d’angelo giovanni c'era 'na vota 2

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Immaginate che una piovosa sera d’inverno vada via, improvvisamente, la corrente elettrica. Non è possibile? Lo è, specialmente nei piccoli centri dell’entroterra siciliano; fortunatamente oggi con scarsissima frequenza, ma una volta, ad ogni starnuto, ad ogni piscio di cane o gallina, alle prime gocce di pioggia… tacte: via la luce! In quelle lunghe e gelide notti ci si riuniva attorno al braciere ad ascoltare “li cunti antichi”, con la presenza del vicinato e alla luce fioca d’una candela, d’un lume o qualche “spicchiu” (orciuolo). Oggi il braciere, il focolare, è rappresentato dalla Tv, ma senza corrente come si fa?

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C’era ’na vota. Vol.2

Giovanni D’Angelo

Ediz. Il sole di tutti, Bergamo 2008

Nota di Eugenio Giannone

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2 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

PREAMBOLO AL SECONDO VOLUME

Continuo nel lavoro intrapreso con la sempre più forte convinzione che è un

grande errore storico, oltre che intellettuale e sociale, lasciare svanire circa

mezzo secolo della nostra esistenza.

Un periodo molto complesso, quello del dopo guerra, che ha visto la nostra

società coinvolta in un cambiamento radicale del modo di vivere, di pensare,

di agire.

In molto poco tempo la società è passata da un modo di vivere basato su

valori tramandatici col comportamento, con l‟esempio, con l‟insegnamento

dai nostri progenitori, frutto di esperienze, di pratica, di rodaggio, ad un

nuovo modello di vita basato principalmente sulla contestazione di tutto

quello che fino ad allora era stato, se non negato, parsimoniosamente

concesso.

Il passaggio repentino dall‟ereditario barcamenarsi tra esigenze di famiglia,

ricerca spasmodica di un lavoro, privazioni di qualsiasi genere, di sacrifici

che spesso portavano le persone alla prostrazione, senza avere avuto il

tempo di analizzare e gestire, con metodo e ponderazione, le novità che la

rivoluzione sociale offriva, ha portato la società al totale abbandono delle

proprie origini, tradizioni, esperienze, senza considerare e acquisire quello

che di positivo, di buono, di valido, poteva essere ancora utilizzato.

Oggi, alla luce dei fatti susseguitisi, dei valori che regolano la società, delle

prospettive che si presentano ai futuri uomini, possiamo sicuramente

affermare che l‟accettazione del nuovo, che si è presentato, è stata fatta con

poca prudenza; senza riflessioni e considerazioni si è preso tutto “a mazzu”,

senza considerare quello che di buono, di utile, veniva lasciato indietro e

quindi perduto.

Valori come solidarietà, umiltà, rispetto, fratellanza, fiducia, generosità e

onestà hanno ceduto il posto ad egoismo, prevaricazione, superbia,

insolenza, avarizia, corruzione.

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3 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

L‟uomo, oltre il dovere di garantire la propria progenie, ha degli obblighi

verso la propria cultura e tra questi verso il proprio retaggio.

Il patrimonio materiale e culturale, sia esso scritto che tramandato a

memoria, fanno parte integrante dell‟ “essere” uomo; questi non può far

finta che non esistano, dimostrando verso di essi disinteresse e indifferenza.

I giovani, futuri uomini e futuri depositari della cultura nella sua globalità,

hanno bisogno di una grande fede sulla quale basare la loro vita; se trovano

valori di disinteresse, di noncuranza, di qualunquismo, tali cresceranno,

allontanandosi sempre di più dalla conoscenza e dalla verità.

Ai giovani, oggi, manca una grande fede, manca quello stimolo che li

coinvolga interamente, fin dall‟adolescenza, e li indirizzi verso ciò che è

giusto, che è buono, per una giusta esistenza futura.

Da dove attingere la fede necessaria al loro bisogno?

Penso che a questa domanda una seria risposta possa venire dalle esperienze

del passato, dalle pratiche, dalle conoscenze acquisite; e chi, ruolo

insostituibile a questo scopo, può assolvere meglio degli anziani? Chi

meglio dei nonni?

Penso che questi vecchi uomini, ormai quasi giunti alla fine della loro

camminata terrena, possano svolgere un importantissimo compito, in quanto

depositari del passato, loro affidato dalla “vita”: quello di trasmettere, di

“passare il testimone” a chi continuerà il cammino dopo di loro.

Oggi, purtroppo, molto poca comunicazione c‟è tra i giovani e i vecchi,

considerati, questi, quasi ovunque, un mezzo da utilizzare come fonte di

guadagno, se non come un peso da collocare in qualche “casa di riposo” o,

peggio, in qualche “ospizio”.

Si assiste a rapporti di semplice convivenza, quasi obbligatoria, tra giovani e

famiglie e tra giovani e società.

Nella nostra società viene a mancare quel collante che è capace di tenere

insieme la famiglia, che ha tenuto nei secoli il parentado unito attorno al

sacro focolare, creando attorno ad essa una rete di protezione e di sicurezza

che dava la certezza dell‟appartenenza.

“Cu jè stu picciottu?”

“Lu niputi di lu Zì Carminu Bidduzzu!”

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4 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

“Aaaah…bedda famiglia…!”

Ormai queste espressioni, che fino a qualche decennio fa era normale

sentire, oggi non esistono più, neanche nella memoria della gente.

Siamo diventati, in meno di mezzo secolo, un popolo con uno scarso,

limitato, senso della memoria; scarso interessamento della propria identità,

protesi verso un futuro ignoto e senza certezze, se non quelle di guerre e di

contrapposizioni politico-religiose.

Non tutte le prospettive sono negative, tanto si può ancora racimolare e

rimettere al giusto posto, tanto di buono che il passato ha sperimentato e

collaudato; a questo fine, sono convinto, che le esperienze le conoscenze, il

nostro passato, ancora vivo nelle menti dei nostri anziani, può essere

decisivo, e condizionante, per sbiadire le forti tinte che colorano i

sentimenti, gli atteggiamenti, i modelli di vita, oggi in vigore.

Il “vecchio”, collante e collegamento tra la storia, la nostra storia, il nostro

passato, con il presente, può essere un importante ed essenziale mezzo per

fecondare, di seme positivo, il nostro futuro.

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5 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

C’era ’na vota. Vol.2

Nota di Eugenio Giannone

Immaginate che una piovosa sera d‟inverno vada via , improvvisamente, la

corrente elettrica.

Non è possibile?

Lo è, specialmente nei piccoli centri dell‟entroterra siciliano; fortunatamente

oggi con scarsissima frequenza, ma una volta, ad ogni starnuto, ad ogni

piscio di cane o gallina, alle prime gocce di pioggia…tacte: via la luce!

In quelle lunghe e gelide notti ci si riuniva attorno al braciere ad ascoltare “li

cunti antichi”, con la presenza del vicinato e alla luce fioca di una candela,

d‟un lume o di qualche “spicchiu” (orciuolo).

Oggi il braciere, il focolare, è rappresentato dalla Tv, ma senza corrente

come si fa?

Chiedetelo a Giovanni; ha risolto il problema per sé, per i nipotini, per chi

ha voglia di leggerlo, anche alla chiara luce di un neon.

Attraverso una lunga serie di documenti in bianco e nero, che la sua fervida

penna ci regala, fa emergere una serie di figure e di situazioni di altri tempi,

d‟un passato ancora prossimo, che si materializzano narrando la storia della

comunità ciancianese fatta di mestieranti, di abitudini, di sentimenti genuini,

di religiosità e folklore, di motteggi e ingenuità, degli appuntamenti della

vita, volti a favorire un rapporto nuovo e diverso – contemporaneamente

antico – con la natura e un più meditato modo di confrontarsi tra individui

per riappropriarsi di valori certi, tornare al dialogo tra componenti dello

stesso nucleo familiare.

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6 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Proprio per questo dovrebbe andare via la corrente elettrica e impedire che

quell‟orribile scatola magica, con i suoi reality e la sua spazzatura, infesti le

nostre case e le nostre menti, catturando l‟attenzione e facendoci

dimenticare quanti e quanto ci circondano e vivere in un mondo virtuale che

continuamente ci disillude.

Ritrovare antichi sapori si può.

C‟era ‟na vota Vol. 2 di Giovanni D‟Angelo si colloca sulla scia del

precedente volume, ripercorrendone lo stile aggraziato e il linguaggio,

sempre parlato, fluido, accattivante che invita alla meditazione e all‟ascolto

di questo autentico cantastorie.

Eugenio Giannone

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9 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

La Famiglia La colonna portante, che svolgeva il ruolo insostituibile di

collante della società ciancianese, era sicuramente il senso ben

saldo della famiglia.

La famiglia, sempre sacra, era tutto: inizio e fine, luogo di

certezze e di dubbi, di tenerezze e di severità, di gioie e di

afflizioni, di tranquillità e di preoccupazioni.

Tutela, ala protettiva nei momenti di crisi e di sconforto; tutto

girava attorno alla famiglia e nella famiglia, tutto era per la

famiglia e con la famiglia.

Sentimento radicato molto profondamente e cementato nei secoli

dalla coesione che contraddistingueva una famiglia dall'altra;

essa era punto di riferimento per i componenti che ne facevano

parte i quali, nei momenti bui e difficili della vita quotidiana,

trovavano sempre e comunque il manto protettivo e il rimedio

sicuro agli ostacoli che incontravano lungo il cammino nella

famiglia.

Al suo culmine stava il più anziano, il padre o il nonno, il quale

teneva sotto controllo l'andamento di tutto, anche di quello della

famiglia del figlio, senza intervenire o incidere, se non fosse stato

richiesto il suo interessamento o il suo consiglio e delegando la

moglie a “suggerire” alla figlia eventuali rimedi.

“Lu Papà” era sempre “ddà” pronto a qualsiasi cosa pur di

salvaguardare il suo focolare.

Educato dai suoi genitori al rispetto di tutto e di tutti purché fosse

altrettanto rispettato (“lu rispettu è misutatu cu lu porta l'avi

purtatu” si era soliti dire), sempre disponibile ad evitare liti o

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10 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

incrinature all'interno della famiglia.

“Lu Nannu” e per i più fortunati pure “lu Catanannu”, depositari

di saggezza e di esperienza di vita vissuta, spesso, molto spesso,

erano analfabeti, non sapevano leggere nè scrivere nè far di conto

correttamente, ma riuscivano a tenere sotto controllo il loro

avere, il loro sapere, affidandosi all‟esperienza ed a metodi di

vita trasmessa loro dai genitori e dagli avi.

Tutto ciò che di nuovo avveniva nella famiglia di buono o di

cattivo, di positivo o di negativo era a conoscenza di tutti i

componenti, solo i bambini venivano esclusi da fatti o decisioni, i

bambini “l'addevi” non dovevano essere influenzati

negativamente ed all'occorrenza era il nonno il nume protettore

dei fanciulli.

Nulla veniva nascosto al padre o al nonno, tutto ciò che

riguardava o coinvolgeva uno o più parti oppure il solo nome

della famiglia o che ne potesse offuscare l'immagine, era oggetto

di discussione, di chiarimento, di decisione, di conclusione e, a

seconda delle circostanze, anche di decisioni serie e

consequenziali.

Tutta la vita quotidiana girava in funzione della famiglia.

Si lavorava, si produceva, si commerciava, si barattava, si

litigava, sempre per portare a casa, alla famiglia, il necessario per

la sussistenza e permettere ai ragazzi di crescere meglio che si

poteva, ai vecchi di passare gli ultimi giorni con il rispetto ed il

calore dei propri cari.

Ogni festa, ogni occasione era buona per riunire la famiglia,

quasi sempre “nta la casa granni”, in casa del più grande, per la

felicità dei vecchi che vedevano la loro umile dimora piena di

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11 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

vita e di vitalità, frutto della loro esistenza piena di sacrifici e di

stenti.

Con l'approssimarsi di una festa già le donne incominciavano a

preparare il necessario per allestire il pranzo; fin dalla mattina

presto in cucina “la tannura” era accesa, un continuo fermento a

preparare l'abbondante pranzo festivo.

Gli uomini vestiti a festa andavano a fare una passeggiata in

piazza; i bimbi stavano vicini alle mamme mentre i più

grandicelli facevano qualche corsetta con gli amici ponendo

attenzione a non sporcare “li robbi novi”.

La nonna dava una mano a preparare mentre il nonno, spesso,

stava attento ai bambini, fumando la sua pipa e avendo cura di

non far mancare “li ligna pi la tannura”.

Negli occhi di tutti c'era solo felicità quel giorno; contava

principalmente lo stare insieme, il guardarsi, l‟osservare “l'addevi

chi criscivanu”. Questa era la famiglia, la propria famiglia, che

nessuno doveva o poteva usare od offendere, “ngiuriari”.

Tutti i sabati sera si andava a trovare “li nanni” ed in particolare i

genitori del papà, considerato che i nonni materni, nella

stragrande maggioranza dei casi, abitavano nella stessa casa o

nelle immediate vicinanze (era usanza che la figlia “femmina”

portasse in dote la casa e per questo il padre divideva la propria

con la figlia, stando di fatto con lei).

Si passava una serata assieme ai vecchi nonni, assieme agli altri

fratelli sposati, anch'essi in visita ai genitori.

Spesso si riunivano tre o quattro fratelli, con rispettive mogli e

conseguenti figli; la casa dei nonni diventava troppo piccola ed

insufficiente ad ospitarli tutti.

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Il vociare dei bambini ed il chiacchierio degli adulti sembrava

essere insopportabile, ma poi ci si faceva l'abitudine.

I nonni tenevano sempre da parte qualcosa da regalare “a

l'addevi” che aspettavano impazienti che la nonna li prendesse;

spesso sollecitavano con bacetti o carezze la nonna a prendere “li

cosi”.

C'era un'atmosfera magica in quella casa, un'atmosfera che

proteggeva e saturava il bisogno di affetto, di protezione, di

sicurezza che ogni essere cerca e trova nella propria specie, nella

propria “tana”, nella propria famiglia.

Sembrava che il tempo si fermasse per cedere il posto alla forza

dell'amore, in una sinfonia dolce e melodiosa composta da grida

di bambini e chiacchierio di adulti.

“A quali famiglia apparteni ?” si era soliti chiedere ai ragazzi che

non si conoscevano; alla risposta, subito si faceva la conoscenza

di quel ragazzo, rametto forte e resistente facente parte di una

pianta grossa e potente, oppure facente parte di una albero grosso

ma poco potente; si teneva ad inquadrare l'essere nella propria

nicchia perchè la società di allora si misurava dalla potenza e

dalla capacità della nicchia di appartenenza.

I figli venivano allevati con amore e nel più rigoroso rispetto per

gli adulti; i nonni erano quasi sacri; ad essi si portava tanto

rispetto e da essi si poteva ricevere qualsiasi rimprovero “senza

pipitari”; si andava a far loro visita spessissimo e si portava

porzione dei dolci che la mamma faceva a casa in occasione delle

feste importanti; parte delle primizie dei prodotti della terra erano

per il nonno che le aveva piantate ed accudite per tantissimi anni

ed, infine, consegnate ai figli perché continuassero a coltivarle.

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13 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Dopo il papà veniva il fratello maggiore, al quale si obbediva e si

doveva ottemperanza e rispetto.

Le figlie venivano allevate con amore e particolare tenerezza;

assieme alla madre erano dedite ad accudire la famiglia e la casa.

I bisogni familiari erano affidati alla madre e alle figlie che la

collaboravano, l'ubbidivano e con lei vivevano e dipendevano

quotidianamente.

Il padre poco o nulla s'interessava della vita della figlia, era

dovere della madre stare attenta a quello che la figlia faceva

durante la giornata, con chi parlava o cosa, o chi, guardava.

I figli maschi, considerati la continuità della famiglia, erano

tenuti in continua osservazione dal padre che li indirizzava nella

via da percorrere con l'esempio, portandoli con sé a lavorare,

dando loro consigli e suggerimenti; voleva che i figli, “l'addevi”

(i figli, per i genitori, erano sempre “l'addevi”; anche quando

questi, a loro volta, diventavano genitori), andassero vestiti con

“robbi boni”, facessero la loro bella figura, non venissero meno

agli impegni presi nella famiglia e nella società.

Tutto era fatto in funzione dei figli “maschi”, che erano destinati

a dirigere e gestire la famiglia e alla sua continuazione; le

femmine venivano venerate, rispettate, trattate con dolcezza; non

dovevano essere trattate male né molestate. Molte liti, a volte

qualche omicidio, scaturivano dalla reazione verso qualche

giovanotto, di padri o fratelli, a seguito della “mancanza di

rispettu”, dall'offesa fatta a qualche figlia.

Il rimedio alle offese gravi era il matrimonio riparatore, che

riportava pace in famiglia con la benedizione dei genitori e dei

parenti tutti.

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14 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

“La me famiglia” era tutto, in quel “me” c'era un possesso

assoluto, totale, che al solo pronunciare dava un senso di

sicurezza e di protezione; era unica ed inviolabile, con la mamma

che rappresentava tutto l'amore immaginabile; col papà che al

solo pensiero dava sicurezza e certezza; con i fratelli che erano se

stessi ed a cui si potevano affidare i più importanti segreti.

Poi c'erano i nonni, ancore di salvezza e di saggezza della

famiglia, che trovavano la soluzione ad ogni problema.

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L’Allattaturi (L‟imbianchino)

L‟artigianato: attività faticata ma fiorente e tanto diffusa; mezzo e strumento

che permetteva a qualche centinaio di famiglie di “mettiri la pignata” tutti i

giorni senza eccessive difficoltà e senza “stari sutta patruni”, cosa assai

diffusa nel nostro paese.

Tra le tante attività artigianali, alcune già descritte altre da descrivere, c‟era

“l‟allattaturi”.

Non erano tanti coloro che esercitavano questo mestiere, quattro o cinque a

mia memoria, ma era altrettanto vero che non tutti “allattavano” la casa

sovente, anzi... c‟erano abitazioni composte da due stanzette in cui

trovavano posto l‟asinello, la gabbia di legno per le galline, in un piccolo

spazio la capretta, il fedele cagnolino che oltre a fare la guardia “a la robba”

era un fedele compagno dell‟asino; in un angolo della casa l‟immancabile

cucina a legna e naturalmente i letti per i componenti della sempre

numerosa famiglia.

Certo non tutte le famiglie erano composte nel modo descritto; non tutte

potevano possedere tutti quegli animali; forse uno o due. D‟altra parte la

stragrande maggioranza abitava in una o due stanzette, umili ma decenti, le

cui pareti di colore... misto, non potevano essere pitturate ogni anno a causa

della non eccessiva disponibilità finanziaria. Ma ogni tre o quattro anni, o

per qualche occasione importante i proprietari ricorrevano al lavoro di

“l‟allattaturi” per coprire l‟esistente e disinfettare la casa.

L‟imbianchino non possedeva attrezzature sofisticate e di precisione, non

utilizzava strumentazione specializzata e particolare; i suoi attrezzi di lavoro

erano umili, funzionali e di facile reperimento: una robusta scala di legno a

forbice, per consentirgli di potere salire in alto anche dove non poteva

appoggiarla; uno o due pennelli grandi e qualcuno piccolo; diversi secchi di

varie grandezze, ove mescolava e colorava lo stucco; un paio di robuste

canne, per consentirgli di allungare il manico del pennello da utilizzare per

tetti e muri alti; alcuni rulli di gomma, sulla cui superficie, a rilievo,

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18 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

apparivano figure di fiori, foglie e piccoli disegni che, ruotando su un asse

centrale, lasciava impressi sui muri dove scorrevano dei disegni piacevoli ed

eleganti.

Poche erano le richieste che l‟allattaturi faceva al committente: “lu stuccu”,

materia prima che imbiancava i muri; “la terra colorata”, necessaria per

dare il colore alla pittura. Il tutto in quantità doppia se doveva passare sui

muri più di una volta, al fine di ottenere un colore più denso e più duraturo.

Gli ingredienti che formavano la materia prima erano la calce stemperata, la

terra colorata e l‟acqua.

La calce veniva diluita con acqua, dentro un contenitore, girando il tutto con

un bastone appiattito; infine vi si versava con tanta cura ed attenzione la

terra colorata, cercando di ottenere il colore adatto a soddisfare la richiesta

del proprietario.

Era sempre disponibile alle richieste del committente: “lu tettu celestinu”,

“lu culuri pagliarinu”, “li mura virdinu”, “cu li ciuriddi gialli o virdi”, e

richieste di questo genere.

Era bravo ed eseguiva il lavoro con scrupolo, non sciupava quasi mai il

materiale e riusciva, col suo metodo, a sporcare il meno possibile il

pavimento, cosa che la proprietaria della casa gradiva ed apprezzava molto.

Durante il lavoro sembrava che, da dove passava il pennello, lasciasse delle

strisce antiestetiche tali da destare sfiducia in chi guardava, ma non appena

il lavoro veniva terminato e la tinta incominciava ad asciugare, le pareti

erano di un colore e di una bellezza magnifica, senza nessun segno di

pennello (“senza liccunati”) e tutto uniforme (“pari „na ricotta”).

Generalmente il tetto veniva colorato d‟azzurro, per "spezzare" con il colore

diverso delle pareti che potevano essere di un colore uniforme oppure

trapuntate da tanti disegni floreali, di vario colore, tale da dare l‟impressione

che, quei fiorellini, venissero posati ad uno ad uno sulla parete.

Considerando i mezzi usati (umilissimi), a lavoro terminato era un‟opera

d‟arte che lasciava quasi sempre soddisfatti i proprietari e ancor di più

l‟artista.

Non era raro che il committente, dopo lunga ed accesa discussione,

manifestasse insoddisfazione per il lavoro eseguito.

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19 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

In quei casi “l‟allattaturi” rifaceva parte del lavoro già fatto, a condizione

che il proprietario comperasse le materie prime; non senza offese e

malcontenti.

“L‟allattaturi”: umile artigiano, sempre orgoglioso del suo lavoro e

consapevole di portare pulizia, igiene e bellezza, con grande soddisfazione

delle persone che incominciavano ad apprezzare l‟importanza dell‟igiene,

della luminosità, delle comodità, dell‟accoglienza, per loro e per gli altri.

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“Lu mulinu” (Il mulino)

Molttissime famiglie facevano il pane nei tanti forni a paglia sparsi per il

paese; tante altre preferivano farlo in casa, adoperando il fornetto

domestico; a tal fine era necessario avere una discreta scorta di frumento per

poi molirlo ed utilizzare la farina.

Chi se lo poteva permettere, come contadini proprietari, lavoratori della

terra ma anche artigiani e commercianti, preferiva tenere il frumento in casa,

al sicuro, dato che era considerato una sicurezza avere la “mangia”

conservata a loro disposizione dentro “li fossi”, spazio lasciato a tale scopo

agli angoli della casa, tra il pavimento e la volta della stanza sottostante, a

cui si accedeva tramite una botola; altri collocavano i cumuli di frumento

nello spazio sotto il tetto, “li tetti morti”, posto aerato utile a tale scopo.

Tante altre famiglie, non potendo avere il beneficio della “mangia”

compravano il pane nelle botteghe spesso a “cridenza” e facendo “detta”,

da pagare alla prima occasione di guadagno.

Prima che una buona e fragrante forma di pane venisse posta sulla tavola a

zittire la sempre presente fame, lunga era la strada che si doveva percorrere;

il frumento si doveva setacciare (“cerniri”) con delle crivelle (“crivu

d‟occhi”) per togliere le impurità ed i nodi della paglia rimasti dopo il

lavoro nell‟aia, doveva essere trasportato dentro dei sacchi e a dorso di mulo

al mulino da dove ,dopo avere atteso il turno, usciva come farina pronta per

essere utilizzata per i bisogni della famiglia.

A Cianciana i mulini funzionanti attorno agli anni “50” erano tre; ce n‟era

un quarto denominato “lu mulinu di l‟acqua”, ma di esso funzionante ho

vaghissimi ricordi; rammento solamente che di fronte all‟edificio che

ospitava tale mulino c‟erano “li pili”, grande e rettangolare vasca sui cui

muretti erano state costruite, sempre in muratura, una decina di

appostamenti scanalati, ognuno largo una cinquantina di centimetri, adatti a

far sì che le massaie potessero strofinarvi i loro panni e pulirli utilizzando

l‟acqua che scorreva copiosa, limpida e fresca da una cannella posta

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23 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

all‟estremità stretta della vasca; questa struttura era posta proprio di fronte al

mulino chiamato “di l‟acqua” proprio perché la macina era spinta dalla

velocità dell‟acqua che, intubata e fatta discendere a forte velocità dalla

salita Regina Elena, faceva girare le pale di una grande ruota.

Di questo mulino ho vaghi ricordi, oltre “li pili” mi viene alla mente la

ripida discesa che affiancava detto lavatoio, in fondo alla quale scorreva a

cielo aperto la fognatura del paese ai cui lati cresceva un fitto e rigoroso

canneto utilizzato da tante persone per raccogliere le lunghe e robuste canne

utilizzate nei bisogni della vita quotidiana.

Lungo tale canneto e tutto intorno la terra era di colore celeste (“crita

celesti”) che noi ragazzi andavamo a raccogliere, non curanti delle

esalazioni e del pericolo che provenivano dalla fogna che scorreva a due

passi, per giocarci a costruire pupazzetti o altri oggetti adatti ai giochi

ingenui di ragazzi.

Dunque i mulini in attività erano tre, simili tra loro; diversi cittadini

andavano a molire il grano presso mulini di altri comuni situati a metà

strada tra i due paesi, come tra Cattolica Eraclea e Cianciana, tra

Alessandria della Rocca e Cianciana, tra San Biagio Platani e Cianciana, per

varie ragioni; non ultima quella che si facevano pagare di meno, o che la

farina veniva più bianca ed il pane migliore (?).

Una grande porta consentiva l‟ingresso al mulino sistemato in una grande

stanza sul cui muro frontale, proprio al centro per attirare l‟attenzione di chi

entrava, sovrastava l‟immagine di un Santo con sotto una frase che ho

portato per sempre nella mia mente “pax et labor” (questo era nel mulino

che io frequentavo, di altri ho pochissima conoscenza); subito l‟attenzione

veniva attratta dalla moltitudine di cinghie che scorrevano dall‟alto in basso

mettendo in movimento cilindri e crivelle che maciullavano e crivellavano;

il grano maciullato e reso dal pestaggio come polvere aveva in se sia la parte

interna del chicco (la farina) sia la parte esterna (la crusca) che veniva divisa

dalle crivelle di diverse grandezze per consentire alla farina di essere priva

di impurità e presentarsi agli occhi del proprietario con il colore della sua

naturalezza.

Anche la crusca, scartata dalla farina in due diverse grandezze (quella più

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grossa “caniglia” e quella più fine “simula”) veniva utilizzata per far da

mangiare agli animali, sia al naturale oppure sotto forma di “pagnotte”

(grezzi pani da dar da mangiare principalmente ai cani ed ai quadrupedi);

non era raro vedere dei pani destinati alle persone ma fatti da un miscuglio

di farina e “simula” che aveva come risultato un pane più scuro e più

spugnoso buono da mangiare e che costava meno caro; il pane che oggi

chiamiamo integrale.

All‟interno della grande stanza quelle cinghie non si fermavano mai

giravano... giravano in continuazione, facendo camminare la macina che

sgretolava il grano e le crivelle che consentivano la cernita della farina dalla

crusca; inoltre mettevano in continuo movimento delle cinghie dentate che

trasportavano il prodotto lavorato, finito e pronto all‟uso, direttamente ai

rispettivi bocchettoni di uscita da cui, con grande piacere di chi guardava,

veniva fuori da una parte la farina e dalle altre la crusca e la “simula”.

Al bocchettone di uscita della farina veniva legato, utilizzando una chiusura

adatta a non farlo cadere, un sacco destinato a contenerla; erano grossi

sacchi quasi sempre bianchi atti a contenere circa cinquanta chilogrammi di

farina destinata ai privati, ai forni artigianali come pure a quelli industriali

delle grandi città.

Il rumore dei motori e delle cinghie in continuo movimento era molto

fastidioso, specie appena si entrava nella stanza, ma dopo qualche minuto,

presi da tutte quelle cinghie rotanti, dai sacchi appesi ai bocchettoni che si

riempivano di farina e di crusca iniziando da sotto ad assumere una forma

rotondeggiante, dalla bascula collocata vicino al tavolo del proprietario

sempre pronto ad accontentare i ragazzi che volevano pesarsi, ci si faceva

l‟abitudine fino al punto da non sentire quel fastidioso rumore.

La gente poteva scegliere di depositare il frumento, sufficiente per il

fabbisogno dell‟intero anno, presso il mulino, recandosi a prelevare ogni

mese la quantità necessaria alla famiglia oppure tenerselo in casa e portare,

all‟occorrenza, la quantità necessaria alla molitura.

Il lavoro del molinaro veniva pagato in denaro oppure con l‟equivalente in

frumento ossia lasciando in pagamento la crusca ed in più qualche piccola

differenza in denaro.

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Il mulino (lu mulinu) ed il mugnaio (lu mulinaru): una accoppiata

indispensabile al fabbisogno di pane della gente ed insostituibile per l‟utilità

alla popolazione la quale non poteva fare a meno della giusta porzione di

pane quotidiano, unico e vero alimento che da solo riusciva a sostenere e

soddisfare le necessità del meraviglioso organismo umano.

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A La fera (Al mercato agricolo all'aperto)

Fin dal 1646, anno in cui il nobile signore Joppolo ebbe in dono dalla madre

Sigismunda d'Onofrio la “Licentia populandi”, il nome del taumaturgo

Antonino di Padova era destinato ad essere il Santo protettore della nascente

comunità a cui era stato dato il nome di Casale di Sant'Antonio.

Da ciò i nostri progenitori, che allora la popolavano, hanno pensato bene di

porlo sotto la protezione del Santo Padovano il quale, si dice, durante il suo

faticoso pellegrinare riposò le sue stanche ossa proprio nelle ospitali e

laboriose terre ciancianesi .

Il Santo protettore viene solennemente festeggiato il 13 Giugno di ogni anno

con la devota partecipazione di tutta la popolazione.

Nei giorni precedenti il comitato, incaricato dei festeggiamenti religiosi e

civili, gira tutte le strade pel paese per raccogliere le offerte.

Queste ultime variavano a seconda delle possibilità delle persone; c'era chi

dava denaro, chi dava frumento, fave, orzo, olio (non tutti avevano a

disposizione dei soldi per cui contribuivano con materie prime da vendere;

il ricavato andava, poi, ad impinguare la raccolta).

Tutto il ricavato serviva per pagare le spese dei festeggiamenti che duravano

tre giorni.

Tra le tante iniziative che si mettevano in piedi per l'occasione, si allestiva

anche una fiera dell'agricoltura, che si teneva nello spiazzo del quartiere

“Canaleddu” e vie circostanti, dato che gli avventori dei paesi vicini erano

numerosi.

La fiera durava due giorni. La mattinata del primo giorno era dedicata

all'arrivo e alla sistemazione degli avventori (spesso arrivavano uno o due

giorni prima), lo stesso pomeriggio iniziava la compravendita; durava per

tutta la giornata della vigilia, dell'indomani e, quando gli affari andavano

bene e la compravendita si protraeva, anche il terzo giorno.

Tutta la contrada “Canaleddu” era coinvolta nell'avvenimento, contribuendo

in varie maniere alla buona riuscita della manifestazione, venendo incontro

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a qualche esigenza che si poteva presentare ai convenuti e mettendosi

sempre a disposizione di chi potesse avere bisogno (la disponibilità e

l'altruismo dei ciancianesi era proverbiale e nota a tutti). La cosa più

importante, però, era la pazienza e lo spirito di sopportazione dimostrati nei

confronti di tutto quanto derivava dalla presenza di animali che

depositavano un po‟ ovunque escrementi ed emettevano fastidiosi rumori

mattutini, di ogni genere, senza contare le grida delle persone che si

chiamavano a voce alta e si scambiavano informazioni.

Tutto il rione era in fermento, fin dall‟alba del primo giorno che vedeva

l'arrivo delle persone dei paesi vicini.

Chi spingeva gruppetti di maiali seguiti da una miriade di maialini, chi

incitava un gruppo di mucche e qualche vitellino ad andare avanti, chi a

cavallo a un mulo, tirandoli per la cavezza, ne conduceva altri destinati alla

vendita, qualche centinaio di pecore e di capre preceduti da assordanti belati

seguivano alcuni pastori; carri, carretti, muli e diversi mezzi di trasporto

carichi di contenitori (“carteddi, zimmili, coffi, sacchi, panara, sacchini,

visazzi”) pieni di ogni specie di mercanzia che veniva deposta a terra, in

bella vista, per dare la possibilità al compratore di poter ammirare.

Ogni angolo della zona era occupato; al centro dello spiazzo la mercanzia

minuta: zappe, pale,scale a pioli, falci e falcetti, seghe, cordame, contenitori

di varia grandezza, canne, lunghi bastoni, cavezze, selle rustiche per gli

animali da soma (“sidduna”), rudimentali selle leggere, atte a portare poco

peso e destinate ai giovani quadrupedi che non erano tanto avvezzi al

trasporto; bellissime e costose selle da passeggio per cavalli (“seddi”)

destinate a coloro che andavano a passeggio col proprio cavallo; tutto quello

che era necessario per i lavori in agricoltura e per lo svolgimento della vita

quotidiana di una famiglia era lì, esposto al pubblico, in vendita a prezzi

modici ed accessibili, dato che l'economia non era tanto fiorente.

Man mano si andava verso l'esterno del piazzale vi si trovavano animali di

qualsiasi genere; quelli destinati al lavoro nei campi e quegli altri per il

sostentamento.

Muli, giovani e vecchi, adatti al trasporto di masserizie e carichi pesanti;

asini di ambo i sessi, spesso con i loro piccoli asinelli che risvegliavano

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sentimenti di tenerezza in chi li guardava spingendo i ragazzi ad allungare la

mano per far loro qualche carezza, scappando subito alla reazione della

sempre attenta madre asina; un po‟ più in là cavalli e giumente con i loro

puledrini che prendevano il latte dalla mamma, animali nobilissimi nella

loro bellezza e nella loro fierezza, che attiravano l'attenzione dei visitatori e

dei tantissimi ragazzi che si aggiravano per la fiera; mucche di tutte le taglie,

con le loro enormi mammelle piene di buon latte e con accanto

l'immancabile carezzevole vitellino; più ad est della piazza, in mezzo ai

campi e un po‟ lontano dalla massa, venivano collocate pecore e capre,

maleodoranti, incessanti belatrici che si facevano sentire anche a lunga

distanza, sempre custodite da tre o quattro grossi cani attenti a che nessuno

si avvicinasse al gregge e che nessuna scappasse via; in uno spiazzo a parte,

lontano dagli altri animali, si trovava qualche grosso toro e qualche cavallo

da monta, sempre all'erta, con le narici intente ad odorare l'aria in cerca di

odori stimolanti; nella loro vigorosa potenza e nella loro aitante bellezza

rappresentavano uno spettacolo per ragazzi ed adulti.

A parte, un po‟ distante dalla massa, si potevano vedere delle persone

umilmente vestite che stavano accanto al loro animale offerto a qualche

acquirente che ne facesse richiesta; erano persone che della fiera facevano

occasione per i loro bisogni familiari, mettendo in vendita il loro, spesso,

unico animale per pagare qualche debito contratto in spiacevoli occasioni;

viceversa, altri, cercavano di fare qualche affare per comperarsi qualche

altro animale, più giovane e più forte.

Tante erano le ragioni che spingevano la povera gente a vendere il loro

unico quadrupede cercando di collocarlo bene in maniera che potesse venire

incontro ai loro progetti.

Oltre ad animali e suppellettili, in diversi angoli, stavano collocati i

venditori di zucchero filato, di noccioline e semi di zucca (“nuciddi e

simenza”), di dolci di mandorle (“la cubbajta”), caramelle, bomboloni

(allestiti ed impastati sul luogo e sotto gli occhi della gente); palloncini e

giocattoli di tutti i tipi, umili ma anche costosi.

Quella Piazza era una festa… una bellezza in tutto quel vocio di genti, puzza

di animali, belati di pecore, nitriti di cavalli, grugniti di maiali, i coccodè

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delle galline, i cicchirichì dei galli, l'immancabile abbaiare dei sempre

presenti e numerosi cani randagi o che accompagnavano gli animali presenti

in fiera.

Numerosi i capannelli di persone che contrattavano, compravano o

solamente curiosavano; anche questo faceva parte del commercio e

dell'ambiente.

Assistere alla contrattazione di un animale era uno spettacolo; spesso si

utilizzava una persona competente (“lu mizzanu”) che dava una stima

all'animale e, di conseguenza, decideva il prezzo; altre volte la

compravendita e il valore veniva stabilito tra privati.

Occasione, la fiera, ché le signore, con l'immancabile figliola accanto,

sempre in compagnia dei mariti o dei genitori, uscissero di casa per girare

e divertirsi qualche oretta. Si fermavano presso i rivenditori di suppellettili

per la casa per comprare qualche ciotola (“cicara”), qualche mestolo

(“cuppinu”), qualche oggetto utile per la casa.

Ogni tanto dalla povera economia della famiglia la mamma riusciva a

destinare qualche soldino per comprare il regalino ai più piccoli che

ostentavano la loro felicità suonando la trombetta o il tamburino, se

maschietti, oppure stringendosi al petto la bambolina se femminucce.

“La fera di Sant'Antuninu”, occasione unica durante tutto l'anno ove si

poteva realizzare il sogno di una vita: possedere una mula, un asino, oppure

venderli per realizzare qualche segreto desiderio; comprare “li zimmila”,

“la faci”, “lu sirraculu”, “lu sidduni”, “la scala”, “li vastuna”: utili

strumenti in agricoltura; oppure “lu picu”, “lu stirraturi”, “la cazzola”, “lu

liveddu”, “la pala” e quant'altro poteva essere utile nella muratura; ma

anche occasione per le famiglie bisognose di suppellettili per il buon

andamento della vita quotidiana.

La fiera: luogo dove le tradizioni, le conoscenze e le esperienze di tanta

gente, che veniva da altri paesi a vendere o comprare, si miscelavano alle

nostre, arricchendole e amalgamandole di nuove idee e di nuove

conoscenze.

