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DOMENICA DI PENTECOSTE Alla Messa vespertina nella vigilia Queste letture vengono proclamate nella Messa che si celebra la sera del sabato sia prima che dopo i Primi Vespri della domenica di Pentecoste. II Colletta Rifulga su di noi, Padre onnipotente, Cristo, luce da luce, splendore della tua gloria, e il dono del tuo Santo Spirito confermi nell’amore i tuoi fedeli, rigenerati a vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo...... Dopo la solennità dell'Ascensione del Signore la Chiesa celebra una settimana di preparazione alla venuta dello Spirito. Non si tratta della novena di Pentecoste, ma dei giorni dopo l'ascensione che hanno caratteristiche particolari destinate a porre in risalto l'evento solenne della Pentecoste: le collette delle Messe di ogni giorno sono incentrate sulla venuta dello Spirito Santo, in questa settimana durante la celebrazione dei Vespri viene cantato l'inno Veni Creator Spiritus, le antifone del Benedictus e del Magnificat di questi giorni sono incentrate sullo Spirito Santo. Una settimana dopo l'Ascensione si giunge, dunque, alla Pentecoste che rappresenta l'ultimo giorno del tempo di Pasqua, ma allo stesso tempo identifica anche tutti e cinquanta i giorni del periodo pasquale. La Pentecoste, che celebra la venuta dello Spirito Santo sui discepoli, è stata vista dai Padri come la pienezza della Pasqua: è la ''festa delle feste" del cristianesimo, perché esprime e celebra quel mistero della "morte - resurrezione di Gesù - dono dello Spirito" da cui sgorga la salvezza per tutta l'umanità. La Pentecoste è innanzitutto una domenica, giorno del Signore. È il culmine del tempo di Pasqua che si chiude proprio la sera della domenica di Pentecoste. Dopo la celebrazione vespertina di Pentecoste, infatti, si spegne il cero pasquale e lo si depone presso il fonte battesimale e potrà essere nuovamente utilizzato durante l'anno per accendere alla sua fiamma le candele dei neo-battezzati nella celebrazione del battesimo, o per essere collocato accanto al feretro nella celebrazione delle esequie, a indicare che la morte è per il cristiano la sua vera Pasqua. La Pentecoste è una solennità fortemente legata alla Pasqua, ma è anche memoriale della nostra Confermazione, della nostra Pentecoste personale. La bellezza, la ricchezza e l'importanza di questo periodo per la vita del cristiano possono essere sintetizzate con le parole di Sant'Agostino: " Il giorno di Pentecoste è per noi il gran sacramento della felicità. Infatti passa questo giorno, ma non passa la vita che questo giorno significa"

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DOMENICA DI PENTECOSTE Alla Messa vespertina

nella vigilia Queste letture vengono proclamate nella Messa che si celebra la sera del sabato sia prima che dopo i Primi Vespri della domenica di Pentecoste. II Colletta Rifulga su di noi, Padre onnipotente, Cristo, luce da luce, splendore della tua gloria, e il dono del tuo Santo Spirito confermi nell’amore i tuoi fedeli, rigenerati a vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo...... Dopo la solennità dell'Ascensione del Signore la Chiesa celebra una settimana di preparazione alla venuta dello Spirito. Non si tratta della novena di Pentecoste, ma dei giorni dopo l'ascensione che hanno caratteristiche particolari destinate a porre in risalto l'evento solenne della Pentecoste: le collette delle Messe di ogni giorno sono incentrate sulla venuta dello Spirito Santo, in questa settimana durante la celebrazione dei Vespri viene cantato l'inno Veni Creator Spiritus, le antifone del Benedictus e del Magnificat di questi giorni sono incentrate sullo Spirito Santo. Una settimana dopo l'Ascensione si giunge, dunque, alla Pentecoste che rappresenta l'ultimo giorno del tempo di Pasqua, ma allo stesso tempo identifica anche tutti e cinquanta i giorni del periodo pasquale. La Pentecoste, che celebra la venuta dello Spirito Santo sui discepoli, è stata vista dai Padri come la pienezza della Pasqua: è la ''festa delle feste" del cristianesimo, perché esprime e celebra quel mistero della "morte - resurrezione di Gesù - dono dello Spirito" da cui sgorga la salvezza per tutta l'umanità. La Pentecoste è innanzitutto una domenica, giorno del Signore. È il culmine del tempo di Pasqua che si chiude proprio la sera della domenica di Pentecoste. Dopo la celebrazione vespertina di Pentecoste, infatti, si spegne il cero pasquale e lo si depone presso il fonte battesimale e potrà essere nuovamente utilizzato durante l'anno per accendere alla sua fiamma le candele dei neo-battezzati nella celebrazione del battesimo, o per essere collocato accanto al feretro nella celebrazione delle esequie, a indicare che la morte è per il cristiano la sua vera Pasqua. La Pentecoste è una solennità fortemente legata alla Pasqua, ma è anche memoriale della nostra Confermazione, della nostra Pentecoste personale. La bellezza, la ricchezza e l'importanza di questo periodo per la vita del cristiano possono essere sintetizzate con le parole di Sant'Agostino: " Il giorno di Pentecoste è per noi il gran sacramento della felicità. Infatti passa questo giorno, ma non passa la vita che questo giorno significa"

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PRIMA LETTURA Dal libro della Gènesi (11, 1-9) Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. Parola di Dio.

