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1 “Uguali e diversi” Diritti di cittadinanza in un contesto multiculturale Prof. Nicola Colaianni Villa Elena, Affi (VR)

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“Uguali e diversi”

Diritti di cittadinanzain un contesto multiculturale

Prof. Nicola Colaianni

Villa Elena, Affi (VR)

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La Fondazione Elena da Persico,ispirandosi particolarmente al pensiero diElena da Persico (1869 –1948), giornalistae collaboratrice di Giuseppe Tonioloin ambito sociale, ha, tra i suoi scopi,“la promozione di iniziative sociali e culturaliper una crescita della società secondo i valoridella solidarietà cristiana”

Con piacere inviamo la relazionedel prof. Nicola Colaianni,docente di Diritto Ecclesiasticodella Facoltà di Giurisprudenzadell’Università di Bari, giàmagistrato della Corte Supremadi Cassazione, a quanti hannopartecipato all’iniziativa dellaFondazione e ai simpatizzantidella stessa.

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“UGUALI E DIVERSI”

Diritti di cittadinanzain un contesto multiculturale

Affi, 24 marzo 2007

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Premessa

Grazie dell’invito. Io credo che dei problemi posti dairapporti tra uguaglianza e diversità sia necessario parlare intutti gli ambienti, perché bisogna costruire una nuova idea dicittadinanza. Credo sia opportuno che ognuno di noi dia il suoapporto a questo dibattito.

Quindi vi ringrazio perché mi date l’opportunità dicontribuire con qualche mia riflessione ad affrontare questotema.

Le diversità

Il problema in realtà è questo: noi siamo abituati da duesecoli a questa parte, dalla Rivoluzione francese, a considerarel’uguaglianza come la bussola e come uno dei principifondamentali della nostra coesione sociale. Tuttavia, negliultimi decenni si sono verificate tali emigrazioni di popoli esoprattutto una tale globalizzazione, che è anche di carattereculturale non soltanto economico, per cui sono emerse dellediversità nello stesso territorio, specialmente nella nostraEuropa e nell’America del nord, di modo che quelle diversità,che fino a qualche decennio fa erano confinate in territoridistinti, adesso entrano in contatto con quelle che noiconsideriamo legittimamente le nostre radici.

Assistiamo quindi ad un fenomeno di spaesamento. È un po’come quando noi italiano andiamo in Alto Adige. Non si parlacorrentemente italiano e quindi ci chiediamo: ma non è Italiaqui? No, ci ritroviamo nello stesso Stato però lì in maggioranzanon sono italiani, hanno una cultura tedesca. Molti perciò nonandavano a villeggiare in Alto Adige, andavano in Trentino,dove si parla italiano, per non sentirsi spaesati.

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Questo fenomeno, che prima si aveva soltanto nelle regionidi confine, adesso è un fenomeno che sta nelle nostre città.L’Esquilino a Roma è un quartiere da dove i romani vanno via,perché le case costano meno ma sono abitate ormai inprevalenza da coreani e asiatici in genere, che si sonoimpossessati del quartiere. A San Salvario a Torino è la stessacosa.

L’identità

Questo fenomeno mette in crisi la nostra identità. Eccoallora la necessità di affrontare il tema dell’uguaglianza e delladiversità.

Ci troviamo di fronte a nuove identità che chiedono unriconoscimento pubblico. Alcune di esse sono vere, altre sonofalse. Anche le false identità chiedono il riconoscimento.

Le identità vere sono le identità culturali, le identitàreligiose, le identità linguistiche.

L’Unione europea - dice la Carta di Nizza sui diritti delcittadino europeo, che poi è stata trasfusa in quel progetto diCostituzione che speriamo prima o poi venga approvato dopo ireferendum negativi in Francia e in Belgio - rispetta la diversitàculturale, religiosa e linguistica.

Cultura, religione e lingua sono molto spesso intersecate tradi loro. Ogni religione provoca cultura, ma molte culture hannoun collegamento con la religione. Molte religioni sono peròtotalizzanti. Pensiamo all’Islam per esempio, che coincideanche con una lingua. L’italiano che si vuole convertireall’Islam prende anche un nome arabo, perché quella è lalingua di Dio. Rispetto a tutte le altre lingue quella è la linguasacra. La religione inoltre si identifica con una cultura e quindinon lascia spazio alla legittima molteplicità di opzioni culturali

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e politiche come noi siamo abituati a pensare col cristianesimoin occidente, grazie alla diffusione del principio di laicità.

Si hanno quindi delle identità forti, culturali, religiose elinguistiche che chiedono un riconoscimento pubblico.

Un politologo americano Michael Walzer diceva anni fa, inun libro che l’editore italiano ha significativamente intitolato:“Che cosa significa essere americani”, che ciò che è importantenella società americana, del Nord America, è ciò che sta asinistra del trattino. Gli americani si qualificano, infatti, con iltrattino: afro-americani, italo-americani, anglo-americani,ispano-americani, ecc. Diceva Walzer che quello che identifical’americano è ciò che sta a sinistra del trattino: cioè afro, italo,ispanico, ecc., mentre ciò che è a destra - americano - è quelcomplesso di principi di coesione politica senz’altroimportante, perché rappresenta la misura della realtà che ognicittadino deve avere per la patria americana, ma non è ciò chetocca il cuore. Il cuore sta a sinistra, il sentimento sta lì e stanell’essere africani, nell’essere italiani, nell’essere irlandesi ecosì via.

Nella società americana queste identità forti si manifestanogià da decenni, praticamente da quando si sono formati gli StatiUniti. Ma, grazie al fenomeno di globalizzazione comunicativa,ormai si affermano anche in altri contesti, che in passato, dasecoli, erano contesti mono-culturali. Oggi, ha scritto unantropologo, Appadurai, in Germania, dove c’è una fortecomunità turca che raggiunge qualche milione di abitanti, unturco può continuare benissimo a essere quello che è: andarenel suo posto di lavoro e comunicare in tedesco, regolarsisecondo le leggi tedesche, e poi grazie ad una televisionesatellitare, per esempio, vedersi tutti i film, tutti i programmi,tutti i telegiornali del suo paese d’origine. Tornato a casa con lamoglie e con i figli, parlerà nella sua lingua originaria. Quindi,in fondo, non assimilerà più la lingua e la cultura del popolotedesco.

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Da noi, in passato succedeva invece che chi trovavafinalmente posto in una fabbrica di Milano, dopo qualchemese, in maniera artificiosa assumeva già la parlata milanese,perché era un momento di emancipazione. Lui dovevaassimilarsi al lombardo, al milanese: in fondo lì aveva trovatola sua identità, aveva trovato il posto di lavoro, aveva trovatouna rete sociale che lo accoglieva e che lo faceva sentirecittadino. Voleva perciò manifestare con questo accentomilanese, appena dopo qualche mese, la sua nuova identità.

Adesso però non succede più, non solo per i meridionali chevanno al nord, ma neanche per il turco, per il marocchino, peril senegalese che viene dalle nostre parti, perché ciascunocoltiva le sue relazioni nell’ambito della propria comunità equindi vuole che venga rispettata questa identità e vuole anchedegli spazi pubblici in cui possa manifestarla. Se è religiosovorrà insieme agli altri correligionari avere un luogo di culto,avere la moschea.

Noi siamo abituati invece a dare i sussidi pubblici soltantoalle nostre chiese, o a qualche sinagoga se c’è qualche ebreo,ma non siamo abituati a pensare che si debba fare una moscheae costruire addirittura un minareto o cose del genere. Ci sonoproposte di legge leghista che cercherebbero di vietare che sipossano costruire moschee se non uniformandole al contestoarchitettonico del Paese: praticamente fare delle chiese e nondelle moschee.