La fiera: occasione d‟incontri tra sguardi innocenti di giovani che si

affacciavano alle bellezze della vita con ingenuità e naturalezza,

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presupposto per la nascita di una nuova famiglia, solido e nuovo mattone

della grande costruzione della società.

In qualsiasi occasione di contatto per commerciare era usuale chiedere:

“D‟unn‟è Vossia? d'unn‟è chi veni?"

“Ah…Ji canusciu a lu Zzì…… nti ssù paisi!”

Piccole frasi che riuscivano quasi sempre a sciogliere il ghiaccio ed

instaurare una relazione di fiducia e rispetto reciproco per poi passare alla

vera e propria contrattazione.

L‟affare, spesso di una certa e importante entità, dato che si trattava sempre

di passaggio di beni di valore, dopo ore di estenuanti trattative, con o senza

la presenza e l'intervento dell‟intermediario, veniva concluso con una stretta

di mano alla presenza di due o tre testimoni; non c'era bisogno di avvocati o

notai, bastava la parola tra uomini ed una stretta di mano; allora si diceva

che “lu Vo‟ si piglia pi li corna…l'omu pi la palora!”; la parola data era,

dunque, un atto, non scritto ma cementato da qualcosa che nella società

valeva più dell'oro, che solamente il disonore poteva cancellare.

Nessuno dei due si sarebbe pentito in appresso; viceversa, a proprie spese e

senza mai disturbare l'altra parte, il pentito veniva additato dalla

cittadinanza come persona indegna di fiducia e disonesta, “pirdennu”,

inesorabilmente, “la facci”.

Tempi che furono, certo… altri tempi, penserà qualcuno… ma erano tempi

in cui la personalità, il rispetto, la stima, la referenzialità, la fedeltà, la

dignità, l'onorabilità, la parola contavano ed erano sentimenti che nessuno si

sarebbe sognato di infrangere se si voleva stare in mezzo alla gente ed

essere considerati.

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Lu Varberi (Il Barbiere)

L'artigianato, in paese, era molto praticato; tutti i mestieri utili in una società

erano presenti, come abbiamo avuto modo di trattare a parte.

Altra figura di lavoratore in proprio, utile alla collettività e che era molto

ricercata, al fine di dare un aspetto più elegante e civile all'immagine della

persona, era “lu varberi, nta lu so saluni”, il barbiere nel suo negozio.

Persona umile e sempre disponibile, esercitava il proprio lavoro in una

stanza, quasi sempre a piano terra e preferibilmente nella via principale o in

qualche posto preminente, sempre in centro.

Fornito dello stretto necessario per il funzionamento della bottega,

possedeva poche indispensabili suppellettili e strumentazione.

Appeso alla parete centrale più lunga, faceva sempre bella mostra uno

specchio con una grande cornice luccicante; ai fianchi qualche piccola

mensola di legno con sopra delle bottigliette di acqua di colonia e di

brillantina; alla base dello specchio (più o meno grande a secondo delle

finanze del titolare) una lunga mensola di marmo bianco su cui venivano

posati pettini, rasoi a mano libera, un paio di forbici, uno o due pennelli per

la barba, un piumino, la tosatrice (“machinetta pi li capiddi”), una spazzola,

una o due tazze per la saponata, una pietra per affilare i rasoi e una striscia

di cuoio, appeso alla mensola, per lo stesso scopo, uno spruzzatore, la pietra

lume e la matita staglia-sangue; una piccola pila di quadratini di carta di

varia provenienza, su cui pulire il rasoio, era conficcata in un chiodo affisso

al muro; davanti lo specchio incorniciato era collocata una grande sedia da

barbiere che, spinta da alcune leve, si alzava e si abbassava, si inclinava

avanti e indietro, secondo il bisogno, orgoglio e vanto di “lu mastru”, come

veniva chiamato dalla gente.

Di queste postazioni, ove il cliente si sedeva comodamente riuscendo a fare

una breve pennichella, potevano essercene anche due, secondo il numero di

clienti, le finanze del barbiere e la capacità dell'aiutante che imparava il

mestiere e già era idoneo a lavorare.

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Tra le dita di questo artigiano le forbici ed il rasoio cantavano sinfonie;

venivano adoperati con rispetto (per non farli rompere e non danneggiare il

cliente) e con destrezza (dovevano lasciare tutti contenti).

Gli utenti non erano tanto numerosi, anche se il Paese era pieno come un

uovo (seimila abitanti ed oltre), perché i più si facevano la barba a casa ed

andavano dal barbiere, solamente per i capelli, al massimo quattro volte

all'anno, in occasione delle feste importanti.

Esercitavano il mestiere di barbiere circa una mezza dozzina di artigiani e

anche se non nuotavano nel benessere riuscivano a racimolare il pane per la

famiglia.

All‟epoca non esistevano parrucchieri per donna, se ne sentiva parlare da

qualcuno che era stato nelle grandi città, ma le nostre donne non andavano

mai dal barbiere a tagliarsi i capelli, se ne avevano stretta necessità o per

qualche importante motivo, si faceva venire a casa il barbiere e, alla

presenza di tutta la famiglia, col marito e la mamma in prima fila, si

procedeva all'operazione di taglio dei capelli; normalmente le donne si

aiutavano tra di loro a darsi una tagliatina ai capelli e devo dire che ci

riuscivano davvero bene.

I bambini, specie i maschietti e a volte anche le femminucce, venivano

portati dal papà “nta lu varberi” il quale, per l'occasione, tirava da dietro

una tenda, che nascondeva un angolo adibito a ripostiglio, una sedia senza

gambe per bambini, adatta ad essere collocata sopra la grande sedia in

maniera che il piccolo, stando seduto, arrivasse all'altezza giusta e desse

modo “a lu mastru” di lavorare comodo.

Il papà stava sempre accanto al piccolo, lo teneva e lo rincuorava perché

ogni volta che doveva tagliarsi i capelli era un trauma: già da un paio di

giorni prima se ne parlava a casa e quando arrivava l'ora era sempre pianto e

grida perché, specie i maschietti, venivano quasi tutti rasati a zero, (per

tenere la testa pulita dai pidocchi, ospiti abituali specie d'estate), e siccome

la macchinetta per i capelli ogni tanto strappava qualche pelo senza

tagliarlo, provocava dolori non indifferenti alla sensibilità dei bambini.

Il tipo di taglio, poi, era indicatore di parassiti e, a scuola, i bambini

venivano presi in giro per diversi giorni, con grande vergogna.

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Per le femminucce il discorso cambiava radicalmente in quanto il lavoro si

limitava solamente ad una accorciatina ai capelli lunghi ed alla “frangetta”

sulla fronte, sempre con disappunto delle bambine che volevano i loro

lunghi capelli lunghi e lisci (come la mamma) o con lunghe e fluenti

treccine dietro le spalle.

Nella stanza non mancavano le sedie; “nta lu saluni”, così era chiamato il

locale del barbiere, oltre alle sedie erano presenti anche dei lunghi banchi di

legno, per dare la possibilità agli avventori di sedersi più numerosi dato che

non restava spazio libero tra l'uno e l'altro, specie sotto le feste, quando tutti

i contadini salivano in paese con la barba lunga di una settimana e dovevano

fare bella figura per l'occasione festiva.

In quelle occasioni i saloni erano pieni di persone che aspettavano il turno;

diversi si mettevano davanti la porta a passeggiare e a chiacchierare, altri

stavano seduti sui banchi.

“A lu dutturi”, “all'abbucatu”, a qualche grosso proprietario,(normalmente

queste persone facevano venire “lu varberi” a domicilio), veniva offerta

qualche sedia, tenuta di proposito da canto.

Appeso ad una parete si poteva ammirare un bel quadro raffigurante una

persona che davanti allo specchio di casa sua stava facendosi la barba e si

tagliava col rasoio, il sangue colava con disappunto del malcapitato, sotto

c‟era scritto “ognuno faccia il proprio mestiere”; tutti i barbieri ne avevano

uno ed era sempre collocato in maniera tale da attirare l‟attenzione di

chiunque entrasse nel locale; certo non tutti sapevano leggere anzi… ma

l'immagine parlava da sola.

Come negli altri mestieri, anche qui non mancavano uno, due e a volte tre

“giuvani”, apprendisti che desideravano continuare il mestiere; il più

anziano di loro faceva il galletto mentre all'ultimo arrivato spettavano tutti i

lavori di pulizia del locale e, ogni tanto, quando gli altri erano impegnati, era

permesso fare qualche saponata che eseguiva con orgoglio.

Il pagamento del barbiere avveniva in duplice maniera: con i soldi a breve

mano sempre a lavoro ultimato, oppure a pagamento in natura.

Il pagamento in natura era praticato per lo più dai contadini, lavoratori della

terra, i quali non avevano tanta disponibilità economica, visto che la loro

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fonte di guadagno era il prodotto della terra.

Nelle stagioni di raccolta, una volta venduto il prodotto ricavato, passavano

a pagare i debiti che un poco ovunque la famiglia era costretta a contrarre.

Nel caso del barbiere era proprio il titolare, aiutato dall'apprendista, che

trascinandosi dietro un asinello o un mulo andava, casa per casa, dai suoi

clienti a riscuotere il pagamento dell'anno passato, consistente in frumento o

fave, principale nutrimento della famiglia del barbiere.

Nella barberia non mancava qualche rivista, vecchia di qualche mese,

mentre il quotidiano, anche se a volte arrivava con un giorno di ritardo, era

sempre a disposizione di tutti, clienti e non clienti.

“Li saluna” erano posti frequentati, come i bar e il circolo culturale, da certi

intellettuali che quasi ogni giorno si sedevano davanti all‟uscio e davano

“‟na taliata a lu giurnali” affiancati sempre da qualche altro che, in attesa

del turno, sbirciava tra gli articoli.

Il Lunedì era giorno di chiusura e di riposo per il barbiere, dato che lavorava

anche di Domenica; il Martedì era luogo di convegno per gli appassionati

del gioco del pallone, ognuno difendendo la propria squadra e commentando

l'accaduto sui campi da gioco di tutta Italia.

Le grida si sentivano da lontano; intanto il barbiere sfumava i capelli o

faceva la barba a qualche cliente, con atteggiamento fiero, sottolineando con

accenni della testa a questo o all'altro commento, cercando di non

contraddire nessuno.

Per mantenere fedele la clientela, ogni anno, nel periodo natalizio, con

l‟approssimarsi dell‟anno nuovo, “li varbera” erano soliti regalare ai clienti

più intimi dei piccoli calendari, composti da sei fogli raffiguranti, su ogni

facciata, oltre che i giorni del mese anche una donnina seminuda (mai

nuda); regalo ambito di tanti ragazzi.

Era profumatissimo, oggetto di particolari attenzioni dei giovanotti che, ad

ogni occasione, erano soliti spulciarselo e guardarselo con tanta attenzione e

curiosità.

“Lu calannariu di lu varberi” si portava dentro il portafogli il quale si

impregnava di quel inebriante profumo, spesso motivo di sospetto da parte

di qualche moglie.

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39 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

All'esterno, sull‟ingresso, una tabella indicava che in quel luogo c‟era un

“salone”; non esisteva nel linguaggio ciancianese termini come “barberia” o

“barba e capelli”, tanto meno “coiffer”; per tutti, grandi e piccoli, chi doveva

radersi o tagliare capelli andava “a lu saluni…, nta lu varberi”.

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Lu Stinnardu (Lo stendardo)

Una delle tante attrazioni, che richiamavano moltissima gente in occasione

della festa del santo Patrono, consisteva nella presentazione dell‟abilità nel

tenere “lu stinnardu” dritto, in perpendicolare ed in equilibrio, poggiato in

qualsiasi parte del corpo ed in qualsiasi posizione assumesse l‟artista, senza

farlo cadere.

“Lu stinnardu” era una lunga e robusta pertica colorata la cui circonferenza,

alla base, era agevolmente contenuta in una mano e andava diminuendo

progressivamente fino alla cima cui era legato un labaro con l‟immagine del

santo Patrono.

Ne venivano usati di diverse misure, dai tre ai cinque metri, a seconda della

bravura di chi lo adoperava.

Ogni anno “lu stinnardu” partecipava alle varie esibizioni di bravura, per

divertire la popolazione; portato da un artista sempre accompagnato da uno

o due giovani, forse suoi parenti, che preparavano gli attrezzi a seguito dei

vari comandi che l‟esibizionista dava loro.

Le rappresentazioni venivano tenute sempre negli stessi posti: in Piazza

Matrice, la prima esibizione, sempre allo stesso orario e cioè appena

terminata la santa Messa di mezzogiorno, alla presenza del numerosissimo

pubblico che aveva assistito alla funzione religiosa; la seconda esibizione si

teneva sotto la torre dell‟orologio, tra le centinaia di persone che

passeggiavano e chiacchieravano in occasione della festività.

L‟esibizionista arrivava, portando sopra la spalla la pertica più lunga,

seguito dal giovanotto, o dai giovanotti, che trasportavano le altre pertiche.

Dopo avere collocato le aste per terra e chiesto al pubblico di fare spazio

sufficiente alla rappresentazione, l‟artista invitava la gente ad assistere allo

spettacolo.

Mentre le persone incominciavano a fare cerchio, adunandosi attorno

all‟equilibrista, questi puliva, con gesti lenti e studiati, il lungo bastone con

uno straccio, per dare il tempo alla gente, che in parte usciva dalla chiesa e

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in parte stava a passeggiare e chiacchierare in piazza, di radunarsi attorno a

lui; quando la folla, a parere dell‟artista, era sufficiente, incominciava

l‟esibizione.

Iniziava con la pertica più corta: la metteva in verticale poggiata per terra e

tenendola ben stretta con le mani dava un energico strattone alzandola dal

suolo e poggiandola sul palmo della mano.

Iniziava lo spettacolo!

Dopo avere eseguito diverse posizioni, sempre sulle palme o sui dorsi delle

mani, con gesti usuali e precisi, portava lo stendardo sulla fronte, tenendolo

in equilibrio con repentini e sinuosi movimenti del collo e delle gambe;

sembrava che stesse per cadere costringendo gli astanti a spostarsi

repentinamente ma non cadeva, con movimenti avvezzi l‟artista riportava

l‟asta in verticale permettendo anche al labaro, posto nell‟estremità della

pertica, di mettere bene in evidenza l‟immagine del santo protettore e

sventolare libero e gioioso, accarezzato dal tiepido vento.

Ogni tanto si levavano scroscianti applausi a sottolineare l‟apprezzamento

dell‟esibizione.

L‟artista ringraziava con un cenno della testa; tenendo sempre in equilibrio

“lu stinnardu” lo passava dalla fronte al mento e da questo sulla punta del

piede facendolo saltellare ora sul destro poi sul sinistro; con destrezza e

bravura, con una energica spinta, lo riportava sulla palma della mano e da

questa ancora sulla fronte, mentre girava avanti e indietro il busto e poi tutto

il corpo.

Era un giocoliere che, agli occhi ingenui e non avvezzi di alcuni spettatori,

in quello spettacolo, doveva sembrare un super uomo.

Ad ogni applauso l‟esibizione si faceva sempre più ardita; passando dal

corto al medio e infine a quello lunghissimo; il mattatore riusciva ad attirare

su di sé tutta l‟attenzione degli spettatori i quali sì stavano attenti allo

spettacolo ma principalmente erano guardinghi a probabili cadute dello

stendardo.

Tantissimi i ragazzi ed i giovanotti che assistevano in prima fila; a loro era

diretto l‟invito dell‟artista che li esortava a provare “cu lu stinnardu nicu”.

Non era facile convincere qualcuno ad imitarlo ma, il continuato e suadente

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invito dell‟artista, ogni tanto, persuadeva qualche baldanzoso giovanotto

che, sfilatasi la giacca, si avvicinava con fare sicuro verso il centro.

Quel tentativo veniva subito sostenuto e incoraggiato dalle grida di

approvazione e dagli applausi scroscianti dei convenuti che, riconosciuto il

ragazzo, passavano parola ad altri, che se ne stavano un po‟ in disparte,

convincendo questi ultimi ad avvicinarsi e sostenere il paesano.

Non tutti riuscivano nel tentativo; spesso lo stendardo appena lasciato solo si

inclinava paurosamente, tra le grida degli spettatori che si sbrigavano ad

allontanarsi; l‟attenzione e l‟immediato intervento del giocoliere, sempre

vicino al ragazzo, impediva che il lungo bastone toccasse terra sostenendolo

con perizia.

Qualche ragazzo sorretto dalla folla, tra cui quasi sempre si trovavano i

parenti, afferrava la piccola pertica dalle mani del proprietario e alzatala se

la poneva sulla pianta della mano cercando di tenerla in equilibrio il più a

lungo e senza arrecare pericolo agli altri.

Si verificava spesso che qualche ragazzo, dotato di un più sviluppato senso

dell‟equilibrio, riuscisse nel tentativo, anche ponendosi lo stendardo sulla

fronte e tenendolo per breve periodo; pure con quello di lunghezza media

veniva ripetuta la prova con buon risultato.

Alla fine era un diluvio di applausi, di congratulazioni , di pacche sulle

spalle; il ragazzo era raggiante e pieno di orgoglio e con lui, un poco, anche

tutti i sostenitori.

Per qualche giorno nel paese si parlava dell‟impresa, gonfiandola a tal punto

che qualcuno giurava che il ragazzo aveva fatto meglio dell‟artista.

Arrivata l‟ora del pranzo la gente incominciava a svuotare la piazza;

“lu stinnardista” raccoglieva i suoi attrezzi e, aiutato dagli assistenti, si

recava alla trattoria a riempirsi lo stomaco concedendosi meritato riposo.

Lo spettacolo era ripetuto nel pomeriggio, negli stessi posti e con gli stessi

gesti.

Non c‟era tutta la gente della prima volta, ma i curiosi non mancavano mai

ad assistere all‟esibizione di “lu stinnardu”.

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Lu Scaru (il mercatino generale)

Frutta e verdura sono state da sempre cibo insostituibile per fornire

importanti sostanze al corpo umano.

Oggi tali prodotti sono di facilissimo reperimento; ad ogni angolo si trovano

negozi e per le strade i venditori ambulanti ce li portano fino a casa.

Fino agli anni cinquanta portare a casa della frutta non era cosa facile; la

verdura poi era reperibile solamente in campagna, al naturale.

Le tante bottegucce che operavano in paese vendevano qualche cesta

(“cartedda” o “panaru”) di frutta giusto nelle stagioni di produzione e

quella che si produceva dalle nostre parti (in tutto qualche quintale di mele,

pere, arance, melograni, pesche); mazzetti di verdura (gidi, burranii, cicoria,

cavoli) per lo più selvatica, raccolta da persone bisognose nelle campagne e

confezionata a casa, facevano bella mostra davanti alla porta del negozietto

o appesa al muro sopra la porta, assieme ad altre mercanzie, quale segno di

vendita.

Il rifornimento, per modo di dire dato che si trattava di qualche decina di

chili di prodotto, più consistente di frutta e verdura, le decine di botteghe

che operavano in paese, lo facevano al mercato generale (“a lu scaru”).

Era situato nella piazza Matrice; una unica stanza nella quale il proprietario

teneva una bascula per pesare la frutta, un tavolino con due sedie ove si

sedeva assieme all'acquirente per fare il conto della merce comprata ed

eventualmente pagarla.

Nel rimanente spazio della stanza erano collocali contenitori (“carteddi,

panara, zimmila, coffi, sacchi”) contenenti la frutta da vendere; in un

angolo, su alcuni banchetti traballanti, era collocata qualche decina di mazzi

di verdure quali cavoli, broccoli, bieta, sedani e qualche lattuga.

Col senno di poi quella mercanzia non era tanta, ma per allora, periodo in

cui quelle piccole quantità arrivavano in paese con i carretti prima e con

qualche autocarro poi, era un ben di Dio, considerato che per avere una mela

o una pera la maggior parte dei ragazzi doveva aspettare che maturassero

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nelle campagne per andare a “rubarle”.

“Lu scaru” forniva frutta e verdura a quasi tutte le botteghe del paese.

La mattina presto arrivavano i carretti pieni di mercanzia e subito venivano

scaricati da persone che facevano questo mestiere per arrotondare quel po‟

che guadagnavano altrove; nel contempo, dietro ordine dello “scarista”, il

banditore (“lu vanniaturi”) girava tutto il paese bandizzando l'arrivo di

“puma, pira, aranci, vrocculi, virdura...” a cui potevano accedere non solo

le botteghe ma anche i privati.

Non era raro vedere lo scaricatore che, spingendo una carriola con sopra una

“cartedda” o un “ panaru” di mele (piccole ma gustose) lo portava a casa di

qualche cittadino privato che se lo poteva permettere, la maggior parte

andava a comperare qualche mezzo chilo di frutta alla bottega, a doppio

costo e spesso a credito.

Per un paio di mattine alla settimana il mercato era pieno di bottegai,

trasportatori, gente diversa che per interesse, curiosità, o in cerca di lavoro,

gironzolava nei paraggi in attesa che arrivasse la merce; nelle vicinanze,

legati per la cavezza ad uno degli appositi anelli conficcati al muro, un

quadrupede era a disposizione per trasportare i pesanti contenitori di una

certa grandezza.

Non tutti quelli che si trovavano lì ad aspettare erano li per comprare;

diversi erano curiosi, sfaccendati e ragazzi che aspettavano l'occasione

buona per far sparire, in men che non si dica, qualche mela, pera o quello

che veniva a trovarsi alla portata delle loro veloci mani e lontano dallo

sguardo del proprietario.

“Lu camiu sta arrivannu... a la curba di li Savarini jè !”: la solita vedetta

che, dopo aver scrutato per diverso tempo parte della strada che proveniva

da Palermo, spuntava dall'angolo della chiesa Madre gridando.

Il fermento, quindi, si faceva più forte; la gente che passeggiava un po‟

distante si avvicinava alla porta del mercato riuscendo in poco tempo ad

occupare tutto lo spazio antistante e creando una tale confusione da

disturbare lo “scarista”, interessato ad avere tutto sotto il suo personale

controllo.

Spesso il locale non era stato del tutto svuotato della merce precedente,data

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la scarsa richiesta, per cui il gestore, al fine di fare posto ai nuovi arrivi,

procedeva a venderla a basso prezzo; molti degli astanti erano interessati a

questo commercio.

Appena l'autocarro, con il suo lungo e fragoroso musone, spuntava

dall'angolo della chiesa Madre, la gente si spostava creando un solco che gli

permetteva di entrare con la parte posteriore fino all'entrata dallo “scaro”.

Calata la sponda del cassone, con impressionanti balzi felini, due operai

scaricatori si collocavano sul cassone e con fare lesto e competente

procedevano allo scarico delle merci.

Altri due uomini, disposti a terra, prelevavano i contenitori con frutta e

verdura e i grossi sacchi contenenti le patate e li portavano dentro il locale,

ognuno al proprio angolo, come ormai da decenni era consuetudine fare.

Dopo le operazioni di consegna e pagamento, e andato via il camion, la

gente, che fino ad allora era stata in un relativo silenzio, incominciava ad

entrare creando un tipico mormorio; chi guardava la frutta, chi la verdura,

chi le patate; il proprietario, con occhi vigili, anche aiutato da una persona di

fiducia a cui alla fine dei lavori regalava sempre della roba, guardava tutti,

controllando e tutelando i propri interessi.

“A quantu su‟ sti puma oj?... e st'aranci?”, “...e sti carduna d'aieri a quantu

mi li duna?”.

A tutte le domande “lu scarista” rispondeva con precisione e cortesia; non si

adirava quasi mai; dal suo posto riusciva a controllare tutto, sentire tutte le

richieste e dare le risposte.

Sul prezzo non si discuteva, era quello e basta; ma alla fine, dopo la pesatura

e fatto il conto totale, regalava sempre qualche chiletto di frutta, tra quella

che era rimasta invenduta dalla precedente partita.

Molti bottegai si facevano trasportare dagli uomini addetti al trasporto a

spalla la merce comprata, presso le loro botteghe; altri adoperavano la

carriola; altri ancora caricavano il tutto su un mulo, o un asinello, messi li,

in attesa che qualcuno ne facesse richiesta, in compagnia dei loro padroni.

Tutto questo durava per quasi tutta la mattinata; era un lento ma continuo

via vai di gente ora interessata alla frutta ora alla verdura; nella stragrande

maggioranza piccoli bottegai ma anche privati cittadini, per modiche

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quantità di merce.

Non tutti quelli che entravano e chiedevano andavano via con la merce,

diverse persone non soddisfatte del prezzo, andavano via a mani vuote.

Nella tarda mattinata lo “scarista” già aveva fatto i propri conti, valutando

la merce rimasta della partita giornaliera e di quella precedente; se la merce

invenduta era molta e rischiava di andare a male, utilizzando il banditore,

avvisava i cittadini che : “... a lu scaru... la frutta e la virdura a mità

prezzu… pì oj sulu.. .arridducitivi... a lu scaaaaruu”.

Quasi sempre, dopo tali avvisi, la frutta e la verdura invendute venivano

smerciate, specie a quelle piccole bottegucce che utilizzavano il commercio

come secondo guadagno, ma anche a privati che con pochi soldi potevano

avere in casa “lu cumpanaggiu” con cui poter accompagnare un pezzo di

pane; ottima ma occasione anche per dare in mano ai bambini una mela, una

pera, per mangiarla ed assaporarla personalmente e non per sentito dire.

Spesso rimaneva dell'invenduto; allora tutto il rimanente, prima che andasse

a male, veniva regalato alle persone di fiducia, ai trasportatori, a qualche

assiduo visitatore abituato a portare a casa qualcosa, ma non senza guadagno

dello “scarista” che spesso li utilizzava per qualche commissione.

Nelle nostre campagne si coltivavano alberi da frutta, anche se la maggior

parte e la più buona era sempre destinata alle tavole dei signori, dei

possidenti, degli intellettuali professionisti; ai poveri coltivatori quel che

restava; alla povera gente quasi sempre nulla.

C'erano gruppetti di ragazzi che, non potendo avere dalla propria famiglia

della buona frutta, all'insaputa dei genitori e spesso marinando la scuola,

andavano nei campi a rubarne una certa quantità, rischiando quasi sempre di

prendersi una dose di sonore bastonate; erano piccole bande di ragazzi che

conoscevano le disposizioni degli alberi, il tempo preciso della loro

maturazione, e, quasi sempre, gli orari e le abitudini dei proprietari.

Al mercatino generale, (“a lu scaru”), non erano presenti tutte le primizie e

la frutta particolare, come ad esempio quella esotica, era quasi sconosciuta;

frutta che oggi siamo abituati a vedere sui banchi dei fruttivendoli; la frutta

presente allora era merce più povera, più piccola ma molto più gustosa,

profumata e genuina; inoltre permetteva a centinaia di famiglie di gustare

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quel po‟ di frutta che, altrimenti, non avrebbero potuto avere.

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Li Bagni (I bagni)

Fare un bel bagno e farsi avvolgere il corpo dalle sfuggenti carezze delle acque,

con una bella nuotata, è cosa piacevole ed accessibile per tutti.

Tale piacere, però, non è stato sempre a disposizione di tutti com‟è oggi, anzi era

quasi un sogno potersi abbandonare tra le spumeggianti freschezze delle onde

marine, lasciarsi cullare, lasciare che il corpo fluttuasse galleggiando sul pelo di

una azzurra e immensa distesa di acque salmastre.

Le mamme pulivano i corpi dei loro figli quasi ogni domenica, se questi erano

particolarmente ubbidienti e l‟acqua era a loro disposizione, altrimenti

l‟operazione della pulizia veniva eseguita nelle occasioni di feste solenni o

quando certe parti del corpo incominciavano ad emanare qualche spiacevole

odorino.

Non era molto raro vedere per le strade ragazzini con il moccio sotto il naso,

continuamente in fase di discesa, spesso bloccato da un colpo di braccio o di

dorso della mano, ormai avvezzi a tale operazione.

Non è esagerazione, per nulla; era una triste realtà che sia la mancanza di

abbondante acqua a disposizione della famiglia, sia la mancanza di tempo da

dedicare a qualche irrequieto piccolo componente della sempre numerosa

famiglia, non permettevano di dedicare molto tempo alla pulizia.

Spesso i ragazzi appena sfilatisi dal letto, lasciandovi sovente a dormire altri due

fratelli, scappavano per le strade a giocare con altri ragazzi,che aspettavano

impazienti, senza neppure lavarsi ne mani ne faccia, con gli occhi cisposi della

notte e le unghie bordate da una strisciolina di colore nero fumo.

Al bagno… ci si pensava dopo… nelle occasioni importanti.

Questa realtà non riguardava tutti ma per molti rappresentava la vita quotidiana.

Immaginiamoci, poi, se si sapeva nuotare o stare a galla!

Pochi erano quelli che avevano la possibilità di avere a loro disposizione

estensioni d‟acqua tali da consentire il galleggiamento o il nuoto; non si

conoscevano piscine adatte a tale funzione né, tanto meno, laghi o corsi d‟acqua:

il più vicino era il fiume Platani, ma distava ben dieci chilometri dal paese e per

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allora era un‟impresa molto faticosa potersi recare al fiume senza l‟ausilio di un

carro o di un quadrupede; altra alternativa era farsi due ore di strada a piedi, dato

che non c‟erano automobili per il trasporto.

Tutta questa carenza e l‟eccessiva distanza dal mare facevano sì che una

grandissima percentuale di persone ed in particolare di ragazzi non sapesse

nuotare e crescesse con un‟avversione naturale verso ciò che non conosceva, in

questo caso antipatia verso l‟acqua.

Delle ragazze non ne parliamo, non si vedevano quasi mai in giro, “sempri intra,

attaccati a la pudia di la matri”, figuriamoci se sapessero nuotare!

Molti altri, invece, avevano una naturale attrazione per l‟acqua, erano

particolarmente dotati per il nuoto ed erano molto bravi nello stare a galla per

molto tempo.

Non potendo soddisfare il loro naturale gradimento perché le grandi distese erano

molto lontano per i loro miseri mezzi, aguzzavano l‟ingegno e cercavano di

trovare piacere nelle piccole opportunità che si potevano avere in paese o nelle

sue immediate vicinanze: “li gebbii”e “li brivaturi”.

“Li gebbii” erano dei contenitori infossati nella terra, costruiti in solida muratura,

atti a contenere una discreta quantità di acqua da potersi utilizzare, all‟occorrenza,

nella stagione particolarmente secca, in agricoltura per innaffiare la verdura

commestibile e gli alberi di agrumi.

Normalmente venivano riempite con acqua piovana, incanalandola dalle grondaie,

ma certi proprietari, più accorti di altri, nel periodo estivo, ne facevano altro

utilizzo.

“Li brivaturi” erano dei contenitori in muratura costruiti sulla superficie, alti circa

un metro, alimentati sempre da una piccola ma ricca sorgente d‟acqua, destinata

all‟abbeveraggio degli animali utilizzati nei lavori dei campi o delle greggi; in

quel tempo molto numerose.

Quindi “unni amuri voli trova locu”, i ragazzi che avevano quella naturale

attrazione per l‟acqua e a cui piaceva farsi da questa accarezzare, non potendo

trovare niente di meglio, si recavano in qualche posto dove la “gebbia” era

utilizzata come piscina per bagnarsi e divertirsi.

Il proprietario non glielo faceva fare certo per spirito samaritano ma, seduto nelle

vicinanze del grande contenitore, all‟ombra di un frondoso albero, riscuoteva dai

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ragazzi un compenso in denaro fissando ad ognuno un preciso lasso di tempo nel

quale potevano divertirsi e fare i bagni; passato il tempo stabilito finiva il

divertimento.

Qualcuno rinnovava il pagamento e di conseguenza continuava a sciacquarsi e

rinfrescarsi dai cocenti raggi solari, altri, indossata la biancheria, mogi mogi,

andavano via, dopo avere salutato il proprietario destandolo spesso dalla abituale

quotidiana pennichella.

Chi si avvicinava a quella vasca per la prima volta provava un senso di vergogna

che lo portava a dirigere, con naturale timidezza, gli occhi verso il suolo dato che

i ragazzi, anche di una certa età e piuttosto maturi, facevano i bagni entrando ed

uscendo dall‟acqua completamente nudi; c‟era sempre qualche ragazzo,

particolarmente vergognoso, che appartatosi dietro uno dei tanti alberi, indossava

un primitivo costume, quasi sempre delle mutandine bianche, ma veniva subito

preso di mira e criticato, con frasi a doppio senso, tra le risa delle diverse persone

che aspettavano il turno per potersi poi bagnare.

Questo divertimento continuava per tutta la giornata fino al calar del sole; poi il

proprietario mandava tutti a casa, perché doveva pulire l‟acqua (diceva lui).

In realtà l‟acqua non veniva pulita, ma cambiata ogni due o tre giorni utilizzando

una buona e copiosa sorgente.

Altri, che non avevano neanche la possibilità di avere le dieci lire a loro

disposizione, facevano il bagno negli abbeveratoi, “nta li brivaturi”; ce n‟erano

tanti nelle vicinanze del paese ma quella più frequentata era quella che si trovava,

e ancora si trova, in contrada sant‟Antonino, scendendo la strada che in ripida

discesa incomincia dalla canonica della chiesa madre e conduce alla omonima

contrada terriera.

E‟ un buon abbeveratoio, lungo sette metri circa e largo uno e mezzo, alimentato

da una cannella che non finisce mai di riversare liquido proveniente da una ricca

sorgente di acqua potabile, utilizzata da moltissime persone quando in paese

ancora non c‟era l‟acqua corrente.

Oggi nessuno si sognerebbe neanche di lavarvisi le mani, ma allora era una

piscina, bastava fargli una buona pulizia togliendo il muschio, “lu lippu”, qualche

pietra, “li rocchi”, infine qualche decina di sanguisughe, “li sanguetti”, (vera

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tortura per le povere bestie alle quali si attaccavano, sulla lingua, con conseguenti

fastidiose malattie), e la piscina era pronta all‟uso.

La pulizia veniva eseguita quasi ogni anno dallo stesso gruppo di ragazzi, poi

seguito da altri, abituati a fare quel lavoro e conseguentemente a farsi il bagno

nella vasca.

Quel posto era molto frequentato dai ragazzi, perché gratis e nascosto alla vista

delle persone; diversi agricoltori passavano per abbeverare le bestie e quasi tutti

rimproveravano i bagnanti, ma questi non davano retta a nessuno anzi, spesso,

qualcuno portava a casa qualche sanguisuga attaccata al corpo, facendo correre la

mamma all‟immediata ricerca di un medico per toglierla e fare una iniezione

disinfettante.

Un‟altra “piscina” era l‟abbeveratoio della contrada “Albano”, anche questa

copiosa ed ancora oggi in perfette condizioni, alimentata da buona acqua potabile,

che in passato ha soddisfatto il bisogno di centinaia di famiglie che vi si recavano

a riempire l‟acqua per le quotidiane necessità; “jri all‟acqua all‟Arbanu”.

Infine c‟erano quelle persone che, potendoselo permettere, si recavano al mare a

rinfrescarsi e difendersi dalla calura estiva; non erano molte, ma c‟erano anche

quelle.

Il bagnarsi al mare, in piscina, nelle vasche, è stato da sempre praticato, allora

come oggi, un divertimento, un passatempo, una necessità, per dare un po‟ di

refrigerio alla pelle scottata dai raggi cocenti del sole, un momento di distensione,

di contatto con un liquido familiarmente conosciuto, come se una forza atavica ti

spingesse a farlo.

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Li Munacheddi (Le Monache Orsoline)

Le monache Orsoline del SS. Crocifisso sono state presenti nella nostra

comunità fin dal 1931 per volere ed interessamento dell'Arc. Don Carmelo

Chiarenza che costruì a proprie spese il fabbricato attiguo alla chiesa,

adibito ad abitazione delle suore.

La loro era una presenza impercettibile, lieve; “li munacheddi”, così le

chiamavano nella nostra comunità, non erano invadenti, importune, ma se

ne stavano nel loro ambiente sempre occupate tra ruolo religioso e sociale.

Sempre presenti nelle occasioni tristi col loro rosario in mano a pregare e

rivolgere al Supremo una preghiera, una invocazione di suffragio; sempre

pronte a regalare un sorriso, una carezza, un gesto di solidarietà a chi ne

aveva bisogno.

Per le strade si vedevano di rado, sempre occupate a fare qualcosa, ma

quando si chiedeva la loro presenza, specie per assistere qualche ammalato o

qualche moribondo, erano subito al capezzale, recitando preghiere,

infondendo solidarietà, aiutando nei bisogni dell'occasione.

Andavano sempre col passo svelto, sempre sicure e con gli occhi rivolti

verso terra, ma salutavano chi le salutava e ricambiavano un sorriso a chi

loro sorrideva; come facessero col loro sguardo rivolto sempre verso terra

era un mistero.

La loro presenza era gradita, non sopportata, bene accetta, certamente non a

tutti, c‟erano pure quelle persone che erano soliti dire : “cu li testi di li

parrini e di li monachi cci amm‟a jucari a lu palluni” (con le teste dei preti

e delle monache ci dobbiamo giocare a palla); erano pochi individui e si

tenevano sempre alla larga da certi ambienti non confacenti col loro sport

preferito.

Erano sempre tutte presenti alla Santa Messa delle sei del mattino;

accudivano ai bisogni della chiesa, specie per quanto riguardava lavori fini e

di grande precisione quali potevano essere le tovaglie degli altari ed i

tendaggi destinati ai tabernacoli.

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Avevano una grande fantasia ed una raffinata preparazione nel cucito, nel

ricamo, nella conservazione dei paramenti sacri.

Alcune di loro si dedicavano all'asilo d'infanzia, accogliendo nei loro locali i

bambini non ancora in età scolare, insegnando loro nozioni elementari dello

scrivere, della numerazione, del comportamento sociale, particolarmente e

molto più dettagliatamente del catechismo.

Diversi ragazzi restavano dalle monache anche all'ora di pranzo, saziavano

la loro fame con caldi piatti di minestra e grosse fette di pane e marmellata o

altro, che le sorelle davano loro.

Altre si dedicavano ai lavori domestici, qualcuna alle relazioni esterne e con

le Autorità.

Tutte erano dedite alla chiesa ed alle funzioni religiose e spesso accudivano

alle necessità del curato.