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Gen 11,1-9 La torre di Babele Il Libro della Genesi è il primo dei cinque libri che compongono la parte della Bibbia chiamata «Pentateuco» (o, in ebraico, «Torah») contenente l’indicazione del cammino da seguire per realizzare una vita pienamente riuscita perché vissuta in ascolto di Dio e del suo progetto. L'opera si sviluppa come un grande dittico, formato da due grandi affreschi, e va compresa spostando continuamente lo sguardo dall'uno all'altro, perché nessuna delle due parti è completa in se stessa. Nel primo affresco (1,1-11,26) ritroviamo la narrazione dell'origine del mondo, degli esseri viventi e, in ultimo, dell’umanità. Sono qui affrontati i grandi interrogativi sull'esistenza che gli uomini e le donne di ogni epoca storica si pongono riguardo alle origini dell'universo e dell'uomo, alla propria identità, al giusto rapporto con Dio, al problema del bene e del male, del dolore, della morte, alla crescita dell'umanità e al suo differenziarsi nello scorrere del tempo. Nel secondo affresco (11,27-50,26), il mondo e la storia dei primi esseri umani sono lo sfondo su cui prende rilievo il quadro della nascita del popolo ebraico e della sua missione iniziata fin dal tempo dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Il racconto si conclude con la migrazione in Egitto di Giacobbe e della sua famiglia. In ogni momento, il protagonista delle vicende è sempre e soltanto Dio che, con la sua presenza e la sua parola, proietta una luce di speranza anche sulle situazioni più angosciose. La Genesi appartiene a un genere letterario particolare: il mito. Come tutti i libri sacri, essa non vuole avere il carattere di un testo storico o scientifico, e non deve essere letta come se narrasse fatti avvenuti in un lontano passato e in un determinato luogo geografico. Ciò che interessa all’autore sacro non è dire "come" Dio abbia creato gli animali o l’umanità, bensì manifestare l’amore di Dio, indicando qual è il senso del Creato e dell’uomo in relazione con il Creatore, e offrire una risposta religiosa ad alcune delle vicende fondamentali che l'uomo incontra vivendo la propria vita. Il racconto è comprensibile solamente a patto di tenere ben presenti alcuni dati: Dio c'è, opera - e operando si manifesta - e desidera comunicare ancora oggi il suo messaggio attraverso ciò che si sta leggendo. La liturgia propone la parte iniziale del capitolo 11, il brano sulla torre di Babele. Una delle conseguenze deteriori dell'umanismo è lo spirito di autonomia, la pretesa di essere autosufficienti, cioè di creare una civiltà senza Dio che sia in sé "perfetta" e talmente buona da bastare a se stessa. Il racconto conosciuto come "la torre di Babele" è l'emblema di quell'arroganza religioso-politica che vorrebbe imporre a tutti il proprio potere, ma alla fine genera confusione e dispersione; la diversità dei popoli appare così come “divisione”, frutto negativo di quell'arroganza. È una storia che si ripete tutte le volte che l'uomo s'illude di ricostruire da solo il paradiso sulla terra, tutte le volte che egli confida solo nel suo sapere e nelle proprie capacità. Se manca la Parola di Dio a cementare e unire, ogni progetto umano crolla, anche se sembra positivo. Grazie al dono dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, gli Apostoli torneranno ad essere compresi da popoli parlanti lingue diverse, vincendo così la spaccatura originata a Babele. All'inizio l'autore sacro presenta l’umanità in una situazione ideale di «unità nella diversità». L'espressione «avere un’unica lingua» (v. 1) nei testi mesopotamici antichi indica il pensarla tutti allo stesso modo, l'avere un unico grande progetto politico; avere «uniche parole» manifesta il desiderio di applicarsi a un'unica opera culturale. Durante la migrazione gli uomini vengono a trovarsi nella regione di Sinar, cioè in Mesopotamia,

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dove decidono di dare origine alla civiltà urbana. Essi sfruttano la scienza e la tecnica (v. 3: «mattoni» cotti e «bitume», materiali edili tipici della Mesopotamia) per costruirsi «una città» con al centro «una torre» altissima (è il senso di «toccare il cielo»). La «città» indica un progetto unitario di convivenza e di lavoro; la «torre» equivale a un “potere centrale” sia politico sia religioso. L'immagine che ha in mente l'autore sacro è probabilmente quella delle città mesopotamiche, costruite con due cinte murarie: una per proteggere le abitazioni dei cittadini, e l'altra a difesa della “cittadella" ove si trovava il tempio al dio protettore, ben visibile poiché costruito su un'alta torre a gradoni, la «ziqqurat». L'impresa è un tentativo di costruire qualcosa che duri e che sia segno di unità per tutti: ognuno deve avere la città e la rocca interna come punto di riferimento costante, sapendo che esiste una strettissima alleanza tra potere regale e potere religioso. L'intenzione di questi uomini potrebbe sembrare buona, ma in realtà si sta tentando di costruire una "cultura monolitica" consistente in un unico modo di pensare, lavorare, credere. Il progetto è una sfida umana ai limiti dello spazio; con una costruzione «la cui cima tocchi il cielo» l'uomo vuol rinnegare la propria creaturalità, vuole arrivare al cielo da solo, farsi la sua santità indipendentemente da Dio. Ma questo progetto è anche una sfida dell'umanità ai limiti del tempo; gli uomini lo elaborano per se stessi (4 volte il riflessivo "-ci"), per «farsi un nome», cioè per crearsi una fama che duri per sempre, essendo questo per gli antichi l'unico modo per assicurarsi l’immortalità (v. 4). Attraverso le proprie realizzazioni, l'umanità cerca quella perennità che per i testi biblici è garantita solo a chi si mette in mano al Signore come hanno fatto Abramo, Davide e Gesù di Nazaret. Contravvenendo al preciso ordine divino di «riempire la terra» (cfr. 9,1.19; 10,5.20.25.31.32), gli uomini hanno deciso di stabilirsi su uno stesso luogo (v. 4c) per paura di vivere "dispersi", di confrontarsi con le differenze etniche, culturali, politiche e religiose, dimostrando così di non aver fiducia in Dio e nel suo progetto. Il Signore "scende" (v. 5) non certo per approvare e neanche per punire, quanto piuttosto per ristabilire il suo disegno originario (v. 7). Riconosce che i desideri umani possono portare l'umanità molto lontano (v. 6), anche a osare l'impossibile, ma ricorda ai suoi figli che è impossibile “abitare tutti sulla stessa terra-regione”: non è possibile infatti costruire un impero universale, perché presto o tardi crollerà inevitabilmente! Il tentativo dell'uomo di non accettare i suoi limiti spazio-temporali e linguistico-culturali è destinato al fallimento totale. Dio non è geloso dell'abilità umana, non contrasta il progresso scientifico, non è geloso delle scoperte dell'ingegno umano, solamente non accetta che queste ricchezze diventino motivo di sfrontatezza e di arroganza oppure pretesti per abbandonare il rapporto d'amicizia con lui. Perciò c'è la dispersione e la confusione. Il nome «Babele» («Bab-el», cioè "Babilonia") significa “porta di El/Dio" ma ora diventa «balal»= “confusione" (11,9). Chi cerca di costruire una uniformità politico-culturale che elimini le differenze, alla fine dei conti si ritrova con la massima confusione, con l'incomprensione assoluta. Ciò che era nato al di fuori di Dio viene sradicato, perché l'uomo può arrivare al cielo solo se lo conduce il Signore; soltanto sulla Parola di Dio è possibile edificare e vivere nell'unità. Il Creatore desidera che i suoi figli vivano fino in fondo la ricchezza della diversità, arrivando alla "convivialità delle differenze"; infatti, l'eliminazione delle differenze rende la vita umana piatta e ripetitiva, anche se rassicurante. La differenziazione linguistica è segno della fecondità del genere umano, perché rende possibile il dialogo tra le persone umane, per loro natura "diverse" ma "unite" nella loro origine di essere state tutte "plasmate con la polvere della terra" dal Signore. Il racconto, allora, segnala un intervento provvidenziale di Dio, una benedizione (non un castigo, né tantomeno una "maledizione") che salva la pluralità delle lingue e delle culture.