Poi ci sono anche delle false identità. Le false identità sonoquelle che noi ci costruiamo attraverso gli strumenti nuovi delcomunicare, attraverso Internet, attraverso un meticciatoculturale artificioso.

Anni fa fece il giro dei giornali una vignetta sul New-Yorkerin cui si vedevano due cani davanti ad un computer, connessocon Internet. Un cane diceva all’altro: “Il bello di internet è cheio posso scrivere e nessuno sa che sono un cane”.

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Effettivamente l’identità attraverso internet non si riconoscepiù. (Può darsi però che prima o poi ci si arrivi).

Ci sono false identità, poi, che nascono da unacontaminazione artificiosa e strumentale. Questo avvienespecialmente a livello politico con i teo-con della destraamericana, ma anche della destra italiana. Per un certo periodoabbiamo avuto addirittura un presidente del senato che sifaceva paladino di questo movimento. Oggi, lo possiamo dire(prima era difficile perché poteva sembrare una polemicaantiistituzionale e i capi delle nostre istituzioni vanno semprerispettati per il rispetto dovuto alle istituzioni) perchè Pera èsolo un deputato: egli non ha esercitato secondo il dovutoquella funzione nel momento in cui – sposando la tesi di uncristianesimo secolarizzato, intessendo dialoghi con l’alloracardinale Ratzinger sulla base di un cristianesimo di cuiassumeva soltanto alcuni spunti etici e non la sostanza perchési dichiarava naturalmente non credente e laico – ha conl’autorità dell’istituzione che rappresentava accreditato unafalsa identità, perché costruita su un cristianesimo parziale.C’era per esempio, nel quadro di una consonanza conGiovanni Paolo II sulle radici cristiane dell’Europa comebarriera contro l’Islam, una critica forte alle sue posizioni sullapace: siccome l’impegno del Papa per la pace non gli andavabene, insegnava al Papa cos’era in realtà il cristianesimo.

Queste sono delle false identità che si vanno ormaicostruendo nella nostra società, la quale diventa una societàliquida, come dice Bauman, in cui non sappiamo bene qualisiano le effettive identità, perché tutto è soggetto aliquefazione. Abbiamo dei non credenti che insegnano al Papacome si deve fare il Papa, abbiamo dei credenti che voglionochiedere al Parlamento di rispettare non soltanto la loro fede,ma una certa loro visione dei problemi etici, dimenticando chec’è una Costituzione che detta i principi e le regole del gioco. I

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parlamentari devono rispondere innanzitutto alla Costituzionese vogliono essere fedeli al loro mandato.

Il riconoscimento delle identità

Queste identità, alcune vere e altre false, chiedono unriconoscimento pubblico: cioè, coltivate nel privato, nellafamiglia, nelle associazioni, non si accontentano di essereessere rispettate ma chiedono di essere pubblicamentericonosciute.

La ragazza musulmana vuole portare il velo anche a scuola,non solamente per strada: chiede un pubblico riconoscimento.Il cristiano, il cattolico chiede che ci sia il Crocifisso nellescuole. Anche quello è il riconoscimento di una identità chenon è di tutti. In certe comunità si chiede di poter praticare lemutilazioni genitali femminili alle bambine perché ciò èinterpretato come un rito che rappresenta l’ingresso dellabambina nella più vasta comunità, quindi un riconoscimentopieno della identità. Così come del resto per gli ebrei è normalela circoncisione dei maschi.

Qualcuno poi comincia a chiedere anche ilricongiungimento al coniuge musulmano che lavora in Italia daparte di quella che è la sua seconda moglie. E questo crea unaltro problema per il nostro Paese. Possiamo riconoscere ilricongiungimento ad una persona che, secondo il nostro diritto,non può essere sposata, proprio perché il marito è già sposatocon un’altra donna?

Oppure si possono avere casi in cui si chiede che nellascuola pubblica si abbiano delle classi formate in manieraomogenea per alunni che hanno la stessa religione: per esempiole classi islamiche. A Milano è sorto un problema di questogenere a cui si è cercato di dare delle risposte: ma abbastanzacontroverse.

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Quali le risposte a questi problemi?

Quali sono le risposte che possiamo dare a questi problemi?Schematizzando, potremmo dire che ci sono due risposte

tradizionali e storicamente radicate in due Paesi: la Francia e ilRegno Unito.

1. Il Regno Unito è un Paese di tradizione imperiale equindi Londra è stata per secoli il centro di commerci, diculture, di etnie. Era la capitale del Commonwealth e quindi hasempre consentito nella sua tradizione che le varie comunitàetnico-religiose potessero vivere con ordinamenti propri,specialmente nel campo delle convinzioni più eticamentesensibili: la famiglia, il matrimonio, le scuole.

In questo campo l’Inghilterra riconosce l’efficacia civile dimatrimoni religiosi, fatti secondo le forme che le varie culture,le varie comunità esistenti nel suo territorio tradizionalmenteconcepiscono. Oppure consente che si possono formare classiformate da alunni di una sola religione e così via.

L’Inghilterra è arrivata anche oltre: ha riconosciuto, in unalegge recente, che persone religiose, i sikh, i cui maschi nonpossono tagliarsi i capelli e quindi portano un turbante perraccoglierli (ma lo portano tutti, anche quelli che i capelli nonli hanno più, perché il turbante è un segno religioso), possanoandare in motocicletta senza mettersi il casco. Una normadettata per la sicurezza sulla strada viene così derogataaddirittura per motivi di carattere religioso.

Si potrebbe dire che il motto del Regno Unito è “Fate pure,l’importante è che assicuriate la coesione politica e l’ordinepubblico”.

Naturalmente questa concezione è entrata in crisi dopol’attentato alla metropolitana, perché ci si è resi conto che acompiere quegli attentati non erano dei kamikaze venutidall’Oriente come alle torri gemelle di New York, ma eranoragazzi inglesi, cresciuti ed educati in quelle famose classi

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islamiche e nelle loro comunità e quindi erano figli di Londra,di origine diversa e di cultura diversa. Erano stati proprio loro afare quegli attentati alla metropolitana.

Allora è entrato in crisi il patto, che riconoscevapubblicamente queste diversità, perché dall’altra parte l’ordinepubblico non è stato affatto rispettato.

Anche l’Inghilterra allora comincia a tornare indietro: sulleclassi omogenee per esempio c’è un forte ripensamento, nelsenso che si incomincia a vietarle.

La risposta tradizionale inglese è di caratterecomunitaristico, nel senso che riconosce le varie comunità. Allimite, se dovessimo adottare questo schema, potremmo averecomunità islamiche, in cui è possibile avere matrimonipoligamici, e comunità cattoliche, in cui invece è impossibileavere il divorzio. Del resto, in Italia si cercò 35 anni fa da partedella Chiesa di ottenere che il divorzio valesse soltanto per imatrimoni civili e non anche per i matrimoni religiosi coneffetti civili. Una regola simile, se fosse stata adottata, sarebbestata una soluzione all’inglese.

La soluzione fu diversa, giustamente, perché i diritti dicittadinanza sono uguali per tutti, qualunque sia la forma dimatrimonio che abbiano scelto a suo tempo. In un caso sichiama divorzio, nell’altro caso si chiama cessazione deglieffetti civili, però gli effetti sono gli stessi.

2. Una seconda risposta è quella della Repubblica francese.La Francia è una comunità che ha un suo ruolo nella storia,

una comunità di destino.Il preambolo della Rivoluzione Francese dice: “La Francia è

una repubblica democratica laica”. È l’unico stato che usa giànel preambolo della sua Costituzione questo aggettivo. LaFrancia vuole quindi che tutti quanti i cittadini abbiano unostatuto identico. Ogni abitante dell’ex impero francese puòchiedere la cittadinanza francese, però in questo caso si deveadeguare a quella che è la legge uguale per tutti.