Quando avevano con loro i bambini diventavano bambine anche loro,

giocando, scherzando, sedendosi per terra e regalando ai piccoli un po‟ di

felicità, di allegria, di ingenuità, di cui spesso il loro ambiente era avaro.

Una grande stanza era destinata ai bambini, arredata con grandi banchi di

legno, adatti all'insegnamento, formati da una panchetta per far sedere bimbi

e da un pianale, davanti a loro, che faceva da scrittoio; sotto il pianale lo

spazio vuoto faceva da cassetto dove poter conservare piccoli oggetti

personali, come il cestino o il sacchetto contenente la fetta di pane e qualche

pezzetto di zucchero, destinati alla colazione, che le mamme davano ai

piccoli.

Nella grande stanza erano sistemate quattro file di banchi: due file da una

parte, per le femminucce, due file dall‟altra parte, per i maschietti; le due

sezioni erano divise da un corridoio ove la monaca incaricata passeggiava in

continuazione, ripetendo gli argomenti destinati ai bambini e stando molto

attenta a che non litigassero o si facessero del male.

Ogni fila aveva tre banchi; ogni banco ospitava tre ragazzi.

Non sempre i banchi erano pieni, anzi per metà erano spesso vuoti e le

femminucce erano sovente meno dei maschietti.

I ragazzi non venivano fatti stancare quasi mai; la prima ora della mattina

era dedicata, dopo avere recitato le preghiere, “a li cosi di Dì”, nozioni

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elementari del catechismo, di facile apprendimento per i bambini; prima che

questi si stancassero, si passava a qualche giochetto che vedeva coinvolta

tutta la classe; poi qualche domanda rivolta ai più grandi; a ricreazione si

consumava la povera colazione che la mamma aveva preparato a casa, dopo

avere sistemato sul banco, in maniera impeccabile, il tovagliolo, segno

questo di ordine e igiene.

Ogni tanto qualcuno nella fretta dimenticava il pezzetto di pane, allora la

sorella provvedeva a farne arrivare qualcuno dalla cucina, in modo che tutti

i presenti mangiassero la loro colazioncina, senza guardare con desiderio il

vicino di banco.

Finita la colazione, tra le grida e qualche ingenua tiratina di treccina a

qualche bambina che faceva le boccacce, subito punita con rimproveri dalla

monaca sempre presente ed attenta, tutta la classe veniva condotta in

giardino a prendere aria.

Il giardino era attiguo all'abitazione delle suore, capiente e ben tenuto;

sempre pulito, ricco di fiori e di verde; negli spazi lontani dai giochi dei

bambini veniva coltivata la verdura, tutta allineata e diritta (cosa questa che

colpiva l'attenzione dei bambini che erano attratti da quell'ordine e lo

osservavano con interesse).

Negli infantili giochi che si svolgevano, spesso, si imitavano quelle file

dritte di lattughe o di cavoli, imprimendo nelle menti e nelle personalità dei

ragazzi l'ordine ed il rispetto per il diritto altrui.

L'ora di ricreazione era come uno scatenarsi di forze interne represse da

tanto tempo; sfrenate corse, urla, grida, spintoni, sotto l'attenta guida delle

sorelle si trasformavano in coinvolgenti giochi che tenevano impegnati

quelle piccole furie; girotondi, gare di corsa, indovinelli, piccoli e brevi

racconti tenevano impegnati quei piccoli birbantelli facendo sembrare

quell‟ora di svago una breve pausa.

La riluttanza, lo scontento, i musetti lunghi dei ragazzini che non volevano

ritornare in classe, convincevano le monache a prolungare qualche gioco,

qualche raccontino, con grande gioia dei bimbi.

Ogni tanto i più buoni, oppure i vincitori delle gare, venivano premiati con

qualche pizzico di resti di ostie, rimasti in grande quantità quando le sorelle

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61 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

lavoravano le tante ostie che necessitavano per le funzioni religiose nelle

chiese del paese.

Tutte le rimanenze venivano raccolte, messe in un capiente recipiente e

conservate; venivano regalate ai bambini in certe occasioni oppure, in

prossimità di qualche festa, distribuite a tutti invitando uno per uno tutti i

presenti ad infilare la loro manina dentro il cesto e prenderne più che

potevano, (“un pugnu chinu di ostii”).

Non era raro che qualche bambino, particolarmente abituato, si recasse,

anche fuori orario, dalle monache a chiedere qualche pugno di ostie (io ero

tra questi); regalavano sempre quello che si chiedeva accompagnato da un

sorriso e qualche carezza.

Ogni tanto, credo una volta al mese, si fermava davanti la porta delle

monache un grosso camion coperto.

Diverse sorelle aprivano il portone e si sistemavano l‟una accanto all'altra,

di fianco; dal camion scendevano due signori che, saliti sul grande cassone

dell'automobile, incominciavano a scaricare materiali.

Sacchi di patate, zucchero, grosse latte di fagioli e ceci, confezioni di

marmellata e cotognata, lattine di carne, farina di latte, bottiglie di olio,

pesce sott'olio; tante buone cose!

La curiosità dei bambini la faceva da padrone e uno o due alla volta, i più

grandicelli, molto velocemente, correvano a sbirciare quello che veniva

scaricato.

Quel giorno la sorella non riusciva a fare la lezione, divisa tra il lavoro e

l'attenzione che doveva dedicare ai ragazzi, con tanta felicità dei bambini

che giocavano e gridavano a squarciagola.

Andato via il camion tutta l'attenzione dei ragazzi si trasformava in ansiosa

attesa; tutti, ordinatamente, si mettevano al loro posto rivolgendo lo sguardo

verso la porta che immetteva nella grande stanza.

Quelli che stavano seduti vicino all'entrata, di tanto in tanto, esclamavano:

“nuddu veni!”, “unn‟è idda no!” poi... “idda è... idda è!”, “la scala scinnì!”,

“ccà è... ccà è... la porta... la porta...”.

Tutte queste esclamazioni erano dirette alla monaca che era solita, quasi tutti

i giorni, portare un recipiente pieno di buona e gustosa farina lattea.

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62 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

I ragazzi ne erano ghiotti, tutti aspettavano con ansia la sorella che venisse a

distribuire la bianca farina; vedere tutti quei bambini con i musetti bianchi

era bellissimo.

Gli occhioni grandi luccicavano di soddisfazione, di contentezza, mentre

quelle manine portavano alla bocca il gustoso cibo.

In tutto quel fracasso, talvolta, capitava che qualche bambino si facesse

male, piccole escoriazioni di poco conto che, però, erano sufficienti a che

tutta la classe si zittisse e le sorelle, preoccupate, dedicassero tutta la loro

attenzione al piccolo malcapitato.

Subito si procedeva a controllare la piccola ferita, a disinfettarla e fasciarla;

per quel giorno il ferito non partecipava alle lezione, ne‟ ai giochi, ma si

sedeva accanto alla suora ed era oggetto di tante attenzioni; sia da parte

delle monache che da parte dei compagni.

Capitava molto raramente che il bambino ferito venisse accompagnato a

casa dalla mamma e ancor più raramente che l‟incidente fosse serio;

l'attenzione delle monache era grandissima; il loro modo di trattare i bimbi

affettuoso e conciliante.

Tutto quel cibo, che arrivava periodicamente alle monache, era destinato in

piccola parte al loro sostentamento, in stragrande quantità ai bisognosi che

andavano a bussare alla loro porta.

Non era raro, la sera tardi o la mattina presto, vedere qualche povera donna

avvolta in uno scialle bussare alla porta delle monache per chiedere

qualcosa da mangiare per i propri figli.

A volte, in pieno giorno, si vedevano mamme che portavano il loro piccolo

dalle monache per poi ritornare a casa col fagotto, nascosto sotto lo scialle,

contenente del cibo da portare agli altri figli rimasti a casa.

“Li munacheddi” sono state in mezzo a noi e con noi per mezzo secolo;

nel 1982 sono andate via per volere delle Autorità ecclesiastiche superiori;

peccato!

Rappresentavano la devozione, la totale dedizione, lo spirito di sacrificio,

l‟umiltà, la generosità, qualità presenti in una minima percentuale di

persone, in una società dedita al consumismo, all'egoismo, al guadagno

facile, alla truffa, alla droga, al sesso, allo stravolgimento delle leggi che

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Madre Natura ha impiegato milioni di anni per selezionare e mettere

gratuitamente a disposizione di tutti ma che l'umanità sta snaturando in

pochissimo tempo.

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La Televisioni (La televisione)

La televisione fa ormai parte integrante della nostra vita; ci tiene compagnia

nelle nostre, sempre più, solitarie giornate obbligandoci ad ascoltare e ad

assistere a programmi spesso vuoti e privi di ogni interesse.

Fa da maestra ai bambini costringendoli, complici quasi sempre i genitori, a

stare incollati davanti al coloratissimo schermo, imparando a memoria tutti

gli inutili e dannosi nomi dei personaggi fantastici che danno vita agli

altrettanto inutili cartoni animati, sempre più di fabbricazione e cultura

giapponesi; la mattina aprono gli occhietti al suono dell‟allettante motivetto

dei cartoni che, giunti a sera, risuonerà ancore nelle orecchie dei bimbi

facendogli, magari, da ninna nanna e inducendoli a sognare questo o quel

cartoons.

Violenze, indiscrezioni, cronaca nera, rapine, omicidi e tanto altro di

negativo, oggi fanno parte dei normali programmi televisivi, senza nessun

rispetto per le coscienze di milioni di persone ne‟, tanto meno, dei bambini,

ormai assuefatti a certe parole che fino a qualche decennio fa erano

addirittura sconosciute.

La televisione: correva l‟anno millenovecentocinquantaquattro quando si

cominciò a parlare di questo scatolone magico che faceva vedere e sentire

immagini e parole, standosene seduti comodamente in poltrona nelle proprie

case; ne parlavano i giornali, la radio osannava quell‟avanzatissima

tecnologia a noi totalmente sconosciuta.

L‟unico mezzo, oltre i giornali che arrivavano a noi l‟indomani

dell‟avvenimento, se non ancora dopo, era la radio, ormai molto conosciuta

e facente parte della quotidianità di molte famiglie, anche se non di tutte.

Tanti, non potendosi permettere di comperare un apparecchio radio,

ascoltavano le notizie, specie “il gazzettino di Sicilia” a casa di qualche

vicino o parente; altri, frequentatori di bar, si tenevano al corrente tramite le

radio nei locali pubblici.

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66 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Nell‟anno della nascita della televisione, di tali apparecchi televisivi, non ne

sono arrivati; se ne parlava tanto come di una invenzione rivoluzionaria che

all‟istante ti portava davanti persone che parlavano a mille chilometri di

distanza, ma da noi, “scatoloni” magici, non ce n‟erano.

L‟anno appresso qualche cittadino lungimirante, che aveva intravisto nella

televisione oltre che un mezzo di informazione anche una possibilità di

guadagno, investendo, per quei tempi, un piccolo capitale, portò anche nella

nostra comunità il piccolo schermo.

Rigorosamente in bianco e nero, entrò prepotentemente nella vita della gente

che, assetata di conoscenza com‟era, si avvicinò alla innovativa creazione;

prima con molta curiosità, poi con morbosa attrazione.

Cinque lire per i bambini e dieci lire per gli adulti; era la “donazione” che

ogni spettatore doveva consegnare al proprietario dell‟apparecchio per

assistere ad un solo programma che veniva trasmesso.

All‟inizio trasmettevano, solamente tramite il primo canale, dei programmi

obbligatori, senza possibilità di scelta e rigorosamente controllati da una

commissione governativa, al fine di rispettare il senso di riservatezza su

quanto concerneva la sfera privata della famiglia e della religione;

programmazioni decenti e pudiche, presentate con molta umiltà e grande

senso di deferenza per gli spettatori.

Nei programmi obbligatori la parte principale era destinata alle notizie

dall‟interno e dal mondo, ma molto tempo era dedicato anche alla cultura,

sempre di alti contenuti storici, letterari, sportivi ricchi di grandi

competizioni e genuinità; il varietà era sempre condotto ed animato da

eccellenti attori che portavano alla conoscenza della nostra gente modi di

divertimento fino ad allora sconosciuti ai più; film con grandi protagonisti

che coinvolgevano ed emozionavano fino a strappare le lacrime; giochi a

premi come “Lascia o Raddoppia” e “Il Musichiere” che hanno fatto

avvicinare tanta gente alla televisione; grandi commedie che hanno portato

sul palcoscenico la multiforme realtà della vita della povera gente e non solo

con i suoi dolori e le sue gioie, tramite attori famosissimi, che hanno lasciato

un‟incancellabile traccia nella storia della rappresentazione teatrale.

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Le persone sceglievano: i ragazzi preferivano spendere le cinque lire per

assistere alla “TV dei ragazzi”, con le avventure di “Rin Tin Tin”,

intelligente e fedele progenitore di tutti i cani attori che oggi affollano gli

schermi televisivi di tutto il mondo; gli adulti, secondo la loro formazione,

sceglievano tra il film serale, la commedia settimanale o il varietà.

Già l‟anno seguente tante famiglie incominciavano ad avere nella loro casa

la televisione, spesso dando un acconto al rivenditore e firmando una certa

quantità di cambiali che teneva legato ai pagamenti il compratore anche per

un anno intero.

“Lu zì Vicenzu s‟accattà la televisioni!”

Allora vicini, parenti e qualche amico, la sera, si recavano a casa del

fortunato possessore, portando con se la sedia, per assistere a qualche

trasmissione.

A quel tempo iniziavano i romanzi a puntate come “il Conte di

Montecristo”, “Capitan Fracassa”, “I Miserabili”, che spingevano tante

persone a chiedere di potere assistere, una volta la settimana, alla

rappresentazione.

La sera, per le strade, era un via vai di persone che si recavano in casa di

parenti, amici, vicini di casa o presso i locali pubblici, per assistere al

programma preferito.

“Stasira c‟è la puntata” si sentiva dire a qualcuno che aspettava sette lunghi

giorni per seguire la trama della rappresentazione con accattivanti vicende

che coinvolgevano e toccavano l‟ingenuità della nostra gente.

Giusto gli uomini, che uscivano per andare a servire la Patria, potevano

venire a contatto con realtà fino ad allora ignorate ed ignote; terminato il

servizio militare, però, si ritornava a fare quello che da sempre si era fatto,

senza nessuna possibilità di potersi migliorare o di potere accedere a

qualcos‟altro che non fosse racchiuso dalle mura domestiche.

La televisione ha avuto il merito di avere assolto al ruolo, molto importante,

di comunicatore; di avere accorciato le distanze tra l‟essere ed il non essere,

tra persone della stessa terra ma che non si conoscevano, dello stesso

continente che non avevano rapporti tra loro, tra continenti che si

ignoravano.

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Svolgeva il proprio ruolo con educazione, civiltà, serietà, ordine; non era

prepotente, non invasivo, non violento; gli stessi addetti alle comunicazioni,

sempre impeccabili, sempre composti e compassati col sorriso vero e non

simulato e finto, sorriso che ispirava fiducia.

Le donne, vestite sempre con avvedutezza, attente a non offendere la morale

ed il rispetto verso gli altri; niente scollature provocanti, gonne corte a

mostrare certe parti del loro corpo o vestiti attillati per mettere in evidenza

curve provocanti; la loro era una presenza compita e a modo, nella loro

magnifica eleganza e nella loro ricercata bellezza.

Con gli anni sessanta si è visto un certo sviluppo economico, grazie al flusso

copioso dei nostri giovani che andavano a cercare lavoro verso altre terre

lontane e mandavano denari alle proprie famiglie, per consentire loro di

superare l‟ostacolo della povertà e della fame; ciò ha contribuito a far sì che

nelle case entrasse più massicciamente la televisione assieme ad altri

moderni elettrodomestici che man mano andavano conoscendosi.

Così la televisione cominciava ad essere un bene di largo consumo,

cominciava a perdere l‟originario fascino, la primaria semplicità, accedendo

ad altri ruoli, ad altre maniere di essere e di fare, ma principalmente ha perso

quel modo educato e signorile di entrare nelle famiglie in punta di piedi.

Non accennerò neanche a cosa è diventata oggi e a cosa ci propina; è sotto

gli occhi di tutti.

Una differenza, però, desidero evidenziare tra le eccellenti sfumature dei

sempre più perfetti monitor a colori, che oggi travolgono e coinvolgono i

nostri occhi e il rilassante, misterioso, ermetico, bianco e nero, che lasciava

un po‟ di spazio alla fertile immaginazione per potersi librare tra le ali della

fantasia.

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Lu Issu e la Issara (Il gesso e la gessaia)

Fino agli anni cinquanta costruire una casa, un magazzino, un edificio da

destinare ad uso civile, all'agricoltura, all'allevamento o altro, richiedeva una

considerevole quantità di materiali; dalla pietra da collocare nelle

fondamenta a quella da utilizzare per i muri perimetrali e le pareti interne,

ma cosa più importante, non secondaria certamente, la malta che facesse da

collante tra i blocchi di pietra e ne unificasse la consistenza.

Il cemento era in commercio ma, essendo considerato materiale nuovo e di

pregio, era scarso e caro rispetto alle materie prime tradizionali.

La soluzione per chi doveva costruire un edificio era quella di sempre: per le

costruzioni agricole, che non richiedevano particolari accorgimenti si

adoperava come malta “lu taiu”, una qualità di argilla spugnosa, molto

economica e duratura, adatta a fare da colante; per le civili abitazioni

si utilizzava come malta “lu issu”, (il gesso) polvere finissima di colore

bianco ottenuta per macinazione del materiale omonimo, usata da secoli per

varie lavorazioni tra cui statue, stucchi, bassorilievi e, nel nostro caso, come

malta per la costruzione di abitazioni.

Il gesso, dunque, era un comunissimo materiale non molto costoso,

accessibile a tutti, idoneo a fornire alla muratura una malta buona, duttile,

malleabile, duratura nel tempo e che si prestava in modo egregio alle

necessità di quel tempo.

Per ottenere il materiale pronto all'uso era necessario un lungo e faticoso

ciclo di lavorazione che si svolgeva nella gessaia (“la issara”).

Dalle nostre parti si produceva nelle “carcari di issu” di cui ho avuto

contatti diretti; se ne contavano tre, più o meno distanti una dall'altra ma,

tutte, nella stessa zona dato che la materia prima, il gesso, era contenuto in

grandi quantità nelle montagne bianche che emergono nella parte nord del

paese in località Savarini-Grecomorto.

Ogni gessaia aveva due o tre fornaci, “carcaruna”, secondo la capacità

finanziaria che aveva la ditta e la quantità di commercio che girava attorno

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ad essa.

Avevano una forma conica, a punta rotonda verso l'alto; si riempiva con le

pietre asportate dalla vicina montagna a forza di braccia, utilizzando il

piccone e qualche piccola quantità di dinamite, lavorate, successivamente, a

colpi di mazza per ridurle ad una grandezza che le rendesse maneggevoli.

Le pietre venivano collocate, in cerchi quasi concentrici, attorno ad una

rudimentale, ma molto efficiente, fornace mischiando alla pietra una certa

quantità di carbone per garantire la temperatura in tutte le sue parti; il cono

si alzava lentamente collocandole pietra su pietra ed una accanto all'altra,

lasciando tra di esse un piccolo spazio tale da potere lasciare circolare il

calore che veniva prodotto dalla fornace di base.

Il sistema conico veniva sistemato fino alla vetta utilizzando delle scale a

pioli appoggiate ai lati della costruzione, stando attenti a tappare dalla parte

esteriore tutti i buchi e le intercapedini formatesi tra i massi durante la

costruzione.

Questo lavoro di rifinitura veniva effettuato con perizia e maestria

utilizzando infine del materiale finissimo misto ad acqua a formare uno

strato compatto per non fare uscire il calore che di lì a poco doveva essere

prodotto dalla fornace.

Durante la stagione invernale la costruzione veniva protetta dalla pioggia

con una tettoia riutilizzabile; tutta la costruzione, “la carcara”, richiedeva

un giorno intero, a volte di più, di lavoro per diversi operai; lavoro continuo

intervallato da piccole pause per consumare un boccone di pane e bere

qualche sorso d'acqua.

La sera si lavorava fino a che la luce del sole lo permettesse, per riprendere

l'indomani mattina, alle prime luci dell'alba.

Tra gli operai c'era una parola d'ordine: “finu a quannu ‟un si finisci lu

carcaruni e s‟adduma, ‟un c‟è riposu!”

Finita la costruzione iniziava la cottura.

Si accendeva la fornace alla base del cono, (“carcaruni”), con legna e

combustibile trovato in natura; il calore migliore era prodotto dalla legna di

alberi duri (mandorli, ulivi, carrubi, gelsi) ma non sempre erano disponibili,

allora si utilizzava qualsiasi materiale infiammabile che si trovava in natura.

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Il fuoco nella fornace veniva alimentato per dieci ore ed oltre, togliendo

quello consumato e introducendone sempre di nuovo in modo che il fuoco

producesse calore in continuazione fino a raggiungere gli 800° Celsius circa.

Quella grande quantità di calore restava imprigionato all'interno della

costruzione, senza possibilità di uscire; per ventiquattr‟ore il calore cuoceva

la pietra calcarea sistemata a questo scopo.

Dopo tale periodo di attesa si procedeva, sempre a forza di braccia, alla

demolizione del “calcarone” ed alla conseguente fase di pestaggio in

maniera che la pietra, ormai cotta e resa fragile, venisse trasformata in

polvere fine.

Il gesso, così prodotto, veniva depositato in un apposito locale, asciutto e

coperto, in attesa di essere insaccato in contenitori di circa trenta chili e

fornito ai richiedenti che ne avevano bisogno.

Il trasporto avveniva con animali da soma oppure con carretti tirati da muli

o cavalli di cui ogni ditta era proprietaria.

Non era raro che tale trasporto venisse affidato a carrettieri di professione,

specie quando la quantità di gesso da fornire era rilevante; così non era raro

vedere gli stessi proprietari, specie se agricoltori proprietari di animali da

soma, provvedere al trasporto, utilizzando gli animali di cui erano

proprietari.

“Lu issaru”, così era chiamato il produttore di gesso, sempre imbrattato di

materiale bianco, che gli dava l‟aspetto di una figura carnevalescamente

impolverata.

Dalla gessaia al carretto, e da questi al deposito privato, il trasporto era

effettuato da giovanotti o da adulti, persone quasi sempre a torso nudo,

specie d'estate; gente che del trasporto a spalla ne avevano fatto un mestiere

riuscendo a racimolare una fetta di pane per sfamarsi.

Erano operai forti e rozzi, avvezzi al lavoro pesante del caricare e scaricare

per tutta la durata della giornata e con qualsiasi temperatura.

Non era raro assistere, su iniziativa di qualche possidente benestante,

durante i lunghi lavori di trasporto, a qualche gara tra i trasportatori a chi

riuscisse a trasportare il maggiore peso; era uno spettacolo vedere quei corpi

muscolosi, tesi e atteggiati all'immane sforzo, fino ai limiti estremi della

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sopportazione; schiene curve, muscoli contratti e gambe traballanti, ma non

si davano per vinti; qualcuno abbandonava prima dell'arrivo ma altri

riuscivano ad arrivare, con il peso di cento chili sulle spalle, alla mèta

vincendo il premio messo in palio dall'organizzatore: spesso consistente nel

diritto di lavorare per due o tre giorni di seguito.

Il gesso: materiale che unito all'acqua forma una malta bianca da utilizzare

subito, considerato che l'indurimento avveniva in tempi brevissimi e di

conseguenza, dopo poco, inutilizzabile, con spreco di materiale e proteste

del padrone.

I muratori, che utilizzavano tale malta, dovevano essere svelti e bravi

nell'adoperarla, così come lo dovevano essere anche i manovali

nell‟impastarla, dentro un contenitore quadrato di legno, “gavita”, con la

consistenza giusta e al punto tale che il mastro muratore avesse il tempo di

adoperarla prima dell'indurimento.

Case intere, palazzi, volte a “tetto di carrozza”, tetti a “tondo di botte”;

coperture e portici poggiati, bilanciati, livellati al millimetro,

geometricamente perfetti, poggiati su angoli e colonne pieni di materiale

vario e rivestiti del candido materiale, pronti ed idonei a sfidare i secoli con

la loro robustezza e magnificenza.

Il gesso: da umile ed insignificante roccia, forgiata e cotta dalla forza

trasformatrice del fuoco, guidata dalla genialità e dalla necessità dell'uomo,

a nobile terra, pronta a soddisfare le esigenze dell'uomo.

Materiale duttile pronto ad adattarsi e materializzare le idee della mente dei

grandi geni nelle statue, nelle pitture, negli stili architettonici, nelle raffinate

decorazioni, testimonianze che attraverso i secoli sono giunte fino a noi

facendoci conoscere arte, architettura, stili, conoscenze di altre civiltà, di

altri popoli che si sono succeduti nei secoli e in diverse parti del mondo.

Il gesso: vecchio e sempre nuovo, pronto e disponibile, nobile materiale che

col suo candore e con le sue artistiche forme ancora oggi diletta lo sguardo

dell'uomo e ne stimola la fantasia; con la sua fragile durezza realizza le

forme estrose dell'artista, consegnandone le bellezze ed i messaggi al futuro.

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La Ntinna (L‟Albero della cuccagna)

Il tredici di Giugno la comunità ciancianese commemora il Santo Patrono:

Sant‟Antonino di Padova.

Molte le iniziative che il comitato dei festeggiamenti metteva in piedi per

l‟occasione.

Esse iniziavano l‟antivigilia della festa e terminavano la sera del tredici,

sempre verso la mezzanotte, con “la maschiata”, (giochi pirotecnici).

Tra i tanti preparativi che si approntavano c‟era anche “la ntinna”.

La messa in opera di tale gioco, oltre che dal programma della festa affisso

alle mura del paese dagli organizzatori, veniva a conoscenza della comunità,

in particolare dei giovani sempre pronti alla competizione, con la

collocazione in un posto molto centrale che avesse intorno a sé tanto spazio

ove potersi disporre le centinaia di spettatori che assistevano

all‟entusiasmante gara per conquistare “la ntinna”.

Così era chiamato, in dialetto nostrano, un lunghissimo (circa dodici metri) e

molto liscio tronco d‟albero, insaponato copiosamente, alla cui sommità

erano appesi vari premi destinati a chi, arrampicandosi, riusciva ad arrivare

in cima ed impadronirsene.

La sistemazione della trave veniva eseguita tre o quattro giorni prima, per

dare la possibilità agli eventuali concorrenti di preparasi all‟impresa.

Prima di sistemarla nel posto prescelto, veniva cosparsa in tutta la sua

lunghezza con abbondante sapone in maniera da renderla il più possibile

scivolosa.

Veniva sistemata ben salda, a scanso di ogni pericolo, in una profonda buca

al suolo.

Si sceglieva sempre un sito centrale, nella salita Regina Elena all‟incrocio

con la via Ariosto, oppure nella salita Regina Elena all‟incrocio con la via

Cordova, dove la larghezza della strada, in salita, dava la possibilità a

qualche centinaio di persone, in maggioranza giovani e ragazzi sempre

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vocianti, di assistere e parteggiare con molto accanimento per questo o quel

concorrente.

I premi messi in palio erano molto attraenti per quel tempo: un salame, una

forma di formaggio, della pasta, del pane, della carne e, altra cosa

importante, un bel gruzzoletto in denaro, attrazione questa che spingeva

molti giovanotti a gareggiare e spesso accomunarsi tra loro, in due o tre

squadre, per alternarsi nella difficilissima arrampicata.

Il palo stava là piantato alcuni giorni prima a significare l‟avvenimento che

ci sarebbe stato da lì a qualche giorno; gli organizzatori non facevano

economia di sapone, per l‟occasione; motivo questo che impediva ai ragazzi

di avvicinarsi al palo e toccarlo, dato che si sarebbero certamente sporcati ed

imbrattati con conseguente sicuro rimprovero, e spesso sberle, da parte delle

mamme.

La collocazione del grande cerchio di legno da cui penzolavano i numerosi

premi, posto sulla sommità del palo, avveniva la mattina della gara, cioè del

giorno della festa.

La mattina del tredici Giugno, dopo le funzioni religiose in chiesa, centinaia

di persone si ritrovavano nel luogo ove si ergeva “la ntinna”.

Per l‟occasione anche molte donne, accompagnate dai loro mariti , con

accanto le loro figliole vestite a festa per la santa festività, si radunavano nei

pressi dell‟albero della cuccagna; se ne stavano un poco distanti per diversi

motivi: non sporcarsi col sapone che i concorrenti allontanavano da loro

durante la salita, tenere lontane le figliole dai ragazzi che gareggiavano

nell‟ascesa della grande pertica a torso nudo e con un pantaloncino corto.

Il fatto di essere seminudi aveva un preciso scopo: potere più agevolmente

abbracciarsi al tronco ed espellere più facilmente il sapone che si

accumulava sul corpo, copiosamente.

La gara iniziava preceduta da poderosi rulli di tamburo, certe volte anche da

potenti squilli di tromba eseguiti dal maestro trombettista della banda

musicale.

La gente, che aspettava negli spazi vicini, chiacchierando a capannelli,

all‟udire quei richiami si avvicinava al luogo della competizione per seguire

più da vicino l‟avvincente gara.

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79 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

I ragazzi, sempre vocianti e interessati a qualsiasi cosa che attirasse la loro

inesauribile curiosità, correvano, si sistemavano nei posti più vicini e

comodi per assistere più agevolmente alla gara; altri si avvicinavano con

morbosa curiosità alle persone più grandi che, chiacchierando, ricordavano

gli “eroi” degli anni passati, persone abili e tanto brave da riuscire a salire

quel lungo albero al primo tentativo oppure per due tre anni di seguito.

Facendosi largo tra la folla ed aiutato dagli immancabili sostenitori, ecco

apparire il primo concorrente: aitante, muscoloso, con in mano la cavezza di

un mulo da attorcigliare attorno al tronco e servirsene come appiglio per

l‟arrampicata (era l‟unico oggetto consentito ed ogni concorrente ne aveva

uno personale).

Sempre accompagnato dall‟incessante rullo del tamburo, che dopo qualche

tempo quasi non si sentiva più coperto dalle grida dei ragazzi, dal

chiacchiericcio della gente, dal tifo accanito dei sostenitori, il baldanzoso

concorrente si avvicinava alla trave e legata come un cappio la cavezza al

tronco, incominciava l‟arrampicata.

La folla applaudiva per incoraggiarlo, ma tra la folla gli intenditori

definivano i primi concorrenti come avanguardisti, ragazzi alle prime

esperienze, utilizzati dai più esperti col preciso scopo di pulire il tronco dal

sapone ed agevolare la susseguente loro salita.

Spinto dalla foga giovanile e dallo spirito di competizione, il ragazzo con un

paio di poderose bracciate arrivava a circa tre metri dal suolo; le urla di

incitamento si alzavano forti nell‟aria facendo correre sotto “la ntinna” i

sostenitori quasi a dargli forza e sostegno.

Purtuttavia il nemico numero uno già incominciava a fare la prima vittima:

pieno di sapone, che fino ad una certa altezza era particolarmente copioso, il

concorrente incominciava ad ansimare e perdere lo spirito iniziale; le forze

incominciavano ad abbandonarlo ed inutilmente cercava di collocare più in

alto la cavezza stringendo al massimo le muscolose e giovanili gambe al

tronco.

Il sudore incominciava a colare dal suo viso, il dispendio di forze era

enorme, lo sforzo e l‟accumulo di sapone in tutta la parte anteriore del

corpo lo rendeva irriconoscibile; nonostante l‟immane sforzo, il povero

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80 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

ragazzo, invece di andare verso l‟alto, incominciava inesorabilmente a

scendere a poco a poco; vana tutta la buona volontà nel raddoppiare lo

sforzo; i risultati erano sempre più infruttuosi.

Dopo innumerevoli vani sforzi il povero giovanotto si ritrovava con i piedi

per terra, sudato, stanco, imbrattato di sapone, deluso della sua prova.

Nonostante il fallimento uno scopo era stato raggiunto: pulire il più possibile

il grosso tronco.

La stessa sorte toccava al secondo, al terzo, al quarto concorrente; qualcuno

riusciva a salire qualche bracciata di più del precedente ma non riusciva ad

andare oltre la metà della pertica.

Il vocio tutto attorno era indescrivibile; il tamburo che rullava in

continuazione, quattro cinque elementi della banda musicale, riunitisi per

l‟occasione in un angolo, suonavano canzonette e pezzi di allegra musica, i

ragazzini che correvano ad ogni pausa della competizione rincorrendosi

chiassosi, il chiacchierio della numerosa gente che con cognizione

commentava in continuazione la gara quasi gridando per farsi sentire

meglio, erano una vera “festa” di divertimento e di partecipazione.

Dopo circa un‟ora di vani tentativi arrivava il turno dei pochi concorrenti in

condizioni di arrivare fino in fondo e vincere la gara; erano due tre atleti che

già negli anni precedenti avevano vinto la gara ed avevano tanta esperienza,

avendo pure partecipato e vinto altre gare di “ntinna” presso altri paesi ove

questa tradizionale gara era diffusa.

Preceduto dai soliti due - tre fedelissimi sostenitori, che andavano subito a

controllare lo stato della difficoltà che presentava il grosso tronco, munito

della sua personale cavezza, arrivava il probabile, potenziale vincitore.

Sistemata intorno al palo la cavezza più in alto che poteva, con un salto

atletico si abbracciava fortemente con le braccia e le gambe ad una

considerevole altezza, standosene in quelle condizioni per qualche minuto,

sistemando nel contempo la cavezza più in alto possibile, aiutato anche dal

fatto che nei primi cinque metri il sapone era stato pulito dai precedenti

atleti.

Ad ogni avanzamento, l‟abile ed esperto concorrente si collocava molto

saldamente sulle gambe; con molta lentezza faceva avanzare il più possibile

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la cavezza e, sorreggendosi a questa, faceva riposare qualche secondo prima

le braccia poi le gambe allentandoli con molta accortezza.

Continuando con questo sistema cercava di non bruciare tante energie in

poco tempo, com‟era accaduto ai ragazzi inesperti che l‟avevano preceduto.

Fino qui andava tutto bene, il problema incominciava a farsi serio appena

arrivato ove il sapone era ancora intatto e rendeva l‟arrampicata più

insidiosa e difficile.

L‟atleta nello spostare la cavezza cercava di pulire il tronco il più possibile

cercando di risparmiare le forze allungando sempre di più le piccole pause

che si permetteva ad ogni piccolo avanzamento.

Oltre la metà della pertica incominciavano le difficoltà che fino ad allora

non aveva incontrato; le energie cominciavano a venir meno e lo sforzo che

faceva incominciava a farsi notare dalla maschera di sudore e stanchezza

che si manifestava sul suo viso.

A questo punto l‟incitamento degli astanti arrivava alle stelle ; grida

d‟incitamento, di coraggio, s‟innalzavano in direzione del concorrente quasi

a volergli infondere quella forza che veniva meno.

Stringendo i denti, allungando ancora di qualche secondo la piccola pausa,

stringendo sempre più forte le braccia e le cosce al tronco, l‟uomo cercava

di non perdere quello che aveva faticosamente conquistato, avanzando non

più come prima a bracciate ma a piccoli spazi guadagnando sempre meno

spazio.

Giunto allo stremo delle forze a due, un metro dalla cima, lentamente e

inesorabilmente cominciava a scivolare verso terra, sul sapone, viscido e

traditore delle tante aspettative dei poveri e delusi concorrenti.

Un altro scopo era stato raggiunto: quello di pulire ancora di più quel grosso

tronco che, spietato e inumano, stava lì dritto e altero a sfidare la caparbietà

dell‟uomo.

Allora si presentava sotto l‟albero un altro concorrente, sempre munito dalla

fida ed inseparabile cavezza, che giunto alla base del tronco lo guardava dal

basso in alto, quasi a volerlo sfidare, valutando con perizia di esperto come

affrontare la salita, dove necessitava meno o più forza , dove risparmiare le

energie per affrontare il tratto finale, quello più difficile.

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La salita di questi esperti,noti per le loro gesta precedenti, incominciava fra

gli incitamenti dei tifosi che numerosi parteggiavano per il concorrente.

Incominciava la salita ,al solito, con un grande balzo aiutato anche dalla

cavezza che gli permetteva di sostenersi nel saltare più in alto possibile; poi

iniziava la lenta, controllata, studiata, ma inesorabile salita.

Superato agevolmente, ma non senza sforzi, il tratto meno scivoloso, dato

che era stato nettato dal corpo dei precedenti concorrenti, iniziava il tratto

terminale unto e bisunto di grasso e sapone.

Prima di iniziare la salita l‟arrampicatore si concedeva una breve pausa

pulendosi nel miglior modo possibile le mani e gli arti inferiori visto che

erano queste le parti che gli dovevano consentire di continuare l‟arrampicata

fino alla fine.

Le grida d‟incitamento non si placavano, la gente capiva che il concorrente

aveva delle buone possibilità di riuscire nell‟impresa.

Gli occhi dell‟uomo che stringeva molto saldamente quella trave erano

rivolti verso la cima; ansimante e col sudore che gli colava mischiandosi alla

lordura che il grasso e il sapone gli procuravano, si preparava col corpo e

con la mente ad effettuare l‟ultimo vero sforzo, che gli consentiva di

strappare almeno un premio tra quelli che penzolavano dal grande cerchio

collocato in cima all‟albero.

Stretta con perizia e più in alto possibile la fida cavezza l‟uomo, lasciandosi

penzolare dalla robusta corda ne faceva un tutt‟uno, con perizia e gesto

atletico portava le cosce più in alto possibile stringendole con la massima

forza ancora rimastagli a quel tronco che si faceva sempre più esile; un

ultimo spostamento di cavezza, un ultimo immane sforzo nell‟allungare il

braccio ed ecco che la mano stringeva con ritrovato vigore un salame che si

trovava più vicino alla presa.

A quel punto un‟ovazione si alzava dalla folla sottostante; grida, applausi,

note musicali, rulli di tamburo, riempivano l‟aria, per arrivare alle orecchie

del vincitore che abbracciato ancora al tronco e sorretto dalla fida cavezza

che gli permetteva di non scivolare, brandiva in aria quel lungo salame in

segno di vittoria.