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SALMO RESPONSORIALE (Dal Sal 32) (33)

Su tutti i popoli regna il Signore. Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni. R. Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità. Il Signore guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini. R. Dal trono dove siede scruta tutti gli abitanti della terra, lui, che di ognuno ha plasmato il cuore e ne comprende tutte le opere. R.

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SECONDA LETTURA Dal libro dell’Esodo (19, 3-8a.l6-20b) In quei giorni, Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti». Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!». Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono foltissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Parola di Dio.

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Es 19,3-8a.16-20b L’alleanza sinaitica Il libro dell’Esodo si divide in due parti, di cui la prima (cc. 1-18) narra l’uscita dall’Egitto, la seconda (cc. 19-40) l’alleanza sinaitica. Quest’ultima abbraccia due sezioni narrative (cc. 19-24 e 32-34) a ciascuna delle quali fa seguito un complesso di norme cultuali riguardanti il culto. La prima delle due sezioni sinaitiche inizia con parte del brano proposto dalla liturgia (Es 19,1-8) a cui fanno seguito la teofania, in cui sono inseriti i dieci comandamenti, un codice legislativo (20,22–23,33) e il racconto della conclusione dell’alleanza (c. 24). Il brano introduttivo a sua volta si apre con la notizia dell’arrivo degli israeliti alla sacra montagna (vv. 1-2). Segue una comunicazione da parte di Dio che si divide in tre parti: prologo storico (vv. 3-4); clausola fondamentale (v. 5a); promesse (vv. 5b-6). Prologo storico (vv. 3-4) Dio si appella anzitutto all’esperienza degli israeliti, ricordando loro quanto aveva fatto in loro favore. Di questa iniziativa salvifica egli sottolinea tre momenti. Anzitutto richiama «quello che ha fatto all’Egitto»: con questa frase viene indicato tutto il processo di liberazione, che è culminato nella distruzione dell’esercito egiziano presso il mare dei Giunchi. Egli sottolinea poi che li ha «portati su ali di aquile»: con queste parole si riferisce al tema dell’elezione e alla marcia nel deserto, espressa con l’immagine dell’aquila che solleva e conduce i suoi piccoli, quasi sollevandoli sulle sue ali (cfr, Dt 32,11). Infine accenna al fatto che li ha condotti a sé, cioè li ha guidati fino al monte della rivelazione. Il Sinai è il luogo in cui Dio abita: dopo averli liberati, egli vuole stabilire con essi un rapporto duraturo. La liberazione lascia così prevedere ulteriori sviluppi. Clausola fondamentale (v. 5a) L’iniziativa salvifica di Dio non è fine a se stessa, ma costituisce la premessa di nuovi doni divini. La particella «ora», con la quale si apre questa seconda parte del brano, indica appunto la stretta concatenazione che esiste tra quanto Dio ha già fatto per Israele e ciò che si appresta a fare (vv. 5b-6). Ma prima di manifestare le sue intenzioni Dio indica, in due frasi parallele, le condizioni che egli pone. Anzitutto gli israeliti dovranno ascoltare la voce di JHWH: con questa espressione viene indicato l’atteggiamento fondamentale di disponibilità, obbedienza e lealtà che Israele deve assumere nei confronti del suo Dio. Inoltre dovranno «osservare la sua alleanza»: il significato del termine «alleanza» (berît), la cui etimologia è incerta, assume diverse sfumature a seconda dei contesti in cui è usato. L’alleanza appartiene a Dio («la mia alleanza») perché ne è lui l’iniziatore. L’espressione «osservare l’alleanza» significa adottare un atteggiamento di fedeltà e di obbedienza verso colui che l’ha stabilita: nulla viene detto circa le norme specifiche che essa comporta. In queste due espressioni è racchiusa la clausola fondamentale dell’alleanza; da esse risulta che Dio, come risposta alla sua iniziativa salvifica, non esige in partenza prestazioni di vario tipo, quali particolari gesti di culto o comportamenti morali, ma un’adesione incondizionata, fatta di fedeltà e obbedienza. In un secondo tempo verranno date indicazioni più concrete (precetti), ma ciò che conta non sono le cose da farsi o da non farsi, bensì l’atteggiamento del cuore nei confronti di JHWH. Benedizioni (vv. 5b-6) Dopo avere indicato gli impegni che Israele deve assumersi, Dio descrive il dono ulteriore che intende conferirgli. Si tratta di una benedizione, le cui caratteristiche