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Tre anni fa si è avuta una legge, la legge Stasì, dal nomedella Presidente della commissione che l’aveva elaborata,secondo cui non è possibile portare negli spazi pubblici, inparticolare nelle scuole, dei segni di carattere religioso inmaniera vistosa. Quindi sono vietate grosse croci, oppure ilvelo delle ragazze islamiche e così via.

Questa è un’altra impostazione: non si riconoscono più lediversità, ma vale l’uguaglianza soltanto. Mentre nel RegnoUnito ci sono soltanto le diversità, qui la soluzione è opposta.

Soluzione con falle vistose, perché la Francia, in alcuniterritori d’oltremare, ammette che si possa andare con il velo ascuola. Quindi quella legge vale soltanto per la Franciaeuropea, non vale per gli altri paesi. La Francia è anche il paeseche finanzia regolarmente, purchè rispettino alcuni standardsqualitativi, scuole private, anche di carattere confessionale,ponendosi in maniera abbastanza contraddittoria con ilprincipio di laicità dello Stato.

Le risposte dell’Inghilterra e della Francia, che prospettanosoluzioni di carattere diametralmente opposto, non riesconoquindi a bilanciare sicuramente l’uguaglianza e la diversità.

Si può essere uguali e diversi?

È possibile bilanciare uguaglianza e diversità? Io penso disì. La nostra Costituzione consente questo bilanciamento: cioèsi può essere uguali e diversi. E questa è la sfida del giornod’oggi: da un lato riconoscere le diversità, ma dall’altrosalvaguardare quel nucleo fondamentale di valori che fannocorpo con la democrazia e che quindi rappresentano il nostrofattore di coesione sociale. Senza questi valori la nostra societàsi frammenterebbe in tante comunità quante sono quelleesistenti nel nostro territorio. E quindi non saremmo più uguali.

L’uguaglianza ha una tensione universalistica che ci mettedavvero tutti sullo stesso piano, che non mette nessuno alla

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mercé del suo gruppo confessionale, del suo gruppo culturale,della sua minoranza linguistica. Questa è la conquista davveroimportante dell’uguaglianza che non consente che ci siano deinuovi príncipi, come possono essere le formazioni sociali:chiese, confessioni religiose, partiti, sindacati, ecc., perchéquesti nuovi príncipi dominano chiunque aderisca al credo, allostatuto del partito, ai regolamenti anche non scritti e così via.

L’uguaglianza rende possibile al giudice di entrareall’interno di questi gruppi per sindacare se sono almenosalvaguardati i diritti fondamentali della persona.E questa è unaconquista che dobbiamo cercare di salvaguardare.

D’altro canto, l’uguaglianza non significa appiattire tuttiquanti e non riconoscere le diversità, perché non abbiamobisogno di una società come quella della rivoluzione culturalecinese, in cui tutti si vestivano alla stessa maniera e quindivenivano appiattite le differenze: addirittura la differenza digenere.

L’idea di laicità pluralista

In questo senso io credo che bisognerebbe mandare avantiuna idea che la nostra Corte Costituzionale ha da tempoenunciato: l’idea di laicità, ma intesa in senso pluralistico.

Il termine “laicità” è scritto nella Costituzione francese,laicità è anche quella inglese, laicità è quella americana (anchese lì il termine usato è piuttosto “separatismo”). Però nel casofrancese la laicità è di carattere esclusivista, perché cerca diescludere le differenze nello spazio pubblico; quindi è unalaicità in qualche modo ostile alle persone, alle loro identità.Una ragazza islamica, che entra nella scuola e si sente vietaredal dirigente scolastico il porto del velo, avvertirà questa laicitàcome un fatto ostile alla sua identità: “Perché non posso vestirecome penso di dover vestire?”.

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Una ragazza inglese questi problemi non li troverebbe, inlinea di massima. Anche se l’Inghilterra, con il ripensamento inatto ha cominciato a concedere alle scuole e ai presidi lapossibilità di non far entrare in classe le ragazze con il velo.Ma anche questa laicità accogliente non è priva di problemi pergli inglesi: si tratta comunque di trovare qualcosa cheaccomuni tutti gli studenti. Se uno va vestito non come credema come gli è imposto dalla sua religione o dalla sua culturac’è qualcosa che li tiene insieme? Il fatto di vivere il temposcolastico, di avere delle nozioni e una trasmissione di saperi,basta? Gli alunni sono dei clienti della scuola oppure c’è ancheuna comunità? La possiamo chiamare comunità scolastica,palestra dell’educazione delle persone, dei cittadini? C’è anchequesto fattore di coesione oppure non c’è nient’altro a parte lediversità, perché tutta l’educazione avviene poi nelle comunitàdi appartenenza?

Una laicità di carattere pluralistico probabilmente è quello dicui noi abbiamo bisogno e verso la quale la nostragiurisprudenza costituzionale, le nostre leggi, in qualche modoci orientano.

Che significa questo?

Uguali e diversi

Significa bilanciare nella laicità la uguaglianza e ladiversità, cercare di essere uguali e diversi.

Faccio qualche esempio.* Prendiamo il caso del velo delle ragazze musulmane. Si

può o non si può portare il velo?Da noi si può, perché le nostre leggi prevedono che soltanto

nelle manifestazioni pubbliche non si possa circolare con ilvolto coperto in modo da non farsi riconoscere: in tal casofacciamo prevalere il motivo della coesione sociale e il motivodell’ordine pubblico.

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Da noi una legge come quella inglese che consente almotociclista sikh di andare senza casco non sarebbeammissibile, proprio perché riconosciamo sì la possibilità diandare vestiti come si crede, purché però non si vengano adoffendere alcuni principi che di sicurezza pubblica.

Naturalmente dobbiamo distinguere: va bene la ragazza conil velo a scuola, ma va bene lo stesso anche l’insegnante con ilvelo? Qui si può ragionare perché essere vestiti in un certomodo può rappresentare una forma subliminale dicondizionamento dei ragazzi da parte dell’insegnante. Ma finoad un certo punto, almeno finchè si tollera senza problemi che,al di là del velo, ci siano anche insegnanti che vanno vestite,per dire, con i pantaloni a vita bassa: anche quello può essereun condizionamento subliminale.

In questo campo entriamo in un problema più vasto che nonè più quello semplicemente della religione e della culturadell’insegnante, ma del modo di vestirsi da parte di chi ha unafunzione anche pedagogica nel trasmettere saperi, nello stessomodo di comunicare. E l’abbigliamento è un modo dicomunicazione sia pure implicito. Entriamo in un campo chenon riguarda più le religioni soltanto, ma riguarda il modo diporsi davanti agli alunni.

In Belgio hanno adottato una soluzione che secondo me èmolto accettabile, anche dal punto di vista di una laicità acarattere pluralistico. Era capitato il caso di alcune ragazze chefrequentavano l’università e facevano anche degli stage, fuoridalla scuola, in cui facevano loro le insegnanti peresercitazione. Nel caso delle ragazze islamiche con il velo laCorte d’Appello di Liegi ha stabilito un principio che moltointelligente perché bilancia l’uguaglianza e la diversità.

Ha stabilito: nel momento in cui le ragazze vanno nella loroscuola e sono davvero soltanto delle alunne possono portare ilvelo, ma nel momento in cui vanno a fare lo stage fuori efanno, sia pure per esercitazione, la parte dell’insegnante,

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personificano una funzione pubblica e allora non possonoportare il velo.

Si vede come è possibile bilanciare la diversità con ilprincipio di uguaglianza e quindi con il principio di neutralitàdello Stato, perché lo Stato non si identifica con nessuna delleconcezioni esistenti nella società.