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Disceso tra la gente festante, riceveva congratulazioni e tante pacche sulle

spalle, assieme ai premi messi in palio; il tutto meritatissimo per avere

conquistato “la ntinna”.

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La Malatia (La malattia)

Essere colpiti da una qualsiasi malattia oggi, sia essa più o meno grave, a

parte l'angoscia, l'ansia e la preoccupazione, non sembra essere un grosso

problema, specie se si hanno possibilità finanziarie.

Sia le strutture ospedaliere statali che quelle private, oltre ai presidi ed i

pronto soccorso locali, sono tempestivi a fornire tutta l'assistenza,

utilizzando conoscenze mediche e strumentazioni modernissime assieme

agli ultimi ritrovati della ricerca medica.

Negli anni del dopoguerra, in particolare in quelli che riesco a ricordare,

ammalarsi non era consentito a nessuno, specie tra le famiglie con reddito

incerto e derivante da una sola persona, il capo famiglia, ed in particolare se

andava a giornata presso terzi, come quasi sempre avveniva.

La famiglia di un operaio, spesso numerosa, aveva nel papà l'unico punto di

risorsa finanziaria. Sulle spalle del padre, sempre alla ricerca continua di un

lavoro, gravava tutta la responsabilità della sussistenza familiare;

responsabilità certo non indifferente dato che i figli abbondavano e il lavoro

era scarso.

Il Padre era tutto: la sicurezza, l'ancora di salvezza nei momenti tristi, punto

di riferimento e di attrazione in quelli buoni.

Quando era difficoltoso trovare lavoro o d'inverno, quando il maltempo

impediva di lavorare e di conseguenza non si portavano a casa i denari per

comperare il necessario alla sopravvivenza, erano guai seri; spesso si

ricorreva ai prestiti presso figure indegne che approfittavano del bisogno

degli altri.

Nella stragrande maggioranza dei casi si ricorreva al credito nelle botteghe,

(“si faciva cridenza”), con l'impegno che alla ripresa del lavoro si sarebbe

provveduto a saldare il debito.

L'assistenza medica, farmaceutica, ospedaliera, non era garantita a tutti

come oggi; si aveva diritto per la durata di sei mesi al medico, alle medicine

e, all'occorrenza, al ricovero in ospedale, solamente se si era in regola col

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l'assicurazione sul lavoro; era necessario un minimo di quindici giorni di

copertura assicurativa presso una ditta per avere tale diritto, per se e per tutta

la famiglia.

Scaduto detto periodo si doveva provvedere a rinnovare il rapporto di lavoro

oppure tutte le prestazioni mediche, farmaceutiche ed ospedaliere sarebbero

state a totale carico del malcapitato.

Trovare una Ditta disposta a regolarizzare il rapporto di lavoro non era cosa

facile; neanche nei lavori gestiti dagli organismi statali e similari non era

facile, dato che c'era di mezzo sempre il guadagno dell'impresa che, nella

stragrande maggioranza dei casi, approfittava del bisogno degli operai

lucrando sui già miseri guadagni del lavoratore.

Dunque ammalarsi per un operaio-capo-famiglia era proibitivo, ma se

disgraziatamente capitava... erano guai seri per sé e la famiglia!

Una vera e propria via crucis si poneva di fronte alla famiglia il cui papà,

unica fonte di guadagno, si fosse ammalato!

In quella casa entrava il lutto continuo; disperazione e pianto da parte della

moglie che, invasa dalla paura di perdere il marito, era terrificata; le spese

che si dovevano affrontare tra medici, medicinali, ospedale, erano molto

elevate per una famiglia monoreddito e per giunta discontinuo, e questo era

un altro serio problema che la povera donna doveva cercare di risolvere

spesso da sola, nella migliore delle ipotesi con l'aiuto di qualche familiare.

Qualche volta interveniva la famiglia di lui o di lei a collaborare

finanziariamente ai bisogni, ma non erano tutti che se lo potevano

permettere, dato che a loro volta vivevano di lavoro giornaliero.

Si provvedeva a vendere qualche pezzettino di terra, oppure la casa

d‟abitazione, se proprio necessario, per far fronte alle spese.

Quando qualche caso si presentava molto serio e, nonostante gli sforzi, non

si riusciva a far fronte alle spese allora, su iniziativa di qualche gruppetto di

amici, vicini e conoscenti, si ricorreva ad effettuare una colletta tra la gente

generosa, dando un aiuto non indifferente alla risoluzione del problema.

In verità i medici che operavano nel paese facevano miracoli di bravura e di

civiltà per venire incontro ai bisogni dei malcapitati, dando loro la

possibilità di potersi sdebitare appena possibile, dimezzando la loro percella

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e, in qualche caso, fornendo a titolo gratuito le medicine (campioni gratuiti).

Si cercava con tutti i mezzi di non coinvolgere i bambini in quelle tragedie

allontanandoli dalla famiglia e portandoli dai nonni o presso parenti,

facendo il possibile per non creare traumi e brutti ricordi.

Se in famiglia qualche figliolo aveva un'età da potersi difendere, quanto

meno di potere discernere il bene dal male, allora veniva avviato al lavoro

presso terzi, a fare il ragazzo di fatica (“lu garzuni”) presso persone

facoltose, i più fortunati, oppure a guardare le pecore nelle campagne (“lu

picurareddu”) e, nella peggiore delle ipotesi, a lavorare nelle miniere a

trasportare sacchi di materiale sulle giovani spalle, dalle viscere della terra

in superficie (“lu carriaturi”), su per una scala ripida che non finiva mai.

Il ragazzo cresceva, diventando adulto, senza avere gustato le gioie della

fanciullezza e della spensierata gioventù.

“L'addevu travaglia, abbonè!”

Sì, era poco quello che portava a casa ma era tanto di fronte alla miseria e ai

bisogni: altri fratellini più piccoli da crescere, cibo sostanzioso per rimettere

in forze l'ammalato, spesso a spese e sacrifici della madre e dei più grandi,

che si sacrificavano lasciando qualche boccone in più a chi ne aveva

necessità.

Così iniziava a prendere forma un infernale vortice che si sapeva quando

iniziava e non si sapeva quando finiva : “la cridenza”.

Nelle botteghe, dal macellaio, in farmacia, dal lattaio, e in qualsiasi altro

posto ove si comprava qualche sussistenza.

Quando il decorso della malattia era di breve durata il problema delle

difficoltà veniva superato presto, ma quando si presentava qualcosa di serio

e la durata si protraeva per mesi allora erano grandi e tante le difficoltà che

si presentavano fino al punto che anche le botteghe fornitrici si negavano di

continuare a fare credito, con ancora più grandi difficoltà per la famiglia.

La malcapitata madre, con figli in tenera età, si trovava in seri disagi a tal

punto da decidere di cercarsi qualche lavoretto come serva, lavandaia,

stiratrice, presso qualche famiglia facoltosa, cercando di portare a casa

qualcosa che riusciva a guadagnare.

Non era facile, anzi a volte tanto insidioso, ma quasi sempre l'amore e

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l'attaccamento alla famiglia avevano il sopravvento, superando le insidie che

le si paravano di fronte.

La malattia era una seria difficoltà, forse la più grande che si potesse

presentare durante la vita, una disgrazia che in tanti casi lasciava uno

strascico molto lungo e difficoltoso per chiunque, ma più duro per un

povero lavoratore senza risorse.

Qualche volta si trasformava in un solco nero e profondo, incolmabile per

qualsiasi sforzo umano; allora diventavano lutti e sofferenze per tutta la

famiglia, specie per la povera vedova con sopra le spalle un fardello molto

pesante da portare avanti.

Solamente la maturità dei figli maschi e la loro autonomia riuscivano a

portare un po‟ di serenità in quel focolare dandogli calore, conforto e

tranquillità.

Quando tutto era passato e si ritornava alla vita lavorativa, il capo famiglia

non tralasciava nessuna fonte di guadagno; lavorava... lavorara... e lavorava,

per pagare i debiti che si erano accumulati nei mesi della disgrazia,

ringraziando il Creatore, i buoni di cuore, onorando la fiducia che gli altri

avevano accordato a lui e alla sua famiglia.

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La Virduredda

(La verdura)

L'alimento vegetale che la natura,da sempre, ha messo a disposizione

dell'umanità per sostentarla e spesso curarla è certamente la verdura.

Di facile reperimento, è costituita da foglie, fiori e radici, per lo più coltivati

negli orti, ma molto abbondante anche in natura.

La verdura, assieme alla frutta, oggi la possiamo trovare presso i numerosi

banchi di vendita o presso i venditori ambulanti, che ce la forniscono in

abbondanza e ce la portano fino a casa.

E‟ ricchissima di vitamine, sali minerali, acqua, sostanze importanti ed

indispensabili alla vita; l'organismo non è in grado di produrli da solo e

pertanto devono essere assunti con gli alimenti.

Dunque ruolo primario, per il fabbisogno di tali sostanze nutritive, spetta

proprio alle verdure, sotto tutte le sue forme, alimento povero che la natura

da sempre ha elargito e continua a farlo.

Il ruolo importantissimo di tali erbe era noto anche ai nostri progenitori i

quali hanno adoperato tale cibo fin dalla loro comparsa sulla terra e ne

hanno intuito subito l'insostituibile ruolo nella loro alimentazione; ne hanno

scoperto le proprietà nutritive e medicamentose e le hanno trasmesse ai loro

posteri, tramandando anche la salvaguardia il rispetto per questo importante

ed insostituibile dono.

Anche nella nostra comunità la “virduredda” era tanto usata ed apprezzata;

immancabile sulla tavola di ricchi e poveri come contorno, come terapia, ma

il più delle volte come primo piatto amalgamandolo con qualche fetta di

pane duro.

Si poteva trovare nelle tante botteghe sparse per tutto il paese alle quali

veniva fornita dai proprietari di giardini che, utilizzando acqua di pozzo o il

passaggio nel proprio campo di qualche torrentello, coltivavano la verdura a

questo preciso scopo, ma anche da diverse persone che della raccolta della

verdura avevano fatto una piccola fonte di guadagno.

Non era tanto facile trovarla nei campi circostanti al paese perché i passanti

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la raccoglievano, per cui i cercatori dovevano recarsi in terre lontane e

adatte alla crescita spontanea di tali erbe.

Spesso uscivano di casa col buio, prima dell'alba per recarsi nei feudi ove la

buona erba trovava il giusto ambiente particolarmente congeniale per i

nutrimenti e la crescita.

Giravano per un giorno intero chinandosi ed alzandosi in continuazione,

tagliando alla base la pianticella già adulta e particolarmente piena di

sostanze, utilizzando un coltello a serramanico; veniva deposta in un

capiente sacco accomodato per l'occasione a mo‟ di sacca collocata a

tracolla per avere l'utilizzo delle mani sempre a disposizione.

Un giorno intero a camminare raccogliendo il buono che si trovava; ogni

tanto qualche sorso d'acqua

da un piccolo recipiente di terracotta.

Verso mezzogiorno una sola piccola pausa per far riposare le gambe e

masticare pochi bocconi di pane spesso sostituiti da qualche pugno di fave

dure; a smorzare i morsi della fame spesso contribuiva la stessa verdura,

trovata nei campi e adatta ad essere mangiata cruda, a mo‟ d'insalata,

qualche frutto dimenticato su un albero, o qualche specie selvatica adatta ad

essere utilizzata dall'uomo.

Il raccoglitore era grande conoscitore di dette piante, conosceva il posto ove

vivevano, le bontà che esse contenevano e garantivano agli acquirenti la non

velenosità.

Era usuale, da parte di tante persone affette da dolori lancinanti, dovuti a

calcolosi renali, rivolgersi alla persona esperta, quale era il nostro, per

acquistare “l‟erba spacca petri” oppure “l‟erba centu gruppa” adatta a

frammentare i calcoli e a favorirne l‟espulsione; oppure “ciuri di ficu

d'innia” per alleviare le irritazioni della vescica e dell'apparato urinario.

Tantissime erano le erbe utilizzate per curare i malanni che affliggevano le

persone, tutte buone ed efficaci, tutte garantite dall'esperienza dei nostri avi,

tramandataci nei secoli.

Tutte queste erbe erano conosciute e reperibili dai cercatori di verdure, che

ci guadagnavano, ma anche da tante persone che non esercitavano tale

ricerca per guadagno ma che la praticavano per scopi personali o per

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favorire qualche conoscente.

Il ricercatore tornava a casa ancora col buio, dopo il tramonto, portando

sulle spalle uno anche due sacchi pieni di verdura ancora sporca di terra.

A casa, aiutato dalla moglie e dai figli, una ad una pulivano le pianticelle

togliendo le foglioline secche o inutilizzabili; se d'inverno la terra le

sporcava particolarmente, le lavavano e le rendevano pulite alla vista in

modo da presentarle accettabili a chi le comprava.

Mettevano insieme una decina di piantine, secondo la grandezza che queste

avevano, le legavano con fili di erba formando dei mazzetti, mettendo in

evidenza la parte più bella.

Dopo avere completato tale operazione, dividevano la quantità in due parti;

una veniva portata alle botteghe dando ai commercianti la possibilità di

guadagnare una piccola percentuale, l'altra metà veniva sistemata in

canestri, “nta li cannistra”, o in ceste, “nta li panara”, e venduta per le

strade del paese dai suoi figli (“l'addevi jvanu a vinniri la virdura strati

strati”.

“Haiu virduredda frisca... Cu voli virduraaaa?”

“Cicuriedda bedda e tennira... Cu voli cicoooriaaa?”

“Li finocchi haaaiu... Li finuccheeeddi di tiiimpa... Frischi friiischi”

Le voci dei ragazzi si diffondevano per le strade annunciando alle persone la

bontà della loro mercanzia.

Le persone che non avevano la possibilità di potersi recare in campagna

chiamavano il ragazzo e, sentito il prezzo, compravano la quantità che

bastava per la zuppa serale o per preparare una buona e gustosa minestra.

Quasi nessuno cercava di imbrogliare quei ragazzi, spesso analfabeti, che

rispettosi ed ubbidienti bussavano alle porte degli acquirenti abituali e

offrivano loro la merce.

Non tutti compravano; chi ne aveva bisogno prendeva il necessario, attenti a

non sciuparne o a spendere il denaro inutilmente; tutto era destinato al

sostentamento della famiglia.

Finito il giro, i ragazzi ritornavano a casa; con tanta gioia consegnavano

nelle mani della mamma tutte le monetine, frutto dei grandi sacrifici di papà

e del loro incessante gridare (“vanniari”) quasi a costringere le persone a

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comprare la “virduredda”.

Non sempre riuscivano a vendere tutti i mazzetti, allora ne regalavano ai

vicini e agli amici.

Per quella povera gente, che utilizzava la verdura per ricavare un guadagno,

non era sempre facile

trovarla.

Tutte le stagioni offrivano all'uomo la possibilità di utilizzare i vari prodotti

che crescevano spontanei nelle campagne, ma non tutte le stagioni

consentivano alle persone di potersi recare nei vari posti per raccoglierli.

Nei mesi invernali, da Novembre a Marzo, andare in campagna per qualsiasi

ragione non era facile;

le piogge iniziavano nel mese di Ottobre e, a intermittenza, finivano a

Marzo.

Erano piogge continue, copiose, che spesso duravano anche alcuni giorni

con serie difficoltà per il normale svolgersi della vita quotidiana.

I contadini erano impossibilitati a recarsi a seminare i campi; gli animali

domestici, specie quelli utilizzati in agricoltura, se ne stavano nelle stalle,

non potendo camminare nelle “trazzere” e nei campi.

Qualche annata, non potendo seminare nel giusto tempo, Novembre-

Dicembre, si protraeva la semina

fino a Febbraio, utilizzando semi di grano tenero cosa questa non abituale al

nostro tradizionale uso del grano duro.

Erano inverni freddi e molto bagnati; nelle case i bracieri (“li brasciera”) e

gli scaldini (“li tangini”) erano sempre pieni di brace ardente per riscaldare

l'ambiente e le persone che vi abitavano.

Ogni tanto faceva capolino dalle nubi un tiepido sole che non era

sufficientemente caldo per asciugare

tutta l'acqua caduta né, tantomeno, ad asciugare la superficie dei campi che

in certi posti sembrava una palude, con grande pericolo per chi si

avventurava a passarci.

Nei viottoli e nelle “trazzere” era un continuo sgorgare di acqua, rigagnoli e

fiumiciattoli scorrevano da tutte le parti; i torrenti ed i fiumi erano pieni, i

loro guadi erano inutilizzabili e molto pericolosi.

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L'inverno è particolarmente produttivo di verdura (“cicoria, gidi, cardedda,

burranii, finucchedda, lassani”) ma avaro di possibilità lavoro, per cui il

continuo bisogno costringeva le persone a rischiare, a mettere a repentaglio

la propria salute (gente spesso già minata dalla bronchite o dall'artrosi) e

recarsi nelle campagne muniti di una incerata (“la ‟ncirata”) e bene

imbacuccati.

Anche quando piovigginava andavano per le campagne in cerca di verdura,

rischiando di restare impantanati, di scivolare in qualche burrone o torrente,

o peggio ancora prendersi qualche serio infreddamento che si sarebbe

trasformato certamente in una grave bronco polmonite.

Ma continuavano a camminare, con in mano il loro immancabile coltello e

gli scarponi pieni di terra, tanto pesanti da rendere difficoltoso il procedere;

era meglio non fermarsi, per non fare raffreddare il corpo coperto da un

leggero sudore che non dava fastidio durante il cammino ma che si sarebbe

trasformato in un vestito di ghiaccio se si fossero fermati.

Lo sforzo che si faceva in quei giorni era immane anche per chi era abituato

a camminare tanto.

Il misero ricavato spesso non bastava a sfamare la numerosa famiglia; allora

si pregava il bottegaio di essere tollerante e generoso fornendo

l'indispensabile al sostentamento della famiglia in attesa di tempi migliori e

di migliori guadagni.

In quei freddi e piovosi giorni invernali spesso erano le persone a

commissionare della verdura: “quarchi troffa di cicuriedda ca arrifriscava

lu stomacu; ‟na pocu di burranii ca fannu beni a la bussica”; quasi

costringendo il pover‟uomo, appena il tempo smetteva un poco di “pisciari”

a recarsi nelle campagne per raccoglierle; lo faceva spesso volentieri, per

togliersi dall'inattività ed allontanarsi un po‟ dall'ambiente familiare, sempre

preso da nuove esigenze.

“La virduredda”: insignificante verde piantina che spesso viene calpestata

con noncuranza, ignoranti della loro proprietà e di quanto benessere possa

regalare all'uomo.

La “virduredda”: umile creatura della terra che spontaneamente si offre a

noi, senza nulla chiedere, senza nulla pretendere, se non quello di essere

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utilizzata per rendersi utile ed assolvere, nel miglior modo possibile, al

compito che la generosa Madre Natura le ha affidato.

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La Curdicedda (La cordicella)

Ho sentito dire più volte che gli abitanti di Cianciana, prima che

“surfarara”, erano soprannominati: “curdiciddara”.

La consuetudine di utilizzare questo nomignolo è scaturito, certamente, da

qualche azione, da qualche prodotto, da qualcosa che gli antichi abitanti del

luogo erano soliti dire, fare, o produrre.

Indicare o distinguere qualcuno col soprannome era cosa molto in uso nella

nostra comunità.

Il soprannome era spesso era originato da una particolare dote o da qualche

difetto, da qualche azione o solamente dalla provenienza; un individuo

poteva, quindi, essere soprannominato: “lu zoppu”, “lu tignusu”, “lu russu”,

“ lu sciclitanu”, “sicchisacchi”; ma sull‟argomento torneremo in seguito.

“Ciancianisi curdiciddara” era un nomignolo che certamente identificava

gli abitanti di Cianciana; ma le sue origini?

Visitando le terre circostanti il paese, tra le tante piante endogene che

crescono spontanee un po‟ ovunque, fa bella mostra di sé una pianta molto

antica, durevole e resistente alle variazioni climatiche; caldo, freddo, acqua,

siccità, producono effetti che la nostra pianta sopporta molto bene e non

arrecano alcun danno alla sua crescita: la palma nana o palma di San Pietro,

le cui foglie , di forma palmata (chiamate in dialetto “giummarra”) trattate e

lavorate in maniera particolare, venivano usate per la produzione artigianale

di corde, scope, coffe, cappelli e contenitori di varia foggia e grandezza.

In tempi ormai passati, gli antichi abitanti del nostro paese erano molto bravi

nel lavorare la “giummarra” riuscendo a produrre cordame (“curdicedda”)

molto resistente, facile all‟uso, molto leggera; risultava essere anche

elegante nel suo aspetto a forma di cordoncino verde-giallo.

Tante famiglie si dedicavano alla produzione di oggetti di “qrina”

vendendoli e ricavandone un guadagno, spesso decisivo al sostentamento

della famiglia.

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99 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Alcune famiglie avevano scelto quell‟attività come lavoro principale per cui

la fertile e creativa fantasia ciancianese subito accollava un nomignolo che

distingueva quel ramo della famiglia dagli altri e nel contempo evidenziava,

senza scanso di equivoci, l‟attività esercitata; di tale attività era noto il

soprannome di “scupara”, tutt‟ora in uso per identificare certe persone.

Dunque da quella insignificante ma utile piantina, le persone, utilizzando le

loro conoscenze e la loro destrezza nel lavorarne le foglie, doti queste che

erano state insegnate e tramandate dai padri, riuscivano a ricavare della

cordicella, che oltre alle legature era necessaria per la produzione di

funzionali ed eleganti scope, utilizzate da tutte le famiglie per spazzare i

pavimenti e quant‟altro.

Oltre le scope, prodotte in notevole quantità ed esportate, la “curdicedda”

era essenziale per la produzione di contenitori, indispensabili in agricoltura

come nelle faccende domestiche, quali: “li coffi, li zimmila, li borsi, li

cannistri” e altri oggetti utilizzati correntemente.

Molta di questa produzione veniva smerciata nel paese stesso, tant‟altra, a

dorso di asini e di muli, veniva trasportata e messa in vendita in molteplici

località, specie nelle fiere allestite in occasioni di solennità religiose o feste

locali di certa importanza.

Era tale, la destrezza dei ciancianesi nel lavorare la “giummarra”, che

riuscivano a riprodurre anche indumenti quali giacchette e gambali,

utilizzati principalmente dai pastori, numerosi nella collettività di allora;

ventagli, leggeri ed eleganti, che servivano per ravvivare il fuoco o per

produrre un po‟ di venticello molto gradevole nelle calde giornate d‟estate;

elegantissimi e raffinati cappellini per le donne, meno raffinati ma molto

funzionali per gli uomini che lavoravano giornate intere sotto i raggi cocenti

del sole; utili e funzionali sotto pentole che si tenevano sempre vicino alla

cucina (“la tannura”) per sovrapporvi la pentola calda una volta tolta dal

fuoco; serviva anche, ed in maniera molto confortevole, a riempire il pianale

delle sedie su cui si sedevano le persone;

eccellenti stuoie su cui inginocchiarsi o sedersi secondo il tipo di lavoro che

si faceva; “coffi” e “stirratuta”, contenitori robusti e molto utili, per il

trasporto di terra o materiale solido; tappeti di raffinata eleganza utilizzati

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100 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

per coprire il suolo di qualche camera priva di rivestimento, dato che non

tutti potevano permettersi di adoperare i mattoni o il cemento (ancora non in

uso); culle per neonati, utilizzate come amache adatte a cullare ed

addormentare i piccoli; sotto-materassi per isolare dal suolo il giaciglio,

molto in uso specie nelle tante famiglie numerose.

L‟utilizzo della “giummarra” era diffusissimo nella nostra collettività

dedita, prima della scoperta dello zolfo, all‟agricoltura ed alle attività

artigianali.

Tante materie prime, adesso d‟uso quotidiano, fino a mezzo secolo fa non

esistevano, non erano state ancora scoperte o inventate; tutti gli oggetti, utili

al vivere consueto della gente moderna, fino agli anni cinquanta erano

costruiti per cui il necessario veniva realizzato con materiali naturali quali il

legno, il ferro, l‟alluminio, la creta, il rame.

Le radici di una popolazione sono legate, molto strettamente, con il tipo di

lavoro che, in tempi tanto lontani, il luogo e le risorse delle zone circostanti

alle loro abitazioni offrivano.

Terra buona e ricca di nutrimenti, acque abbondanti e facili da reperire,

clima buono e facilmente sopportabile, flora e fauna abbondanti, erano

costituenti principali che spingevano una o più famiglie a popolare un luogo,

dando origine ad una comunità.

La comunità, che poi dette origine all‟attuale, trovò certamente tutto quanto

necessitava alle povere esigenze di allora.

Madre natura era prodiga nell‟elargire i suoi doni; gli abitanti di allora

sapevano apprezzare quanto veniva loro regalato, utilizzando con

intelligenza ed assennatezza tutto quanto la natura metteva a loro

disposizione, dalla più nobile pianta fruttifera all‟umile e solitaria

“giummarra”.

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103 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Mastri e Manuvala (Maestri e Manovali)

Il lavoro: attività che produce beni o servizi, tutelata dalla legge, svolta

nell‟esercizio di un mestiere, di un‟arte, di una mansione prettamente

manualistica in genere, che consente, a chi esercita, di potere guadagnare il

necessario per soddisfare le esigenze della propria famiglia e consentire ad

essa stessa di potere vivere ed assolvere il proprio ruolo, nella società, con

decoro.

L‟esercizio di un mestiere, di un‟arte, necessita di conoscenze, approfonditi

studi e tanta esperienza.

Il depositario di conoscenze, studi, esperienze, è stato da sempre il maestro,

“lu mastru”, figura specializzata che da noi è stata, da sempre, rispettata e

benvoluta.

Ad aiutare la messa in opera del maestro era “lu manuvali”, operaio non

qualificato addetto a lavori di fatica e alla preparazione, dietro suggerimenti

del maestro, quanto necessario per la realizzazione dell‟opera intrapresa.

Queste figure di operai, nel nostro comune, erano molto numerose; la

maggior parte svolgevano la loro attività nelle miniere di zolfo; numerosi

quelli che si occupavano dell‟agricoltura; altri operavano nell‟edilizia; altri,

ancora, preferivano l‟artigianato.

Era costume, e lo è tutt‟ora, che la mattina presto, prima di recarsi sul posto

di lavoro, “mastri e manuvala” si riunissero nei pressi della torre

dell‟orologio, “sutta lu raloggiu”, ove scambiavano idee, punti di vista,

qualche suggerimento, (oggi per fare colazione o prendere il caffè, al bar;

allora molti non facevano neanche la colazione a casa!); si assumeva

qualche disoccupato (erano tanti!) se la quantità di lavoro lo richiedeva, si

aspettava l‟orario, tutti assieme, per avviarsi ognuno al proprio posto di

lavoro.

Erano tantissime le persone che la mattina presto, attorno alle sei e mezza,

sette,

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104 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

si radunavano in quel posto di tradizionale e quotidiano incontro; occupati e

disoccupati, gente in cerca di lavoro nei campi come nell‟edilizia, nella

miniera come nell‟artigianato.

Chi aveva bisogno di un operaio bastava che a quell‟ora si recasse sotto

l‟orologio per trovare, sicuramente, l‟uomo adatto al suo fabbisogno; questi

lavoratori occasionali stavano a piccoli gruppetti a chiacchierare, con la

speranza che qualcuno li chiamasse, fino a tarda mattinata.

Chi seduto sui gradini della scalinata, chi appoggiato agli angoli della via

adiacente, stavano lì in attesa di qualcosa che poteva come non poteva

arrivare.

Erano a disposizione di chi aveva bisogno di manodopera, non importava il

tipo di lavoro che si presentava, l‟importante era lavorare e guadagnare

qualche soldo!

Quasi tutti erano persone educate e servizievoli; a disposizione dei datori di

lavoro anche per i bisogni di famiglia, come spaccare la legna per la cucina,

recarsi al mulino per la molitura del frumento, andare in campagna per

raccogliere “nna sacchina di virduredda”.

Un bravo ed educato manovale restava col proprio maestro per molti anni,

anche dieci e più, tanto da diventare egli stesso un discreto artefice fino a

mettersi in proprio ed essere chiamato, col tempo, “mastru”.

“Lu mastru” poteva essere un artigiano, un artefice provetto, esecutore già

affermato, con propri clienti che ne seguivano i consigli, specie nella

esecuzione delle opere richieste.

Era tenuto in considerazione dalla collettività e rispettato.

Con la parola “mastru” si voleva evidenziare la bravura, la maestria, l‟alto

grado di preparazione che s‟era raggiunto nella professione che si esercitava.

Erano bravi mastri tanti artigiani come il falegname, il sarto, il fabbro

ferraio,

il calzolaio, il muratore.

Non erano tanti, anzi i buoni mastri erano qualche decina, gli ottimi molto

pochi.

“Lu mastru muraturi”.

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105 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Un buon maestro doveva avere conoscenza della matematica, della

geometria in particolare, sapere usare gli strumenti di lavoro nel modo

giusto, avere, principalmente, il senso della proporzione, del bello, del

rendere oggettivo tutto ciò che scaturiva dalla sua mente soggettiva; buon

conoscitore degli ordini architettonici e saperli mettere in opera

all‟occorrenza.

Tutto questo o buona parte di questo doveva essere la carta d‟identità del

muratore che doveva esercitare il suo mestiere in una società ove l‟alto

grado di analfabetismo non consentiva di seguire certe messe in opera, per

cui tutto veniva affidato alla preparazione, alla serietà, alla lealtà, all‟onestà,

dell‟esecutore: “lu mastru!”

L‟ottimo maestro doveva essere anche un buon insegnante; avere la capacità

di trasmettere agli altri il proprio sapere, le proprie esperienze, in maniera

tale che il discepolo potesse, un domani, essere egli stesso un buon

esecutore, un buon maestro.

Questo avveniva verso i tanti manovali che si alternavano ad aiutarlo.

Tanti bravi lavoratori esercitavano tale ruolo, ma pochi quelli che erano

attratti dall‟arte e avevano la tendenza all‟apprendimento.

Al giovane che dimostrava di avere una particolare attrazione per la

muratura, veniva dedicato un particolare interesse, “lu mastru” indirizzava

la sua vocazione insegnandogli le nozioni basilari della conoscenza e, man

mano che passava il tempo, dandogli da realizzare prima qualcosa di

semplice per poi passare a qualcosa di più complesso.

Tutto ciò succedeva negli anni e sempre sotto l‟occhio vigile del maestro

che interveniva all‟occorrenza, con portamento paziente ma fermo di chi sa

e deve insegnare in maniera corretta e duratura, senza oppressione né abuso.

Nella nostra collettività “lu mastru” era rispettato ed ascoltato; i suoi

consigli erano cercati, apprezzati, eseguiti; il datore di lavoro doveva

solamente illustrare ciò che voleva realizzare, la scelta dei materiali, il modo

e la maniera di come fabbricare ed eseguire erano compito del maestro

muratore.

Questi passava serate intere al tavolo di lavoro a fare calcoli per realizzare

una scala di accesso al piano superiore avendo a disposizione poco spazio e

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per lasciare alle esigenze della famiglia la maggior superficie possibile;

oppure come e dove impiantare il palanchino per sollevare grossi pesi utili

per la realizzazione dell‟opera che si voleva fabbricare.

Una delle famiglie che esercitavano il mestiere di “mastru muraturi” è stata

la famiglia D‟Angelo, presente nella società ciancianese, certamente, fin dal

‟700.

Per più di quattro secoli, la famiglia D‟Angelo, ha contribuito alla crescita e

all‟espansione del paese in maniera molto ragguardevole.

Infatti questa numerosa e laboriosa famiglia ha scelto di dedicarsi all‟attività

edile dando i natali a numerosi buoni mastri e a diversi capi-mastri che con

la loro preparazione e conoscenza hanno lasciato nella nostra collettività un

segno, della loro presenza, profondo e duraturo nel tempo.

Molte abitazioni di tutti i ceti sociali presenti nel tessuto locale, molte opere

pubbliche, molte realizzazioni artigianali e di industria solfifera sono state

realizzate dai bravi mastri della famiglia D‟Angelo; tante sono state distrutte

dalle esigenze della società moderna, altre sono tutt‟ora esistenti, qualcuna

vanto ed emblema della città di Cianciana.

I “mastri” erano indispensabili alla società, i manovali erano insostituibili;

uomini che si dedicavano e si adattavano a qualsiasi tipo di lavoro,

servendosi di pochi e poveri strumenti e della tanta conoscenza ed

esperienza tramandata loro dai predecessori che prima avevano esercitato il

mestiere di “mastru muraturi”.

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109 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

L’armi santi di lu Priatoriu (Le anime sante del purgatorio)

Parecchie volte ho cercato di fare notare la grande religiosità che il popolo

ciancianese aveva; tutto ciò che durante la giornata, di positivo o negativo,

accadeva, veniva attribuito “a la vuluntà di Diu”.

Nel posto di lavoro, in piazza, per le strade, in casa, in ogni luogo, per

esprimere uno stato d‟animo, una preoccupazione, un dolore, una gioia, il

pensiero subito veniva rivolto a Dio, alla Madonna, ai Santi.

La fede occupava una grande parte della natura del ciancianese, un

importante segmento della cultura che i loro padri avevano, con l‟esempio e

l‟insegnamento, inculcato, molto profondamente, nell‟essere, nella

coscienza dell‟individuo.

La fede, il riconoscere che su questa terra siamo tutti di passaggio e nessuno

è nato per fare la propria volontà, ma quella del Supremo, li teneva

continuamente in comunione con Dio e con coloro che, per Sua volontà, non

erano più presenti su questa terra.

A questi, ai cari defunti, era dedicata una parte importante della loro

religiosità, secondo gli insegnamenti ricevuti.

I luoghi di culto, ove le persone si recavano per adorare, pregare,

ringraziare, chiedere, contattare il Sommo, erano diversi: quattro chiese

cattoliche romane, ove si recava la quasi totalità dei credenti e una chiesa

evangelica pentecostale, ove si riuniva, per rendere grazie a Dio, una piccola

minoranza di fedeli.

Non erano presenti altri credi religiosi; qualche non credente era presente

nella comunità, ma più per convenienza che per convinzione.

Non soltanto nei luoghi di preghiera si ricordava e si rendeva onore ai cari

defunti, anche nei momenti della giornata spesso si dedicava loro un

pensiero, una preghiera.

Il momento collettivo più sublime, in cui il pensiero e le azioni quotidiane

erano dedicati totalmente ai defunti, “lu jornu di li murticeddi”(il giorno dei

morti) si celebrava con umiltà, dolore e preghiere.

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110 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Tutto il paese in quell‟occasione si recava al cimitero a portare qualche fiore

o candela, o stearina (lumina), assieme alle immancabili preghiere di

suffragio; solamente le donne in stretto lutto erano esonerate dal recarsi al

cimitero, dato che la tradizione non consentiva loro di uscire di casa prima

dei tre mesi.

“Chi mi murì lu cani?” erano solite rispondere quando qualcuno chiedeva

loro se fossero andate al cimitero per una visitina ai morti.

La fede ed il rispetto verso i cari defunti, che il solo pensiero che il loro

riposo eterno potesse essere condizionato da qualche espiazione da fare

prima della totale visione della Luce eterna, era tanta e tale da portarli a

costruire un luogo di preghiera dedicato esclusivamente alla redenzione

delle anime in pena ed in attesa di espiazione: la chiesa del Purgatorio, “Lu

Priatoriu”, piccola chiesa di una sola navata, situata all‟incrocio tra la via

Montuoro e la salita Regina Elena, proprio a fianco della Torre

dell‟orologio.

Ai lati interni presenta sei nicchie, tre a destra e tre a sinistra, ove i nostri

avi, spinti dalla loro incrollabile fede, avevano collocato dei simulacri da

onorare e venerare in diverse ricorrenze.

La chiesa del Purgatorio, per volontà dei ciancianesi, è stata consacrata

“all‟Armi Santi di lu Priatoriu”, per la dottrina cattolica, luogo e condizione

in cui le anime dei morti senza peccati mortali e che non abbiano scontati

tutti i peccati veniali, si trovano in stato di grazia, soffrendo pene per la loro

espiazione prima di ascendere al paradiso.

La chiesetta era sempre aperta, tenuta pulita ed efficiente, a disposizione dei

fedeli, sempre sensibili a recitare una preghiera in suffragio delle anime dei

defunti.

All‟esterno, sopra il portone d‟entrata, in una grande sfera contornata da una

cornice di gesso bianco, erano disegnati i tre regni dell‟aldilà, con maggiore

evidenza quello dell‟espiazione nel quale le figure tendevano la mano verso

il Padre che, con infinita munificenza, li accoglieva nel suo regno.

Vi si celebrava la messa molto spesso ed era sempre piena di persone, specie

anziani di entrambi i sessi; le messe erano celebrate esclusivamente in

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111 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

suffragio delle anime dei morti e vi partecipavano i committenti con parenti,

amici e vicini di casa.

Vi regnava l‟umiltà, la fratellanza, la preghiera, perché era costume che di

fronte alla morte tutto venisse cancellato e perdonato: “a la morti

scumparinu detti e difetti”.

Il giorno di tutti i Santi e l‟indomani, commemorazione di tutti i defunti, la

chiesa del Purgatorio era un luogo di continuo pellegrinaggio; non tutte le

persone potevano recarsi al cimitero: gli anziani, per esempio,

impossibilitati a fare quella lunga camminata, le donne in stato di lutto, le

persone che avevano riverenza del posto e non vi si recavano volentieri,

portavano lumini e candele in chiesa; qui venivano collocati in terra, dentro

l‟abside, ben ordinate in maniera che non potessero arrecare danno alcuno; a

tale scopo c‟era una vecchietta sempre lì vicino che, inginocchiata, ordinava

in continuazione le decine e decine di lumini da una parte e le candele

dall‟altra, incollandole a terra con qualche goccia di cera fatta scorrere

appositamente.

Il santo rosario veniva recitato in continuazione; persone che stavano mezze

giornate a pregare snocciolando l‟inseparabile “cruna”.

Chi entrava, chi usciva, i soliti onnipresenti ragazzi che schiamazzavano nel

piccolo spiazzale antistante la chiesa, rincorrendosi e giocando; inutili erano

gli sforzi del sacrista e di tante altre persone, che cercavano di convincerli a

non fare baldoria perché quel giorno era speciale “pi li nostri murticeddi”.