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vengono delineate in tre espressioni parallele. Anzitutto gli israeliti diventeranno sua «proprietà particolare tra tutti i popoli» (v. 5b): il termine «proprietà» indica ciò che uno ritiene come particolarmente caro tra quanto possiede. JHWH è immaginato come un grande sovrano, al quale sono sottomesse nazioni numerose («...mia è tutta la terra»), le quali sono governate da lui in modo indiretto, mentre su Israele intende esercitare direttamente la sua sovranità. Inoltre essi saranno un «regno di sacerdoti (v. 6a): questa espressione potrebbe significare che Israele sarà governato da Dio stesso mediante una classe dirigente ("regno") costituita da sacerdoti: ciò è capitato effettivamente sia prima della monarchia che dopo l’esilio. Ma è più probabile che indichi il privilegio di svolgere come popolo una funzione sacerdotale in favore delle altre nazioni: Israele dovrà comunicare loro la volontà di Dio e rappresentarle davanti a lui nel culto. In alcuni testi del NT questo privilegio sarà presentato come caratteristica dei cristiani. Infine gli israeliti saranno una «nazione santa» (v. 6b): la santità consiste in una particolare vicinanza a Dio, il solo a cui questo attributo compete in senso pieno; essa rappresenta una prerogativa speciale dei sacerdoti. Se l’espressione «regno di sacerdoti» si applica solo alla classe dirigente, si sottolinea qui che anche i membri del popolo godranno di un rapporto strettissimo con Dio. Se invece, come è più probabile, la funzione sacerdotale è stata estesa a tutti gli israeliti, si afferma che proprio per questo compete loro una particolare santità. Il Signore chiede semplicemente l’ascolto della sua voce; non domanda prestazioni a suo favore, né contraccambio per quanto Egli ha fatto. All’invito del Signore prontamente Israele risponde, sempre attraverso la mediazione, estesa agli anziani del popolo, di Mosè, che sale di nuovo sul monte per riferire: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo» (19,8). La disponibilità del popolo a fare la volontà di Dio precede addirittura l’ascolto delle sue parole, a indicare la prontezza fiduciosa di un’obbedienza che non chiede garanzie né condizioni previe. La parola dovrà essere tuttavia ascoltata prima che il patto possa essere sigillato. Ascolto che chiede preparazione, disposizione aperta, cuore purificato (19,9-25). La prima teofania (vv. 16-25) Fino a questo momento Dio è stato per il popolo un interlocutore inavvertibile: ha sempre parlato attraverso Mosè, oppure si è manifestato con segni di provvidenza, mai direttamente. Egli continuerà a mantenersi invisibile, ma per la prima volta assistiamo adesso a una teofania (vv.16ss), cioè a una “manifestazione diretta”. A essere onesti, va letta come un fenomeno naturale, poiché siamo di fronte a una rivelazione paradossalmente velata: l’importante è che il popolo ascolti quello che vede e lo interpreti. Il fenomeno che accompagna la teofania ha tutte le caratteristiche dell’uragano. Temporale/uragano sono relativamente frequenti in quella area, giungono all’improvviso e la repentinità pare accentuarne fragore e potenza. Esiste inoltre un gioco di parole frequente nell’A.T.: il termine ebraico qol serve per indicare indifferentemente la voce umana, la voce divina e il tuono. Nei testi in cui si parla di apparizione di Dio i due significati di “voce del Signore” e “tuono” si incrociano e si accavallano, come in questo caso. Nello stesso tempo questo Dio che sul Sinai si rivela, mantiene una distanza col popolo, che fa sostare alle falde del monte (v.17), quasi non volesse farsi catturare. L’ambiguità della teofania del Sinai è coerente con tutto il resto del cammino di Israele che ha preceduto e che seguirà questo momento. Essa vuol assicurare che il Signore si lascia incontrare non solo come e quando vuole, ma anche perché egli decide liberamente di incontrarsi con il suo popolo. Decide l’incontro nella sua libertà, senza che lo si possa poi limitare a un luogo, a un’immagine, a un modo di manifestarsi.

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Nello stesso tempo l’uomo è sempre ugualmente libero di vedere queste manifestazioni per quelle che sono o di minimizzarle, riducendole a un fatto normale. L’alleanza non si basa sulle prerogative del popolo, ma su un dono gratuito di JHWH, che ha liberato Israele e lo ha condotto fino ai piedi della sacra montagna. A motivo di questa sua iniziativa, con la quale si è messo in rapporto con il popolo, Dio domanda ad esso di prendere coscienza del dono ricevuto, entrando a sua volta in un rapporto speciale con lui. Pur essendo un fatto giuridico, che include una legge da osservare, l’alleanza consiste essenzialmente in un rapporto interpersonale, che dà al popolo la possibilità di prendere coscienza di sé e di assumersi le sue responsabilità. La legge, promulgata da JHWH nel contesto della teofania, consiste nel decalogo, con il quale si impone ai singoli israeliti di essere fedeli a lui solo all’interno di rapporti interpersonali basati sulla giustizia e sul rispetto dei diritti dell’altro. In forza della benedizione di JHWH che fa seguito alla fedeltà nei suoi confronti, gli israeliti diventeranno il “popolo eletto”. Su questa prerogativa si basa la loro identità non solo religiosa, ma altresì politica e sociale: senza l’alleanza mancherebbe loro qualsiasi coscienza nazionale e quindi la possibilità stessa di sussistere come popolo. Il loro essere nazione non deriva dunque da un vincolo etnico preesistente, ma dalla scelta di Dio che, facendo di essi il suo popolo, affida loro, come ad Abramo (cfr. Gen 12,3), il compito di portare la sua benedizione a tutte le nazioni della terra. Nasce così una visione teocratica del popolo e una visione etnica della religione. Questa concezione rappresenta la forza del popolo, ma anche l’origine di deprecabili deviazioni, quali il fondamentalismo e l’esclusivismo nei confronti degli “altri”. L’antidoto a queste derive consiste nel carattere universale del piano di Dio («mia è tutta la terra») e nelle istanze di giustizia a cui è ispirata la legge. Dopo aver ricevuto il messaggio divino Mosè lo trasmette al popolo che, per mezzo degli anziani, dà la propria adesione. In forza di ciò che ha fatto per gli israeliti, JHWH ha piena autorità su di loro; egli però non impone l’alleanza ma si limita a proporla. Certo, un rifiuto avrebbe gravissime conseguenze, ma la richiesta divina mantiene il suo significato di proposta in quanto tende a suscitare una risposta libera: Dio non vuole servi, ma collaboratori, coinvolti fino in fondo nel suo progetto. Nella risposta del popolo («Tutto quello che JHWH ha detto, noi lo faremo!») si esprime la disponibilità ad accettare non solo la clausola fondamentale ma anche le norme particolari che saranno manifestate in seguito.