* Una soluzione diversa potremmo averla per le classiislamiche. C’è un principio scritto in un’intesa tra lo Stato e laChiesa Cattolica vent’anni fa per l’insegnamento dellareligione nelle scuole pubbliche, secondo cui i dirigentiscolastici provvederanno alla formazione delle classi secondogli ordinari criteri, cioè non tenendo conto del fatto che iragazzi abbiano dichiarano di avvalersi o di non avvalersidell’insegnamento della religione cattolica. Lo scopo è dievitare delle classi omogenee, delle classi cioè di soli alunniavvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica. Perchéallora avremmo delle classi cattoliche e poi magari avremmoall’interno della Chiesa cattolica una galassia, come adesempio classi di Comunione e Liberazione, ecc. Si potrebbearrivare ad avere perfino la classe dei figli di genitori noncredenti.

Questo principio sta in un’intesa con la Chiesa cattolica, main realtà è espressione di un principio di carattere generale,quello del pluralismo scolastico.

La scuola pubblica ha la sua funzione forte, la sua essenza,soprattutto nel pluralismo.

In teoria ciò che giustifica la pubblicità della scuola è il fattoche l’arte e la scienza, dice l’art. 33 della Costituzione, sonolibere e libero ne è l’insegnamento.

Attraverso questa libertà di insegnamento si consente che siformi la libertà degli alunni e tutto ciò comporta che vi sia uneffettivo pluralismo a prescindere dalle opzioni di caratterereligioso.

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Io capisco quanto è stato fatto a Milano, anche perchéconosco la persona che stava dietro quella proposta: è unprofessore dell’università cattolica, Paolo Branca, persona digrande cultura e di assoluta apertura verso i nuovi problemiposti dalla necessità di integrazione. Però non ho condivisoquella proposta fatta allo scopo di favorire l’ingresso di ragazzemusulmane nella scuola pubblica superiore, consentendo laformazione di una classe islamica. Si voleva sottrarre leragazze all’autoritarismo della propria comunità musulmana efavorire la loro carriera scolastica, piuttosto che la dispersionescolastica, ma la risposta a questa pienamente condivisibileesigenza a mio avviso era ed è sbagliata, perché contrasta con ilprincipio del pluralismo scolastico. Finisce che per raggiungereuno scopo del tutto condivisibile vengono distrutti altri principiche sono fondamentali per la scuola.

* Così è per le mutilazioni dei genitali femminili. Quello èun altro campo in cui noi non possiamo consentire con chi lepratica perché, anche secondo l’Organizzazione Mondiale dellaSanità, esse sono delle lesioni volontarie.

Semmai si tratta di distinguere, perché le mutilazioni nonsono dello stesso tipo, al fine di individuare possibili forme dibilanciamento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità neenuncia quattro. Alcune sono molto leggere e quindiassomigliano alla circoncisione dei maschi ebrei e noncomportano delle diminuzioni o degli indebolimenti di organisessuali. Ci sono degli esperimenti, fatti da un medico diorigine somala che opera all’ospedale di Careggi di Firenze,che ha eseguito semplicemente delle punture di aghi sulclitoride in modo che esca qualche stilla di sangue. Così il ritoè compiuto, ma non succede niente e non c’è nessunamutilazione.

Si possono, come si vede, ideare delle metodiche per evitareche avvenga la vera e propria mutilazione cercando di

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salvaguardare il rito, visto che per le persone di una certacultura è importante.

Si può anche cercare di vedere quale sia il modo miglioreper fare emergere queste pratiche e quindi evitare unapenalizzazione eccessiva di questi reati, che mettono sul bancodegli imputati i genitori e perciò la persona offesa, una figlia,normalmente una ragazzina, è in una condizione di imbarazzo,di ricatto psicologico, perché denunciare il fatto significamandare in carcere il padre. La legge approvata l’anno scorso afine legislatura prevede botte da orbi, reclusioni fino a 10, 15anni, e a queste condizioni nessuno denuncerà un genitore percondannarlo ad una reclusione così lunga per un fatto avvertitodalla comunità cultural-religiosa, di cui la persona offesacontinua a far parte, come un atto lecito. Si avrà una fortepressione anche sulle persone culturalmente più avanzate (chesono tra gli islamici sempre più numerose) a non denunciare ilfatto per non sgretolare il nucleo familiare.

Il nostro compito invece è di aiutare queste persone, chehanno realizzato un cammino di emancipazione e diintegrazione, a far emergere, anche a livello giudiziario, questifatti, in modo da poterli effettivamente contrastare: contrastarecon un’opera educativa, con la persuasione, con il far capireche non è quel rito il modo necessario perché una ragazza siemancipi e faccia parte a pieno titolo della comunità, anchesecondo la religione. Nel Corano, infatti, non è prescritta comeobbligo la pratica delle mutilazioni: è una pratica di alcunepopolazioni del centro Africa e riguarda soprattutto imusulmani, ma è diffusa anche tra i cristiani, i cattolici deipaesi del centro Africa.

Insomma si tratta, senza acconsentire alle pratiche dimutilazione, di favorire con opportuni accorgimentil’emersione del fenomeno per poterlo contrastare.

* Un ultimo esempio: il matrimonio poligamico.

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Per la nostra civiltà il matrimonio è monogamico, tant’è cheuna persona già sposata non può sposarnecontemporaneamente un’altra: il codice civile lo vieta. Nonpossiamo nemmeno riconoscere un matrimonio poligamicocelebrato all’estero.

Tuttavia in questo caso la laicità pluralista può consentire,ad esempio, che i figli nati dal secondo matrimonio, quello cheper noi è un matrimonio in contrasto con l’ordine pubblico,vengano riconosciuti nei loro diritti alla pari dei figli del primomatrimonio. Questa è già una forma di bilanciamento. Non siriconosce il matrimonio, però si riconoscono alcuni effettiderivanti da quel matrimonio, come per esempio i figli.

La Corte di Cassazione ha già fatto un paio di sentenze suidiritti ereditari in questo senso. Si è trovata infatti davanti alcaso di figli, diciamo così, di primo letto, che contrastavano glialtri, perché non volevano farli partecipare all’eredità, inquanto nati da un matrimonio poligamico. La Cassazione hadetto che, senza riconoscere quel matrimonio, però se nepossono riconoscere alcuni effetti come l’esistenza dei figli.

Così per quanto riguarda il ricongiungimento della secondamoglie al marito che vive in Italia, lavora in Italia e ha lacittadinanza italiana con la prima moglie. Può la secondamoglie chiedere il ricongiungimento? In un primo momento c’èstato un provvedimento del questore di Bologna che avevaimpedito il ricongiungimento proprio a motivo del matrimoniopoligamico inammissibile. Poi, però, questo provvedimento èstato impugnato davanti al TAR dell’Emilia Romagna, che hasospeso l’efficacia dell’atto amministrativo, per il motivo cheper i figli era importante vivere con entrambi i genitori.

Questa è un’altra forma di bilanciamento nel senso che ilmatrimonio poligamico non viene riconosciuto e quindi ilricongiungimento viene motivato non in virtù di un matrimonionon riconoscibile ma esclusivamente del superiore interesse delbambino.La bussola in questo caso non è il riconoscimento del

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secondo matrimonio, ma il diritto del bambino a vivere conentrambi i genitori.

Conclusione

Io credo che il bilanciamento fra uguaglianza e diversità siapossibile.

L’art. 3 della nostra Costituzione dice infatti: “Tutti icittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione disesso, di lingua, di razza, di religione, di condizioni sociali”.Sono molto importanti queste parole: “senza distinzione”.

Si è uguali senza distinzione. Non si dice che siamo ugualicontro le distinzioni, perché non vogliamo le distinzioni. Ledistinzioni ci sono, le riconosciamo, ma non devono diventaremotivo di discriminazione tra i cittadini. E devono esserericonosciute purché non comportino delle disuguaglianze.

