi di tale attività venivano versati

all’organizzazione dalla quale i ragazzi ricevevano un compenso denominato “spettanza”.Oltre allo spaccio di

stupefacenti,alcuni minori venivano utilizzati per le estorsioni,rapine,riciclaggio di auto rubate,traffico di

armi,ecc.

Un’altra inchiesta disegna un quadro del fenomeno dello spaccio di stupefacenti nella zona del rione Japigia di

Bari.L’intensa e lucrosa attività del gruppo criminale aveva determinato la necessità ad accrescere il numero

degli associati,tanto che i vertici dell’organizzazione non disdegnavano di accogliere e impegnare non solo tutti

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i parenti,anche se minori,ma anche ragazzi e giovanissimi,per lo più abitanti nella zona e nella città vecchia,già

dediti a furti,scippi e minuta vendita di tabacchi lavorati esteri di contrabbando,e/o giovani pregiudicati

desiderosi di realizzare facili guadagni senza eccessivo rischio.

I minori a bordo di ciclomotori,collaboravano con i soggetti dediti alla vendita di stupefacenti,stazionando in

prossimità dei luoghi di smercio con il compito di vigilare le vie di accesso a questi luoghi e segnalare

visivamente e tempestivamente ai “pali”,collegati a loro volta con radiotrasmittenti portatili con gli

spacciatori.Altro compito era quello di prelevare le dosi o le piccole partite di droga nascoste.Chi svolge tale

funzione viene denominato “cavallo”.

L’attività di “cavallo”,che costituisce il punto di partenza per l’introduzione a pieno titolo nel sodalizio

criminale,è ritenuta necessaria dai capi per valutare l’affidabilità dei soggetti da affiliare.

Nel corso delle indagini i minori (anche quando confessano la loro parte) non indicano mai elementi tali che

possono riferirsi ad adulti coimputati.Inoltre la scelta del difensore viene imposta dagli adulti coinvolti in

quanto complici o interessati a che quel minore non “canti” o che comunque esca quanto prima dal circuito

penale in quanto preziosa risorsa.

Il distretto giudiziario di Lecce comprende le province di Lecce,Brindisi e Taranto.Le prime due sono

considerate le sedi storiche della Sacra Corona Unita;ed è Lecce in particolare la Provincia a maggior

concentrazione mafiosa.

Dalla lettu8ra di alcuni atti giudiziari emerge una criminalità minorile sempre più spesso utilizzata nelle rapine

e,a volte,negli omicidi,oltrechè nel settore degli stupefacenti e del contrabbando (due tra le attività fondamentali

per l’economia delle organizzazioni criminali).

In particolare per quanto riguarda il reclutamento di minori è rilevabile una specifica,mirata strategia di

attenzione della criminalità organizzata verso ambienti giovanili caratterizzata da comportamenti

devianti,ambienti appartenenti a fasce sociali emarginate,povere,che trovano nell’alternativa criminale

prospettive di affermazione personale e di soluzione di problemi generali.

In genere si tratta di giovani utilizzati inizialmente in compiti secondari e di generica manovalanza cui non

segue,una vera e propria affiliazione;ma tale utilizzo dà la possibilità all’adolescente di distinguersi in senso

criminale e all’organizzazione illecita di verificare le competenze delinquenziali e l’affidabilità dello stesso.Si

costruisce,quindi,in questo modo la possibilità di una strutturazione stabile di un percorso deviante all’interno

dell’organizzazione che può arrivare ,in alcuni casi,ad un’affiliazione successiva vera e propria.Tra l’altro

bisogna anche tenere in considerazione che spesso il canale privilegiato di inserimento nei clan mafiosi è quello

familiare.

La Sacra Corona Unita si è servita di minorenni anche per la preparazione e la gestione di due attentati

dinamitardi presso il Palazzo di Giustizia di Lecce nel novembre del 1991 e nel gennaio del 1992,per intimidire

l’Autorità Giudiziaria impegnata all’epoca nella celebrazione del giudizio dibattimentale nei confronti della

Sacra Corona Unita.I due minorenni implicati nella vicenda parteciparono alla preparazione e al trasporto

dell’esplosivo,anche se materialmente non lo collocarono loro;comunque erano a conoscenza della destinazione

dell’ordigno e della finalità mafiosa dell’attentato.

Il reclutamento nei gruppi criminali pugliesi non è restrittivo.Nella Sacra Corona Unita si incontrano anche

tossicodipendenti e piccoli spacciatori,che vengono invece esclusi dalle cosche siciliane e dalla ‘ndrangheta.

LA CALABRIA.La ‘ndrangheta nel corso degli anni ha fatto parlare di sé soprattutto come organizzazione

specializzata nei sequestri di persona.

La minor attenzione di cui ha goduto la criminalità degli adulti sembra abbia anche caratterizzato quella

minorile.