La mattina verso le ore undici, ultimata la S. Messa, dal Purgatorio partiva

una pia processione con in testa il prete; un chierichetto portava una croce e

a fianco di questa sfilavano le monache orsoline; tanta gente seguiva la

processione recitando il rosario, incamminandosi in direzione del cimitero.

Lungo il tragitto, che attraversava molte strade del paese, tante persone si

univano alla processione ingrossandola.

Un centinaio di metri prima del cimitero si udivano grida di afflizione delle

persone che avevano perso di recente i propri cari; grida commoventi, che

divenivano strazianti alla vista di quelle povere donne che, tutte vestite di

nero, stavano dinanzi alla tomba a commemorare le bontà del caro estinto ad

alta voce, con una cantilena che coinvolgeva anche i più scettici a sentimenti

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112 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

di pietà Le grida si facevamo più forti man mano che ci si

avvicinava al cimitero, per raggiungere l‟apice una volta entrati dentro.

Il parroco, arrivato vicino all‟ossario, celebrava la S. Messa in suffragio

delle anime dei defunti, alla quale partecipavano, oltre le persone che erano

giunte con la processione, quasi tutte quelle che già si trovavano sul posto.

La sera, alle diciannove,veniva celebrata un‟altra Messa, al Purgatorio,

seguita ed ascoltata, in grande umiltà e devozione, da decine di persone.

L‟odore tipico “di li ciuri di li morti” e della cera delle candele, riempiva la

chiesa ed arrivava a profumare anche il circondario.

Erano odori gradevoli, profumi che fin da piccoli eravamo abituati a sentire

proprio in quel periodo e che ci avrebbero accompagnato per sempre.

Capitava e tutt‟ora capita che, al sentire nell‟aria il tipico odore dei

crisantemi, la mente subito lo associ “a li ciuri di li morti!”

“Lu Priatoriu” era luogo di preghiera, esclusivamente ad essa consacrato,

per chiedere all‟Onnipotente attenzione particolare verso i cari trapassati, al

fine di poter riposare nella pace eterna, dopo le penose e dolorose prove

sostenute durante la loro vita terrena.

Il livello di considerazione in cui i nostri avi tenevano “l‟armi santi di lu

Priatoriu” era tale da indurli a costruire e poi dedicare loro una chiesa; non

solamente averla costruita e dedicata, ma utilizzata, usata in continuazione,

quale mezzo, strumento unico e solo in grado di avvicinare le anime dei loro

defunti alla grazia di Dio e pregarLo fino al raggiungimento del sommo

fine: il Paradiso.

Sicuramente migliaia e migliaia di brave persone hanno raggiunto il loro

scopo,

con la preghiera, la perseveranza, la fede, sapendo che anche i loro

successori, da loro bene educati con l‟esempio, avrebbero continuato la

strada della redenzione delle anime in pena, per mezzo delle liturgie che si

sarebbero celebrate nella chiesa dedicata “all‟Armi Santi di lui Priatoriu!”

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115 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Li Vampi di Santa Lucia (I falò di Santa Lucia)

Il tredici Dicembre di ogni anno si celebra la festa di Santa Lucia, protettrice

della vista e degli occhi.

Una volta la ricorrenza di Santa Lucia coincideva col giorno più corto

dell‟anno.

Accendere i falò (o le candele, come in Scandinavia) significava prolungare

per qualche ora la durata della luce, simbolo universale della vita.

La tradizione popolare vuole ricordare questa vergine martire, oltre che con

le solenni funzioni religiose, con “li vampi”, cioè con grossi falò che si

accendono per le strade, a ricordo del modo con cui morì la Martire: arsa

viva e, durante il martirio, privata degli occhi.

E' antichissima tradizione della nostra gente, molto devota alla Santa

Martire, preparare lo spettacolare e folcloristico avvenimento allestendo il

falò, da accendere la sera precedente la festività, due tre giorni prima della

ricorrenza.

A tale preparazione partecipava tutta la popolazione portando nei luoghi

predeterminati fasci di legna e combustibile di qualsiasi genere.

Ad ogni incrocio, tra quattro strade (“a la cantunera”), veniva innalzato una

grossa catasta di legna; ogni famiglia residente nelle strade che

s'intersecavano portava dei piccoli o grandi fascetti di legna di qualsiasi

genere purchè in condizioni di ardere, secondo le possibilità che ognuno

aveva nel reperire tali fascine.

C'erano famiglie che, non avendo la possibilità di potersi recare nelle

campagne a raccogliere la legna, la compravano presso agricoltori, avvezzi a

tale lavoro; ne possedevano grandi quantità nella loro case adibite a

pagliaio, legna da ardere che utilizzavano per cucinare le vivande in

famiglia e ne facevano anche occasione di commercio alla circostanza.

Altri contribuivano al falò servendosi dei propri ragazzi che si recavano

nelle campagne a raccogliere fasci di “canneddi”, (piccole canne di natura

spontanea).

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116 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Chi più, chi meno, tutti contribuivano a rendere grande e brillante “la vampa

di Santa Lucia”.

Ogni anno era una gara tra confluenze stradali e tra quartieri a chi faceva la

“vampa” più grande; ragazzi più cresciuti ed avvezzi a recarsi nelle periferie

del paese, andavano nelle campagne in cerca di rami secchi da portare,

trascinandoli, fino alla catasta di loro appartenenza.

Non sempre riuscivano a trovare legna secca; gli imprudenti si spingevano

fino a spezzare interi rami di alberi di ulivi, mandorli, carrubi, o altro, con

grande rischio di essere visti dai proprietari con conseguenze non

indifferenti, per allora; tutte le famiglie utilizzavano la legna per cucinare e

riscaldarsi; i contadini non lasciavano mai alberi o rami secchi abbandonati;

li tagliavano e li sistemavano in piccoli e maneggevoli fasci che portavano

nelle loro case per essere utilizzati da loro stessi oppure per venderli a chi ne

faceva richiesta.

Nei falò venivano accumulati anche oggetti vecchi di qualsiasi genere:

sedie, banchi, piccoli contenitori; roba messa da parte durante l‟anno dalle

mamme di famiglia, sempre pronte ed assuefatte all'usanza di non buttare

nulla; tutto col tempo poteva essere utile: “pò abbisugnari!”.

I falò che si preparavano nel paese erano decine e decine, e la sera

antecedente il giorno della commemorazione, appena finiti i vespri solenni

in onore della Santa, al suono delle campane della chiesa del Carmelo, una

persona addetta alla gestione della “vampa” dava fuoco alla legna.

Le fiamme, alimentate all‟inizio da paglia secca e facilmente infiammabile,

incominciavano ad alzarsi verso il cielo con schioppettii tali da sembrare un

mini-gioco pirotecnico; i ragazzi vocianti giravano attorno al rogo facendo

molta attenzione a non scottarsi con le fiamme che si spostavano in

continuazione, specie se in presenza di vento.

I ragazzi più grandi, con gesti rapidi e coraggiosi, ributtavano in mezzo alle

fiamme i rami che man mano andavano cadendo dalla pira, che ormai

ardeva in maniera spettacolare.

I ragazzini correvano attorno alla grande fiamma gridando: “viva santa

Lucia cà n‟hamm‟a mangiari la cuccìa!” (frumento lesso a cui si

aggiungeva dello zucchero o del miele per renderlo dolce e piacevole).

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117 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Gli uomini stavano a guardare attorno alla “vampa” con accanto i loro cari,

moglie, madre, figli; i piccolini si stringevano alle gambe dei genitori e le

bambine si tenevano strette alle gonne delle mamme; tutti emanavano dai

loro visi, anche accaldati dal tanto calore che si sprigionava dal falò, gioia e

fiducia; qualcuno col rosario in mano innalzava al cielo una preghiera

chiedendo, certamente, a santa Lucia “di guardari la vista di l‟occhi”.

I ragazzi, correndo, andavano a controllare l‟intensità delle altre “vampe”;

“chidda cchiù granni jè! L‟atra cchiossà adduma… chidda di lu Carminu

stà finennu d‟addumari…”. Le notizie si trasmettevano tra cantoni e tra rioni

con una impressionante velocità; anche se non c‟erano i telefoni c‟erano

certamente decine di coppie di snelle e robuste gambe di ragazzi che

correvano di qua e di là come puledri imbizzarriti.

Col tempo la vampa cominciava a perdere di consistenza e le fiamme

andavano perdendo la loro vivacità; allora un paio di giovanotti, muniti di

lunghi e robusti bastoni, mettevano sotto-sopra il cumulo di fuoco

provocando, con quel mescolamento continuo e frequente, una colonna di

scintille miste a fiamme che salivano verso l‟alto dando uno spettacolo

molto suggestivo.

Due o tre volte questa manovra e tutta la struttura perdeva la sua consistenza

riducendosi ad un cumulo di tizzoni misti a cenere destinati alla totale

estinzione.

Allora era il turno di decine di persone che, munite di palette, prendevano il

fuoco collocandolo nei loro bracieri e nei loro scaldini; si sarebbero

riscaldati e con loro anche gli ambienti in cui venivano collocati i

contenitori.

Pian piano ognuno ritornava nelle proprie case a mangiare “la cuccìa”.

Mangiare “la cuccìa”, il giorno di Santa Lucia, è una tradizione tipica

siciliana che affonda le sue radici nella storia secolare di una terra

sempre oggetto di conquista, ma mai vinta.

La Sicilia stava attraversando un periodo di seria carestia; le

campagne assetate non producevano, gli alberi seccavano, i fiumi

mostravano i loro letti asciutti e pieni di crepe.

I siciliani sopravvivevano a stento.

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118 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Se nelle campagne non si rideva, nelle città si piangeva; una di queste,

Palermo, era ormai allo stremo. Le promesse di inviare dei viveri, da

parte dei popoli amici, non mancavano ma al porto non arrivava

nessuno.

Il popolo chiedeva cibo; ormai si sfiorava la ribellione, la guerra.

Una mattina, il giorno di Santa Lucia, dal porto, ove le persone che

aspettavano avevano perso ormai ogni speranza, un coro di voci

annunciò l‟arrivo di diverse navi. I palermitani si riversarono al porto

dove, a vele spiegate e sospinte da una leggera brezza, delle navi si

facevano sempre più vicine; erano cariche di buon grano.

Distribuito il frumento, le persone corsero alle loro case.

La fame era tanta e tale che la gente ne mangiò a pugni, crudo.

Ai vecchi e ai bambini, considerando che molire, impastare e cuocere

la farina, per fare del buon pane, avrebbe richiesto molto tempo, ben

pensarono di trovare una via più breve per rendere il duro grano

accessibile a tutti e placare, così, i morsi della fame: cuocerlo!

Quel giorno, dedicato alla Vergine Martire, protettrice degli occhi,

non fu dimenticato, anzi, si diffuse in tutta l‟isola, in ricordo del

miracoloso arrivo di quel cibo, l‟usanza, divenuta oggi tradizione che

il popolo siciliano ogni anno celebra, di mangiare del grano duro

semplicemente bollito: “la cuccìa”.

Quel cumulo di fuoco e cenere era ormai alla mercé dei soliti ragazzi che,

ancora non stanchi del loro trottare, tiravano sassi e quant‟altro capitasse

loro fra le mani. Altri, approfittando del restringimento del diametro del

falò, provavano a saltarlo da una parte all‟altra, rischiando anche qualche

bruciatura, ma felici e soddisfatti di mettersi in evidenza.

Le strade, che prima brulicavano di vocii e vitalità, erano ormai deserte;

restavano solamente quei mucchi di cenere a testimoniare che anche

quell‟anno la gente ciancianese era stata fedele alla tradizione che gli avi le

avevano consegnata, con il loro esempio, con i loro insegnamenti, con la

loro fede nella Vergine Siracusana.

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Lu Carruzzinu

(Il Calesse)

Lo spostarsi da un posto all‟altro è stato da sempre una necessità di cui

l‟uomo non ha potuto mai fare a meno.

Il camminare in posizione eretta è uno tra i primi apprendimenti che ha

consentito alla razza umana di ergersi quale essere superiore a confronto

delle altre creature terrestri.

Il bisogno di portare con sé il necessario quali cibo, vestiario, arnesi e

quant‟altro indispensabile per la sopravvivenza, ha stimolato l‟ingegno fino

a portarlo ad utilizzare altre creature forti e resistenti, ma di razze inferiori.

L‟invenzione della ruota, poi, ha completato l‟opera permettendo all‟uomo

di spostarsi più agevolmente e senza sforzi.

Nasce così il carro, mezzo di trasporto usato quotidianamente; grezzo e

capiente per il trasporto di cose, agile ed elegantemente rifinito per le

persone.

Nei secoli molte sono state le forme e gli appellativi dati al mezzo di

trasporto: biga, quadriga, carro, carretta,carrozza, carrozzella, calesse; tutti

col fine ltimo di trasportare, nel miglior modo possibile, il suo creatore:

l‟uomo.

Agli inizi dei miei ricordi i più numerosi mezzi di trasporto nella nostra

comunità erano i carretti, sempre tirati da un quadrupede, destinati

principalmente al trasporto delle masserizie; in diverse occasioni venivano

usate anche per il trasporto delle persone, prevalentemente per recarsi al

posto di lavoro; raramente verso qualche località vicina, per altre ragioni.

Il nostro paese era fornito di una carrozza di servizio, destinata al trasporto

delle persone che dovevano recarsi alla stazione per prendere il treno (la

stazione si trovava a due chilometri di distanza); poteva portare più persone,

fino a sei, oltre i bagagli che venivano collocati sopra il tettuccio e nella

parte posteriore, sopra appositi sostegni.

Tanti andavano a piedi, diversi utilizzavano la carrozza.

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Altre persone, benestanti e possessori di beni terrieri di considerevole

consistenza, medici, ingegneri, per i loro spostamenti e per compiere il loro

lavoro utilizzavano “lu carruzzinu”.

Agile e snello, poteva trasportare fino a tre persone sedute comodamente sul

sedile rivolto verso il davanti.

Rivestito con materiale di pelle, il calesse poteva essere manovrato negli

spostamenti interni, anche senza cavallo, da una sola persona; sul sedile

erano posti dei cuscini di velluto colorato, imbottiti di morbida lana, che

consentivano ai passeggeri di sedersi comodamente; sul davanti, di fronte al

sedile, una lunga ed elegante elevazione della stessa lunghezza della

poltroncina, consentiva una comoda e rilassante posizione dei piedi; due

grandi, snelle ed eleganti ruote, ai lati, mettevano bene in evidenza una serie

di armoniosi raggi tenuti insieme da un lucido mozzo, che terminava verso

l‟esterno con un bullone rotondeggiante; all‟esterno della ruota, a dar forza

ed eleganza alla struttura, due lucentissimi cerchi di ferro, sempre pronti a

far schizzare lontano tutta la ghiaia che andava a finirci sotto al loro

passaggio; due lunghissime aste uscivano da sotto il calesse e, alla loro

estremità, facevano bella mostra di sé due eleganti rivestimenti di ottone

lucentissimo ai cui lati sporgevano due grossi anelli che fungevano da guida

per le lunghe redini; l‟abitacolo era sempre scoperto, per consentite all‟aria

di accarezzare il viso del conducente, ma, in caso di pioggia, veniva alzato

un elegante tettuccio di pelle incerata, sufficiente a riparare i passeggeri

dalla pioggia.

Il tutto era elegantissimo, aggraziato e agile, oggi si direbbe scolpito dal

vento; era il frutto di fervide e geniali menti, assieme a secoli di esperienze.

Tirato sempre da un lucido cavallo il cui fiero portamento era frutto di

lunghi mesi di addestramento e pazienza; assuefare quell‟animale, per

natura dedito alla corsa libera, a stare tra due stanghe e tirare il calesse, era

sicuramente una sofferenza, un sacrificio per l‟istruttore e per la povera

bestia.

Circondato da una indispensabile ma sicura bardatura, il quadrupede tirava il

calesse con eleganza, docile ai comandi del conducente; questi teneva tra le

mani due lunghe redini che arrivavano ai morsi dell‟animale.

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Avvezzo a ricevere i comandi tramite piccoli strattoni provocati dal

guidatore, l‟animale procedeva con sicurezza girando e fermandosi come se

il tutto dipendesse dalla sua volontà.

Ciop…ciop…ciop… il caratteristico rumore degli zoccoli del cavallo al

trotto, accompagnato dal cigolio caratteristico del ferro delle ruote sul

selciato, era sufficiente ad annunciare l‟arrivo di un calesse, con sopra

sempre l‟impettito proprietario che, tenendo in mano le redini, conduceva il

calesse impartendo ordini al cavallo con dei piccoli movimenti delle braccia.

“Assabinidica…”, “baciu li mani…”, “serbu sò…” si udiva mentre la gente

accennava un inchino togliendosi la “coppula” al passaggio “di lu

carruzzinu di lu…”.

Quasi sempre un piccolo movimento della mano era la risposta.

Spesso, lungo il suo cammino, si trovava dinanzi umili carretti carichi di

“diverse cose”, tirati da umili muli, spesso con qualche piaghetta, al posto

dove strofinavano le vecchie cinghie, su cui posavano immancabili

fastidiose mosche;

il nobile cavallo, avvezzo a tali scene, con agile scarto li superava e

continuava il suo nobile cammino lasciando dietro se una nuvoletta di

polvere che scompariva pian piano, man mano “lu carruzzinu”

s‟allontanava.

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Lu Zzitaggiu (Il fidanzamento)

Il matrimonio è stato sa sempre considerato una tappa fondamentale della

vita dell‟uomo che nella sua discendenza vede la continuazione di sé, della

sua famiglia e della specie umana.

A differenza di oggi, il matrimonio veniva quasi sempre organizzato dai

genitori che, con molta accuratezza, valutavano l‟altra parte; da dove

venisse, quale possibile dote potesse portare, quale aiuto poteva dare la

famiglia in caso di bisogno, al fine di garantire una certa sicurezza sociale e

tranquillità alla futura famiglia.

Nella stragrande maggioranza, la decisione era presa dai ragazzi i cui

sguardi incrociandosi mettevano in moto quel qualcosa che li spingeva a

riguardarsi, sempre più insistentemente, fino a diventare interesse e poi

amore.

Non potevano fare diversamente: potevano parlarsi solamente con lo

sguardo; le occasioni di vedersi non erano molto frequenti, dato che le

ragazze stavano quasi sempre in casa ad accudire ai bisogni della famiglia e

costantemente in compagnia della madre; qualche volta in chiesa, in

occasione di qualche festività o di qualche funerale.

Era altrettanto normale che fossero i genitori a scegliere per il proprio figlio

che, ubbidiente, acconsentiva alla scelta.

Nell‟una o nell‟altra decisione erano sempre i ragazzi, “li picciotti”, ad

essere l‟oggetto di tutto l‟interesse che vedeva impegnate due famiglie

intere.Prima di prendere contatto con la famiglia della ragazza, che poteva

dare parere sfavorevole, con conseguenze negative all‟immagine del

figliolo, veniva incaricato qualche amico confidente di prendere contatto col

padre e vedere che cosa ne pensava circa l‟eventuale unione dei due ragazzi.

Per il ruolo di confidente spesso si ricorreva al parroco, confidente e

conoscitore rispettato e riverito, in continuo contatto con le persone;

praticamente conosceva quasi tutti, specialmente quelli che frequentavano la

sua parrocchia.

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Se il tentativo andava a vuoto tutto finiva li, senza divulgare l‟accaduto; se

la famiglia della ragazza, invece, si dimostrava interessata al giovane ed alla

sua famiglia, incominciavano i preparativi per il fidanzamento ufficiale.

Generalmente, per ufficializzare un fidanzamento, si sceglieva la vigilia di

un festa importante, per avere l‟opportunità di rendere noto alla comunità

l‟accaduto.

Subito si invitavano parenti ed amici ad intervenire alla richiesta di

fidanzamento, in casa della ragazza, “la cumparizioni”; mentre ognuno degli

intervenuti portava un regalino da donare ai ragazzi, ai genitori del

giovanotto spettava l‟onere di portare un grande mazzo di rose rosse da

regalare alla ragazza e assieme ad un regalo importante, secondo le

possibilità della famiglia.

Per diverse settimane, in attesa del giorno fatidico, le due famiglie erano in

continuo fermento: “li robbi novi”, “li scarpi”, “la cammisa”, “la cravatta”,

“lu vistitu”, tutto era un preparativo, una continua ricerca. In casa della

ragazza c‟era anche il dovere di provvedere all‟intrattenimento: i dolci, il

vino, i liquori da offrire agli ospiti e, cosa importante, anche alla musica, per

permettere agli invitati e ai futuri fidanzati di ballare.

Quasi sempre i dolci si preparavano in famiglia, tutte le brave donne ne

erano capaci; il necessario per bere si comprava; alla musica si provedeva

con un fonografo posto sul tavolo cui era addetto un componente della

famiglia.

Altro problema da risolvere riguardava le sedie; siccome non si poteva

disporre di molte sedie, si provvedeva a sistemare delle tavole, quelle dei

letti, su due sedie poste alle estremità, consentendo, così, agli invitati di

avere più posti a disposizione per sedersi; se queste non bastavano si andava

dai vicini a chiedere in prestito altre sedie.

Al problema dello spazio non ci si badava affatto, “la casa capi quantu voli

lu patruni” si diceva sempre, infatti, quell‟umile casa avrebbe ospitato tutti

quelli che il padrone avesse invitato: le donne, come costume, stavano

comodamente sedute in casa mentre gli uomini erano soliti passare il tempo

sparpagliati qua e là, chi in una stanza, chi nel pianerottolo delle scale, chi

davanti alla porta a chiacchierare allegramente.

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Dopo giorni di frenetici preparativi, finalmente, arrivava il giorno stabilito.

Il ragazzo, nel suo impeccabile vestito scuro, con un grande mazzo di rose

rosse davanti, assieme ai genitori, iniziava il cammino verso la casa della

ragazza, seguito dalla sempre numerosa parentela in abito d‟occasione.

I ragazzini correvano avanti ad avvisare, con il loro allegro vocio, che la

famiglia del fidanzato stava arrivando.

Al loro passaggio le persone si affacciavano alle finestre e si congratulavano

col ragazzo che, confuso e rosso in viso, procedeva accanto ai suoi genitori.

Finalmente si imbocca la strada dove abita la ragazza, anche qui si avverte

un‟atmosfera di gaiezza e continuo fermento: chi entra, chi esce, i ragazzini

delle due fazioni fanno subito comunella incominciando correre e gridare.

Col mazzo di fiori in mano, il ragazzo entra e lo offre, sotto il vigile sguardo

dei genitori di lei, alla giovinetta il cui viso, istantaneamente, diventa

paonazzo e, con naturalezza, volge lo sguardo verso terra.

Uno scrosciare di applausi riempiva la stanza mentre tutti i presenti

porgevano le loro congratulazioni ai novelli fidanzati e, in maniera

particolare, ai genitori.

Per quella sera stavano seduti accanto, ma quasi senza toccarsi, sotto lo

sguardo attento di tutti; per quella sera e in avvenire sarebbero stati al centro

dell‟attenzione.

Tenendo in mano un vassoio di dolci un parente della ragazza, “la zzita”,

passava davanti alle persone invitandole a prenderne qualcuno: “Pigliati…

Pigliati!”; ne offriva a tutti; ogni tanto, per non dire spesso, qualche piccola

manina compariva dal nulla, catturava qualche dolcetto e fuggiva via,

velocemente, sotto lo sguardo divertito dei presenti che accompagnavano

l‟innocente gesto con frasi tipo: “ ch‟è spertu l‟addevu !”.

Alle persone che offrivano i dolcetti ne seguitavano altre che avevano in una

mano un piccolo vassoio con tanti bicchierini e nell‟altra una bottiglia di

vermut; riempivano i bicchierini man mano che si svuotavano e ne offrivano

continuamente ai presenti.

Intanto il fonografo diffondeva le note di una mazurca, spingendo i

giovanotti presenti ad invitare le ragazze a ballare; queste accettavano di

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buon grado, non prima, però, di aver chiesto con lo sguardo il permesso al

padre, che quasi sempre acconsentiva.

Spesso si vedevano dei ragazzi non facente parte della famiglia partecipare

ai festeggiamenti, approfittando dell‟occasione per invitare qualche ragazza

a ballare e riuscire a parlarci, cosa tanto difficile e rara per quel tempo;

erano quasi sempre ragazzi amici e conoscenti bene accetti ai presenti.

La festicciola in famiglia continuava fino a tarda sera, con i fidanzati,

sempre al centro dell‟attenzione, che prendevano confidenza.

Dopo l‟ufficialità del fidanzamento, il ragazzo andava ogni sera a sedersi in

casa della fidanzata; seduti vicini, sotto lo sguardo vigile dei parenti, in

particolare della mamma, trascorrevano delle serate tutte uguali; niente baci,

giusto qualcuno rubato di nascosto, qualche tocco di mani, cosette ingenue e

sincere.

La Domenica, o solo in occasione di qualche proiezione cinematografica

importante a sfondo religioso, il fidanzato prendeva l‟iniziativa di portare

tutti al cinema; si programmava l‟evento almeno tre o quattro giorni prima,

cercando di convincere il futuro suocero, sempre geloso e restio ad uscire di

casa, ostacolo insormontabile a qualche piccola licenza che i ragazzi

volevano prendersi.

Messi tutti d‟accordo, due ore prima dell‟inizio della proiezione, le due

famiglie si riunivano in casa della fidanzata; tutti in ghingheri si

incamminavano in direzione del cinema.

Come sempre accadeva che i bambini corressero avanti, fragorosamente,

seguiti dai fidanzati, fianco a fianco e non a braccetto, ai lati le rispettive

madri; in seconda fila fratelli e sorelle, divisi rigorosamente: prima le

ragazze, un poco distante i ragazzi, i due genitori a fianco, chiacchierando

allegramente, tenevano quasi indifferentemente le due famiglie sotto

controllo.

Al loro passaggio, l‟attenzione generale convergeva su di loro, osservando

curiosamente dove l‟allegra schiera di persone si dirigesse.

Andare al cinema, per il fidanzato, era un costo non indifferente, ma quel

giorno era speciale perché stava dimostrando a tutti, in particolare al futuro

suocero, che aveva la capacità di guadagnare, di spendere, di offrire, di

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essere già uomo. Andando avanti con questo senso di orgogliosa maturità, il

fidanzato cercava in tutte le occasioni di toccare e accarezzare la ragazza

che dimostrava di gradire tali iniziative; a frenare l‟audacia del ragazzo, la

voce ferma, anche se scherzosa, della suocera, che si sentiva appena quando

pronunciava: “Attia, sta‟ attentu… pianu pianu… pacenzia, pacenzia,

giovanottu…” – “lassali jiri, lassali jiri…”, faceva eco la voce della mamma

del ragazzo, “tutti fummu picciotti, tutti di ddocu passammu”.

Arrivati al cinema, “lu zzitu” si recava alla cassa ed ordinava dieci, dodici

biglietti, mentre tutti gli altri incominciavano ad entrare nella sala.

Un‟intera fila di sedie veniva occupata dalle famiglie, riunite per

l‟occasione, con l‟immancabile curiosità di chi stava a guardare.

Iniziava la proiezione… ottima e forse unica occasione per unire due

giovani tremanti mani che da tanto tempo, ansimanti, si erano cercate.

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Lu salutu (Il saluto)

Il saluto: rivolgersi a qualcuno che si incontra o da cui ci si accomiata con

parole o cenni esprimenti deferenza, ossequio, rispetto, amicizia, utilizzando

la mano, la testa, un sorriso, un inchino, togliendosi il cappello o

qualsivoglia copricapo, dicendo “buongiorno”, sventolando il fazzoletto o il

cappello.

Decine sono i modi che l‟uomo utilizza per indirizzare verso il proprio

simile un segale di cortesia, di benevolenza, di cordialità, di simpatia, di

considerazione, di stima.

Questo modo di contatto, di reciprocità, è stato, certamente, il primo

sistema, il

più naturale che l‟uomo ha utilizzato per stare in pace e senza naturali litigi

col proprio simile.

Da ragazzo ascoltavo con molta attenzione e curiosità questo modo di

indirizzare a qualcuno il proprio saluto, la propria premura; stavo a

rimuginare sul loro significato e sull‟effetto che avrebbe potuto fare sul

destinatario.

Il saluto che allettava di più il mio modo di vedere di ragazzo era

“assabbinidica”.

In questa semplice parola riuscivo a vedere tanti propositi.

“Salutammu”, “assabbinidica”, “baciu li mani”, “serbu so”, saluti che a

prima vista sembrerebbero solamente atti di sottomissine, di vassallaggio, un

segnale di arresa all‟altro senza condizioni di sorta; invece, dal mio attento

esame delle parole, accompagnate ai gesti (per il siciliano spesso i gesti sono

più eloquenti del linguaggio stesso) che in contemporanea si facevano,

indirizzati all‟altra persona, penso che lo scopo principale fosse quello di

porgere un cenno di rispetto verso chi era più anziano o rappresentava

un‟autorità costituita, una maniera facile di non inimicarsi il proprio simile e

con lui vivere in pace, a costo di pagare un prezzo nella scala della società.

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Il tutto aveva un‟origine remota, di subalternità, certamente, una

sottomissione forzata voluta dai tempi, dal potere costituito, dalle leggi

allora vigenti, dal vivere in una comunità.

Il saluto era considerato il risultato di una buona educazione impartita col

rigore e con l‟esempio.

Guai al giovane che dimenticava di salutare il nonno o lo zio; rimproveri al

ragazzo che non ossequiava il Signor Sindaco, il professionista, il possidente

datore di lavoro; richiami al ragazzo che, distratto magari dal gioco o da

altre faccende, non salutava l‟anziano vicino di casa o amico di famiglia;

l‟adulto si sentiva non degno di riverenza e, di conseguenza, si sentiva in

dovere di segnalare al padre la circostanza in cui il figlio non aveva salutato

o aveva mancato di rispetto; di seguito il genitore era tenuto a sgridare il

figlio ricordandogli di non sbagliare più, in futuro, dato che ne veniva

intaccata la buona immagine della famiglia e del padre in prima persona.

Indirizzare un saluto verso una persona era una dimostrazione di deferenza e

di stima verso il destinatario, nel contempo si dava dimostrazione di serietà,

di educazione, di disciplina, di onorabilità della famiglia di appartenenza.

Si salutava un anziano con l‟espressione “Assabbinidica”, si sentiva

rispondere “Santu” seguito da un sorriso.

Era il massimo che un giovane si potesse aspettare in risposta ; in quel

“Santu” c‟era dell‟affezione, della benevolenza mista ad una speranza di

benedizione divina; quella parolina breve ma tanto significativa, era carica

di gentilezza, di un‟effusione quasi divina che si sperava il Supremo potesse

indirizzare verso il giovane o nei riguardi di chi aveva salutato.

Arrivava molto gradevolmente alle orecchie e all‟attenzione di chi lo

riceveva, quasi a protezione, a sicura ancora di appiglio in caso di bisogno

futuro.

Da ragazzi si andava sempre a giocare in strada con gli amici; corse sfrenate

e giochi semplici che ci tenevano occupati per ore; durante quelle

scorribande non era raro incontrare per la strada il proprio insegnante che si

recava in qualche posto.

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Era una buona occasione per dimostrargli il rispetto e con questo cercare di

accattivarsi la sua benevolenza, fatto questo che avrebbe potuto avere

incidenza nella valutazione del profitto scolastico.

“Assabbinidica, professù!”

Si girava, sempre correndo, per la strada sottostante con il preciso scopo di

risalutare il maestro che certamente sarebbe passato di là.

Erano queste azioni spontanee, anche se avevano qualche innocente scopo,

che arrecavano soddisfazione a chi le attuava e piacere a chi le riceveva;

azioni intese a riconoscere la superiorità del maestro e la necessità, da parte

del ragazzo, di sentirsi protetto, data la sempre presente insicurezza quando

si trovava di fronte ad adulti.

Era il tempo in cui nelle scuole si incominciava ad insegnare ai ragazzi di

salutare con “buongiorno”, “buonasera”, “arrivederci”, “ciao”; il tempo in

cui si incominciava a far capire ai ragazzi di coltivare la libertà e la libera

scelta individuale, incominciando a sciogliere i lacci che lo legavano ad un

passato di sottomissione e di servilismo.

Non più “assabbinidica, professù” ma “buongiorno, professore”, usare con

correttezza la lingua italiana accanto al caro dialetto siciliano; il tempo in

cui i ragazzi incominciavano ad uscire fuori dal paese, ove sono stati relegati

per secoli, sottomessi totalmente alla famiglia, cogliendo il tempo dello

studio delle scienze e delle lettere che, per forza maggiore, si dovevano

frequentare in altri paesi più o meno lontani.

La novità ha sempre attirato a sé la fervida fantasia del giovane, desideroso

di capire, di rinnovarsi, di conoscere nuove figure. E‟ stato questo il periodo

dell‟avanzata di masse di ragazzi e ragazze in direzione della conoscenza e

della novità, portandoli a partorire la grande rivoluzione sociale degli anni

sessanta e settanta.

Le scuole di tutti gli ordini e gradi, le università, le strade, sono state i

naturali laboratori di un cambiamento lento ma inarrestabile, coinvolgendo

anche la nostra piccola realtà paesana, che, pur innestando sul vecchio

tronco il nuovo virgulto che veniva crescendo molto robusto, non ha

dimenticato del tutto la radice madre che l‟ha tenuta e la tiene fissata

profondamente alla sua terra.

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Oggi quel piccolo innesto è diventato adulto; il modo di portare rispetto è

cambiato; nel cenno di saluto non più riverenza e stima ma, semplicemente,

una maniera fievole di attenzione, quasi un cenno a dimostrare che “ti vitti”,

ti ho visto.

Certamente non tutto ciò che luccica è oro, così come tutte le persone non

hanno recepito questa nuova maniera di salutare allo stesso modo; tanti si

sono adattati per non rimanere indietro, tagliati fuori dalla società instabile e

mutevole; salutano alla maniera dei giovani con indifferenza ed un certo

distacco, uniformandosi alle esigenze quotidiane.

Sono certo, però, che appena hanno davanti una persona anziana da salutare

sprigionano tutto il loro istinto represso, in stato di lento sopore, con voce

forte, accompagnandosi con un lento e significativo cenno della testa,

salutano ancora: “assabbinidica,Zzì !”.

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Lu Primu d’Aprili (Il Primo di Aprile)

Portare a casa il necessario per sostentare la propria famiglia è stato da

sempre la ragione prima che ha spinto l‟uomo a cercare un onesto lavoro a

costo di tantissimi sacrifici.

La ricerca spasmodica di un‟occupazione, di un onesto guadagno, occupava

la maggior parte dei pensieri giornalieri di un buon padre di famiglia; il

lavoro occupava almeno dieci ore della sua giornata, spesso con sforzi e

sacrifici non indifferenti, che lo costringevano, una volta ritornato a casa la

sera, ad essere tanto stanco da avere un atteggiamento serio, silenzioso,

burbero.

I momenti di innocente spensieratezza e di allegria erano pochi, ma quei

pochi erano sinceri e genuini, come la propria indole.

Oltre i giorni dedicati alle feste comandate in cui si trovava un poco di

riposo, di spensieratezza, assieme alla famiglia, un giorno particolare era

dedicato, per tradizione, allo scherzo, al prendere in giro il prossimo, al

passatempo genuino: era il giorno del 1° di Aprile.

Questo giorno era dedicato agli scherzi, a far credere agli altri quello che

non era, a prendere in giro gli amici, i parenti, i conoscenti; spesso si

preparava qualche giorno prima con molta cura ed attenzione.

I più grandi avvisavano i più piccoli di stare attenti a non cadere nella rete di

qualche buontempone sempre pronto e preparato ad imbrogliare gli ingenui.

Sovente erano i più anziani, quelli a cui si portava rispetto e reverenza, a

preparare qualche serio e credibile scherzo “pì vinniri lu pisci d‟Aprili a li

babbi!”.

Seduto davanti la propria porta con una grossa e vistosa benda bianca

arrotolata ad un piede, “lu Zzi Ciccu” stava lì a far riposare il povero piede

ammalato; serio, col viso un po‟ sofferente, teneva il piede malconcio

poggiato su un‟altra sedia sistemata davanti a lui ed in maniera che il piede

sofferente potesse stare in posizione comoda, ma principalmente in bella

vista.

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Benestante proprietario, sempre disponibile a venire incontro agli altri,

ossequiato e rispettato, se ne stava lì seduto intento a pulire la sua vecchia e

“arraddamata” pipa, a cui era tanto affezionato e di cui non si separava mai;

con la punta di un coltello a serramanico cercava di scrostare il fornelletto

dell‟amata pipa lasciando cadere a terra piccoli pezzetti di cenere nera e di

sgradevole odore.

Quella operazione sembrava non finisse mai come la sua pazienza e la

grande attenzione che ci metteva.

Era lì comodo in attesa che qualche allocco abboccasse alla sua trappola; lui

sapeva che prima o dopo tante persone sarebbero passate da quella strada

e…

Ormai tutti conoscevano la debolezza di lu Zzi Ciccu, dato che ogni anno

dedicava quel giorno a prendere in giro la gente.

I vicini di casa, per primi, gli si avvicinavano: “Zzi Cì, chi avi? Cci fa mali

lu pedi? Comu fu?”

Cessava per un poco di pulire la pipa, alzava gli occhi verso l‟interlocutore o

interlocutrice e, con mezzo sorriso sulle labbra: “Ah, stu pedi mi duna

fastidiu… forsi la gutta… ma quarchi cosa cc‟è…forsi …lu pisci d‟Aprili!”

“Nni mmruglià, nni mmruglià comu sempiri, lu Zzi Ciccu!” e passavano

avanti ridendo.

Di questi scherzi se ne facevano a centinaia; piccoli e grandi, quel giorno, si

dedicavano a “vinniri pisci d‟Aprili!”

Chi si legava un dito, chi metteva una benda, chi un braccio al collo, chi

zoppicava, tantissime persone onoravano quel giorno dedicato,

tradizionalmente, a vendere il pesce d‟Aprile.