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SALMO RESPONSORIALE (Sal 102)(103)

La grazia del Signore è su quanti lo temono. Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici. R. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. R. Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d’Israele. R. Ma l’amore del Signore è da sempre, per sempre su quelli che lo temono, e la sua giustizia per i figli dei figli, per quelli che custodiscono la sua alleanza e ricordano i suoi precetti per osservarli. R.

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TERZA LETTURA Dal libro del profeta Ezechièle (37, 1-14) In quei giorni, la mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annuncia loro: “Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”». Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: “Così dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”». Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato. Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Perciò profetizza e annuncia loro: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”». Oracolo del Signore Dio. Parola di Dio.

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Ez 37,1-14 La risurrezione di un popolo Il libro di Ezechiele contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine viene posta una sezione chiamata «Torah di Ezechiele» (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione e il ritorno degli esuli nella loro terra. Nella sezione in cui si parla della rinascita di Israele (Ez 35-37), questa viene presentata come effetto di un dono dello Spirito (Ez 36,24-32), al quale viene poi attribuita la risurrezione di un popolo ridotto a una distesa di ossa inaridite (Ez 37,1-10). In 37,1-10 Ezechiele descrive una distesa immensa di ossa disseccate, sulle quali egli, per comando divino, invoca la venuta dello Spirito. Allora le ossa si rivestono di carne e di nervi e ritornano ad essere un esercito sterminato. Al termine della descrizione JHWH parla a Ezechiele e gli spiega che tutte le ossa che ha visto rappresentano gli israeliti in quanto essi vanno dicendo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo e perduti» (v. 11). È questo un grido di disperazione che sale da una popolazione che nell’esilio ha perso la sua identità e si è dispersa in mezzo a nazioni straniere. Da questa sconsolate constatazione ha preso origine l’immagine delle ossa disseccate che ritornano a essere persone vive. Adesso JHWH spiega, per bocca del profeta, come questa visione si applichi alla situazione futura del popolo. L’interpretazione della visione viene fatta mediante una promessa di liberazione: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele» (v. 12). L’immagine della distesa di ossa inaridite lascia qui il posto a quella di un grande cimitero con una moltitudine di tombe in cui sono sepolti gli israeliti. Questa immagine supplementare richiama il regno dei morti, nel quale il popolo è precipitato. Da esso ora JHWH lo fa risalire per condurlo nella terra di Israele. Con questa espressione si evoca l’uscita dall’Egitto, che rappresenta il prototipo di ogni liberazione, e il successivo ingresso nella terra promessa. In altre parole Dio promette un nuovo esodo che, dopo la catastrofe dell’esilio, assume i connotati di una risurrezione. La liberazione dall’esilio comporterà una nuova presa di coscienza da parte del popolo: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio» (v. 13). Il nuovo intervento di JHWH farà sì che il popolo lo conosca. Il verbo «conoscere» non indica qui, come in genere nel linguaggio biblico, una conoscenza puramente teorica e astratta, ma un nuovo rapporto amicizia basato sul compimento della volontà di JHWH contenuta nella sua legge. Si attua così quanto era stato promesso da Geremia nella profezia della nuova alleanza: «... tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (cfr. Ger 31,34). La promessa viene poi ripetuta secondo il linguaggio tipico di Ezechiele: «Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L'ho detto e lo farò. Oracolo del Signore Dio» (v. 14). Il dono dello Spirito rappresenterà una dotazione stabile per Israele che, in forza del suo influsso vivificante, ricomincerà a vivere in modo pieno. Dio lo «farà riposare» nel suo paese, come aveva fatto riposare Adamo nel giardino dell’Eden (cfr. Gn 2,15). È in forza di questa esperienza che gli israeliti «sapranno» (sperimenteranno) che «Io (sono) il Signore» il quale realizza quello che ha promesso: come garanzia del suo intervento Dio dà il suo nome, JHWH, che significa la sua presenza costante accanto al popolo per salvarlo (cfr. Es 3,14). In forza del suo nome JHWH non potrà non realizzare le sue promesse.

