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Università degli studi della Calabria
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Specialistica in
Scienze delle Politiche e dei Servizi Sociali
Tesi di Laurea
“La Riflessività come filtro per incanalare il sapere
pratico”
Relatore Candidata
Sicora Alessandro Corno Elena Natali Gina
Anno Accademico 2008/2009
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INDICE
Introduzione » p.5
PARTE PRIMA
L’attitudine riflessiva alla radice della
professionalità degli assistenti sociali » p.9
1. Riflessività » p.10
- Il Professionista Riflessivo
- Ma chi è il “professionista riflessivo” ?
2. Epistemologia e natura del sapere del servizio sociale » p.33
- Sapere pratico e servizio sociale
- Sapere pratico e apprendimento organizzativo
- Cambiamento organizzativo
- Sapere pratico e Comunità di pratiche
3. Riflessività e Formazione Permanente » p.68
- La formazione continua come processo
“endogeno” alla pratica professionale
- La Formazione Permanente nel Servizio Sociale
- Valutazione e Formazione Permanente
- Le metodologie di pratica riflessiva
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PARTE SECONDA
La Ricerca » p.109
4. La ricerca: ipotesi di ricerca » p.110
- Metodo della ricerca: L’Intervista semi-strutturata
- La Rilevazione dei dati: la pratica professionale riflessiva
1. Rapporto tra Teoria e Pratica professionale
2. Gestire l’incertezza
3. “L’Assistente Sociale Riflessivo”
4. L’apprendimento organizzativo. Settore Pubblico e settore Privato
5. Habitus riflessivo e Formazione permanente
6. In conclusione...
Conclusioni » p.137
5. Allegato
Le Interviste » p.141
BIBLIOGRAFIA » p. 195
SITOGRAFIA » p.196
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“Il coraggio ha due volti. Quello di avanzare e quello di fermarsi o di
ritirarsi. Ci sono, nella vita degli individui, delle imprese e dei popoli,
momenti particolarmente favorevoli in cui sono possibili cose straordinarie.
E’ il momento di forzare il destino, di osare, di buttarsi avanti. I greci
chiamano questa occasione Kairòs. Ma l’occasione, il momento va
riconosciuto. E per farlo occorre lucida intelligenza, saper decifrare i
segnali che ci manda la realtà, ma anche esercitare uno sforzo su noi stessi.
Perché tutti tendiamo a pensare che le cose continueranno nello stesso
modo, ci adagiamo nell’abitudine ed abbiamo paura di rischiare”.
Francesco Alberoni - Abbiate Coraggio- 1998
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Introduzione
Negli ultimi vent’anni una conclamata accelerazione nei cambiamenti
culturali e sociali, la presenza di culture e prospettive differenti, ha richiesto
un continuo confronto tra valori personali e della comunità; la “certezza”
delle conoscenze si è progressivamente sfilacciata, strumenti e metodi sono
considerevolmente moltiplicati e la diffusione delle tecnologie ha di fatto
imposto alla figura dell’assistente sociale modelli innovativi per pensare e
operare.
Il crescente e conseguente interesse epistemico per le pratiche agite nelle
professioni, apportato da Schön, ha sottolineato la dimensione della
conoscenza pratica come una conoscenza che possiede una propria
specificità, diversa da quella del teorico, in quanto essa è giocata nel
contesto.
Si tratta di una linea di ricerca che mette in evidenza come l’assistente
sociale non possa essere un esecutore che applica modelli preconfezionati,
ma un architetto della conoscenza che tesse percorsi con dispositivi vari e
differenziati a livello relazionale, organizzativo e tecnologico.
L’avvento della postmodernità ha, di fatto, imposto un ripensamento
generale dei modelli di pensiero legati all’agire sociale e ha prodotto una
conseguente trasformazione delle idee e delle pratiche nel campo dei servizi
sociali. Una trasformazione tuttora in atto, tesa a ridefinire identità, ruoli e
strategie dell’operatore sociale, non più concepito come puro distributore di
prestazioni standard entro i rassicuranti confini del welfare state
tradizionale, ma come nuovo soggetto di una realtà senza dubbio più
complessa, dai contorni più incerti e dagli spazi di ricerca, di lavoro e di
intervento più ampi.