Tantissimi altri, specie tra i ragazzini, il pesce lo vendevano tramite semplici

frasi:

“Lu sa a ccu vitti antura?”… “A ccu?”… “A lu pisci d‟Aprili!”; “Emunì, cci

veni cu mia?”… “ùnni?”… “Nta lu pisci d‟Aprili!”.

Frasi semplici ma sempre efficaci che costringevano l‟interlocutore a

rispondere,

con piena soddisfazione dell‟interrogante che aveva venduto il pesce

d‟Aprile.

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141 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Tanta gente, non avvezza ad uscire spesso per le strade, quel giorno, si

faceva una passeggiatina in piazza o andava a trovare amici e parenti, o

presso la bottega del calzolaio o del sarto, con lo scopo ben preciso di

“vinniri un pisci d‟Aprili”.

Sovente s‟incontrava qualcuno più preparato o più allenato e conoscitore di

tantissimi trucchi atti a ribaltare lo scopo da raggiungere; in quei casi si dava

inizio ad un colloquio che sembrava non avesse fine, fino a che uno dei due

non si tradiva ricevendo in risposta la solita frase: “Lu pisci d‟Aprili!”

Ma non soltanto con frasi o atteggiamenti ingenui o senza arrecare pesanti

stati d‟animo, si vendevano gli scherzi; certe volte lo scherzo era tanto grave

da provocare liti e serie conseguenze.

“Pèeeh… acchiana a lu paisi ca tò muglieri si senti mali…” una voce amica

si sentiva aleggiare nell‟aria in direzione di qualcuno che stava lavorando

nei campi.

L‟uomo lasciava la zappa o lo strumento di lavoro e col cuore in gola si

dirigeva di corsa verso casa; ansimante e col cuore che batteva forte arrivava

a destinazione e trovava la moglie seduta comoda al tavolo intenta a

preparare la minestra per la sera.

Un lungo sospiro, una stizza, una riflessione e… “mi mmrugliaru!”

Ma non sempre finiva così; a volte si andava a cercare il tizio che aveva

chiamato e… ingiurie a non finire, quando non era lite.

Poi c‟erano gli scherzi dei ragazzi più grandicelli che ritagliato da un pezzo

di stoffa nera la figura di un pesce, la immergevano nel gesso e la

scagliavano con forza sugli abiti, per lo più sempre scuri, della gente,

recuperando la stoffa tramite un lungo filo legato al polso.

Sulla schiena del malcapitato si stampava un bel pesce bianco che attirava

l‟attenzione dei passanti provocando qualche risata e spesso la rabbia delle

persone che si trovavano un bel disegno addosso senza volerlo.

La sera, come ogni sera, i ragazzi si ritrovavano seduti su qualche gradinata,

si scambiavano le esperienze fatte durante la giornata mettendo,

orgogliosamente, al corrente gli amici di quanti pesci d‟aprile avevano

venduto, sottolineando i nomi specie se di persone in vista nel paese.

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Se si poteva, non si graziava nessuno; infatti non era raro vedere sul vestito

nero dell‟arciprete uno o due pescioni bianchi che sembrava sorridessero

come i ragazzi autori dello scherzo, che seguivano la persona fino a quando

qualcuno si avvicinava al prete e con il palmo della mano puliva il vestito.

Il primo di Aprile era anche un‟importante occasione per mandare un

messaggio d‟amore alle ragazze.

Già fin dal giorno precedente le ragazze da fidanzato stavano in attesa che

passasse il portalettere per far sì che un‟eventuale lettera potesse essere

presa da loro stesse.

La mamma vedeva e sapeva, ma faceva finta di non curarsene, intenta

com‟era ad accudire le faccende di casa.

Era tradizione che, in occasione del primo di Aprile, facendolo apparire

come scherzo d‟Aprile, l‟innamorato inviasse, tramite posta e senza

mittente, una letterina all‟innamorata, (innamorati con gli occhi o tramite

qualche parolina scambiata furtivamente in qualche occasione o per mezzo

di una comune amica, visto che non era permesso, specie alle ragazze,

essere avvicinate, tanto meno avvicinare, i ragazzi).

Stavano mattinate intere in attesa che passasse il postino; da dietro la

finestra sbirciavano furtivamente in strada, chiedevano alla vicina di casa

“Zzà Ciccì, passà la posta?” e trepidanti aspettavano fino a quando…

Non davano il tempo di bussare alla porta, già erano pronte a ricevere la

tanto attesa letterina senza mittente e in odore di “pisci d‟Aprili”.

Appartatasi, con mani nervose e con una grande ansia, apriva la letterina e…

Nel mezzo era disegnato un bel pesce tutto colorato; attorno al disegno tante

piccole e belle frasi comunicavano la trepidazione del mittente innamorato;

erano frasi semplici, senza secondi fini o doppi sensi; dichiaravano un

amore ardente o un bene infinito: “stu pisci è beddu ma no comu te, si ssì

sperta abbisa cu jè!” “jornu e notti pensu sempri a tija… e tu mi pensi a

mija?”

“la luna jè bianca lu celu jè blu, ogni notti un dormu cchiù!”

Frasi semplici, frasi belle, che facevano da cornice a quel pesce con gli

occhi spiritati; letterine che venivano lette tantissime volte durante la

giornata da sole e in compagnia delle amichette confidenti, tra risolini e

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commenti, per sparire in un attimo se nella stanza entrava la mamma o tanto

più il papà o un fratello.

Venivano conservate gelosamente e lette ogni momento di libertà; se

qualche volta, per puro caso, arrivava tra le mani della mamma era

certamente un rimprovero e qualche ceffone, ma se arrivava nelle mani del

padre… erano guai seri che terminavano spesso con punizioni, pianti e,

infine, col rivelare il nome del ragazzo innamorato.

Momenti di sana spensieratezza, tra seri problemi di bisogni e di

sopravvivenza, in una società ove i valori di solidarietà, di altruismo, di

fratellanza, di generosità, di prossimo erano la regola e non l‟eccezione.

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La ’Ngiuria (Il soprannome)

Più volte ho avuto occasione di mettere in evidenza la grande quantità di

persone che abitavano il nostro paese; quasi due migliaia di famiglie, per lo

più composte da almeno quattro persone, formavano la nostra comunità.

Tantissime venivano dai paesi viciniori, e non solo, attratti dal lavoro nelle

zolfare e dalle nostre belle ragazze che, notoriamente, prosperavano e

gareggiavano con le altre non solamente per la loro prestanza fisica ma

anche per la loro preparazione nell‟accudire la casa e la famiglia.

Si sistemavano facilmente e col tempo mettevano su famiglia scegliendo,

senza tanti ripensamenti, di far parte dell‟accogliente e sempre disponibile

collettivo ciancianese.

Molte erano le famiglie numerose che, rispettando la secolare tradizione,

mettevano ai loro figli i nomi dei padri, dei nonni, degli zii e perfino dei

fratelli, innescando una situazione tale che nella stessa famiglia si

presentavano cinque o sei persone con lo stesso nome e spesso con lo stesso

cognome; per distinguere gli uni dagli altri si ricorreva a frasi di comodo

come “Ciccu di Peppi” oppure “Peppi di Ninu” dando così, in maniera

naturale e senza malignità, inizio ai numerosi nomignoli.

Non so per certo se questa necessità di distinzione delle persone nella stessa

famiglia abbia dato origine a qualche soprannome, ma certamente può

essere stato un buon motivo.

Da necessità di distinzione a “‟ngiuria” il passo è stato breve, con intenzione

bonaria e non offensiva, la “‟ngiuria” prese piede e cominciò a circolare in

maniera tale che spesso se non si usava il soprannome non si riusciva a

capire a quale persona ci si riferisse.

Appellativo scherzoso, ironico, o anche malevolo, secondo l‟intenzione di

chi lo usava e in che maniera veniva usato, imposto ad una persona per

distinguerne o sottolinearne certe caratteristiche relative all‟aspetto fisico,

alle qualità ed alle attitudini, al luogo di nascita o di provenienza, usato tanto

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da sostituirsi, specie in certi ambienti, al vero nome e cognome di un

soggetto.

Il posto di lavoro, la piazza, il conversare amichevolmente, erano occasioni

in cui era necessario comunicare agli altri notizie e conoscenze che

implicavano il riferimento di persone e di fatti; spesso non era semplice

distinguere, nella stessa famiglia, un persona da un‟altra, allora si ricorreva

al nomignolo, breve e sicura strada che conduceva all‟individuazione della

persona voluta.

Centinaia erano i soprannomi che circolavano nella nostra collettività, forse

un migliaio, tanti scherzosi altri meno, anzi inventati apposta per colpire

l‟individuo nel suo intimo sentimento.

Molti, in verità, accettavano la “‟ngiuria” di buon grado ed erano loro stessi

nelle presentazioni ad aggiungere dopo il nome e cognome “‟ntisu…”, in

maniera tale che non potesse essere confuso con altri omonimi.

Tanti altri, invece, non sopportavano essere chiamati col nomignolo

reagendo spesso con atteggiamenti adirati e rissosi; diverse liti venivano

innescate proprio dalla pronuncia del soprannome che, a seconda della sua

origine, provocava nel soggetto rabbia e reazione spingendo il destinatario a

delle sconsiderate reazioni che sfociavano in risse, spesso serie con epilogo

litigioso, che coinvolgevano le famiglie per diverso tempo.

Ancora oggi molti di quei nomignoli sussistono; vengono usati

regolarmente, come allora, per individuare o distinguere una persona o una

famiglia, qualche volta anche per offendere o provocare qualche reazione,

ma non più con l‟intensità e l‟intenzione di allora.

Oggi tantissimi di quei soprannomi, che hanno visto la loro origine

provenire anche da fatti che hanno dato adito a racconti e storielle spiritose,

sono scomparsi anche dal ricordo collettivo.

Tanti sono scomparsi per travolgente selezione naturale, tantissimi altri

perché il bisogno di sopravvivenza delle persone, che ha visto il naturale

sfocio nella prima e nella seconda grande emigrazione, ha costretto centinaia

di intere famiglie ad emigrare in terre lontane, ove hanno trovato lavoro e

benessere, portando con loro tanti dolori, tanti ricordi, infinite speranze e

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anche la loro “‟ngiuria”, contribuendo ad eliminare, così, dalla memoria

storica ciancianese il loro nomignolo.

“Li Giorgi”, “la Nzunza”, “li Cicuriedda”, “li Gioia”, “ li Hholli”, “Lu

Mutu”, questi alcuni nomignoli che sentivo nominare continuamente e che

ora mi ritornano alla mente; neanche la traccia per alcuni, qualche flebile

ricordo, giusto dai sessantenni, per tanti altri.

“La ngiuria”, “lu suprannomu”, “lu peccu”, aggiunti al proprio cognome per

meglio individuare la persona, quasi un rafforzativo per stabilire in maniera

sicura l‟individuo in questione tra migliaia di altri.

Alcune di queste “‟ngiurii” erano effettivamente offensive.

Qualcuno la riceveva in “eredità”, per altri derivavano da difetti fisici, tic,

mestieri, atteggiamenti, abitudini, azioni, occasioni particolari, erano

nomignoli patronimici o matronimici e si appiccicavano addosso alle

persone per sempre: “du‟ testi, tiracutedda, cularinu, lu palermitanu, lu

zoppu, lu tammurinaru, lu sceccu, l‟angilami, naschilordi, tila di casa,

mezza lira, lu dutturinu, lu pipì, piscia uglioli, lu lannaru”.

Questi epiteti col passare del tempo sono scomparsi e continuano a

scomparire, quasi non si sentisse più il bisogno di individuare una persona in

maniera certa; la gente mostra una paurosa indifferenza verso il tradizionale,

il vecchio, quasi si vergogna di tutto ciò che ha fatto parte della cultura dei

loro padri, dei loro avi, radici che hanno dato origine alla loro.

La frenetica corsa verso un flebile ed effimero benessere, verso una meta

che si allontana man mano che si fa qualche passo avanti, espelle sempre di

più le persone dai valori su cui è prosperata la nostra società; le famiglie

riducono la loro consistenza in ragione di un mero ed inconsistente

benessere che sembra arrivare ma che non arriva; si disgregano, si

allontanano tra di loro, dalla presa cementizia che le ha tenute assieme fin

dalla notte dei tempi, che le ha protette dall‟attacco dei sempre presenti

nemici, che le ha supportate nei tanti momenti del bisogno.

Questi elementi aggreganti oggi sembrano sgretolarsi, dissolversi,

portandosi con loro lo stesso concetto di solidarietà, di fratellanza, di spirito

di corpo, di famiglia.

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Questo dissolvimento trascina con sé tutto ciò che incontra, inglobando

nell‟oblio anche gli epiteti, i soprannomi, i nomignoli, “li ‟ngiurii”, ingenui,

spesso maligni insulti che hanno aiutato la gente all‟individuazione di altre

persone.

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La Cruci di Rocca (La croce di pietra)

Nella parte sud del paese sorge la chiesa di S. Antonio con annesso il grande

edificio adibito, a suo tempo, ad abitazione per i frati francescani minori.

Alla chiesa si accede tramite un grande portone centrale che gode di una

locazione ideale ed eccellente; guarda verso ovest e gode dei benefici che la

natura dona generosamente a chi ha la fortuna di sedersi un poco a guardare

verso quella direzione.

Un gradevole e benefico venticello salsedinoso arriva da dove tramonta il

sole portando con sè fragranti odori che le decine di colture spontanee

spandono nell‟aria delle grandi estensioni di terre che finiscono presso le

spiagge del mare africano.

Voci, diverse e di diverso tono, aleggiano nell‟aria quasi a salutare e

ringraziare il giorno che lentamente, molto lentamente ma inesorabilmente,

cerca di strappare alle tenebre incipienti ancora qualche attimo di luce.

Lo guardo si allieta di sinuose colline di vari colori e forme che stimolano la

fantasia ad immaginare scenari misteriosi di altri tempi.

Le finestre, delle spartane celle dei frati, collocate nella parte superiore

dell‟edificio, sembrano dialogare quotidianamente col maestoso ed

incontaminato panorama antistante, depositari di segreti, di pene, di gioie,

che la povera gente dei campi affronta giornalmente durante la dura giornata

di lavoro.

In fondo, là, molto in fondo, quasi a miscelarsi con l‟azzurro del mare, le

purpuree tinte del tramonto partoriscono colori indescrivibili, quasi a voler

mitigare le stanchezze dell‟umanità.

Costruito per volontà della nobile famiglia Joppolo attorno al 1670, la chiesa

del Convento era una risposta al considerevole incremento della popolazione

ed alla necessità di stare a contatto con Dio, in considerazione che la Chiesa

Madre era ubicata ad una certa distanza.

Sul lato destro della chiesa del Convento, dedicata dalla nobile famiglia al

“Santo Taumaturgo Antonio Patavino”, per cui chiesa di Sant‟Antonio, è

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stata eretta una grande croce di pietra arenaria poggiata su un alto e

massiccio basamento della stessa pietra.

Maestosa, a fianco dell‟antistante spiazzale rustico di terra battuta,

testimoniava al pellegrino il luogo sacro ove, all‟occorrenza, si poteva

trovare un giaciglio per la notte ed un pezzo di pane con una scodella di

zuppa calda.

Si raccontava che sotto quella croce di “rocca” si fosse riposato Santo

Rocco, assieme al suo inseparabile cane, durante un passaggio dal nostro

paese nel suo instancabile predicare.

Tantissime altre figure e personaggi hanno trovato riposo e refrigerio

all‟ombra della “cruci di rocca”; uno per tutti “fra‟ Antuninu”, monaco

protagonista

del romanzo di Alessio Di Giovanni “Lu Saracinu”, caratteristico e

misterioso abitante del convento.

“La cruci di rocca”era lì, maestosa, a ricordare alle centinaia di contadini

che andavano e venivano dai feudi, vicini e lontani, che la vita ci è stata

donata e dobbiamo ringraziare il donante ed a Lui rivolgere il pensiero.

Era lì a protezione di chi ad essa dava e rivolgeva l‟attenzione, a chi nella

gioia e nel dolore aveva qualcosa da chiedere o da ringraziare.

Si diceva che avesse qualche particolarità nel mitigare il dolore delle

creature, in particolare degli animali, retaggio questo che veniva da quella

riposante sosta fatta dal Pellegrino e il suo fedele animale.

Nel paese quasi la metà del lavoro si svolgeva nei campi; l‟utilizzo delle

bestie nei lavori campestri era indispensabile; muli, cavalli, asini, buoi, per

trasportare, per tirare, materiali e persone, carri e pesi di qualsiasi foggia, le

bestie erano allevate e trattate con diligenza ed interesse.

Spessissimo una mula o un asino poteva essere la principale fonte di

guadagno per una famiglia, un capitale che nessuno voleva si ammalasse,

perdesse valore

o capacità lavorativa.

Centinaia gli animali da soma che venivano utilizzati in agricoltura ed a cui

si doveva provvedere a dar da mangiare.

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153 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Il fieno, la paglia, le fave, l‟orzo, quant‟altro era necessario al sostentamento

degli animali era sempre lì a portata di mano; non tutti, a volte, potevano

permettersi di dare del fieno e dell‟orzo in abbondanza, per cui appena

arrivati nei campi si era soliti “‟mpasturari” l‟animale e lasciarlo libero di

gironzolare e mangiare dell‟erba che cresceva spontanea.

L‟animale lo faceva di buon grado; approfittava della falsa illusione di

libertà per strofinarsi per terra e liberarsi dei parassiti che, specie nel periodo

estivo, lo infestavano.

Si riempiva la pancia d‟erba, non curandosi che fra le varie specie che

crescevano in natura ci potesse essere qualche piantina non adatta alla sua

digestione.

Il proprietario stava attento a che tra l‟erba buona non ci fosse qualche

pianta cattiva… ma ogni tanto capitava.

Normalmente e per istinto la bestia conosceva l‟erba da non mangiare ma

capitava che qualche boccone andasse a finire nel suo capiente stomaco.

Nel giro di pochi minuti i risultati si mettevano in evidenza; l‟animale si

sdraiava per terra e incominciava a lamentarsi.

Difficile a descriversi e altrettanto a immaginarsi, se non si è stati testimoni,

il lamento che emetteva l‟animale: pietoso, straziante, penetrante, gli occhi

sbarrati guardavano gli astanti quasi a chiedere aiuto; si rotolava su se stesso

come volesse rimuovere dallo stomaco quel dolore che lo martoriava.

Il proprietario, spesso assistito dalla moglie e dai figli, gli stava a fianco e

metteva panni inzuppati di acqua calda sullo stomaco per accelerare la

digestione; i ragazzi accarezzavano il muscoloso collo dell‟animale e lo

toccavano sulle cosce; l‟animale pareva capire tutte quelle attenzioni e se ne

stava sdraiato per terra fiducioso che il suo padrone avrebbe fatto certamente

qualcosa per aiutarlo a superare quei momenti dolorosi.

Il veterinario, chiamato a costo di considerevoli sforzi finanziari, faceva

quello che poteva ma “oramà lu malu era „n circulu” e doveva passare col

tempo.

Dopo ventiquattro ore di penosa assistenza il proprietario decideva che

solamente una cosa avrebbe potuto arrecare benessere a tranquillità al suo

amato animale: “la Cruci di rocca!”.

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154 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Non senza sforzi, con grande pazienza e parole suadenti il padrone

preoccupato cercava di fare alzare da terra l‟animale che se ne stava sdraiato

come se quella posizione alleviasse un poco gli atroci dolori che lo

attanagliavano.

“Dai, bedda mia, susiti ca ti portu unni ti passa ssu duluri… susiti… fa un

sforzu... accussì, brava, accussì…!” mentre il proprietario persuadeva la

povera bestia ad alzarsi, tirandola per le briglie, questa, quasi a capire che il

padrone voleva aiutarla ed era nel suo interesse alzarsi, con le gambe

tremolanti e malferme, molto lentamente, si alzava.

“Si susì…si susì…!”, in coro i bimbi, accarezzando sempre il collo

dell‟animale che sembrava accettare di buon grado tutte quelle carezze e

attenzioni, “si susì!!!”.

Malferma sulle possenti gambe e preceduta dal suo amato padrone, che la

tirava con le briglie in mano, la bestia usciva dalla stalla e, insieme,

s‟incamminavano in direzione di “lu Cummentu”.

Scrupolosamente da soli, senza dare spettacolo e con grande umiltà, animale

e padrone andavano; ogni tanto la mano dell‟uomo accarezzava l‟animale

quasi a volerlo rassicurare che di lì a poco qualcosa di bello avrebbe dato

sollievo all‟animale.

Gli parlava sottovoce con tono familiare e lusinghevole, il tutto

accompagnato da qualche pacca sul collo che la bestia pareva accettare di

buon grado.

Lungo la strada non parlava con nessuno; anche se incontrava qualche

conoscente, gli occhi dell‟uomo erano rivolti verso terra ed il suo

atteggiamento mite lo escludeva dalla società; esistevano solamente “lu so

armaleddu e…la Cruci di Rocca”.

Certamente nel suo andare qualcuno conosceva l‟amico che tirava le redini

dell‟animale, ma non lo disturbava, si sapeva in paese, specie tra i contadini,

che quella persona era alle prese con una disgrazia di avvelenamento che

aveva colpito il suo animale.

Ecco finalmente apparire l‟oggetto di tanta fiducia, di tanta speranza.

L‟uomo precedeva la bestia guidandola attorno alla croce a formare un

cerchio perfetto; per ben tre volte si percorrevano quegli immaginari cerchi

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concentrici in senso orario, con al centro la croce; altre tre volte si

percorrevano in senso inverso, antiorario; durante questo rito si recitava

qualche preghiera di devozione al Santo pellegrino che tanto tempo prima,

all‟ombra di quella sacra croce, si era liberato dei suoi affanni e si era

concesso un poco di tranquillità e di riposo.

Tanta gente, passando, vedeva quello che stava accadendo, ma nessuno

disturbava, nessuno s‟intrometteva, anzi chi sapeva e conosceva iniziava a

recitare una preghiera.

Piano piano, lentamente si concludeva il rito, come la secolare tradizione

voleva.

Certamente l‟ansia del proprietario era al massimo; lo sguardo fisso

sull‟animale sofferente, aspettava con trepidazione il responso della sua

azione:

“fici tuttu ghiustu? mi scurdavu quarchi cosa?”

Mentre questi interrogativi si affacciavano nella sua mente, precedendo

l‟animale lamentoso, si avviava verso casa con le orecchie piene

dell‟incessante lamento del quadrupede.

Approfittavano quasi tutti di quella uscita per permettere alla bestia, chiusa

in casa da qualche giorno e sofferente, di fare una bella passeggiata e

sgranchirsi un poco.

Il tempo passava e la mente dell‟uomo cominciava a pensare al altro, mentre

tirando la cavezza conduceva l‟animale nella stalla; aveva quasi del tutto

distolto l‟attenzione dall‟animale, il suo orecchio non percepiva più quei

lamenti, dato che la sua mente ara intenta a pensare ad altro.

Il lamento della sofferenza non arrivava più alle sue orecchie; fermatosi

guarda l‟animale in viso, accarezza le enormi mascelle quasi a domandare

“comu

ti senti?”

Gli occhi enormi e scuri dell‟animale luccicano, lo sguardo verso il padrone,

non da più segni di sofferenza, ma per chi sapeva leggere in quello sguardo

di “armali” c‟era solo riconoscenza, gratitudine.

L‟animale non soffriva più, il dolere era svanito!

Cosa era avvenuto in quelle due orette di tempo?

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156 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Non ci è dato sapere; solamente si può affermare che qualcosa era accaduto,

qualcosa di straordinario che aveva portato tranquillità e distensione alla

bestia e all‟uomo.

Quello che era accaduto non era un caso a sé stante; era quasi una regola che

doveva rispettarsi in tutte le sue parti, con umiltà e devozione.

Da secoli conosciuta dai contadini ed usata con molta oculatezza; non si

poteva approfittare e ricorrere ad ogni piccolo malessere di pancia, ma di

essa si doveva servire solo nei casi estremi e con coscienza.

Neanche i ragazzi, nei loro chiassosi e spensierati giochi, si permettevano di

imitare gli adulti in quella cerimonia, anzi erano riverenti e rispettosi verso

quel monumento che alla luce di quegli occhi innocenti aveva qualcosa di

misterioso.

Molti quel mistero non lo ricordano più, i ragazzi neanche a parlarne,

neanche sanno cos‟è “la Cruci di Rocca”.

Ma quell‟alone di mistero è lì, in piedi, su quella massiccia base di pietra

arenaria, a testimoniare un tempo in cui non solamente gli uomini ma anche

gli animali avevano i loro protettori a cui si potevano rivolgere, nei dolorosi

momenti di bisogno, con fiducia.

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159 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

San Pasquali (San Pasquale)

Negli anni della mia fanciullezza le attività atmosferiche erano più presenti

di oggi; le stagioni si presentavano puntuali portando le variazioni di

temperatura a cui eravamo abituati da secoli.

Ad Ottobre si cominciava a preparare il vestiario per l‟inverno, le mamme lo

tiravano fuori dai cassetti e dalle cassepanche, certe che l‟inverno era dietro

le porte, pronto, come sempre, a fare la sua comparsa prepotentemente.

Si prendevano dal ripostiglio, ove si erano conservati all‟inizio della

primavera, il braciere e lo scaldino (“brasciera e tanginu”), in particolare

coloro che avevano persone anziane in casa; “pi Natali lu friddu e la fami”

si era soliti dire.

Ad Aprile si deponeva tutto ciò che era servito durante l‟inverno e si

metteva mano a ciò che era necessario durante la buona stagione.

Tutto procedeva come consuetudine, ogni stagione si presentava offrendo

quello che più o meno si aspettava.

I lavori seguivano il solito andamento, in paese come nelle campagne.

Ogni tanto, però, gli agenti atmosferici facevano i capricci; nei mesi in cui

occorreva l‟acqua il sole “famiava” in cielo, nei mesi in cui c‟era bisogno di

buon tempo pioveva in continuazione, rendendo impossibile i lavori nei

campi.

Ogni angolo coltivabile era utilizzato per la semina, niente restava vuoto,

ogni metro quadrato di terra doveva dare il proprio contributo cerealicolo o

arborifero.

L‟inverno si presentava con piogge violente e durature; tra rovesci leggeri e

pesanti, era capace di stare per due mesi a piovere inzuppando le terre,

impedendo ai contadini di andare a coltivarle.

Si aspettava che il tempo si mettesse al buono, ma fino a tutto Febbraio e

parte di Marzo piovigginava in continuazione.

Molti rischiavano la semina al bagnato, ma era un rischio che non tutti

prendevano; altri aspettavano qualche giorno di bello, anche nel mese di

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160 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Marzo, seminando un tipo di grano tenero che era molto in uso: “la

tumminia”, frumento che produceva una farina morbida e bianca, molto

adatta per fare i dolci.

Tante annate si presentavano buone per la semina; i campi erano pieni di

contadini che guidavano gli aratri tirati dai muli.

Era consuetudine che il contadino durante il lavoro intonasse qualche nenia

per confortare ed incitare l‟animale che faceva un grande sforzo; chi si

recava nei campi e percorreva i viottoli di campagna era accompagnato dalle

tante nenie e stornelli che i lavoratori intonavano.

A Febbraio la pianticella di grano era già alta; fino a quando aveva l‟umidità

delle copiose piogge cresceva e si fortificava, ma appena la terra

incominciava ad asciugare a causa del vento, allora incominciava la

preoccupazione del contadino, dato che per crescere bene il grano aveva

bisogno di acqua.

Non sempre l‟annata veniva come si voleva, capitava che qualche volta,

dopo la sfuriata invernale, il tempo mettesse il catenaccio alle cateratte e per

mesi non piovesse.

In Marzo, con la temperatura calda e la siccità persistente, già qualche spiga

faceva capolino ma era una pianticella sofferente, secca e malnutrita,

qualcosa andava storto; c‟era bisogno, assolutamente, di pioggia, ma l‟acqua

non si vedeva, anzi il sole nel cielo “cuciva l‟ova”, “‟mpirniava”; era

necessario un bell‟acquazzone.

Tra impazienza e qualche bestemmia, si aspettava qualche settimana, ma

nulla da fare, nessun segno di pioggia, tutto fermo.

In piazza e per le strade non si parlava d‟altro: se non arriva l‟acqua presto,

se non piove subito, tutto il raccolto va in malora, si secca e diventa erba, si

perde il sacrificio di una stagione di lavoro.

Una stagione di lavoro rappresentava per tante famiglie, che vivevano di

agricoltura solamente, la vita, il sostentamento per tutti, l‟unico mezzo che

avrebbe aiutato a pagare i debiti contratti durante l‟anno; era il pane per i

figli, la sicurezza del domani.

Della persistente siccità si parlava continuamente: “chi cci fici a ssu Cristu

pi castigarimi di ssa manera?” era l‟esclamazione sulla degli agricoltori

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frastornati; nelle chiese si pregava con fede e devozione, si chiedeva “la

grazia” della pioggia al più presto, prima che tutto andasse in rovina.

Le chiese erano ogni giorno piene di fedeli, il clero teneva un atteggiamento

di seria prudenza, senza però smettere di stare vicino alla popolazione che

ormai stava perdendo tutte le speranze; alla disperazione restava una

speranza solamente, alla quale nessuno avrebbe voluto ricorrere,

conoscendo bene l‟opposizione del clero a ricorrere a quel tipo di

manifestazione.

Prima una sola voce titubante, poi due, coinvolgendo tutti i presenti,

in chiesa si udiva una sola roboante voce: “San Pasquali, sulu iddu cci po‟

aiutari…iddu nni po‟ fari la grazia…San Pasquali!”.

Santo non tanto conosciuto viene onorato il 17 Maggio; vuole la tradizione

che sia il protettore dei portinai, dato per certo che faceva sempre il

portinaio nel convento ove viveva da monaco.

Il perché a Cianciana veniva venerato quale protettore delle piogge difficili,

non ci è dato sapere, ma nei casi di assoluta necessità, come sopra

accennato, si ricorreva con fiducia al Santo, certi che avrebbe accolto le

preghiere a Lui rivolte.

Un‟immagine del Santo trova tutt‟ora collocazione nella chiesa di S.

Antonino (l‟ex convento francescano).

Dunque a furor di popolo il clero doveva abbassare la testa e preparare i riti

religiosi che preludono alla processione dedicata a San Pasquale.

La voce incominciava a diffondersi per il paese, in piazza, nelle botteghe,

nei posti di ritrovo, nei quartieri, si parlava solamente della decisione della

Chiesa di ricorrere al miracoloso San Pasquale per avere la pioggia al più

presto possibile.

I preparativi erano fatti immediatamente, senza perdere tempo perché non

c‟era tempo perdere.

Deciso il giorno e l‟orario della manifestazione processionale, veniva aperta

la chiesa del convento (a quel tempo sempre chiusa, veniva aperta solamente

per qualche ricorrenza religiosa, quale San Giuseppe), il cui pavimento

veniva spazzato e lavato per l‟occasione solenne.

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Già due o tre ore prima dell‟orario stabilito, tante donne, rigorosamente

vestite di nero, incominciavano a recarsi in chiesa a pregare.

La statua di San Pasquale veniva presa, dal suo solito posto, da alcuni

uomini e sistemata su un piedistallo adatto al trasporto dei santi, “la vara”.

Tutto attorno venivano collocati dei fiori e qualche nastrino colorato ad

abbellire lo scarno piedistallo e far onore all‟immagine.

Pian piano la chiesa si riempiva; la gente arrivava da tutte le direzioni,

l‟ampio spiazzale antistante la chiesa del Convento si colmava di persone,

uomini, donne, giovani, anziani, tantissimi vocianti e allegri bambini; quasi

tutto il paese era lì, in attesa che iniziasse la umile processione che doveva

girare per le strade del paese.

La sfilata religiosa cominciava a muoversi, sotto lo sguardo attento dei

carabinieri in uniforme e di qualche guardia comunale.

Dalla chiesa usciva il prete con indosso i paramenti adatti per l‟occasione;

era preceduto da tanti chierichetti, uno dei quali portava la croce.

Le confraternite con i labari e le loro tuniche colorate sistemate ai due lati

aprivano la processione.

Sul piazzale calava un grande silenzio in attesa che uscisse “lu Santu”;

tutti gli occhi erano puntati verso il portone della chiesa… eccolo!

Cominciava a delinearsi la figura del Santo, la gente pregava in silenzio.

Appena la statua usciva dal portone, sorretta da decine di lavoratori della

terra che facevano a gara, offrendo fave, frumento, ceci, per avere l‟onore di

portare a spalla quell‟immagine, nel silenzio assoluto, rotto solamente da

grida dei ragazzini, una forte voce si levava possente dalla folla antistante:

“Viva viva San Pasquali…San Pasquali chiui l‟occhi pi viniri l‟acqua

forti…forti Signuri ca l‟acqua ci voli!”

A questo punto tutta la popolazione rispondeva: “…forti Signuri ca l‟acqua

ci voli!”.

La lunga processione inizia il suo cammino con devozione e umiltà; il

Sindaco, la giunta municipale, qualche importante personaggio, stavano

dietro il simulacro; centinaia i rosari che pendevano dalle mani delle

persone, uomini e donne.

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Ogni tanto si innalzava qualche canto religioso che coinvolgeva tantissime

persone, delle quali diverse non ne erano a conoscenza, dato che non

frequentavano sovente la chiesa, pur tuttavia “parpaddiavanu li labbra”

perché non volevano restare isolati ed oggetto di sguardi critici.

“Viva viva San Pasquali…San Pasquali chiui l‟occhi pi mannari l‟acqua

forti…” spesso qualche voce si levava forte dalla popolazione orante; “forti

Signuri ca l‟acqua ci voli…” rispondevano in coro i numerosissimi fedeli

che seguivano la processione.

Non era raro vedere tra la folla gente che piangeva, che rivolgeva gli occhi

al cielo e nel loro decoroso silenzio chiedere la grazia tanto sperata.

“Viva, viva San Pasquali… ca la grazia nni fa”.

Il popolo non si stancava di pregare; “cu prigava a vuci aita, cu

parpaddiava li labbra, cu a menti”, ma tutti pregavano, nella speranza che

finalmente arrivasse la tanto desiderata acqua.

“Viva, viva San Pasquali…!”

La processione girava i quartieri del paese coinvolgendo nella preghiera

anche coloro che non potevano uscire di casa, ma che con la loro preghiera

potevano far sentire, ancora più forte, la supplica a San Pasquali.

Il tutto finiva la sera col buio; la processione veniva sciolta, dal prete, nella

chiesa del Convento; a conclusione del rito propiziatorio il simulacro di San

Pasquali veniva rimesso al suo solito posto.

La gente ritornava a casa; molti, a capannelli, si fermavano per le strade,

erano tutti uomini, le donne andavano subito a casa, discutendo e parlando

su ciò che avrebbe fatto San Pasquali.

Da fanciullo ho partecipato a due processioni, a distanza di anni

una dall‟altra.

Della prima ho vaghi ricordi, ero tra quei chiassosi ragazzi che si

rincorrevano e tutto facevano tranne che pregare per la pioggia; della

seconda ho molto chiari tutti gli avvenimenti, dato che vi partecipavo come

facente parte dell‟Azione Cattolica ed avevo un posto vicino alla statua ed al

prete.

“Comu finì? San Pasquali ‟ntisi la supplica o in quel momento era

distratto?”

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Posso solamente dire che l‟indomani il cielo cominciò a presentare delle

nubi di color plumbeo; il giorno dopo incominciarono a cadere delle

goccioline che pian piano si trasformarono in temporale.

“Viva, viva San Pasquali!!!”.

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Li scarpi e lu cirottu (Le scarpe e il lucido)

Quasi tutti avevano un paio di scarpe da calzare, assieme al vestito nuovo,

nei giorni di festa; scarpe più o meno nuove, forse appartenute al fratello

maggiore o che erano state adoperate da qualche altro componente della

famiglia, ma tutti l‟avevano e ne facevano bella mostra nei giorni importanti

in cui era d‟obbligo presentarsi ben vestiti.

Le calzature in uso erano di diverso tipo; c‟erano “li stivala”, “li scarpuna”,

“li tappini”, “li sannali”, “li pulacchini”, per uomo e per donna, per il lavoro

e per il passeggio, per i lavori pesanti e per i lavori leggeri, per adulti e per

ragazzi.

Tutte le calzature avevano lo scopo di permettere una buona funzione del

piede senza arrecargli danno o dolore, conservando al massimo la sua

integrità e la sua funzionalità.

Tanti ragazzi, nei giochi quotidiani, preferivano stare scalzi, correvano e

giocavano, come tutti gli altri provvisti di scarpe, avevano la pianta del

piede avvezza al contatto col terreno, addirittura erano capaci di camminare

sui ciottoli e sul brecciame, tanto presenti nelle nostre strade, senza nessuna

difficoltà o sofferenza.

Perfino qualche operaio preferiva lavorare a piedi nudi pur di non sentirsi i

piedi “mprigiunati” in un paio di scarponi che gli davano dolore e difficoltà

di movimento.

Per ogni occasione si usava un paio di calzature; “li stivala” quando si

cavalcava o quando si facevano delle passeggiate distensive con il preciso

scopo di mettere in evidenza il rango di appartenenza e la possibilità di

permettersi una elegante calzatura, opera d‟arte di un bravo calzolaio.

Eleganti e lucidissimi, gli stivali, evidenziavano un certo portamento ed uno

status di appartenenza.

Si portavano con orgoglio ed erano tenuti in ordine e pronti all‟occorrenza.

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C‟erano pure gli stivali da lavoro, di gomma, che emanavano un cattivo

odore; erano utilizzati per lavori nel fango e nell‟acqua, non erano tanto

bene accetti, ma molto utili in determinate circostanze.

“Li stivaletti”, o “polacchini”, erano calzature a gambale, allacciate

lateralmente o di fronte, adatte alle donne; venivano calzate nei giorni di

festa o nelle passeggiate distensive; elegantissime, rendevano raffinato e

leggero il procedere della signora che le indossava, stimolando, spesso, un

pizzico d‟invidia in quelle che guardavano.

Nel periodo estivo le signore calzavano scarpe prettamente femminili,

leggere, funzionali, eleganti: “li scarpi scartucciati, cu lu taccu vasciu o ajtu

e la tranta darreni”.