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In questo testo Ezechiele si serve del linguaggio della risurrezione per spiegare la liberazione del popolo dall’esilio. Non si tratta certo di una risurrezione in senso proprio, ma del ritorno a una vita piena dopo l’esperienza di una sofferenza che a buon diritto è considerata come una morte. Senza libertà la vita non è degna di essere vissuta. La liberazione promessa è un dono gratuito di Dio, che ha certo una componente politica, ma in ultima analisi si identifica con la ripresa di un rapporto con JHWH che comporta una fedeltà costante a lui. È proprio nel riconoscere in Dio il garante della sua liberazione che il popolo eviterà di cadere schiavo di potenze straniere, anche quando sarà politicamente sottomesso ad esse. Pur non riferendosi alla risurrezione individuale dopo la morte, l’immagine usata da Ezechiele ha posto le premesse per il successivo sviluppo della fede di Israele. Quando la restaurazione del popolo apparirà come un evento che si attuerà alla fine dei tempi, sorgerà il problema del destino di coloro che sono morti prima che questo evento si realizzasse, e soprattutto dei martiri che hanno dato la vita perché si attuasse la gloria finale del popolo. È allora che l’immagine della risurrezione sarà utilizzata per indicare la partecipazione di tutti i defunti alla beatitudine finale di Israele. Alla fine tutti i giusti torneranno in vita per entrare nella beatitudine del regno di Dio.

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SALMO RESPONSORIALE (Dal Sal 50) (51)

Rinnovami, Signore, con la tua grazia. Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. R. Tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore m’insegni la sapienza. Aspergimi con rami d’issòpo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve. R. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. R. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode. R.

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QUARTA LETTURA Dal libro del profeta Gioèle (3, 1-5) Così dice il Signore: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito. Farò prodigi nel cielo e sulla terra, sangue e fuoco e colonne di fumo. Il sole si cambierà in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il giorno del Signore, grande e terribile. Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato, poiché sul monte Sion e in Gerusalemme vi sarà la salvezza, come ha detto il Signore, anche per i superstiti che il Signore avrà chiamato». Parola di Dio.

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Gl 3, 1-5 L'effusione dello Spirito Il breve esordio del libro di “Gioele figlio di Petuèl” è il segno, per molti biblisti, che c’è una coincidenza fra redattore e autore del libro. La citazione ripetuta di Gerusalemme e il continuo rivolgersi ai sacerdoti possono dirci, con molta probabilità, il luogo, l’ambiente e gli interlocutori di Gioele. Il periodo potrebbe essere la prima metà del IV secolo a.C. o, al massimo, il V secolo. Il testo è ricco di citazioni provenienti da tutta la tradizione profetica, a volte rilette con scopo diverso: questo “ci fa capire chiaramente che il libro di Gioele è nato come «profezia letteraria» e come interpretazione dei libri profetici precedenti in prospettiva escatologica”. È un libro breve, solo cinque capitoli, posto fra Amos ed Osea. Questi due profeti lanciano un messaggio contrastante riguardo alla interpretazione dell’intervento di Dio. La collocazione di Gioele è probabilmente quella originaria, finalizzata “a intrecciare in una sintesi teologica plausibile il messaggio antitetico di Osea e Amos”. Il tema del libro è quello del “giorno di JHWH” e della difesa di Israele da parte di Dio nei confronti delle nazioni che rappresentano una minaccia. È quindi un annuncio di salvezza. La pericope proposta è di facile suddivisione. Proprio per il modo scelto di esporre l’argomento e la presenza di avverbi temporali, possiamo tenere presente questo schema costruito sui vv. 1-2 e 3-5: v. 1 a) indicazione temporale – effusione dello spirito;

b) destinatari dello spirito: ogni carne; c) conseguenze: profetizzano figli e figlie, sognano i vecchi e i giovani hanno

visioni;

v. 2 b1) destinatari dello spirito: schiavi e schiave; a1) indicazione temporale – effusione dello spirito.

vv. 3-4 intervento cosmico: Porrò a) segni in cielo e in terra;

b) sangue, fuoco e colonne di fumo; c) il sole cambierà in tenebra; d) la luna cambierà in sangue;

giorno di JHWH v. 5 intervento storico:

chiunque invocherà il nome di JHWH sfuggirà; così sul monte Sion e in Gerusalemme ci sarà scampo; e tra i sopravvissuti (ci saranno) coloro che JHWH chiama.

L’espressione temporale ha un duplice scopo: l’introduttivo «e avverrà» allarga l’orizzonte verso il futuro, mentre l’avverbio «dopo» sottolinea il rapporto con quanto avvenuto precedentemente. Questo terzo capitolo annuncia quindi qualcosa di nuovo, ha una prospettiva escatologica. Il verbo “effondere”, esprime l’idea di fuoriuscita da un recipiente. Il possessivo «mio» ci dice che questo “recipiente” è Dio, lo spirito fuoriesce da lui. Lo spirito, rûah, al femminile, è il vento, il respiro, qualcosa che si muove e muove, una realtà dinamica e forte che accompagna le manifestazioni di Dio.