Si tratta quindi di far emergere modelli alternativi nel descrivere la natura
dei problemi sociali e di impostare le relative soluzioni secondo quadri
mentali e intuizioni nuove, in quanto operando in contesti mutevoli e
complessi, conoscenze e metodologie non bastano e non basta saperle
applicare meccanicamente.
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Con ciò diviene di fondamentale importanza, maturare esperienze nel quale
saper coniugare le conoscenze teoriche e metodologiche con l’esercizio
delle competenze professionali in contesti pratici attraverso la riflessione
sull’esperienza.
Lo stesso termine competenza sembra avere con la conoscenza pratica un
solido legame, come declina ad esempio la definizione più recente fornita da
ISFOL: “…è l’insieme delle conoscenze teoriche e pratiche, delle abilità e
delle capacità che consentono a un individuo un adeguato orientamento in
uno specifico campo d’azione. La competenza si connota quindi come
conoscenza in azione: in essa emerge la componente operativa della
conoscenza, ossia la presenza di un costante orientamento a saldare sapere
e saper fare, anche in situazioni contraddistinte da un elevato livello di
complessità, che quindi esigono schemi altrettanto complessi di pensiero e
di azione.”
La pratica in quanto tale non basta, per “fare esperienza”, per capitalizzarla
e renderla esplicita al soggetto stesso, bisogna che i fatti divengano oggetto
di pensiero, che vengano smontati e indagati. La riflessione investe, dunque,
costantemente tutto il campo dell’esperienza e la compenetra.
Potremmo dire che nel mondo della pratica professionale dell’assistente
sociale, si tratta ancora di una forma di riflessione che non è giunta alla
piena consapevolezza. Perché questa diventi conoscenza è fondamentale
arrivare alla consapevolezza della propria filosofia operativa, coltivare cioè
la capacità di prendere coscienza dell’orizzonte simbolico nel quale si è
immersi e di come con esso ci si relaziona “occorre rilevare le reti di
presupposizioni implicite e di assunzioni tacite, quelle idee che fortemente
radicate nel contesto culturale cui si appartiene, costituiscono una sorta di
‘ontologia personale’, che condensa le nostre idee sulla natura delle cose,
cui corrispondono da un lato una ‘epistemologia spontanea’, che ci guida
nella ricerca della conoscenza e nella verifica della sua affidabilità,
dall’altro una ‘etica soggettiva’, che prescrive le nostre scelte ed i nostri
comportamenti in ordine al dover essere. Nell’insieme si tratta di una
matrice incorporata che orienta il nostro modo di interpretare gli eventi
della vita, selezionando quelli rilevanti e attribuendo ad essi dei significati:
una cornice che opera tacitamente e si mantiene fuori, all’esterno di ogni
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possibilità di problematizzazione, fonte di interrogazione e di elaborazione
che non viene mai interpellata né sottoposta a giudizio. Il soggetto si
comporta, cioè, alla stregua di un sistema auto-organizzativo: va alla
ricerca di conferme alle sue presupposizioni, le classifica tra le cose ovvie o
come esempi probanti e dà loro un ordine nel formato di ‘teorie ad hoc’. Il
sistema è anche autocorrettivo: dinanzi all’episodio che ovvio non si può
considerare, procede all’eliminazione di ciò che disturba, mettendolo da
parte e in qualche modo incapsulandolo” (Damiano 2003).
“Il lavoro di servizio sociale implica il possesso di un sapere pratico o,
meglio, è esso stesso esercizio di un certo sapere pratico; di un sapere cioè
la cui caratteristica fondamentale consiste nell’essere strutturato e diretto in
funzione del compimento di azioni” (Botturi).