Le tenevano conservate dentro la scatola e le mettevano solamente nelle

occasioni che richiedevano eleganza; giornalmente, per le attività

domestiche, si usavano scarpe vecchie e senza tacco, spesso sandali, specie

nelle stagioni calde.

Questo tipo di calzature, “li sannali”, erano molto utilizzate per i ragazzi;

composte da una suola di spesso cuoio, presentavano due strisce nella parte

superiore a protezione del piede, una leggera bretella passava da dietro il

tallone, non permettendo, così, la fuoriuscita della calzatura.

Era usata indifferentemente per le femminucce e per i maschietti, per i

piccoli e per gli adulti.

Altre calzature, utilizzate dai ricchi e dai poveri, erano “li scarpuna”, grosse

e robuste scarpe adatte al lavoro.

Se ne utilizzavano di pesanti e di leggere, secondo il tipo di lavoro e il luogo

ove veniva eseguito.

I professionisti, come i geometri e gli ingegneri, che andavano a fare dei

sopralluoghi nelle campagne, i medici che d‟inverno facevano visite

domiciliari, calpestando in continuazione il fango e gli acquitrini di cui

erano costellate tutte le strade del paese, i benestanti proprietari terrieri,

adoperavano eleganti, leggeri, morbidi scarponcini confezionati

appositamente e con cura.

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Erano realizzate scrupolosamente di resistente cuoio, lavorate a mano, con

la suola ricoperta di chiodi dalla testa larga (“tacci”) capaci di proteggere il

cuoio della suola e di farla durare più a lungo possibile.

Le due estremità, tacco e punta, erano ricoperte da lamine di ferro,

elegantemente adattate, per impedire il più possibile il consumarsi delle

suole.

Normalmente di colore marrone chiaro, il colore del cuoio, ce n‟erano anche

di colore nero; venivano tenute in buono stato trattandole con grasso di

animale, pecora, che le teneva pulite e nel contempo nutriva la pelle

evitandone le screpolature; emanavano un nauseabondo odore, ma dopo

poco la narice si abituava.

Erano le scarpe per eccellenza, venivano trattate con attenzione e curate con

diligenza; fino a che erano nuove o in buone condizioni, ben lucidate,

venivano adoperate anche nei giorni di festa.

Nessuno ci faceva caso, anzi erano spesso oggetto di attenzione e di

commenti data la perfezione e l‟eleganza con cui erano state lavorate.

Con quegli scarponi ai piedi, tanti bravi operai salivano e scendevano

comodamente dalle scale a pioli, portando sopra le spalle pesi non

indifferenti; trascorrevano giornate, settimane di lavoro, senza avere

difficoltà, a parte qualche vescichetta.

A differenza dei grossi e pesanti scarponi, “li tappini” erano scarpe leggere,

eleganti, adatte ai giorni di festa e le occasioni importanti; sempre

confezionate con vero cuoio, per la loro manifattura si preferiva alla pelle di

bue, più dura e resistente, la pelle di vitella, animale più giovane e dalla

pelle più morbida.

Tutte queste calzature venivano confezionate dai nostri bravi calzolai ma

potevano essere comperate, quasi tutte, presso le botteghe di scarpe ; “quasi”

perché “li scarpuna” - che dovevano durare tanti anni, che dovevano

proteggere i piedi nei lavori pesanti ed in luoghi malagevoli, quelli “cu li

tacci sutta e li puntetti di ferru” - quelli non si trovavano nelle botteghe,

potevano essere confezionati solamente dai nostri bravi artigiani.

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Tutte queste calzature, che facevano parte della nostra vita quotidiana e ci

aiutavano a tenere asciutti e comodi i nostri piedi, avevano una cosa in

comune: dovevano tenersi pulite.

Per la loro pulizia si adoperava “lu cirottu”, nero o marrone, a seconda del

colore della pelle; ce n‟era anche uno bianco, incolore, che veniva utilizzato

raramente dato che non dava colore alle scarpe ma solamente lucentezza.

Questo prodotto, il lucido, si comprava nelle tantissime botteghe sparse per

tutto il paese; aveva un piccolo costo per cui tante le famiglie lo

adoperavano solitamente per le calzature buone, da mettere nei giorni di

festa.

Le scarpe da lavoro e quelle giornaliere, “li scarpi urdinarii”, venivano

trattate in maniera tradizionale, come prima di loro avevano fatto i loro padri

ed i padri dei loro padri: “cu lu funnu di la pignata”.

Oggi è facile cucinare i cibi, basta pigiare un pulsante e la fiamma è pronta a

cuocere ciò che si preferisce.

Prima degli anni cinquanta questa operazione era impensabile; per cucinare

un piatto di minestra ogni famiglia, senza differenza di ceto, doveva

utilizzare il fuoco prodotto dalla legna che veniva acceso in una cucina in

muratura sistemata in un angolo della stanza.

Accendere il fuoco era un‟operazione che faceva parte della quotidianità ,

come il fumo che si generava dalla legna che vampeggiava.

Anche allora, come oggi, si adoperavano le pentole e le padelle, certamente

più umili e di materiale più modesto e venivano poste direttamente sopra la

fiamma. Tanta della fuliggine prodotta dalla legna bruciata andava via dal

fumaiolo ma tanta altra si depositava nei fondi delle pentole e delle padelle

fino a formare un deposito nero che, nonostante il raschiare delle donne di

casa, restava a farne parte.

Quella “buona” fuliggine depositata sul fondo delle padelle non veniva

sciupata, anzi, veniva adoperata egregiamente proprio per dare colore alle

calzature.

Sistemando la padella col fondo in bella vista, sedutasi comodamente con un

ampio “fajdali”, grembiule, sulle ginocchia, con una spazzola nella mano

destra e lo scarpone nella sinistra, mia nonna iniziava l‟operazione pulizia e

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colorazione di li scarpuna: “ppuuh… ppuuh…”, due chiazze di saliva si

depositavano sul fondo della padella, o della pentola, e con fare esperto

faceva girare la spazzola su quel fondo nero.

Le setole s‟imbrattavano di nero fuligginoso che, tenuto assieme dal sale

della saliva, veniva cosparso sulla pelle degli scarponi in modo compatto;

questa operazione veniva ripetuta fino a quando tutte le scarpe da pulire non

erano terminate.

Dopo averle fatte “arripusari” un poco passava alla lucidatura.

Con mano ferma e con tanta agilità faceva scivolare la spazzola sulla pelle

che, pian piano, diventava lisca e lucida, trasformando quegli scarponi pieni

di terriccio e polvere in belle ed eleganti calzature che accompagnavano il

nonno nelle sue brevi passeggiate nella piazzetta davanti la chiesa.

Quell‟operazione, che la nonna faceva all‟occorrenza, era un sistema

consolidato nel tempo, praticato in tutte le famiglie e dava un risultato che

certamente non era il massimo ma permetteva di andare con le scarpe pulite.

Poi, con l‟arrivo del gas per cucinare, le antiche cucine a legna, che ci

avevano fatto compagnia da sempre, pian piano andarono scomparendo,

cedendo definitivamente il posto alle moderne cucine “all‟americana”.

Il lucido per scarpe sostituì egregiamente e definitivamente la vecchia

fuliggine lasciando nei nostri ricordi quei familiari rumorini che la nonna

ogni tanto provocava: “ppuuh…ppuuh…!”

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L’Arrotino (L‟affilatore di lame)

Gli utensili per la casa hanno avuto, come adesso, una non secondaria

importanza nella vita quotidiana delle persone.

Nessuno oggi si metterebbe seduto a tavola per il pranzo senza una

forchetta, un cucchiaio, un coltello e, a seconda del tipo di pranzo, di questa

suppellettile, ce ne potrebbero essere quattro e più, per ogni persona.

Tutto ciò che taglia, o si può adattare a tale scopo, ha avuto, da sempre, una

importante collocazione della scala dei valori della vita dell‟uomo, in quanto

lo aiuta a tranciare, spezzettare, triturare, materiali che altrimenti non

sarebbe possibile frazionare facilmente.

Indispensabili nella vita familiare, essenziali in vari campi di lavoro,

insostituibili in certe attività artigianali, questi arnesi sono stati da sempre

tenuti gelosamente, utilizzati con attenzione e cautela.

Strumenti indispensabili per il lavoro dei macellai, i coltelli vengono usati in

diverse misure e forme, piccoli, grandi, larghi, stretti, pesanti, leggeri, tutti

con una caratteristica in comune: sempre affilatissimi.

Forbici per le decine di sarti che operavano in paese, trincetti per tantissimi

calzolai, accette per la grandissima quantità di legna che veniva utilizzata

nelle famiglie per cucinare e riscaldarsi, strumenti da taglio che si

utilizzavano in agricoltura, rasoi e forbici utilizzati dai tanti barbieri che

lavoravano in paese, centinaia erano gli arnesi indispensabili per i bisogni

giornalieri.

In quel periodo quasi tutti gli uomini portavano un coltello in tasca per

tagliare il pane, pulire la frutta, raccogliere qualche cespo di verdura.

Il grande desiderio di quasi tutti i maschietti era quello di possedere un

coltello a serramanico, piccolo ma tagliente, tanto che molti ragazzi,

orgogliosamente, passavano del tempo ad affilarlo sulle rocce ruvide, per

tenerne sempre attivo il taglio.

La quasi totalità delle famiglie possedeva, per l‟andamento della vita

quotidiana in casa, uno o due coltelli per la cucina, una sola forbice per il

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lavoro di rammendo o cucito, qualche altro oggetto atto a segare o spaccare

la legna.

Non era consentito a nessuno perdere o rompere tali oggetti; erano

indispensabili e non sempre si disponeva di denari per comprarne di nuovi.

Col tanto lavorare arrivava che la lama non era più affilata come era

necessario; moltissimi non erano nelle condizioni di affilarli da sé, non ne

erano capaci e, poi, non avevano la mola adatta per lo scopo.

Allora si aspettava, utilizzandoli al meglio, spesso sfregandoli con altra lama

per affilare un poco il taglio, ma tale operazione dava risultati molto

scadenti e poco duraturi; allora si mettevano da parte in attesa che passasse

l‟arrotino.

Questo tipo di lavoratore a domicilio non era sempre disponibile, nel paese

nessuno esercitava tale attività; qualche “mastru d‟ascia” possedeva la mola

rotonda a pedale adatta ad arrotare gli oggetti da taglio, ma non volendo fare

un lavoro che non era il suo e dovendo, poi, chiedere dei soldi, “ci pariva

malu”, scegliendo di non mettere la mola a disposizione di altri,

utilizzandola solamente per i propri strumenti di lavoro.

Anche qualche provetto artigiano, dovendo utilizzare gli strumenti da taglio

in opere che richiedevano tanta precisione, pur avendo la mola adatta allo

scopo, preferiva aspettare l‟arrotino, pratico ed esperto nell‟affilare

strumenti di precisione.

Il massimo che allora si poteva avere per rimettere a taglio coltelli, forbici e

quant‟altro, atti a tagliare, era l‟Arrotino.

Questa figura di artigiano, lavoratore a domicilio, non era presente nella

nostra società; la mancanza di questo lavoratore, nella nutrita schiera di

artigiani presenti nel nostra collettività, non è spiegabile, non ci è dato

sapere con precisione quale la causa di tale assenza.

Molto probabilmente, questa è una mia riflessione, non c‟era sufficiente

lavoro per dar da mangiare ad una famiglia, oppure era considerato troppo

umile per essere esercitato.

Questa carenza locale veniva colmata dalla presenza di un uomo che, una

volta al mese circa, arrivava in paese, portando con sé il suo strumento di

lavoro: una piccola ruota di pietra abrasiva, appunto la mola, montata su una

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forcella in una bicicletta modificata; veniva fatta girare da una catena di

trasmissione messa in movimento dai pedali della bicicletta, che l‟uomo

faceva girare, standosene comodamente seduto sulla sella.

Di mole ne aveva più di una, di diverse dimensioni e capacità abrasive,

adatte alla grandezza del tipo di attrezzo da affilare.

In realtà il suo strumento di lavoro, la mola, era sistemato proprio su una

bicicletta di media grandezza, appositamente adattata alle sue esigenze.

Al posto della ruota posteriore c‟era un piedistallo triangolare di ferro che

teneva la ruota alzata rispetto al suolo, lasciando così la ruota libera di girare

a vuoto; questa posizione evitava qualsiasi movimento alla bici e sorreggeva

l‟uomo che, standosene seduto comodamente sul seggiolino, pedalava in

continuazione.

Faceva girare una catena collegata all‟asse della forcella anteriore

trasmettendo, così, all‟asse, sistemato al centro della mola, il modo di girare,

secondo la necessità dell‟artigiano.

Lui se ne stava seduto avendo, così, proprio davanti, all‟altezza del suo

petto, quella ruota che girava in continuazione, consentendogli di lavorare

comodamente e senza intoppi.

Sorretta da un lungo legno, sistemata nella parte posteriore della ruota, una

lattina bucata lasciava cadere una goccia d‟acqua sulla ruota, in modo che la

lama, sfregata dal continuo abradere, non si arroventasse.

Girava per le strade spingendo il suo umile attrezzo, stando attento a dove

metteva i piedi, “vanniannu”: “l‟arrotinu… ammola forbici e cortelli…

passa l‟arrotinu… cu av‟ammulari forbici e cortelli”.

A fianco della sua piccola bici, con la destra sorreggeva la parte posteriore

spingendola, con la sinistra teneva la direzione voluta, cercando di evitare

che la piccola ruota andasse sopra qualche pietra o finisse dentro qualche

fosso, entrambi molto presenti nelle nostre strade.

“L‟arrotinu… cu av‟ammulari forbici, cortelli, accetti, fesi, forbici pi putari

e p‟arraccamari… l‟arrotino!”

Girava sistematicamente tutte le strade del paese stando molto attento se

qualche voce che lo chiamasse.

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Se un giorno non bastava per completare il suo giro, continuava anche il

giorno dopo, con pazienza; persona umile e servizievole con i clienti, si

arrabbiava quando qualcuno disprezzava il suo lavoro oppure quando i

ragazzi gli giocavano attorno, col pericolo di farlo cadere.

Stabilito il compenso prima di incominciare, lo pretendeva alla consegna del

lavoro, senza ritornarci sopra.

Nessuno, o quasi, cercava di imbrogliarlo, tanto meno lui cercava di

imbrogliare gli altri; qualche volta poteva capitare che mancasse qualche lira

al prezzo pattuito, questo sì, ma l‟artigiano era conoscitore della gente, dato

che frequentava il paese da anni e chiudeva un occhio esclamando:

“pacenzia …mi li duna doppu!”

“A vossia…a vossia …assa veni ccà!”

Ogni tanto qualcuno lo chiamava, standosene davanti all‟uscio di casa;

lui si avvicinava ed ascoltava la richiesta della persona.

“Quantu c‟haju a dari?”

Concordato il prezzo, iniziava il lavoro.

Sistemato il piedistallo posteriore in un posto comodo, sedutosi sul

seggiolino della bici, iniziava a pedalare piegandosi da una parte e dall‟altra

fino a che la ruota si metteva a girare velocemente.

Raggiunta la velocità voluta, il pedalare incominciala ad essere meno

faticoso e la pedalata era continua, andando avanti con naturalezza e senza

sforzo alcuno.

Appoggiato l‟oggetto da affilare sulla mola rotante, incominciava a

smuoverlo verso destra e verso sinistra, con tanta precisione e perizia; dalla

mola si sprigionavano centinaia di scintille, causa questa che attirava tanti

ragazzini vocianti i quali, volendo guardare, toccare, quella fulgida luce

schioppettante, si avvicinavano così tanto all‟arrotino da farlo quasi cadere.

Senza togliere lo sguardo dal suo lavoro e continuando a pedalare, come se

nulla fosse, l‟uomo a voce alta, irritato, esclamava: “arrassativi, crastuna,

arrassativi ca mi faciti cadiri, crastuna, arrassativi!”

Sovente, mentre eseguiva il lavoro, altre persone si avvicinavano con in

mano coltelli o forbici; lui, senza smettere di pedalare, guardava l‟oggetto

portatogli e, dopo avere valutato il lavoro occorrente al buon funzionamento

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dell‟oggetto, dopo avere mercanteggiato un poco, veniva definiva il prezzo,

come era costume fare.

Le centinaia di scintille riprendevano a farsi ammirare, scomparendo

nell‟aria un attimo prima di arrivare a toccare terra.

Dopo qualche tempo i ragazzi cominciavano ad andare via, lasciando che

l‟arrotino continuasse in pace la sua attività.

Terminato il lavoro, intascato il misero compenso, riprendeva il suo

cammino, annunciando a voce alta la bontà del suo lavoro ad un prezzo

accessibile a tutti.

“L‟arrotino…ammola forbici e cortelli…passa l‟arrotino…v‟ammolu

accetti, forbici di putari, fesi, …”

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Lu prepotenti (Smargiasso- Bullo- Tipaccio)

Uno dei tanti problemi che oggi si evidenziano maggiormente tra i ragazzi,

che passano molto del loro tempo a girovagare per le strade, ma anche nel

mondo della scuola e tra i più giovani, è il loro comportamento di

soverchieria, di prepotenza, di superiorità, di spavalderia, che li porta ad

atteggiamenti discostanti e di emarginazione.

Oggi, in aggiunta al comportamento naturale che è, ed è stato da sempre,

tipico dei ragazzi di una certa età, ad arricchire la fertile fantasia giovanile,

si aggiungono i temi aggressivi e violenti che gli strumenti di divulgazione

dell‟industria culturale, come cinema, televisione, fumetti e roba simile,

meglio conosciuti come mass media, offrono in ogni ora del giorno e della

notte, alla famelica attenzione dei ragazzi.

L‟aggressione, sia essa fisica che verbale, porta sempre, a chi la subisce, un

trauma che spesso non è facile rimuovere, specie se si tratta di una

aggressione fisica con conseguenze di una certa serietà.

Gli psicologi, gli studiosi del comportamento, da tempo hanno indirizzato la

loro attenzione a questi fenomeni, che col passar del tempo e con la

promiscuità delle razze, sono aumentati, in misura preoccupante e si

caratterizzano per la loro gravità.

Questo fenomeno, oggi definito “bullismo”, non è per niente una novità; è

sempre esistito, oggi con stimoli, suggerimenti, idee, sempre più moderni,

arditi, audaci, perfezionando i metodi, i mezzi, gli obiettivi.

Durante la frequenza delle scuole elementari, nei primi anni cinquanta,

erano parecchi i ragazzi che, forti della loro prestanza fisica, del carattere

prepotente, usavano violenza ai loro compagni di scuola.

Certo non avevano gli stimoli ed i “suggerimenti” che oggi i mass media

regalano ai nostri ragazzi, non cercavano di rubare i cellulari o violentare le

ragazze, si limitavano a farsi dare qualche monetina da cinque, dieci lire; era

sufficiente che dimostrassero la loro supremazia, assoggettando al loro

volere il malcapitato.

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Una volta individuata la vittima, il ragazzo docile, fragile, non violento,

facente parte di famiglia discretamente agiata, da canzonare, veniva atteso

all‟uscita della scuola.

Messolo con le spalle al muro, e condizionatolo con frasi aggressive e

violente quali “ti scassu…ti rumpu li naschi…”, lo costringevano a dare

qualche monetina oppure ad imitare il verso del cane, del gallo, dell‟asino, o

altro, umiliandolo.

Altra bravata, che si metteva spesso in atto per dimostrare la superiorità, era

quella di andare “a la scola di li fimmini”, aspettare che uscissero

dall‟edificio per poi tirare le trecce a qualche ragazzina, con conseguente

immancabile pianto da parte della malcapitata.

Tanti ragazzi se ne andavano via correndo, altri, specie gli amici del

prepotente, o coloro che vedevano in quel comportamento un‟occasione per

mettersi in mostra, stavano lì a guardare, a ridere, ad incitare l‟aggressore:

“forza! scassalu ssu misirabuli…levaci li sordi…facci vidiri cu cumanna…”

formando un cerchio attorno, quasi a nascondere ciò che stava accadendo

agli occhi degli estranei.

Capitava, qualche volta, che qualche ragazzo, amico del malcapitato,

avvisasse i genitori di questo; allora si vedeva arrivare di gran carriera la

mamma, spesso seguita da due tre fratelli che, col fiatone, correva a dar man

forte alla vittima di turno.

Qualcuno se ne accorgeva e… “so ma„ veni scappa… scappa!”.

In un attimo il cerchio si disperdeva, lasciando il povero ragazzo

rannicchiato contro il muro, seduto per terra in un atteggiamento di totale

sottomissione, piangente, con la borsetta dei libri aperta e questi sparsi per

terra.

A quel punto, sentimenti come paura, angoscia, ansia, batticuore, che fino

ad allora erano stati repressi, esplodevano con un piato liberatorio e con una

corsa verso la mamma che stringendolo forte al petto, lo consolava.

Era un trauma che non si superava tanto facilmente; si aveva paura di uscire

di casa, cercando sempre, quando era necessario andare in qualche posto, la

compagnia di qualche adulto o di qualche compagno più animoso che

potesse dargli, all‟occorrenza, man forte.

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Per le strade camminava sempre facendo grande attenzione a non incontrare

il “prepotente”, cambiando direzione, tragitto, solamente col sospetto che

potesse esserci il bullo nei paraggi.

Il cuore batteva forte, tutti i sensi erano vigili, gli occhi scrutavano ogni

tratto, ogni angolo di strada.

Fino a che lungo l‟itinerario tutto andava bene, si ritornava a casa con

addosso un grande spavento e null‟altro, bastava la vista di un parente, di un

conoscente, per sentirsi tranquillo e rincuorato.

Ma non sempre tutto andava liscio; qualche volta capitava d‟incontrare “il

nemico” lungo il tragitto, allora era un grande dramma.

Il cuore incominciava a battere forte, la paura s‟impadroniva del ragazzo

che, ricordando tutte le angherie subite in altre occasioni, non volendo che il

fattaccio si ripetesse in strada, prendeva subito una decisione: prendere le

poche monetine che aveva in tasca e offrirle al prepotente, con la speranza

che per quel giorno tutto finisse lì, oppure mettersi a correre velocemente,

senza neanche guardare dove mettere i piedi, andando a finire spesso in

mezzo ad acquitrini e fango.

Quel correre in maniera scomposta, quel fuggire, dimostrando paura,

provocava e sollecitava nell‟inseguitore una naturale reazione che, alla vista

della debolezza e della paura del malcapitato, lo portava ad inseguirlo

accanitamente pronunciando, ad alta voce, frasi intimidatorie che arrivavano

alle orecchie dell‟inseguito come serie minacce, dolorose sferzate:

“Ammatula curri,‟nutuli, tantu ti pigliu … aspetta ca ti staiu

pigliannu…aspetta misirabili…dammi li sordi e nun ti fazzu nenti…”.

Spesso la corsa finiva quando il “buono” incontrava qualche conoscente che,

a conoscenza di quelle ragazzate, lo prendeva sotto la sua protezione

mettendo fine all‟inseguimento e dando tranquillità al ragazzo.

Altre volte la corsa finiva vicino l‟abitazione del ragazzo che subiva

l‟inseguimento fino a casa sua.

Non solamente a violentare i coetanei, si limitava l‟azione del prepotente.

Le scarse risorse finanziarie delle famiglie, con conseguenti limitate

disponibilità di cibo, il sempre presente bisogno di nutrirsi, spesso

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spingevano i ragazzi a procurarsi qualcosa che potesse mitigare la loro

permanente fame.

Non tutti pensavano ad azioni illegali, a bravate, quali andare a rubare, ma

per tanti era una buona occasione per dimostrare la loro bravura, “li tinturii”

e, nel contempo, soddisfare, anche se per poco tempo, il loro appetito.

Allora si organizzavano in bande, in gruppi, coinvolgendo spesso bravi e

buoni giovani, e preparavano delle scorribande in campagna.

Anche se gli alberi da frutta e la roba da mangiare erano costantemente

guardati e custoditi, a seguito di informazioni, di accertamenti e controlli,

riuscivano a sapere dove e quando il padrone si allontanava da quel posto.

Si organizzava l‟uscita e si andava a rubare, “si ijva a rubari!”.

Dove arrivavano dimezzavano il raccolto, arrecando, a causa della premura,

dei considerevoli danni alla pianta.

Sovente venivano intercettati dal guardiano, che con grida e minacce li

inseguiva fino a che poteva, con la speranza di conoscerne qualcuno da

segnalare ai loro genitori e farsi pagare i danni subiti.

Durante la fuga spesso si doveva passare attraverso un confine chiuso con il

filo spinato. Erano dolori.

Qualcuno, più svelto e coraggioso, si infilava tra il filo spinato riuscendo a

passare dall‟altra parte e darsi alla fuga, pur avendo qualche serio graffio e

la giacca lacerata, altri, non avendo tale coraggio, si mettevano a correre per

il campo, inseguiti dal padrone, fino a quando, questi, sfinito dal lungo

inseguimento, si accasciava a terra gridando:

“Curnuti…crasti…figli di bbuttana… vi canuscivu…nni videmmu cu li vostri

patri…curnuti…!”

Queste azioni di bullismo non si limitavano solo ad aggressioni, ma anche a

prove di coraggio, quali andare col buio al cimitero oppure andare “a lu

scaru” a rubare della frutta, anche se in verità “lu scarista” regalava sempre,

ai numerosi ragazzi che stavano a guardare, alla fine della vendita, ciò che

rimaneva invenduto, ben sapendo che tanti ragazzini non potevano

permettersi di comparare le mele, le pere e i melocotogni.

Nel periodo estivo non era per niente raro vedere qualche ragazzo andare

per le strade portando al guinzaglio un grosso lucertolone.

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Era il passatempo di quei ragazzi che volevano mettersi in evidenza, magari

senza volere fare del male.

Nei mesi da Aprile in poi, e per tutta l‟estate, le cunette ed i confini dei

campi incolti, erano pieni di erbe tra cui spiccavano le migliaia di piantine di

avena, “la ijna”, graminacea ad alto fusto vuota all‟interno che dal basso

cominciava col gambo grosso e robusto ed alla cima terminava

capillarmente; duttile, pieghevole come cordicella, si prestava benissimo a

fare dei nodi scorsoi atti alla cattura di numerosi animaletti che

scorazzavano e prendevano il sole, appunto come le lucertole.

Si piazzavano in qualche posto, muniti di un lungo cappio, preparato prima

con l‟avena, e, molto pazientemente, standosene fermi, aspettavano che una

grossa lucertola passasse dinanzi.

Appena era a portata di nodo scorsoio, zac ed il capino restava imprigionato;

inutile il forte dimenarsi, saltare, cercare di liberarsi, il lungo filo d‟erba

teneva in modo egregio e non c‟era più nulla da fare.

Dopo poco tempo, con la testa chiusa nel nodo scorsoio, sembrava che il

piccolo rettile si rendesse conto che doveva calmarsi e fare la volontà del più

forte.

A quel punto incominciava a camminare lentamente, quasi fosse addestrata

ad andare al guinzaglio, dando la possibilità al ragazzo di mettersi in mostra

conducendo per le strade la sua preda.

Dopo qualche tempo il ragazzo, preso da altro interesse o essendosi stufato

del gioco, liberava l‟animaletto che fuggiva di gran carriera, oppure,

mettendo in evidenza un grande sangue freddo, la sbatteva violentemente

contro un muro con conseguenze ben immaginabili.

Queste bravate erano all‟ordine del giorno; finivano con l‟avanzare dell‟età,

quando i genitori indirizzavano i figlioli al lavoro e li toglievano dalle

strade.

In questo periodo le ragazzine stavano in casa a fare compagnia alle

mamme; era severamente proibito uscire da sole se non per qualche servizio

comandato oppure per andare a scuola.

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Non era permesso loro di andare a passeggiare, solo con i parenti potevano

recarsi in qualche posto e la Domenica alla S. Messa con la mamma e le

altre sorelle.

Certo, era quasi una reclusione; non condividibile, oggi, l‟atteggiamento di

allora, anche se questa segregazione, in fondo, dava dei benefici alle

ragazze: un rispetto immenso, si guardavano con stima, considerazione,

interesse.

La loro ingenuità emanava un alone di misteriosa curiosità, di ignoto, di

impenetrabile, di profondo interesse.

La loro visione, la loro vicinanza, facevano nascere genuini, bellissimi

sentimenti di vivo interesse, attaccamento: attrazione, affetto, calore,

tenerezza, innamoramento, amore.

Non esistevano cuffie da mettere nelle orecchie per ascoltare musica, non

erano ancora in commercio blue jeans attillati e aderenti, camicette con

disegni di diavoli o teste di morto, non scritte rivoluzionarie o naturaliste,

non stivali o scarponi o cinture avveniristici, non lustrini o borchie

scintillanti, non capelli dipinti di colori vivaci, non linguaggio

incomprensibile e violento, men che meno politica, ma umili indumenti che

presentavano, spesso, qualche rammendo di diverso colore.

Il modo di dimostrarsi superiori era la prepotenza, l‟atteggiamento di

soverchiare gli altri e di volere dagli altri, con la forza, secondo la propria

volontà.

Umiliare, prostrare, fiaccare, indebolire gli altri al fine di avere un privilegio

che altrimenti non si era in grado di avere.

Questo era il bullismo degli anni quaranta e cinquanta; certo era sempre

violenza, aggressione, uso della forza, ma in conclusione non era

paragonabile a tutto ciò che oggi è sotto i nostri occhi, che viene definito

bullismo e non criminalità da eliminare.

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La Stadda (La stalla )

Un ruolo importantissimo, nell‟economia del nostro paese, veniva occupato

dall‟allevamento.

Gli animali, da soma, da tiro, da ovile, da compagnia, da guardia, da cortile,

venivano accuditi molto diligentemente.

Secondo la loro naturale predisposizione, venivano utilizzati per il trasporto,

per i lavori nei campi, per i loro prodotti e derivati, per l‟utilizzo delle carni

e delle loro pelli.

Erano molto numerosi e tenuti in ragguardevole considerazione, tanto da

condizionare, molto spesso, il comportamento delle famiglie che si

dedicavano all‟agricoltura utilizzandoli.

Quasi la metà delle famiglie trovava sostentamento nel lavoro delle zolfare

per cui non avevano interesse ad allevare un quadrupede, salvo qualche

eccezione.

Gli animali da soma quali muli, asini, cavalli, erano accuditi

minuziosamente, dato che erano gli unici animali in grado di trasportare

uomini e cose; potevano essere utilizzati nei lavori dei campi con grande

maneggevolezza e obbedienza, potevano essere adoperati con qualsiasi

condizione atmosferica, senza che si rifiutassero di eseguire il lavoro

assegnatogli.

Considerati parte integrante della famiglia, perché unico strumento in grado

di essere utilizzato subito e in qualsiasi posto occorresse, erano l‟unico

sostentamento, l‟unico mezzo di lavoro che procurava alimento al

proprietario.

I mezzi meccanici e gli strumenti agricoli, oggi in normale uso in

agricoltura, allora non esistevano; giusto qualche trattore si vedeva ogni

tanto; il loro utilizzo costava parecchio e, quindi, si preferiva il mezzo

tradizionale, anche se più faticoso.

I quadrupedi erano numerosissimi; si contavano, attorno agli anni cinquanta,

circa milleottocento animali, (dato fornitoci dal Signor La Mattina Vincenzo

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189 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

che di professione faceva “lu vurdunaru”, oggi mulattiere, e il suo secondo

lavoro era quello di tosare i quadrupedi adoperando una macchinetta semi-

meccanica in grado di tosare una bestia in una mezz‟ora).

Milleottocento erano veramente tanti, ma il numero lievita moltissimo se

consideriamo che ogni quadrupede, generalmente, era accompagnato da un

cane che faceva da guardia a “li robbi” e da una o due capre, che fornivano

il latte per la famiglia.

Galline, maiali, conigli, tacchini, anatre, convivevano assieme agli animali

da soma, sotto l‟attenta sorveglianza dei padroni.

Tutti questi animali, fonte di sostentamento e di ricchezza, dunque

considerati una proprietà, venivano ospitati nella stalla, “nta la stadda”.

Il paese era pieno zeppo di persone, le nascite erano numerosissime, la vita

scorreva nelle arterie ciancianesi con grande vigore; non tutte le famiglie

avevano una casa di proprietà, molte stavano in affitto o in casa dei genitori,

che si stringevano fino all‟inverosimile pur di dare un giaciglio ai figli e,

spesso, alla famiglia di questi.

Umili abitazioni, formate da una, due, più raramente tre stanze; una di

queste doveva essere adibita, obbligatoriamente, ad ospitare gli animali e,

stante alla loro natura, doveva essere quella a piano terreno.

“La stadda”, ricovero degli animali, era, quasi sempre, priva di rifiniture

murali, senza fronzoli né imbiancature; rustica, come uscita dalle mani del

mastro muratore, era generalmente divisa in due parti da una sottile parete in

muratura o di assi di legno.

In un angolo troneggiava la “mangiatura”, più o meno grande, a seconda se

doveva ospitare asini, muli o cavalli, una o più bestie ; al muro di fronte,

posto bene in evidenza, uno o più anelli di ferro, ove legare l‟animale

durante le ore di riposo, evitando così che potesse fare del danno o farsi

male da solo.

Era sempre piena di paglia o fieno, alimento principale degli equini che ne

mangiavano in continuazione.

Una volta al giorno veniva servita qualche razione di fave o di avena,

alimenti questi molto nutrienti ed energetici, ma il pasto principale, che

soddisfaceva l‟animale, era la paglia ed il fieno.

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190 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Quando “la stadda” era sufficientemente spaziosa da potere essere divisa in

due, nella parte retrostante la mangiatoia, alle spalle dell‟animale, veniva

conservata una certa quantità di paglia, fieno, qualche sacco di avena e di

fave e, cosa molto importante per la famiglia, della legna da ardere, utile per

i bisogni quotidiani della cucina.

La maggiore quantità di paglia e fieno veniva conservata nella “paglialora”,

spesso fatiscente costruzione di proprietà o in affitto, composta dal solo

piano terra, dentro cui, oltre alla paglia e all fieno, trovavano posto legna,

utensili, contenitori per l‟agricoltura e roba simile.

Oltre agli equini, vitali per chi viveva d‟agricoltura, trovavano posto le

galline; tante galline, fino ad una quindicina, che razzolavano tra i piedi

degli animali senza che questi facessero del male ai pennuti.

La mattina, appena faceva luce, la proprietaria apriva la porta della stalla e

faceva uscire i bipedi per la strada, ove trovavano qualche vermicello da

inghiottire; stavano in strada tutta la giornata a rincorrersi e stramazzare,

sempre obbedienti alle volontà del grande gallo che, fiero ed orgoglioso

della sua prestanza, se ne stava in disparte a controllare il proprio harem,

non permettendo a nessuno di avvicinarsi.

A metà della giornata la padrona (era sempre la donna che accudiva le

galline) si metteva davanti la porta della stalla tenendo in mano un

contenitore pieno di chicchi di avena o del frumento scartato dalle macine

dei mulini, o fave pestate e rese adatte alle galline, e con una cantilena,

ormai nota agli animaletti, le chiamava: “puru…puruu. Ciii…ciii…ci…”

Prima ancora che cominciasse la cantilena, appena la padrona si sistemava

al solito posto, da ogni parte della strada arrivavano correndo, con le ali

aperte per tenersi in equilibrio nella corsa.

“Puru…puru…puru…ci…ci…ci…” continuava la donna, mentre spandeva

quei chicchi con destrezza e abilità in modo che arrivassero a terra

sparpagliati e distribuiti a tutte le galline; queste, mentre si beccavano tra di

loro, facevano scomparire, come per magia, i numerosi chicchi,

sopportando, con rassegnazione, anche le beccate che il gallo dava loro per

appropriarsi di qualche pezzetto più appariscente.

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Ogni giorno depositavano, per la gioia della padrona, tante bianche uova,

che in parte venivano consumate in famiglia, in parte venivano vendute e col

ricavato si comprava ciò che necessitava.

Non solo le galline trovavano posto nella stalla; spesso, non sempre, trovava

posto anche un maialino, sempre intento a rovistare con quel muso a forma

di fungo; questi, legato ad una corda, stava in un angolo della stanza

mangiando crusca impastata con la calda “lavatura” della pasta, mischiata ai

pochi resti del pranzo quotidiano.

Ogni tanto veniva fatto uscire per strada, addirittura c‟erano delle persone

che lo lasciavano girovagare, nei dintorni, dalla mattina alla sera, per

vederlo rincasare regolarmente per mangiare e dormire.

Nessuno pensava di rubare il maiale o le galline, salvo qualche volta ad

opera di ragazzacci; qualcuno della famiglia, quasi sempre i ragazzini,

tenevano d‟occhio l‟animale mentre giocavano per le strade, e poi, tutti i

vicini conoscevano gli animali domestici degli altri e si cercava di

proteggersi vicendevolmente, specie quando si trattava di animali di grossa

mole come, appunto, i maiali; in definitiva, tra padroni, ragazzi e vicini, gli

animali erano sempre sotto sorveglianza.

Non c‟era pericolo che le macchine se li mettessero sotto, semplicemente

perché di macchine non ce n‟erano, qualcuna passava per la strada

principale, rarissimamente per le vie secondarie.

Quel maialino, nel giro di mesi, sarebbe diventato un bel porco, da uccidere

per Natale e, oltre a ricavare tanto ben di Dio per sfamare la famiglia, si

vendeva la salciccia e qualche osso, guadagnando una sommetta tale da

coprire le spese sostenute per il mantenimento e magari comprare un altro

maialino.

La “stadda” ospitava anche una o due caprette, umili ed eleganti.

Nel loro angolino se ne stavano pazientemente mangiando e dormendo; si

sentivano belare solamente quando avevano fame.

Andavano sempre appresso al padrone, quando questi andava nelle

campagne.

Legate con una corda alla sella dell‟equino lo seguivano con attenzione per

non farsi toccare dagli zoccoli, cosa che non avveniva quasi mai, dato che

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tra le bestie si era instaurato un rapporto di convivenza e quindi di reciproca

fiducia.

La capra era molto importante per la famiglia perché forniva copioso,

gustoso, aromatico latte, utile per crescere i bambini, e, qualche volta,

quando si presentava particolarmente abbondante, veniva venduto,

ricavandone del gradito guadagno.