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Lo spirito viene effuso su ogni uomo, ma il testo originale dice “carne” per indicare l’aspetto di debolezza e di mortalità. Allo stesso tempo ci dice che la totalità delle persone riceverà questo dono di Dio. Lo spirito nella Bibbia è sempre connesso alla profezia. La parola, il sogno e la visione sono le tre modalità ricorrenti con le quali la divinità si mette in contatto con l’uomo. È da sottolineare che i destinatari dell’effusione dello spirito sono proprio tutti: coloro che appartengono al popolo, persone di qualsiasi età e condizione fisica e di tutte le condizioni sociali. Tutti potranno ricevere il dono di Dio. I segni cosmici simboleggiano un intervento di Dio in qualità di giudice. Essi esplicano gli stravolgimenti che stanno avvenendo fra le nazioni. Tutti questi segni accompagnano “il giorno di JHWH”. Il termine “terribile”, riferito appunto a questo giorno, ha la radice del verbo ebraico “temere”: esso esprime da un lato la caratteristica divina, dall’altra l’atteggiamento creaturale di inferiorità nei confronti del creatore, “che è quello del timore, inteso non come paura, ma come riconoscimento della propria dipendenza da Dio”. Il v. 5 richiama i primi tre del capitolo attraverso l’espressione “avverrà” e nella descrizione che segue è presente l’idea che la salvezza scaturisce da una scelta da parte di Dio ma anche dell’uomo. Il primo passo è il libero riconoscimento di JHWH come il proprio Dio. In conclusione possiamo affermare che il “chiunque” esprime la possibilità di una scelta: essa, collegata a “sfuggirà”, “scampo” e “sopravvissuti”, ci fa dire che l’effusione dello spirito su ogni carne non produce comunque i medesimi effetti. JHWH “chiama” coloro che lo hanno scelto. Il brano di Gioele apre la seconda parte del libro, centrata sull'annuncio del grande "giorno del Signore" (cc. 3-4), caratterizzato in primo luogo da una effusione dello Spirito di Dio su tutto Israele, la cui estensione è illustrata mediante il ricorso a tre coppie di termini. Lo Spirito sarà effuso senza distinzione di sesso (figli e figlie), età (anziani e giovani) e condizione sociale (schiavi e schiave). Tutti saranno profeti, in grado di decifrare correttamente l'azione di Dio nella storia. Ciò è indispensabile, proprio perché il giorno del Signore imminente distruggerà il vecchio ordine per stabilirne uno nuovo. L'evento carismatico è accompagnato da segni cosmici, espressione di uno sconvolgimento che riguarda la totalità della vita dell'uomo (cielo e terra). I grandi corpi celesti, che rappresentano per eccellenza la stabilità del quadro entro il quale la vita umana si svolge, saranno sconvolti. Il mondo propriamente umano, la terra, vedrà i segni classici di una guerra: sangue, fuoco e fumo. Il giorno del Signore sarà infatti il momento nel quale Dio si farà vicino al mondo umano in modo grandioso e manifesto, con una presenza che diverrà salvezza per gli uni e distruzione per gli altri. La salvezza è per il resto che invocherà il Dio di Israele, cioè gli israeliti chiamati alla salvezza.

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SALMO RESPONSORIALE (Dal Sal 103) (104)

Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra. Oppure:

Alleluia, alleluia, alleluia.

Benedici il Signore, anima mia! Sei tanto grande, Signore, mio Dio! Sei rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto. R. Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature. Benedici il Signore, anima mia. R. Tutti da te aspettano che tu dia loro cibo a tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano, si saziano di beni. R. Togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra. R.

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QUINTA LETTURA (EPISTOLA) Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8,22-27) Fratelli, sappiamo che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. Parola di Dio.

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Rm 8,22-27 Il gemito delle creature e la preghiera della Spirito Nella seconda sezione della lettera ai Romani (cc. 6-8) Paolo mostra come la giustificazione mediante la fede, eliminando i tre grandi nemici dell’uomo (il peccato, la legge e la morte, ha aperto la strada a una vita nuova, attuata da Dio nel credente mediante il dono dello Spirito. Nel c. 8 l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo (vv. 14-25). Infine spiega come l’amore divino faccia sì che il credente sia vincitore su tutte le forze ostili che tentano di impedirgli il conseguimento della gloria finale (vv. 26-39). La liturgia propone i vv. 22-25 della seconda parte e due versetti della terza parte, nei quali si mette in luce il ruolo dello Spirito nella preghiera dei credenti (vv. 26-27). L’attesa del creato viene paragonata da Paolo a quella di una donna incinta che geme e soffre le doglie del parto «fino ad oggi» (v. 22). Si tratta quindi di un’attesa molto lunga, che è già cominciata nel momento della prima caduta. Insieme alla creazione anche i credenti «gemono» interiormente (in se stessi). Essi possiedono «le primizie dello Spirito», cioè lo Spirito stesso come caparra di una pienezza futura. Essi però aspettano ancora la figliolanza, cioè la «redenzione» del loro corpo (v. 23). In altre parole i credenti possiedono già lo Spirito, ma in modo ancora parziale e provvisorio, e anche loro attendono con impazienza la fine, quando ciò che già ora essi sono si manifesterà in tutte le sue potenzialità mediante la risurrezione dei corpi. È allora che essi diventeranno incorruttibili, coinvolgendo nell’incorruttibilità tutto l’universo. Nei successivi vv. 24-25 Paolo conclude che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati «nella speranza». Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita. Nel v. 25 Paolo aveva parlato della speranza come attesa perseverante delle cose promesse, che ancora non sono oggetto di esperienza. Proprio in questo campo si rivela però tutta la debolezza dei credenti, i quali non sanno neppure che cosa domandare (v. 26a). Colui che prega, per essere esaudito, deve presentare a Dio richieste che sono conformi alla sua volontà (cfr. Lc 11,1). Se non si sa che cosa chiedere la preghiera viene privata di attualità e di efficacia perché rischia di imporre invano a Dio qualcosa che egli non è disposto a conferire. Per pregare efficacemente è quindi necessario sapere in antecedenza che cosa Dio è disposto a dare. Ma proprio ciò non rientra nelle facoltà dell’uomo. Quello che i credenti da soli non possono raggiungere viene loro conferito da Dio mediante lo Spirito, il quale viene in aiuto alla loro debolezza, intercedendo per loro «con gemiti inesprimibili» (v. 26b). Lo Spirito non può non conoscere ciò che Dio vuole, perché forma con lui un’unica cosa. Egli perciò viene incontro ai credenti in quanto non solo suggerisce loro ciò che devono chiedere a Dio, ma lui stesso, presente nei loro cuori, prega per loro e in loro usando un linguaggio che è sconosciuto agli esseri umani. La presenza dello Spirito è percepibile ai credenti in quanto si identifica con lo Spirito di Gesù, cioè la forza e il fascino che promanano dalla sua predicazione e da tutta la sua vita. È precisamente aderendo a Gesù con tutto il loro essere che i credenti ne ricevono lo Spirito e imparano ciò che è gradito a Dio e al tempo stesso sentono scaturire in se stessi una preghiera che riconoscono come opera dello Spirito in quanto emerge spontaneamente dai loro cuori.