Se i cittadini sono disuguali a motivo delle distinzioni noiandiamo contro la Carta costituzionale, ma se i cittadini sonouguali pur conservando le proprie distinzioni, questo èconforme alla norma. Non è una norma banale:dell’uguaglianza siamo tutti convinti dalla Rivoluzionefrancese in poi. Invece questa norma ha un senso più forte,proprio per il fatto che riconosce che ci sono delle distinzioni,quindi dà rilevanza giuridica alle distinzioni, alle differenze,alla diversità, e dice che ciononostante, a partire da questedistinzioni, dobbiamo essere uguali.

È il bilanciamento che è necessario fare tra uguaglianza edifferenza.

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Per fare questo cosa occorre?

Occorrono delle leggi e occorre che i giudici continuino asvolgere il tipo di lavoro che emerge da sentenze come quellecitate della Corte Costituzionale, della Cassazione, del TARdell’Emilia Romagna, del Pretore di Torino, nella direzione diquesto bilanciamento. Sarebbe ora semmai che anche illegislatore si desse una mossa di orientamento saggio, perchénon sempre azzecca il bilanciamento tra questi problemi.

Vorrei però sottolineare che questo è un problema che spettasoprattutto a noi, spetta a tutta la società, perché il legislatore, ilgiudice, alla fine si muovono con le antenne che si indirizzanoall’anima profonda della nostra società. Questo bilanciamentoquindi può avvenire se noi abbiamo una società davverodialogica. Il dialogo tra le diversità come caratteristica dellanostra società dipende esclusivamente da noi.

Il dialogo è annuncio, dichiarazione della propria identità.Un dialogo che annulla le differenze non serve. Il dialogo èannuncio delle nostre radici, della nostra cultura, che per noi èla cultura occidentale. Ma è anche silenzio, il dialogo, ascoltodell’identità dell’altro.

Non bisogna fare il predicatore e dire alle persone: “Fatecosì altrimenti non entrate in questa comunità” Perché alloraavremo delle comunità separate. È sbagliato affermare: “Più cisepareremo e meglio convivremo” come sosteneva un gruppodi estrema destra in Alto Adige. Lì è stato Alex Langer ilpolitico che ha rappresentato davvero un progetto diintegrazione reale. Una persona di cultura tedesca come lui,non si dichiarava né ladino, né tedesco, né italiano quandofacevano il censimento. E perse anche il posto di lavoro, perchénon è possibile in Alto Adige insegnare, o comunque avere unompiego pubblico, senza dichiarare l’appartenenza ad ungruppo linguistico. Così una persona positiva per l’integrazione

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è stato in Alto Adige Rheinold Messner, che rinunciava apiantare la bandiera del Tirolo sulle montagne “conquistate”.Non piantare nessuna bandiera significa fare silenzio.

Dialogo significa annuncio, ma anche silenzio. Dobbiamodomandare se noi riusciamo a farlo.

La figura di Nicodemo: un esempio di dialogo

Vorrei che ci sintonizzassimo in proposito su una figura delVangelo che a mio avviso è significativa: Nicodemo che va dinotte a parlare con Gesù.

Secondo una certa apologetica, una certa interpretazione,che a mio avviso non ha fondamento (ma io non sono unesegeta e mi posso sbagliare), Nicodemo è un convertito.

Ci sono però altri passi del Vangelo in cui si vede cheNicodemo non si è convertito, perché ha continuato ad andarenel Sinedrio, a far parte dei dottori della legge. Anzi, vieneattaccato dai dottori della legge perché nel momento in cuiGesù doveva essere arrestato, lui interviene dicendo: “Dove siè visto che secondo la nostra legge si arresti una persona senzaprima averla ascoltata?”.

È incredibile: Nicodemo nel Vangelo enuncia un principioche noi abbiamo affermato soltanto 50 anni fa nellaConvenzione europea dei diritti dell’uomo. Naturalmente isoldati lo criticano: “Ma tu sei della Galilea come lui? E tusaresti un dottore della legge?”. Nicodemo va incontro a questacritica, però rimane ancora un dottore della legge. Nel sinedriorimane in minoranza.

Nicodemo è una persona che secondo me conserva la suaidentità. All’epoca era chiaro che la predicazione di Gesùrappresentava una cultura diversa, un’interpretazione diversadella legge rispetto a quella dei dottori.

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Nicodemo probabilmente rimane nel suo ruolo, rimane nellesue convinzioni, però va ad ascoltare Gesù e gli fa delledomande, cerca di capire qual è la mentalità e l’identità diquella persona. Certo, se ne lascia conquistare, tant’è che vainsieme a Giuseppe d’Arimatea a chiedere anche il corpo diGesù, che altrimenti sarebbe rimasto, secondo le usanzedell’epoca circa la pena della crocifissione, esposto per giorni.Tanto più che il giorno successivo era sabato e non si potevarimuoverlo. Nicodemo va insieme a Giuseppe d’Arimatea achiedere il corpo a Pilato: un gesto di carità, di accoglienzaverso una vittima. Però Nicodemo rimane un dottore dellalegge.

Il dialogo con Gesù, tra due persone culturalmente diverse, èun’icona del dialogo occorrente nella nostra società, che devedire di no al monologo. Sotto questo profilo il nostro occidenteha provocato dei danni enormi.

Todorov, un sociologo, mette in evidenza un’annotazionenei diari di Cristoforo Colombo sbarcato in America: “Sonovenute delle persone davanti a noi; erano un centinaio madavanti a 10 nostri soldati armati sono fuggiti a gambe levate”.Colombo inclinava a credere che non fossero degli uomini,visto che scappavano davanti a loro senza combattere. Dunque,l’altro non veniva considerato nella sua identità, anzi non eraun uomo, dal momento che non adottava la nostra culturabellica, guerrafondaia.

No al monologo ma no anche all’opposto del monologo, aquello cioè che potremmo chiamare un eccesso di culture, percui sembra che si debba soltanto rispettare le culture e non cisia niente che ci possa mettere assieme. Faccio un esempio deigiorni nostri. Don Gallo, un prete di Torino che vive una realtàa maggioranza di immigrati racconta come in una scuola dellasua città si fosse organizzata una delle solite festicciole inclasse, in cui anche si mangia qualcosa insieme. Siccomealcuni ragazzi erano figli di immigrati maghrebini, si pensòbene di preparare tra l’altro un cuscus come fatto di

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intercultura. Alla fine una maestra domanda ad uno deiragazzini magrebini: “Com’è questo cuscus?”. E quello:“Buono, ma la mia mamma lo fa meglio”. La maestra replica:“È chiaro che la tua mamma lo sa far meglio. Ma dicci: comelo fa la tua mamma?”. Risponde: “Fa uno strato di cuscus e unostrato di gnocchi, uno strato di cuscus e uno strato di gnocchi”.

In quella maniera molto semplice il bambino e la suamamma danno un grande esempio, cominciando dal mondoculinario, di dialogo e di integrazione tra diversità.

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Dibattito

Per quanto riguarda l’intervento sui vissuti, il conflitto tra leidentità è molto forte. È naturale che quando si tratta dicomunità tendenzialmente totalizzanti, cioè che in manieraintegralistica non vedono la distinzione tra fede, cultura diorigine e politica, che è la casa di tutti, dobbiamo trovare deimotivi, delle ragioni per stare insieme e quindi fareeventualmente delle rinunce; quando ci si trova di fronte acomunità del genere, il conflitto è notevole.

Quello che possiamo fare è cercare di capire le ragioni delconflitto ed essere inflessibili là dove viene lesa la dignitàumana e quindi i diritti fondamentali delle persone, ma essereal contrario temperanti, tolleranti quando si tratta di usanze, dipratiche che si possono in qualche modo armonizzare con inostri principi.