Umile ed affezionata al padrone, se ne stava per tutta la durata del lavoro a

pascolare per il campo, nutrendosi gratuitamente della tenera erbetta ed

accorrendo obbediente al richiamo.

Quando il contadino dava la razione di fave alla mula, una bella “manata”

era sempre destinata alla capretta, assieme a qualche speciale boccone che

qualcuno della famiglia, specie i bambini particolarmente affezionati

all‟animale, gli destinavano.

L‟immancabile cane stava a dormire in un angolo vicino alla mula; solo lui

poteva permettersi di stare tanto vicino all‟equino.

Tra le due bestie si instaurava un particolare rapporto che sarebbe durato per

tutta la vita, fino a che uno dei due avesse lasciato l‟altro.

Il cane, oltre a fargli compagnia, era il naturale guardiano della sicurezza del

quadrupede; la naturale predisposizione dell‟olfatto e dell‟udito faceva sì

che, in caso di pericolo, il cane lo avvertisse molto prima di qualsiasi altro,

permettendogli di prepararsi in tempo a difendersi; inoltre, in mancanza del

padrone, a nessuno era permesso avvicinarsi agli animali e nemmeno alla

“robba”, indumenti e cibo che dovevano servire al padrone per tutta la

giornata.

Non tutti avevano una stalla come sopra descritta.

Spessissimo s‟incontravano dei giornalieri di campagna che non avevano la

possibilità di possedere tutti quegli animali.

Un asinello e poche galline, erano gli abitanti abituali della piccola stalla

ricavata in un angolo dell‟unica stanza a pianterreno di cui potevano

disporre.

La stanza, appena entrati in essa, presentava una stretta mangiatoia con

l‟asinello, a volte unico mezzo di guadagno, al suo posto, ai suoi piedi della

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paglia, quasi sempre fresca, dietro l‟asino una gabbietta, fatta di assi di

legno, conteneva poche gallinelle.

Un grande pezzo di stoffa, a volte anche di due o più colori, divideva in due

la stanza.

Nella parte posteriore della stanzetta, dietro la tenda, era sistemato un letto,

accanto al quale si distinguevano due tre giacigli; questi venivano disfatti la

mattina per essere ricomposti la sera all‟ora di andare a dormire: erano i

lettini dei figlioli.

In un altro angolo, tutto di colore nero fumo, una cucina in muratura, con

della legna pronta ad essere accesa; qualche pentola e suppellettili da cucina

si notavano assieme ad un modesto tavolo e qualche sedia; tutto questo

conteneva l‟abitazione, umile dimora di un modesto operaio.

Anche questa era una stalla!

Tutto doveva essere al proprio posto ed in maniera funzionale, dato il poco

spazio a disposizione.

Tutto questo teneva impegnata la famiglia contadina: le donne di casa

intendevano alle le galline ed i piccoli animali, dando loro da mangiare,

pulendo il loro sito, raccogliendo e destinando il prodotto; ordinavano,

prendevano la legna per preparare i cibi; verso sera il capo famiglia,

ritornato dai campi, o la mattina successiva di buon‟ora, puliva e depositava

tutto il concime “nni li zimmila”, contenitori tessuti con foglie di palme

nane, molto in uso nelle nostra comunità, strigliava e teneva pulito il mulo o

qualche altro equino; aggiustava e teneva in ordine i finimenti degli animali

e quelli da lavoro; mai si finiva di lavorare, la stalla aveva il sufficiente per

tenere occupata tutta la famiglia.

La “stadda”, umilissimo posto dove “lu Signiruzzu” è venuto alla luce;

luogo di grande umiltà, adorna, non di quadri d‟autore, ma di umili attrezzi

campagnoli ed equini, ove gli odori degli escrementi dei suoi abitanti

facevano e fanno arricciare il naso a chi si immette in essa, ha dato,

certamente, alla nostra generazione, oltre a quelle che ci hanno preceduti, la

possibilità di potere ospitare, sotto l‟attenta sorveglianza dei proprietari,

quegli animali che hanno permesso ai nostri padri e prima di loro ai nostri

nonni, di potere sostenere la famiglia onestamente e consentendo la fornitura

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di buono e nutriente cibo per noi ragazzi sempre pronti a mettere le nostre

ganasce in movimento.

Non voglio ricordare gli odori che emettevano quei locali; in paese, di stalle,

se ne contavano qualche migliaio se si considera il fatto che in ogni strada

ce n‟erano sei, sette ed anche più; non voglio ricordare l‟olezzo che si

sentiva in tutte le contrade e spesso sugli indumenti delle persone che

passeggiavano in piazza; no, non voglio ricordare questo, che pure era parte

della nostra esistenza, voglio qui ricordare quel fragrante profumo che si

spandeva dal latte appena munto, il gradevole odore che si levava da

quell‟uovo fritto che la mamma ogni tanto ci serviva, quell‟aromatico odore

di salsiccia che si impregnava l‟aria quando il nonno apriva la carta,

contenente un “caddozzu”, tolto dal fuoco del braciere, da quella bistecca di

maiale che una volta tanto si metteva ad arrostire sulla brace, quell‟aulente

profumo che ci inebriava quando si tagliava una fetta di quel pane, frutto del

lavoro di quelle povere, nobili, “bestie”.

Questo voglio ricordare e far sì che tutto ciò non venga dimenticato.

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Lu Tammurinaru (Il tamburino)

Della figura che sto per rammentare ho avuto la possibilità di far cenno in

un‟altra presentazione; per l‟importanza che aveva nella mia, come credo

anche in molte altre, immaginazione piena di fantasie di ragazzi, mi sento di

dedicarle un‟attenzione maggiore di qualche cenno.

Era usuale, quando si voleva comunicare alla cittadinanza qualche novità, in

considerazione dell‟altissimo grado d‟analfabetismo che c‟era nella

popolazione, bandire, “fari vanniari”, le notizie, il tutto preceduto da forti

rulli di tamburo per attirare l‟attenzione della gente.

Era quasi sempre lo stesso personaggio “lu tammurinaru”, salvo qualche

avviso che, proveniente da altri paesi, si portava appresso anche l‟artista di

quel luogo.

Camminava davanti a tutti, alle processioni, al banditore, alle autorità, alle

manifestazioni, rullando il suo tamburo con maestria e conoscenza dello

strumento, fiero, con lo sguardo rivolto verso terra per evitare d‟inciampare;

tutta la sua attenzione era rivolta al suo tamburo per garantire sempre ed in

ogni occasione un bel suono limpido ed il più ritmato possibile.

Precedeva tutti, mantenendosi una trentina di metri più avanti, per avvisare

chi abitava in quel tragitto che qualcosa di importante stava passando, si

stava celebrando, si voleva mettere a conoscenza.

Al suo passare la gente si affacciava per conoscere cosa stesse presentando

il tamburo: “Cu passa?...Chi cc‟è?...” si era soliti esclamare all‟udire il

suono “di lu tammurinu!”.

Nella società era poco considerato; calcolato quasi “un poveraccio” che

viveva di piccole cose occasionali racimolando qualcosa che lo aiutava a

campare la famiglia, suonando “lu tammurrinu”.

Preciso nel suo lavoro, orgoglioso del suo strumento che trattava con cura;

non permetteva a nessuno di metterci le mani sopra; con quello strumento

non sapeva fare altro che rullare, ma era tanto bravo; se qualche volta, in

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198 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

occasione di feste religiose, si avvicinava al gruppo bandistico con la voglia

o la presunzione di volere accompagnare qualche pezzo, veniva allontanato

con la scusa che doveva stare davanti a tutti e non dietro “cu li musicanti”.

Non si offendeva, non teneva rancore, anzi qualche volta prendeva pure in

giro qualche “maistru”, che si sentiva tale, ben cosciente che nel paese c‟era

solo lui e per il ruolo che rivestiva era da tutti cercato, utilizzato, e, cosa più

importante, pagato.

Ogni tanto il dolce sonno mattutino veniva interrotto da un lontanissimo,

appena udibile, rullo di “tammurinu”.

Nel dormiveglia, più dormi che veglia per la verità, quel suono arrivava

pieno di interrogativi: “Chi cc‟è?... Chi successi?...Chi cc‟è di novu? chi è

festa?...” Mentre nella mente si susseguivano queste domande, le orecchie

seguivano quel suono di “tammurinu” che, pian piano, si avvicinava sempre

di più.

Eccolo alla distanza “di du‟ strati „n capu...” tam tamtam tam tamtam...

“Ora è a la strata di „n capu...” tam tamtam tam tamtam... “Sta trasennu la

mè strata...” tam tamtam...tam tamtam... “Ora passa davanti la mè casa...”

tam tamtam…; adesso il suono era assordante; sempre con lo stesso ritmo,

incessante, quasi che quelle braccia non sentissero stanchezza e che quelle

gambe sconoscessero la spossatezza; camminava e batteva le mazze di legno

sul tamburo in continuazione, tenendo la testa inclinata un poco da una parte

quasi a volere seguire con l‟udito l‟esattezza delle note che venivano fuori

dal tamburo… tam tamtam tam tamtam…

A questo punto la veglia aveva superato il sonno; l‟attenzione era al

massimo così pure la fantasia che, tra fantastiche probabilità e concezioni

del perché suonasse il tamburino per le strade del paese, ne concludeva che

non avendo fatto soste “nni li cantuneri pi vanniari” e non avendo sentito

“lu vanniaturi gridari” certamente “lu giru di lu tammurinu” era l‟avviso

che doveva passare una processione, dunque festa, di conseguenza

divertimento.

La conferma a tutto arrivava dalla mamma che, svegliandomi con la solita

“cicara di latti”, mi faceva notare che li “robbi novi” erano sulla sedia e che

la S. Messa era alle dieci.

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199 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Ormai ero sveglio; con gli occhi pigri guardavo la mamma, ancora di

salvezza a tutte le mie incertezze (ed erano tante).

La stanza si riempiva di un fulgido raggio di sole che entrava dalla finestra

ormai aperta; dimentico della causa del risveglio, che ormai si era

allontanata pian piano, portandosi con il suo monotono tam tam il sonno,

le domande, le incertezze, ma lasciandomi nella mente quella immagine di

uomo curvo, quasi gibboso e mal vestito, che batteva con le mazzette su

quella pelle d‟asino che magicamente riusciva a far sognare i ragazzi

dormienti.

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200 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

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201 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

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202 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

L’Elencu di li Poviri (L‟elenco dei poveri)

Sovente ho messo in evidenza, senza forzare con descrizioni esagerate, in

quale stato di bisogno si trovava la popolazione del paese.

Non tutta certamente, ma la maggioranza, abbondante, poteva essere

considerata povera ed in uno stato di bisogno continuo.

Per venire incontro alla necessità di centinaia di famiglie, quasi tutte

composte da numerosa prole a cui il povero e saltuario lavoro del padre non

poteva dare risposte sufficienti al loro fabbisogno, il Municipio aveva

istituito una lista comprendente i nomi delle famiglie bisognose di

attenzione particolare, specie in certi periodi dell'anno in cui si avvicinavano

le feste importanti onde evitare che restassero “cu la pignata a testa

appuzzuni e lu focu astutatu”; tale lista era denominata: “l'elencu di li

poviri.”

I cittadini, con apposita domanda, facevano presente il loro stato di bisogno

e chiedevano di essere inclusi nell'elenco.

Una commissione, composta dal Sindaco e da personalità eminenti del

Paese, ogni certo periodo istruiva le richieste pervenute al comune,

avvalendosi della conoscenza personale dello stato di necessità del

richiedente; all‟occorrenza, incaricavano un vigile urbano d‟accertarsi dello

stato in cui versava il cittadino.

Inserivano nell'elenco gli aventi diritto dando loro la possibilità di accedere

ai benefici che la società elargiva con equità e giustizia.

Il Comune aveva un ufficio distaccato dalla sede centrale in cui alcuni

impiegati prestavano il loro lavoro solo ed esclusivamente diretto ai tanti

bisogni che provenivano dai cittadini, cercando di venire loro incontro con

correttezza ed obiettività, rispettando le leggi vigenti in materia ed

osservando le regole che il Municipio si era dato: l'ufficio portava il nome di

E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza).

Secondo la mia memoria, era ubicato sotto la torre dell'orologio con accesso

dalla stessa porta, sopra “li casotti”, a fianco della chiesa del Purgatorio;

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203 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

un'unica stanza con vista sulla piazza principale da una grande finestra sul

cui balconcino era esposta una tabella al centro della quale spiccava

l'emblema del Comune ed attorno, ai bordi, una scritta a grandi caratteri :

E.C.A. Ente Comunale di Assistenza.

Era un ufficio molto praticato dalle persone, molte delle quali vi si recavano

con una certa riluttanza spinti da un serio bisogno familiare; altre erano

tanto abituate da sembrare esse stesse impiegate dell'ufficio, tanto erano

informate dell'andamento delle pratiche assistenziali.

In vista di una festa importante il Comune deliberava di elargire qualche

sommetta a queste persone, consentendo loro di comprare l'occorrente per

imbandire la tavola alla famiglia; inoltre distribuiva una certa quantità di

pasta e generi di prima necessità, tenendo presente la composizione dei

nuclei familiari.

Accanto all'Ente Comunale di Assistenza, organismo prettamente locale e

che si finanziava col bilancio comunale, ogni tanto si affiancava un altro

Ente provinciale l' UPISEA che, tramite personale proprio e sotto la diretta

osservanza dell'Ente comunale, distribuiva vettovaglie e generi di prima

necessità ai cittadini bisognosi.

Già due - tre giorni prima della distribuzione incominciava a circolare la

voce e, di conseguenza, la fila davanti alla porta dell'ufficio E.C.A. e del

Municipio.

La precedenza su tutti nella spartizione del vitto era indirizzata alle vedove

ed alle madri dei caduti in guerra, specie se donne sole senza sostentamento

maschile; appresso venivano le vedove senza reddito alcuno, dopo tutti gli

altri.

Nonostante l'elenco e le regole qualcuno più astuto (ce n'erano tantissimi

che, spinti dalla fame o dai vizi, sviluppavano l'arte della furberia in maniera

abnorme) riusciva, tramite conoscenze o finzioni, ad usufruire dei benefici

per più volte mentre tante persone non si presentavano, o per ritegno non ne

facevano richiesta.

Per tanta gente dire che faceva parte dell'elenco “di li poviri” era una

vergogna; allora si stringevano nel loro onorato ed onesto bisogno,

continuavano nelle strettezze familiari, andando dietro a qualche giornata di

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204 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

lavoro di dieci ore e ringraziando chi faceva lavorare.

Molti altri, per mancanza di lavoro o per pigrizia, facendo di questa un'arte,

stavano giornate intere a gironzolare “pì lu scaru”, “li funnachi”, “sutta lu

ralogiu”, “chiazza chiazza”, “pùtii putii” (anche di vino), con lo scopo di

potere racimolare qualche lira, magari trasportando qualche “cufìnu di

puma” o “saccu di patati” in qualche bottega o facendo qualche

commissione a persone benestanti avendone in cambio un po‟ di roba da

mangiare.

Con l'approssimarsi delle scadenze festive il Municipio distribuiva dei buoni

con cui si potevano comprare cibi nelle botteghe; oppure venivano

distribuite delle dosi di pasta (quasi sempre pasta lunga in confezioni da

cinque chili) presso l'ufficio competente o una primaria bottega scelta

dall‟Amministrazione, convenzionata per l'occasione.

Allora per qualche giorno si assisteva ad un via vai di gente che percorreva

le strade del Paese portando a casa uno o due coppi di pasta sotto il braccio,

con appresso qualche figliolo recante pacchetti di zucchero, complemento al

dono festivo per le famiglie bisognose.

Era poco, certamente, ma era un “poco” che permetteva a tantissime

famiglie di mettere “la pignata” sul fuoco per diversi giorni ed avere la

famiglia attorno al tavolo a riempirsi lo stomaco.

Non tutti usufruivano di detto servizio, qualche discriminazione o errata

valutazione capitava spesso, dato il numeroso esercito dei bisognosi.

A quella involontaria (!) ingiustizia rispondeva qualche intraprendente e

coraggioso padre che, in prossimità delle feste e non avendo possibilità

economiche, portava tutta la famiglia, moglie e cinque o sei figli senza

contare quello custodito nel grembo materno, davanti il portone del

Municipio, a protestare per la mancata inclusione nell'elenco o la mancata

consegna dei doni o, ancor più grave, la cancellazione a seguito di qualche

anonima segnalazione molto interessata.

Quella che più di tutti “ittàva vuci” era la madre che, tenendo per mano il

più piccolo e mettendo in mostra il suo pancione: “Signura amministra tura,

chi ccè ddari a mangiari a st‟addevi... Comu l‟accattari lu latti pi sti criatura?

Dicitimillu vu‟, signur sinnacu, dicitimillu vu‟! “

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205 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Alle grida della mamma, qualche bambino già incominciava a strillare

costringendo i passanti a fermarsi per curiosare e spingendo qualche amico o

qualche cuore tenero a parteggiare per loro unendosi alla già numerosa

schiera dei dimostranti.

Questo modo di protestare non era raro. Ricordo, infatti, di quella volta in

cui delle persone sfrattate dalla casa in affitto, non avendo dove andare,

caricati sulle spalle dei famigliari “trispa e matarazza”, andarono a “cunzari

lettu” davanti al portone del municipio.

Certo erano manifestazioni estreme ma erano la manifestazione dello stato

di povertà e dell'esasperazione in cui la gente veniva a trovasi.

L'Ente Comunale Assistenza dava qualche miserevole risposta a tutti le

necessità della gente bisognosa?

Certamente no, ma era uno strumento che permetteva di controllare lo stato

di bisogno e di intervenire in quei casi pietosi e degni di attenzione, prima

che avvenisse qualche azione insensata.

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206 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

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207 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

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208 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Lu Trenu e la Stazzioni (il treno e la stazione)

Il trasporto di persone e masserizie avveniva utilizzando carri trainati, che

richiedevano un considerevole utilizzo di persone, di animali, di energie.

Da tempo venivano utilizzati, su percorsi prestabiliti, anche altri mezzi di

trasporto molto più comodi, più veloci, e che richiedevano meno sforzi

fisici: il treno e l‟autobus.

Il treno era composto da una serie di vagoni, assemblati tra loro e tirati da

una locomotiva semovente spinta dalla forza prodotta dalla combustione di

vari materiali, normalmente si usava il carbone.

Camminava su delle rotaie di ferro, equidistanti tra loro, procurando alle

ruote dei carri, dello stesso materiale, il minimo attrito possibile e una

agevole corsa.

Si fermava nelle stazioni ove consentiva ai passeggeri di salire e scendere, il

carico e scarico delle merci e, cosa indispensabile, il rifornimento di carbone

e di acqua, elementi necessari per produrre l‟energia.

La stazione ferroviaria che serviva il comune di Cianciana era ubicata nella

parte nord est del paese, a due chilometri circa di distanza, percorrendo la

statale 118 in direzione di Palermo.

Per arrivare alla stazione si doveva percorrere detta statale, dal pavimento

pieno di ciottoli, brecciale misto, tanta polvere e qualche sporadica traccia di

asfalto; le buche facevano la parte del leone.

Era una strada tortuosa che si percorreva a piedi, spesso carichi di scatoloni

e fagotti vari che il passeggero, dovendo andare altrove per diverso tempo,

doveva per necessità portare con sé.

Durante il cammino si faceva comunella con altre persone dirette allo stesso

posto, si chiacchierava degli orari e della durata della percorrenza; qualche

volta si veniva investiti da una consistente nuvola di polvere sollevata da

qualche rara automobile di passaggio; di contro, per trasportare i bagagli, si

approfittava spesso dell‟aiuto offerto dai conduttori dei numerosi carretti,

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209 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

tirati da muli, che trasportavano materiale di gesso e che percorrevano

continuamente quella strada.

I carretti erano una calamita che attraeva l‟attenzione dei ragazzi che subito

andavano ad aggrapparsi alle sue stanghe posteriori lasciandosi portare da

quel piacevole movimento ciondolante, simile al cullare.

Gli adulti richiamavano e rimproveravano, assieme al conduttore, i ragazzi,

ricordando loro che era pericoloso quello che facevano; ma a quei richiami

erano sordi presi dal piacevole “annacari di lu carrettu”.

Tra sorrisi, grida, anche e spesso lacrime, si arrivava alla stazione.

Sì, anche lacrime s‟incontravano durante quel breve tratto di strada, tante

lacrime, versate da mamme e mogli che accompagnavano i rispettivi uomini

alla stazione a prendere il treno, che li avrebbe portati, per chissà quanto

tempo, in altre nazioni, in mezzo a gente che non si conosceva e a cui adesso

si chiedeva di potere lavorare per loro e guadagnare il necessario per dare

sostentamento alla famiglia.

La stazione: un grande palazzone di due piani attorno al quale c‟erano

vialetti sempre ben tenuti, con tante siepi fiorite, tanto verde, alberi da frutta

che, nelle stagioni di produzione, attiravano l‟attenzione di grandi e piccini,

che non sapevano contenere l‟istinto di allungare la mano e cogliere qualche

frutto.

In un angolo una bella casetta, con un artistico tetto, era utilizzata a

gabinetto pubblico, spiccava la scritta “cessi” posta in alto, due porte ai lati

opposti recavano l‟indicazione “uomini” e “donne”; sempre ben puliti e

quasi mai puzzolenti erano sempre aperti ed a disposizione.

Un po‟ più in là, ad un‟altezza di circa cinque metri, un grandissimo

contenitore rotondo, di cemento, simile ad una botte, poggiato su robusti

sostegni di cemento armato, coperto da una protezione, sempre di cemento,

al cui culmine era sistemata una palla appuntita a forma di pigna, faceva

bella mostra di sé in tutta la sua imponenza.

Era pieno d‟acqua a disposizione delle locomotive che la utilizzavano per i

circuiti di raffreddamento della caldaia.

Un po‟ in disparte e lontano dalla gente, era sistemato un grosso tubo

snodabile, posto ad un‟altezza di circa tre metri, alimentato dalla grande

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210 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

botte, che usciva dalla conduttura principale; terminava con un capiente

beccuccio; quando la locomotiva aveva bisogno di fare rifornimento di

acqua la macchina, staccatasi dal resto delle carrozze, si recava proprio sotto

il grande cannello, che veniva introdotto nel recipiente della locomotiva e in

pochi minuti forniva alla macchina tutta l‟acqua occorrente a riempire il

serbatoio.

Davanti all‟edificio c‟era uno spiazzale sempre ben tenuto, al cui limite

passava la strada ferrata; due file di rotaie, perfettamente equidistanti,

attiravano l‟attenzione per la loro lucentezza; un poco più in là un‟altra

coppia era a disposizione per il passaggio o posteggio di qualche altro

convoglio.

Sotto le rotaie una interminabile fila di grosse traverse di legno tenevano

ben fermi e paralleli, tramite delle grosse viti, i binari.

Alla stazione si arrivava quasi sempre con un certo anticipo; il treno non era

quasi mai in orario, per cui si stava tanto tempo a passeggiare nell‟antistante

piazzale a scrutare in lontananza un lungo e nerastro filo di fumo, oppure si

tendeva l‟orecchio per cercare di sentire il “ciuf ciuf” del treno.

Per i ragazzi era un divertimento stare alla stazione; i più piccoli correvano

sotto lo sguardo attento dei genitori o dei fratelli più grandi, quelli più

grandicelli si rincorrevano, spesso attraversando i binari, spingendo il

capostazione, sempre impeccabile nella sua divisa e col cappello in testa, a

rimproveri e severi richiami, minacciando di fare “la contraminzioni” ai

genitori.

“Silenziu…silenziu…arriva lu trenu”: una voce si sentiva tuonare tra la

gente che immediatamente smetteva di chiacchierare; i ragazzi si fermavano

e molto lentamente si avvicinavano ai loro genitori; tutti indirizzavano la

loro attenzione nella direzione da dove si aspettava spuntasse il treno, gli

occhi fissi a cercare nell‟aria il pennacchio nero che usciva dal nero

fumaiolo.

Finalmente, più che la vista, l‟udito percepiva per primo l‟inconfondibile

potente fischio che la locomotiva emetteva, per avvisare del suo passaggio;

subito dopo seguiva il caratteristico rumore prodotto dagli stantuffi che

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211 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

spingevano prepotentemente la pressione prodotta dalla caldaia, nei circuiti

e di conseguenza alle ruote.

“Ciuff…Ciuff…”, finalmente dalla curva in lontananza faceva la sua

apparizione il rotondo cilindro della locomotiva in compagnia del suo

inseparabile lungo pennacchio di fumo che usciva con prepotenza dallo

stretto fumaiolo e si allargava verso l‟alto, quasi a volersi liberare dalla

pressione che lo produceva.

“Ciuff…Ciuff…” il rumore si faceva più forte man mano che si avvicinava

alla stazione.

Ai lati della macchina trainante veniva espulsa, con grande pressione, una

considerevole quantità di vapore prodotto dalla caldaia che, non più

necessaria al traino perché ormai arrivato alla stazione, veniva eliminata

onde evitare qualche surriscaldamento con conseguenze molto serie.

Il macchinista che guidava, quasi sempre con la testa fuori dal finestrino

laterale per avere una più precisa visuale della strada, nell‟avvicinarsi

sempre più alla stazione cominciava ad azionare i freni per rallentare la

corsa; la frenata produceva un rumore stridente di ferro tanto che le ruote,

strofinando energicamente contro i binari, dato il peso che sostenevano,

producevano centinaia di scintille, spettacolo tanto piacevole allo sguardo

attento dei ragazzi.

Il treno arrivava alla stazione tra stridori, rumori indistinti, una grandissima

quantità di vapore; da un angolo della stazione arrivava il portabagagli, un

uomo con addosso un lungo grembiule di colore celeste, con in testa un

berretto da addetto alle ferrovie che, trainando un carrello a due ruote,

trasportava valigie e quant‟altro un passeggero potesse portare con sé; si

sistemava vicino al treno e con voce controllata ripeteva : “porta bagagli

…cu voli lu porta bagagli…”.

Qualcuno lo chiamava, specie chi aveva tanti bagagli, per farsi aiutare a

trasportare le proprie cose fino alla carrozza che faceva servizio tra il paese

e la stazione; tanti altri, scesi dal treno si caricavano sopra le spalle le

proprie masserizie, aiutati da qualche familiare o amico e s‟incamminava a

percorrere i due chilometri che lo separavano dal paese.

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212 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

La locomotiva continuava a sbuffare mentre, staccatasi dal resto del

convoglio, si recava un po‟ più in là per fare rifornimento di acqua; i vagoni

erano a disposizione dei passeggeri che da qualche tempo aspettavano in

stazione.

Quasi sempre spingendosi per salire per primi sui vagoni e prendere il posto

migliore, che era considerato essere quello vicino al finestrino, la gente

saliva sul treno e sistemava i propri bagagli negli appositi spazi sopra i

sedili; questi erano di legno, molto liscio e ben lucido, simili alle panche,

con un comodo schienale ove poter appoggiare le spalle e spesso schiacciare

un pisolino durante il viaggio.

Una parte della carrozza era destinata ai posti di prima classe, il cui biglietto

costava più di uno normale di seconda classe; due scompartimenti,

comprendenti sei posti ognuno, erano destinati alla classe privilegiata, le cui

poltrone erano morbidamente imbottite e rivestite di grigio panno di velluto;

attiravano sempre l‟attenzione dei ragazzi i quali, spesso, vi entravano per

provare come si stava, mentre qualche monello, non visto dal controllore e

da persone adulte, si lucidava le scarpe strofinandole energicamente sulla

stoffa dei sedili.

In fondo ad ogni carrozza c‟era un piccolo cesso, composto da un buco

sovrastato da una tazza; ciò che si depositava andava a finire direttamente a

terra, tra le rotaie; in un angolo era installato un lavandino, sovrastato da un

piccolo specchio, con acqua corrente non potabile.

Mentre la locomotiva ritornava dal rifornimento le persone si salutavano;

chi piangeva al distacco del caro congiunto che si recava all‟estero in cerca

di lavoro; chi raccomandava ai figli, che uscivano per recarsi in altre città,

di stare attenti ed essere educati con il prossimo.

Il treno, ricompostosi, incominciava a sbuffare ed espellere l‟immancabile

fumo odoroso di carbone bruciato; il capostazione, tenendo in una mano la

paletta rotonda per far vedere l‟ordine al macchinista e nell‟altra il fischietto

per farglielo sentire, con fare premuroso ed attento, raccomandava agli

astanti di tenersi lontano dai binari.

Il tutto era una scena simile a tante altre, viste decine di volte, ma sempre

commovente, interessante, coinvolgente.

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213 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

“Ciiiiuuff…ciiiuuff…ciuff…” il treno pian piano si allontanava, portando

con sé quelle braccia che fuori dal finestrino sventolavano fazzoletti,

lasciando dietro di sé qualche pianto, mani alzate, bimbi che gridavano e

correvano, l‟immancabile lunga striscia di fumo nerastro che riempiva l‟aria

di quel tipico odore che, a dir la verità, non era sgradevole.

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214 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

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215 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Partiri pì Surdatu (Partire per la leva militare)

Ad ogni occasione è stato messo in evidenza, volutamente, la grande

quantità di ragazzi e di giovani che, con la loro presenza ed in ogni

occasione, portavano gioia di vivere ed allegria.

Con la battuta sempre pronta, disponibili allo scherzo, al divertimento, erano

la linfa vitale che veniva fortificandosi per dare nuovo futuro alla nostra

collettività.

Affezionati alla famiglia, leali con gli amici, ottimi lavoratori, onesti con il

prossimo, stavano a casa con i genitori e i fratelli fino ad età matura.

Con la famiglia dividevano tutto: gioie, dolori, piaceri, amarezze, fatiche,

sacrifici, agiatezze, tutto era in funzione della famiglia e per la famiglia.

Per le ragazze tutto il loro mondo era la casa paterna; sempre sotto le ali

protettrici della mamma, che non le lasciava mai incustodite, venivano

educate alle faccende domestiche, a divenire buone mogli e ottime mamme.

I ragazzi si dedicavano al lavoro con serietà e perseveranza; affiancavano

spesso il proprio genitore nel lavoro dei campi, nelle viscere della terra, in

qualche attività autonoma, cercando di concorrere il più possibile alla

stabilità economica ed al benessere della famiglia.

Molto difficilmente si allontanavano dal paese; rarissime le occasioni di

potersi recare in qualche paese vicino, non parliamo poi delle visite in

grandi città!

Faceva parte della normalità vedere giovani, ormai adulti, che non si erano

mai allontanati dal proprio paese; tutto il loro mondo era lì, a portata di

mano, anzi di piede: casa e lavoro.

Ormai adulti, capitava che si recassero in qualche paese vicino, in occasione

di feste locali, in compagnia di amici, sempre col permesso dei genitori.

“Dda nisciuta” era oggetto di discussione per diversi giorni, in ogni

occasione si metteva in evidenza che, ormai maturi, i genitori avevano

fiducia in loro.

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216 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Per i genitori erano sempre “l‟addevu”, oggetto di attenzioni e di cure

particolari.

“Lu figliu masculu” era “l‟eredi”, a cui sarebbe spettato il compito di

continuare la famiglia ed esserne responsabile, prendendo esempio dal padre

e dal nonno prima di questi.

Tutto andava secondo l‟andamento solito del paese, fino a quando un bel

giorno arrivava una cartolina: Repubblica Italiana, Ministero della difesa.

“La cartulina arrivà, l‟addevu av‟a partiri pì surdatu!”

Il ragazzo, ormai adulto e idoneo alla leva militare, viene chiamato a

presentarsi presso il CAR di… “a serbiri lu Papà”.

Un velo di tristezza entrava nella famiglia; era una tristezza mista ad

orgoglio perché mentre da una parte non si voleva che “l‟addevu” si

allontanasse da casa, dall‟altra si capiva che la maturità ormai faceva la sua

apparizione e con essa veniva formandosi “l‟omu” di domani.

Inutile tergiversare, “babbiaricci „ncapu”, il giorno della partenza si

avvicinava a passi da gigante e con esso i preparativi della mamma per

mettere insieme “li robbi”, utili per la permanenza sotto le armi.

La valigia è pronta; l‟indomani si parte!

La chiamata al servizio militare era un dovere del cittadino verso la Patria;

pertanto tutte le spese che ne erano attinenti erano a totale carico dello Stato,

anche i viaggi di andata e ritorno dal Centro Addestramento Reclute a cui si

era assegnati.

L‟unico servizio statale di trasporto che allora era a disposizione dei

cittadini era il treno.

Dopo avere ricevuto gli incartamenti necessari al riconoscimento e alla

franchigia delle spese, da parte della locale stazione e dei carabinieri, tutto

era pronto; si doveva solamente aspettare che arrivasse il giorno stabilito.

Era usanza accompagnare il ragazzo che partiva per militare fino alla

stazione.

Il giorno della partenza tutti erano pronti: i genitori, i fratelli, i parenti, gli

amici, qualche vicino particolarmente affezionato, la fidanzata, quando il

ragazzo l‟aveva già.

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217 C‟era „na vota 2 D‟angelo Giovanni

Uno stuolo di persone; accanto al giovane la madre e la fidanzata, a volte

prendeva il posto di destra la moglie (erano occasioni rare ma ogni tanto

capitava), poi tutti gli altri dietro, tra il correre ed il vociare degli

immancabili ragazzi per i quali era una occasione eccezionale “jri a la

stazioni”.

La mamma piangeva la dipartita del figlio tenendolo ben stretto per un

braccio, la fidanzata, dall‟altro lato, faceva altrettanto, assieme andavano

avanti in prima fila con passo cadenzato e senza “prescia”.

Tutti gli altri seguivano chiacchierando, sempre con compostezza e con fare

adatto alla circostanza.

In ultimo il fratello minore che conduceva un quadrupede su cui era

sistemata la valigia, oggetto di tanta attenzione da parte della madre.

Spesso si veniva sorpassati da qualche carretto guidato dal carrettiere il

quale, come sempre capitava, si metteva a disposizione per trasportare le

masserizie oppure qualche persona che non era nelle condizioni di “farisi

tutta dda strata a l‟appedi”.

“Papà… Papà… mettimi ‟ncapu lu carrettu!, …adà, Papà, mettimicci!”

Qualche bimbo approfittava della disponibilità mdel carrettiere per farsi

“‟na carruzziata”; era normale e capitava ogni volta che un carretto vuoto

passava ed il carrettiere dimostrava la sua disponibilità.

“A mija vidè ! A mija vidè!” gli faceva subito eco un altro bimbo o bimba,

rivolgendosi al suo papà.

Il carrettiere rallentava l‟andatura ed invitava gli uomini ad accontentare i

bimbi ; in breve tempo sul carretto c‟erano quattro – cinque bambini allegri

e vocianti, con soddisfazione del carrettiere che era riuscito a far felici

quelle creature.

Il carro procedeva molto lentamente, seguito da due o tre uomini pronti a far

scendere i piccoli dopo qualche tratto.

Erano minuti di distrazione, di sorrisi ma anche di apprensione da parte

delle mamme che immancabilmente raccomandavano: “Masciu Pè…

Masciu Pè… A ssa sta attentu a l‟addevi!”, mentre il carro, dondolandosi,

procedeva vicino alla comitiva.

Dopo qualche tempo si arrivava alla stazione ferroviaria.

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Il piccolo spiazzale antistante l‟edificio si riempiva subito di persone; il capo

stazione usciva dalla sua stanza e dopo essersi informato del perché di tanta

folla, si avvicinava al ragazzo e gli faceva le congratulazioni, occasione

questa che stimolava il pianto della madre e di qualche altra persona.

Il papà aveva una espressione triste ma in quella serietà c‟era un grande

manifestazione di orgoglio; il suo ragazzo ormai era un uomo.

Il treno non arrivava quasi mai in orario; il suo arrivo era sempre preceduto

da un lungo fischio che metteva in fermento tutte le persone che spettavano:

“lu trenu arrivà… cca iè… lu friscu si ntisi…!”

Le lacrime, che si erano fermate per un certo periodo, riprendevano a

scorrere; incominciavano i saluti e gli abbracci.

Genitori, fratelli, amici cari, familiari, si stringevano attorno al giovane che,

con la valigia accanto, stava in mezzo a quella folla impacciato e confuso.

Un‟occhiata alla mamma piangente, al papà che per la prima volta si

presentava con gli occhi lucidi, agli amici compagni di tante marachelle, a

tutti, quasi a volerli abbracciare in un unico grande abbraccio.

Il treno faceva la sua comparsa, lasciandosi dietro un lungo e vaporoso

pennacchio di fumo biancastro, riempiendo l‟aria del rumore tipico dello

strofinio del ferro delle sue ruote sulle rotaie.

Anche lo stato d‟animo del giovane, che fino ad allora era stato serio, con

qualche sorriso di circostanza, si lasciava andare al sentimento più forte

dell‟essere umano: l‟amore.

Abbraccia forte la mamma, il papà, la fidanzata, i fratellini; una vigorosa

pacca sul petto degli amici: “dda v‟aspettu papaciolli, j vajiu ‟n avanti, vatri

viniti appressu!”

Il treno arriva, si ferma, colmando l‟aria circostante di una densa nube di

vapore plumbeo; qualcuno si allontana, altri si tappano la bocca e chiudono

gli occhi.

Il ragazzo sale sui gradini di accesso alla carrozza, si lascia porgere la

valigia; dopo poco tempo si affaccia ad un finestrino, accompagnato dagli

amici fino alla scelta del sedile.

Il treno fischia prepotentemente, sbuffa, sferraglia con le ruote sui binari;

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l‟aria viene pervasa dal sibilo forte e continuo del fischietto del capo

stazione.

Si parte!

Tutte le braccia si alzano in segno di saluto; qualche fazzoletto bianco si

agita tra la selva di braccia: “bon viaggiu Pè… scrivi spissu… fatti sentiri…

teniti luntanu di li fimmini… sta attentu… arrivederci!”

Il treno ha già acquistato una certa velocità, si allontana veloce; quella mano

fuori dal finestrino si fa sempre più lontana fino a scomparire dietro quella

curva traditrice che, prepotentemente, toglie agli occhi della madre la

visuale del figlio adorato, aprendogli la strada “chi lu porta a fari lu

surdatu!”