Tutte le teorizzazioni metodologiche insieme con le conoscenze
professionali non sono ovviamente inutili, ma diventano la materia
riplasmabile all’interno delle attività e subiscono un costante
accomodamento e una ridefinizione adattandosi al contesto momento per
momento: nascono così nuove teorie di quei casi “unici” di cui è intessuta la
professione dell’assistente sociale.
Questo comporta acquisire e mantenere vigile un habitus riflessivo sul
proprio operato in fase di progettazione, durante e dopo l’azione in un
processo che trasforma il contesto e l’operatore stesso come professionista
in una continua ricorsività pratica-teoria-pratica.
La coerenza di questa impostazione appare con chiarezza:
l’apprendimento significativo consiste nella attiva ristrutturazione delle
relazioni fra concetti;
la via privilegiata alla conoscenza è l’esperienza diretta accompagnata
dalla riflessione;
la conoscenza ha una dimensione sociale che emerge nel dialogo e nella
discussione (la comunicazione è una negoziazione di interpretazioni ad un
livello sempre più raffinato e condiviso).
La proposta formativa è volta ad offrire uno spazio privilegiato di
riconsiderazione, riconoscimento e riflessione sul sé e sulle teorie implicite
che agiscono nell’esperienza che hanno quale elemento fondamentale la
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comprensione di quello che si osserva e si fa, dove nel comprendere c’è
inevitabilmente una messa in gioco del professionista stesso.
Tutto ciò comporta un grande impegno, anche psicologico, e si tratta di un
percorso che difficilmente si è in grado di condurre da soli. Almeno in una
fase di formazione iniziale è necessaria la presenza di un “interlocutore”
capace di sollecitare la riflessione, di porre interrogativi e punti di vista
diversi con cui relazionarsi, di contenere timori e ridurre difese.
Una volta acquisito un habitus riflessivo, un supporto importante può
divenire il gruppo di lavoro che attraverso pratiche discorsive facilita il
distanziamento dal vissuto e sollecita l’impegno di chiarificazione dei
presupposti e dei traguardi dell’azione.
La via della formazione riflessiva intesa come accompagnamento alla vita e
allo sviluppo professionale richiede evidentemente tempo, motivazione e
coinvolgimento, proprio in quanto si tratta di offrire prospettive di analisi
diverse dirette ad indagare presupposizioni e schemi di riferimento personali
e a costruirne progressivamente di nuovi, più congrui a rispondere ai bisogni
espressi e taciti dell’utenza e a quelli posti dal contesto organizzativo e
sociale. Si tratta di avviare una cura della professionalità che può essere
terreno privilegiato per l’associazionismo e in cui può risiedere la sua
specificità ed il plusvalore di accompagnamento all’istituzione, attraverso
attività che necessitano di tempi lunghi e sono orientate a singoli o piccoli
gruppi.
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Parte prima
“L’attitudine riflessiva alla
radice della professionalità degli assistenti sociali”
Riflessività
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Negli ultimi anni numerosi volumi e articoli scientifici si richiamano alla
riflessività, una categoria caratterizzante da sempre la vita umana e
rappresentativa in particolare della modernità. Gli studi disponibili, frutto di
ambiti disciplinari diversi, hanno messo in luce aspetti di grande interesse su
questo tema, inducendo a prendere le distanze da un’accezione semplice e
riduttiva di riflessività in favore di un’accezione più ampia e profonda.
Solitamente si intende la riflessività come la capacità di pensare e, invece,
essa è il processo del pensare il proprio e l’altrui pensiero; è la capacità del
pensiero umano di trarre conseguenze dall’oggetto del suo pensare e si
avvale di operazioni quali: connettere particolare e generale, porre problemi,
ritornare su questioni non concluse, criticare.1
Il senso comune relega la riflessività nell’ambito cognitivo e invece essa si
avvale di emozioni, intuizioni, percezioni, motivazioni, passione,
responsabilità e valori2. In ogni esperienza gli studiosi invitano a riconoscere
i sentimenti per apprezzare ogni opportunità di apprendimento. La
riflessività è spesso associata alla ricerca di senso, cioè a «quelle domande
che, pur indecidibili in quanto destinate a rimanere costitutivamente aperte,
reclamano ciononostante una risposta la cui ricerca impegna a fondo la
mente umana»3.