Approfitto per comunicare a tutti qualche osservazione, chemi è stata fatta durante l’intervallo da persone che dovevanoandar via, la quale si accorda con questo tipo di domanda: “Sec’è la donna che non vuole farsi visitare nell’ospedale da unmedico uomo, che si fa? Le si dice: “Questo è il medico diturno, quindi ti arrangi?”. Io credo che è fattibile, è possibileinvece aspettare un altro turno, chiamare un medico donna erispettare la cultura di questa persona che è abituata a farsivisitare da persona del proprio sesso.

La Cassazione francese una volta si è occupata del problemadel musulmano che non può toccare carne di maiale. Avevatrovato lavoro in un supermercato e la mansione a cui era statoaddetto era quella di confezionare vari cibi, tra cui anche lecarni di maiale. Il datore di lavoro aveva licenziato ilmusulmano per inadempienza del contratto di lavoro.

La Cassazione ha ritenuto giustificato il licenziamentoperché i francesi non ammettono che le differenze religiosedebbano emergere nella sfera pubblica. Ha detto che, soltantose questa indisponibilità a manipolare carne di maiale fosse

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stata dedotta nel contratto di lavoro, il licenziamento sarebbestato ingiustificato. Figuriamoci se oggi un immigrato, unextracomunitario è in grado di contrattare le sue mansioni conil datore di lavoro! Non mi pare una decisione realistica quellafrancese.

Da noi, molti anni fa, invece ci fu una decisione piùtollerante, che io assumerei come esempio. Un pretorelombardo ritenne ingiustificato il licenziamento di un operaioche, per aver maturato un orientamento pacifista, si rifiutava, inuna fabbrica d’armi, di lavorare in quel settore. Il pretore disseche il licenziamento era ingiustificato se il datore di lavoro nondimostrava di non poter adibire il lavoratore ad altre mansioni,che non fossero a contatto con la fabbricazione delle armi.

Questo mi sembra un atteggiamento più tollerante, perchénon mette in discussione il fatto che la produzione deve esseresalvaguardata in una fabbrica, però, là dove sia possibileadibire il lavoratore ad altre mansioni, è un gesto di tolleranzariconoscere, nei limiti dell’iniziativa economica e del profittodel datore di lavoro, le differenze, riconoscere le identità.

Il caso del taglio dei capelli da parte dei genitori ad unaragazza che aveva disobbedito, mi pare un fatto abbastanzaemblematico, perché viene interpretato dal giudice come unatto repressivo. Solitamente invece significa anche un’altracosa. Siccome però era capitato dopo la trasgressione dellaragazza, il giudice ha ritenuto che fosse un atto repressivo. Inrealtà non era tale.

Il tema delle difese culturali è molto presente nelle nostresocietà occidentali. Difese culturali è un termine che usano gliamericani per individuare una categoria di difese dell’imputatonei processi, quando cioè l’imputato si difende da un’azioneconsiderata illecita secondo il Codice penale. È un’azione checorrisponde ai dettami di una cultura o di una religione.

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In America ci sono state alcune decisioni che hannosuscitato molto clamore. Un americano, aderente a unareligione orientale che aveva sequestrato e violentato unaragazza, è stato assolto in primo grado perché, secondo lareligione dell’imputato, questo era il modo con cui sidichiarava la volontà di sposare una ragazza.

Evidentemente anche in Italia succedevano queste cose. C’èun film sui costumi siciliani di Pietro Germi, di qualchedecennio come fa, Matrimonio all’italiana, che racconta unastoria simile.

Ma ormai nel nostro Paese non costituisce unadiscriminante, una causa di giustificazione, o un attenuante ilfatto che, per esempio, dei genitori non consentano latrasfusione di sangue per il proprio figlio a motivo delcomandamento religioso.

Ci fu il caso di due coniugi cagliaritani, testimoni di Geova,che una ventina d’anni fa si erano difesi con quella che sichiama difesa culturale, appellandosi al comandamento divino.E la Cassazione ritenne tutto ciò essere irrilevante dal punto divista penale. Ormai il problema non esiste più: si fannopossibilmente le autotrasfusioni e perfino nell’intesa con itestimoni di Geova non figura alcuna disciplina speciale sulletrasfusioni di sangue.

Nel campo delle difese culturali bisogna procedere moltocauti, non fare di tutta l’erba un fascio, mettendo sullo stessopiano trasfusioni di sangue, stupro e taglio dei capelli.

Per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana,credo che nelle scuole si debba cercare di stimolare questaconoscenza reciproca. Abbiamo il testo unicosull’immigrazione, quello del 98, cosiddetto - Turco-Napolitano – riformato dalla Bossi-Fini soltanto per quantoriguarda i permessi. I principi fondamentali sono rimastiuguali.

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Questa legge, agli artt. 42 e 43, prevede nelle scuoleprogrammi e attività di carattere interculturale per conoscere leidentità, le lingue, le usanze dei ragazzi immigrati, semprecomunque sul presupposto che si studi italiano e la storiaitaliana.

Io credo che è nella scuola che si deve incentivare, stimolarela conoscenza della lingua italiana, però non in una manieraesclusiva.

Se questa è casa nostra, ma è anche la casa di tutti, noipossiamo pensare che la conoscenza della lingua italiana possaessere incrementata anche attraverso lo sforzo di conoscenza daparte nostra delle lingue degli altri o per lo meno delle lorousanze, delle loro culture, ecc.

Quella legge prevede addirittura che nella biblioteca dellescuole ci siano dei libri che riguardano le pratiche, le usanze, lastoria, la lingua di queste altre persone.

Non so se ci siano delle risorse economiche destinate arealizzare questo, ma la legge è fatta benissimo.

Per i genitori, per gli adulti che vengono nel nostro Paesecredo però che dobbiamo accettare in qualche modo che cipossano essere dei livelli di pigrizia nell’apprendimento dellanostra lingua. È infatti una situazione transitoria. È soprattuttosulla scuola che bisogna puntare per avere questa integrazionee quindi anche perché si conosca meglio l’italiano.

Le distinzioni vengono avvertite spesso come minacce. Noici sentiamo spaesati. Non so quale sarebbe la mia reazione seabitassi all’Esquilino, per dire un quartiere di Roma checonosco bene. Mi troverei in difficoltà, perché in alcuni punti,per le persone che circolano, per il tipo di negozi e delle merciin esposizione sembra di non essere in Italia. Molti reagisconocambiando quartiere, così come mandano i figli alle scuoleprivate, per salvaguardare un certa identità.

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È una risposta sbagliata, perché questa identità rafforzata sisentirà sempre più minacciata nel momento in cui entra incontatto ma senza conoscere l’altro.

Noi costruiremmo in questa maniera una serie di monadiche non comunicano tra di loro, di compartimenti stagni.

Che fare per bilanciare?La speranza è sempre nella scuola pubblica. La risposta

della scuola privata è sbagliata perché costruisce un’altramonade. Se invece le politiche regionali, o le politiche statalisono nel senso di dare risorse alla scuola privata, è chiaro cheabbiamo messo le basi perché i genitori aumentino la domandadi scuola privata. Una politica chiara sarebbe quella di negarefinanziamenti alle scuole private proprio a motivo dellanecessità di realizzare l’integrazione.

Ho partecipato la settimana scorsa a un convegnoorganizzato a Roma da un’Associazione che si chiama “Scuolae Costituzione - per la scuola della Repubblica”. Unfunzionario del ministero dell’istruzione ha indicato alcunecifre del finanziamento destinato alle scuole private in base allalegge sulla parità scolastica fatta nel 2000, essendo ministroBerlinguer. Si prevedeva che fossero date delle risorsefinanziarie alle scuole private in attesa di un certo regolamentoche non è stato ancora emanato. Nella legislatura scorsa,essendo ministro Tremonti, nel quadro di un tagliogeneralizzato delle risorse destinate al sociale, fatto nella leggedi bilancio, erano stati sottratti 150 milioni di euro alle scuoleparitarie. Era un taglio.