A conferma della partecipazione di minorenni in attività dei clan mafiosi,vengono messe in luce le morti a

seguito di attentati di minori.Tali morti vanno considerate come il risultato di un regolamento di conti tra

cosche mafiose.

Dalla lettura di una sentenza emessa dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro (1991),si evince come alcuni

minorenni facevano parte di una cosca mafiosa che si contrapponeva per motivi di predominio e di controllo sul

territorio ad un altro gruppo e che per suo conto commettevano reati anche se si è trattato di fatti di

microcriminalità.I minori erano soliti comunicare al gruppo di appartenenza l’arrivo di nuovi ambulanti al

mercato settimanale di due cittadine della Provincia catanzarese per la riscossione della tangente che i

commercianti della zona erano costretti a pagare.

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Bisogna comunque dire che il coinvolgimento di minori imputati era solo occasionale e sganciato da qualunque

forma di inserimento ufficiale nell’ambito dell’organizzazione mafiosa.Tali forme di avvicinamento comunque

ai gruppi criminali possono amplificare i rischi di rimanere agganciati alle regole del clan.

Partecipazione certa ad un clan mafioso ci viene da un’altra sentenza in cui si parla di due minorenni di cui uno

faceva parte della cosiddetta “ala armata”,commettendo reati contro la persona,come omicidio e tentato

omicidio,e l’altro aveva compiuto estorsioni e altri reati.

La cosca calabrese si fonda in larga misura su una famiglia di sangue,ovvero la caratterizza un impianto di tipo

familistico.

L’età minima per essere iniziati all’ndrangheta e per poter far parte del primo gradino dell’organizzazione

(“picciotto liscio”) è di 14 anni.Anche prima di questa età i figli di affiliati vengono sottoposti a una forma di

iniziazione a seguito della quale si dice che sono “mezzo dentro e mezzo fuori”;spesso questa iniziazione

avviene il giorno del battesimo,quello religioso.La posizione di “mezzo dentro e mezzo fuori”,comunque,non

potrà essere superata prima dei 14 anni.Il fatto di essere già stato parzialmente affiliato da bambino favorisce in

genere l’affiliato in quanto gli conferisce una maggiore “anzianità” di partecipazione all’organizzazione,anche

se non ne determina l’affiliazione certa.Ai figli maschi degli uomini d’onore della ‘ndrangheta,per i quali si

suppone la futura appartenenza all’organizzazione,spetta la qualifica di “giovane d’onore”,che non è un vero e

proprio grado ma solo un riconoscimento della loro appartenenza alla “famiglia”;comunque essere considerati

giovani d’onore non implica un’affiliazione certa in futuro.

LA SICILIA.Cosa nostra,l’organizzazione mafiosa per eccellenza (anche se non l’unica dell’isola) si è da

sempre proposta come fonte di modelli di comportamento,stili di vita degni di rispetto.

La cerimonia di iniziazione è il punto di arrivo di un periodo di osservazione e selezione da parte degli uomini

più grandi,già uniti dal patto di sangue.

I potenziali candidati all’iniziazione sono innanzitutto i figli,i cugini e i nipoti dei mafiosi stessi,ma anche

ragazzi qualsiasi,figli della criminalità comune,osservati e scelti con attenzione.

Nella zona di Palermo i reati in materia di stupefacenti aumentano.Tale fenomeno vede coinvolte spesso intere

famiglie.Un lavoro di squadra,di solito tra madri e figli che vede questi ultimi all’età anche di 10-12 anni non

solo spacciatori al dettaglio ma anche vedette sveglie e pronte a inviare il segnale di pericolo.Uno di questi

teatri dello spaccio di droga è lo Zen,quartiere simbolo di tutte le periferie disgregate.Qui a bambini sempre più

piccoli vengono affidati incarichi quali la “staffetta”,la “vedetta” e lo smercio della droga.

Nel distretto di Caltanissetta un forte allarme proviene dalle storie di baby-killers,di baby-gang e di ragazze-

soldati della mafia.

Anche a Messina il coinvolgimento di minori nella criminalità mafiosa è alto e svolgono qualsiasi tipo di

attività:omicidi,spaccio di stupefacenti,trasporto di armi,estorsioni,ecc.

A Catania,non solo sempre più ragazzi approdano al mondo del crimine ma sempre più violente sono le azioni

di cui si rendono protagonisti.

Da una ricerca del Labos (1991) realizzata a San Giovanni Galerno (quartiere periferico di Catania) sul rapporto

criminalità minorile/malavita adulta,emerge che il ruolo dei giovani nelle organizzazioni mafiose è quello di

“mano d’opera a basso costo”.I giovani possono accedere ai gradini solo più bassi dell’organigramma mafioso

ma è preoccupante la loro forte ambizione di emergere all’interno del gruppo mafioso.

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