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La preghiera ispirata e guidata dallo Spirito ha tutte le garanzie di essere esaudita perché «colui che scruta i cuori sa cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio» (v. 27). Dio non si ferma alle apparenze: egli è l’unico in grado di scrutare i cuori, cioè di vedere quali sono veramente i pensieri e le scelte profonde dell’uomo. Guardando l’intimo dei cuori, Dio vede se in essi vi sono veramente i desideri, cioè il modo di pensare e di agire suggerito dallo Spirito. In questo caso è lo Spirito stesso che intercede per i credenti «secondo Dio», cioè in sintonia con i suoi disegni e la sua volontà. In altre parole una preghiera autentica non può scaturire se non da un cuore immerso in Dio e nel suo piano di salvezza che riguarda tutta l’umanità e il cosmo intero. Ciò avviene nella misura in cui il credente fa proprio lo Spirito di Gesù, la sua mentalità, il suo modo di pensare. In lui è lo Spirito di Gesù che rivolge al Padre una preghiera che non può non essere esaudita. La giustificazione per mezzo della fede permette a chi la riceve di sperimentare fin d’ora l’opera dello Spirito, che si manifesta soprattutto nel sentimento filiale verso Dio e nella preghiera da lui sostenuta e guidata. Ma nel momento attuale lo Spirito rappresenta solo una «primizia», cioè un dono ancora parziale, che però presuppone e anticipa la pienezza finale. Nel frattempo non mancano le sofferenze e le prove: perciò il credente deve saper attendere con speranza e perseveranza la gloria futura, che gli sarà donata quando, al momento della risurrezione finale, la sua dignità di figlio apparirà in tutta la sua pienezza. Solo allora anche il suo corpo parteciperà della nuova vita che gli è stata conferita in forza della risurrezione di Gesù. In questa attesa il credente si trova in profonda sintonia con tutto il creato, che attende di poter essere trasfigurato con lui. La vita cristiana consiste in una profonda esperienza di Dio determinata dal fatto che nel credente opera ormai lo Spirito: questi gli ispira una nuova mentalità in forza della quale egli aderisce pienamente a Dio e alla sua volontà. Ciò può essere facilmente constatato dal momento che nel pensiero di Paolo lo Spirito di Dio e lo Spirito di Cristo coincidono: avere lo Spirito significa dunque avere i pensieri, i desideri, gli orientamenti di vita che erano propri di Cristo. Il frutto e la manifestazione dello Spirito consistono dunque nell’assimilazione del progetto che ha mosso Gesù in tutta la sua vita e in funzione del quale egli non ha avuto timore di affrontare una morte dolorosissima. La presenza dello Spirito è percepita specialmente nella preghiera: in essa il credente sperimenta anzitutto lo stesso sentimento filiale verso Dio che è stato proprio di Cristo nella sua vita terrena. Proprio da questo intimo rapporto con lui sgorga una preghiera che non è determinata da interessi umani, ma è tutta proiettata verso la realizzazione del regno di Dio per il quale Gesù ha donato se stessa. Paolo sottolinea che proprio i desideri suggeriti dalla ricerca del regno sono colti da Dio prima ancora che vengano espressi, e di conseguenza non possono non essere esauditi. Chi è pienamente coinvolto nel progetto di Dio non può dunque non vedere i frutti della sua opera, pur in mezzo agli insuccessi e alle sofferenze tipici di questo periodo di salvezza non ancora compiuta.

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CANTO AL VANGELO Alleluia, alleluia. Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli, e accendi in essi il fuoco del tuo amore Alleluia. VANGELO

Dal vangelo secondo Giovanni (7,37-39)

Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. Parola del Signore.

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Gv 7,37-39 Gesù, colui che disseta Ciò che caratterizza la messa vigiliare di Pentecoste sono soprattutto le parole di Gesù: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva chi crede in me” in cui siamo invitati a ringraziare Gesù per il dono dello Spirito Santo come acqua viva che disseta la nostra sete di infinito. Gesù si trovava alla festa delle Capanne, la festa giudaica più importante, che durava otto giorni e celebrava la mietitura. Uno dei riti più importanti della festa consisteva nella processione notturna per attingere l’acqua che sarebbe stata poi versata nel tempio per impetrare la pioggia dell’autunno. Il rito dell’acqua dà origine alle parole di Gesù che pronuncia ritto in piedi “chi ha sete venga a me e beva chi crede in me”. L’interpretazione delle parole di Gesù è controversa causa la punteggiatura e anche nella Scrittura non vi è un testo che corrisponda a quello citato da Gesù, “dal suo grembo usciranno fiumi d’acqua viva”. Meglio cogliere la spiegazione di Giovanni “Questo egli disse dello Spirito Santo che avrebbero ricevuto i credenti in Lui”. Dunque: l’acqua viva che deve essere bevuta è simbolo dello Spirito Santo comunicato dal Cristo morto e risorto, cioè i fedeli ricevono lo Spirito di colui nel quale essi credono. Il simbolo dello Spirito simboleggiato nell’acqua viva non muore più nel credente come Gesù aveva già detto alla Samaritana, che qui racchiude nei fiumi di acqua viva che escono dal grembo. Anche S. Paolo conosce la simbologia dell’acqua viva: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava e quella roccia era il Cristo” (1Cor, 10,4). L’acqua viva dello Spirito ci invita a tre riflessioni valide anche per noi:

1. E’ lo Spirito Santo che si oppone all’apatia della fede e ci feconda nuovamente se siamo in preda all’indifferenza.

2. E’ lo Spirito Santo che può rispondere alla sete di tutti, come ci ricorda il Concilio: “dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel momento che Dio conosce, col mistero pasquale” (GAUDIUM ET SPES – Costituzione Pastorale Sulla Chiesa Nel Mondo Contemporaneo - 22);

3. E’ lo Spirito Santo che suscita in noi “il volere e l’operare secondo i benevoli disegni di Dio”.