La nuova finanziaria del governo di centrosinistra, tuttavia,ha aumentato la quota prevista nella legge di bilancio, così lasomma effettivamente erogata alle scuole private è di 100milioni di euro. In quella sede venne fuori una polemica:perché il centrosinistra, che dovrebbe essere per la scuolapubblica, non conferma, quanto meno, la stessa cifra diminuitada Tremonti e invece l’aumenta?

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Se non incentiviamo la scuola pubblica, se i dirigentiscolastici della scuola pubblica non hanno risorse per allestirela biblioteca interculturale, non possiamo poi lamentarci se nonc’è integrazione.

Quanto alle scuole tenute dai religiosi, se anch’essediventano un modo per salvaguardare l’identità credo che ireligiosi avrebbero il dovere di dire di no.

Mi hanno fatte vedere scuole di salesiani a Rio de Janeiro,circondate da muri di cinta alti 3 metri. Rappresentanoesclusivamente le scuole dei bianchi che non si voglionometicciare con nessuno.

Sono rimasto estremamente sorpreso perché da noi isalesiani sono altro. Lì invece ho visto scuole per i ricchi, cheservono appunto a distinguere, a salvaguardare i ricchi.Secondo me questo è sbagliato.

Io sono molto amico di alcuni gesuiti che hanno dei collegicome ben sappiamo. Già cinquant’anni fa vi si andava perchénon si facevano scioperi, si studiavo soltanto. Non vorrei cheadesso la motivazione sia diventata altra: quella di preservareun’identità. Credo che non fosse (solo) questa l’intenzione disant’Ignazio.

Questa è una possibile risposta, ma certamente non puòessere l’unica.

Ci sono modelli culturali che vengono dalle religioni. Ilclero ammonisce: “Occorre che i governanti non distrugganole famiglie con le loro leggi”. Oppure si stigmatizza ilmatrimonio in Comune, ecc.

Io sono cattolico, ma mi sono sposato in Comune, ho fatto ilmatrimonio cosiddetto anticoncordatario: mi sono sposatoprima in Comune e poi in chiesa nella stessa giornata. Sonosposato civilmente agli effetti della legge italiana. Ho avuto ladispensa ecclesiastica - perché secondo il codice di dirittocanonico ci si deve sposare religiosamente e chiedere gli effetti

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civili del matrimonio religioso - da un vescovo illuminato.Eravamo nel 1974. Come mai la Chiesa italiana ha fatto passiindietro? Dal 1974 al 2007 questi esempi non li troviamo più.

Certo il vescovo ci interrogò, ci chiese per quale motivovolevamo far in questo modo. Quando si accertò che lemotivazioni erano valide, ha dato la dispensa. Oggi sarebbeinimmaginabile una cosa del genere, ma questo è un segno diregressione, perché dopo 35 anni le cose dovrebberomodificarsi in maniera più aperta, più tollerante.

Stamani ho fatto una dichiarazione a Telepace per quantoriguarda i DICO, la difesa della famiglia, ecc. Ho detto che ilproblema oggi non è quello della difesa. La famiglia è fondatasul matrimonio: questo è l’unico modello di famiglia che noiabbiamo per Costituzione.

Non si deve dire, come si sente dire spesso sui giornali: lafamiglia tradizionale. Non c’è una famiglia tradizionale e poiuna famiglia nuova, o le convivenze, i pacs e cose del genere.Non è così. L’unica famiglia è quella fondata sul matrimonioper Costituzione.

Noi possiamo dire che c’è un’altra famiglia, ma alloradobbiamo cambiare la Costituzione. Se la Costituzione rimaneinvariata, allora dobbiamo dire che l’unico modello di famigliaè quello fondato sul matrimonio.

Il problema è quello poi di vedere se c’è una tutelaattribuibile anche ad altre forme di convivenza. Finchérimangono nel buio, nel sommerso, naturalmente provocanouna disuguaglianza tra coniugi e quindi una minore tutela delconvivente economicamente più debole e così via.

Allora cosa dobbiamo fare noi? La linea sembra quella didifendere la famiglia. Ma come si difende la famiglia?Negando diritti ad altre forme di convivenza?

A mio avviso la risposta l’ha data mons. Bettazzi. Lafamiglia bisogna difenderla allora anche dall’attacco deldenaro, dell’usura, di tutta una serie di attacchi nei confrontidei quali noi non possiamo nulla.

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Il problema non è quello di difendere la famiglia, ma quellodi promuoverla, come diceva il cardinal Martini inun’intervista. Non negando diritti ad altre forme di convivenza;all’opposto, il problema è quello di riconoscere diritti ad altreforme di convivenza promuovendo con altre forme di sostegnola famiglia.

Quindi è in modo positivo che bisognerebbe chiedere allegislatore italiano di intervenire, non nel senso di difenderequesta nicchia in cui si è costituita la famiglia, negando dirittiagli altri.

Concediamo il diritto alla compagna di Strehler (un caso checapitò anni fa) di andare a visitare il suo compagno morente,quando invece fu esclusa perché in quel momento subentrò lamoglie ormai separata di fatto da vent’anni.

Questa è tutta la questione: non difendere, ma promuovere.Se si promuove si possono concedere determinati diritti ad

altre forme di convivenza.

Come mai la Costituzione viene disattesa e come istruire ilpopolo italiano?

La Costituzione viene disattesa perché noi (noi come classepolitica, ma anche come comunità generale dei cittadini) nonsiamo ancora entrati nell’idea che la Costituzione sia una leggesuperiore, non una legge tra le altre. È una legge superiore, unaspecie di bussola che deve orientare tutta la legislazioneordinaria, non farsi orientare dalla legislazione ordinaria.

Si sta facendo a livello parlamentare una revisionestrisciante della Costituzione del 1948. Non una revisioneformale, perché grazie a Dio quella l’abbiamo bocciata inmaniera clamorosa l’anno scorso. Stiamo facendo unarevisione strisciante, perché modifichiamo di fatto, peresempio, una norma fondamentale, l’art. 36, secondo cui “Ognilavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata allaquantità e alla qualità del lavoro svolto, ma comunque tale da

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assicurare a lui e alla propria famiglia un’esistenza libera edignitosa”.

La retribuzione non è una variabile dipendente dal mercatosecondo il nostro costituente, è una variabile indipendente,perché deve essere tale da assicurare comunque un’esistenzalibera e dignitosa non solo al lavoratore, ma anche alla suafamiglia. È una norma di grande spessore morale.

A Bari avevamo ideato un’iniziativa per cui si chiedeva adei professori di commentare un brano del Vangelo, dellaBibbia, secondo la loro cultura. Lo si chiedeva a persone noncredenti, agnostiche. Ricordo che lo chiesi a un professore didiritto privato ateo che mi disse: “Io voglio commentare ilbrano degli operai della vigna, quello in cui arriva l’operaiodella undicesima ora e riceve la stessa retribuzione dell’operaiodella prima ora il quale protestò”. Ma il padrone della vignareplicò: “Di che ti lamenti? Io ti ho dato quello che avevamopattuito. Sarò pure padrone di dare quello che voglio a quelloche ha lavorato soltanto un’ora”.

Gli chiesi perché proprio quel brano e mi rispose: “Perchécosì posso spiegare l’art. 36 della Costituzione”.

Vedete quale suggestione ha l’art. 36 della Costituzione. Senoi però andiamo avanti con tutte le flessibilità che abbiamointrodotto nei nostri rapporti di lavoro non c’è più il lavoro atempo indeterminato, ma solo lavori a contratti progetto, co-co-co, forme di precariato diffuse. Questa che cos’è? È unarevisione della Costituzione. Significa dire che l’art. 36 è unanorma come un’altra che non orienta nella legislazione di ognigiorno, altrimenti la legge Biagi non sarebbe stata fatta, almenoin quei termini.

Altro esempio: l’art. 24 della Costituzione dice che la difesaè sacra in ogni stato e grado del processo e l’art. 13 chenessuno di noi può essere ristretto nella sua libertà personale senon per ordine dell’autorità giudiziaria. Se però noiesageriamo, come fa la riforma dell’ordinamento giudiziario,nel sottoporre i magistrati ad una serie di concorsi interni per

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progredire in carriera, essi, piuttosto di pensare a fare giustizianel caso concreto, penseranno a fare delle belle sentenze perprocurarsi titoli idonei a superare i gradini di valutazioneperiodici.

Con questi marchingegni il nostro diritto di difesa, il nostrodiritto di cittadini a non essere privati della libertà personale senon per ordine motivato, viene ridimensionato. Non è che iMagistrati godono di un’indipendenza per loro, perché sonouna categoria privilegiata, ne godono per noi, perché ognicittadino deve sapere che dietro a ogni magistrato c’è soltantola sua coscienza e la sua conoscenza delle legge, non c’è undirigente o un governo che gli può dire come deve giudicare.

Questa è la garanzia. Poi, naturalmente, c’è una serie dimagistrati infingardi e fannulloni che magari approfittano diquesta indipendenza per non lavorare abbastanza. Però intermini istituzionali la garanzia è a favore di tutti i cittadini.

Come fare di fronte a questa serie di revisioni strisciantidella Costituzione? Siamo sempre lì. Primo: se nella scuola nonsi insegna la Costituzione, e di fatto non si insegna, allora nonpossiamo lamentarci. Bisogna trovare il tempo per insegnare laCostituzione magari anche con delle verifichedell’pprendimento.

Secondo: quando lanciò i Comitati per la Costituzione nel1994 Dossetti diceva di farli sorgere addirittura in ogniquartiere, possibilmente per fare della Costituzione un libro dilettura corrente. Quindi chiedeva un lavoro di base.

Dossetti era talmente intriso della cultura costituzionale chenegli ultimi anni della sua vita, nel 94-95, accettò di andare ingiro a fare qualche lezione. In una di queste, a Pordenone inuna comunità di giovani cattolici, raccomandò: “Se poi ilVangelo è così difficile da seguire, per lo meno osservate laCostituzione”.

Era questo il concetto che aveva Giuseppe Rossetti dellaCostituzione e, come componente dei comitati da lui promossi,non posso non richiamare questo grande insegnamento.

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Per quanto riguarda il diritto di voto ai cittadini straniericredo che lo si debba ormai riconoscere almeno a livelloamministrativo. A livello politico no, bisogna essere cittadiniitaliani per votare, anche se poi con questa storia dei cittadiniitaliani all’estero abbiamo creato difficoltà. Queste persone nonhanno più nessun rapporto con la comunità nazionale.Abbiamo così un senatore Pallaro che dice al governo: “Se midai 15 milioni di euro da spendere in America Latina ti do ilvoto a favore della finanziaria”. Lui non risponde a nessuno,perché è chiaro che chi vota in Argentina o altrove per ilParlamento italiano non ha assolutamente nessuna idea precisadei problemi che riguardano il nostro Paese. Danno la delegaalla persona che è capace di raccogliere consenso e questi se nepuò servire per un potere di carattere personale.

Sono stato di recente in Argentina e ho fatto una conferenzaal circolo degli italiani di Buenos Aires; ho notato che con meparlavano in italiano, più o meno, però tra loro parlavano inspagnolo. Mi ha fatto una certa impressione, perché è comesuccede da noi: nei rapporti formali si parla in italiano, poiognuno di noi con i familiari parla in dialetto. Se così è ormai,mi pare che abbiano molto più diritto di votare i cittadinistranieri che vivono nel nostro Paese.

In tutta questa questione ci facciamo fuorviare dallacittadinanza. Quelli sono comunque italiani all’esterno, masono italiani. Questi invece sono stranieri, anche se stanno inItalia. Allora i primi votano e i secondi no. La realtà è invecedel tutto diversa. Questi stanno davvero da noi e sanno qualisono i nostri problemi e debbono partecipare in qualche modoalla vita delle istituzioni, quelli invece vivono ormai in un’altrasituazione.

Comunque dare il diritto di voto ai cittadini stranieri,almeno sul piano amministrativo, penso sia un dovere.Naturalmente parlo di un diritto di voto che si dovrebbeesprimere attraverso rappresentanti non solo a carattere

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consultivo, ma con un voto deliberativo, sia pur limitato amaterie che li possono riguardare.

L’ultimo intervento è di prospettiva, sulla quale sonod’accordo. Bisognerebbe avere un progetto, una visione disviluppo della società a livello mondiale, avere delle coordinateverso cui muoverci.

Come al solito il problema è di carattere educativo e dicarattere politico. Noi dobbiamo avere la consapevolezza che lenostre identità sono delle identità parziali, quindi cercare giàsul piano educativo, nell’ambito scolastico, di saperci vederetutti quanti sulla linea di confine, dove appunto le identità nonsono mai delle identità definite.

In questa maniera noi possiamo vedere le cose al di qua delconfine, ma possiamo vedere, perché il confine è facilmenteraggiungibile e oltrepassabile, anche dall’altra parte delconfine.

È questa linea di confine che dovremmo cercare diconcepire. Non è facile, perché si tratta di fare non qualcosa incui tutte le identità si perdono, il melting pot come dicono gliamericani, ma di fare il salad bowl, la ciotola in cui gliingredienti dell’insalata sono mescolati insieme, ma si possonoanche distinguere. Stanno tutti assieme con la propria identità.

Credo che questa possibilità di concepire le nostre identitàcome identità parziali sia un imperativo da seguire. Potremmodire anche con il Lévinas di “Totalità e infinito” che dovremmoessere capaci di pensarci non in maniera totale, totalizzante, manella maniera dell’infinito, del non finito, di ciò che non haconfine. Levinas arriva a dire che la nostra identità è nell’altro,è il volto dell’altro, perché il volto dell’altro dice che cosa iosono.

Può sembrare un’impostazione troppo filosofica, pococoncreta, ma è la realtà. Se io riesco a vedere nell’altro non unaltro da me, ma addirittura il mio volto stesso, allora supero la

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linea di confine. Non c’è più un finito, un totale, ma c’è il nonfinito.

Questo è lo sforzo che dovremo fare. In fondo se facciamole Nazioni unite, se pensiamo a un nuovo ordine mondiale, ilprogetto c’è. La dichiarazione dei diritti fondamentali dellenazioni Unite del ’48, le varie convenzioni europee, anche unaconvenzione islamica sui diritti dell’uomo, a che cosa tendonose non a ipotizzare questo nuovo ordine universale in cui non cisono più delle identità che si contrastano una con l’altra, ma incui ognuna riconosce la propria finitezza e quindi il fatto didoversi concepire insieme a tutte quante le altre identità?

La dichiarazione dei diritti fondamentali sono moltoimportanti perché non fanno altro che costituzionalizzare delleesigenze, dei bisogni di tutte le culture, di tutti gli uomini.

Ed è significativo che per esempio la prima volta che unPapa, Giovanni XXIII nella Pacem in terris, ha citato non sestesso, non solo i documenti della Chiesa, ma un documento“laico”, ha citato appunto la dichiarazione universale dei dirittidell’uomo. Come dire: c’è una possibilità anche per le Chiesedi aprirsi ad un orizzonte infinito.

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che esso è stato trascritto direttamente dalla registrazione.