Secondo alcuni studi la riflessione critica aiuta i professionisti a diventare
persone responsabili, eticamente e moralmente solide4.
La riflessività è un processo nel e del tempo: precedente l’azione
(l’atteggiamento riflessivo come postura mentale descritto da L. Mortari),
attivo durante l’azione (il «fermati e pensa» di H. Arendt) e anticipatore
dell’azione stessa.
Mentre il pensare comune concepisce la riflessività come esercizio del
ripensare a un evento già accaduto, secondo G. Alessandrini essa
1 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
2 Knasel E., Meed J., Rossetti A., 2002., Apprendere sempre. L’apprendimento continuo nel corso della vita, Cortina, Milano, op cit. p. 108.
3 Mortari L., 2004, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione., Carocci, Roma., op.cit. p. 17.
4 Knasel E., Meed J., Rossetti A., Apprendere sempre, cit., p. 113.
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«comprende un momento retroattivo e un momento proattivo, entrambi
necessari a costruire nuovi e più elevati livelli di conoscenza»5.
La riflessività produce esiti originali e sviluppa abitudini percettive che
sostituiscono gli automatismi per avvalersi di emotività, linguaggio e
fenomeni culturali; pensa l’azione possibile e modifica nei partecipanti «il
modo di auto-percepirsi, di gestire certi spazi relazionali dell’agire
quotidiano, con la conseguenza di portare anche a una ristrutturazione
radicale del modo di rapportarsi al contesto»6. L’esito della riflessione è un
nuovo che non aggiunge sapere al sapere, specializzazione alla
specializzazione, ma che connette aspetti trascurati, accoglie domande e si
lascia scuotere da interrogativi e da scoperte7.
La riflessività rappresenta uno dei paradossi che stanno caratterizzando
negli ultimi anni i mondi professionali, in cui si assiste ad una continua e
rapida trasformazione del rapporto tra professionisti e oggetti dell’azione
professionale (prodotti, servizi, saperi). I professionisti si trovano sempre
più spesso a fare i conti con “l’unicità” e con la “complessità” delle
situazioni che comportano un continuo ripensamento dei processi, degli
strumenti e delle modalità di progettazione, di scelta, di azione8.
Molto spesso i processi decisionali e le azioni svolte in condizioni di
incertezza (a cui è associata bassa probabilità di successo), o in situazioni di
“unicità” dei casi, non rientrano nelle procedure che consentono di garantire
standard di qualità di prodotto/processo, di conseguenza, i professionisti
sempre più spesso si trovano di fronte al dilemma dell’agire secondo criteri
che garantiscono il rigore delle scelte e delle azioni rispetto a procedure
prestabilite o a parametri di probabilità, oppure dell’agire in base ad un
criterio di pertinenza rispetto a specifici casi resi intellegibili non attraverso
procedure standard ma, attraverso l’esperienza professionale che
5 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
6 Mortari L., Apprendere dall’esperienza.., cit., p. 33.
7 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].8 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
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spingerebbe a prendere delle decisioni sulla base di rapporti di minoranza e
non di massima probabilità di successo accordata a-priori9.
L’esperienza professionale diviene sempre di più sinonimo di capacità di
intervenire in situazioni che vengono percepite come “incerte”,“difficili”,
“inedite”, “singolari” e “innovative”10. La riflessività viene in aiuto a quanti
si cimentano con problemi pratici che hanno implicazioni «molto più serie»
dei problemi tecnici o scientifici; l’esperienza, infatti, è concreta (quotidiana
e cogente), particolare (poco replicabile), multifattoriale (connessa con
istanze relazionali, organizzative, tecniche, personali, economiche),
irrevocabile, imprevedibile e illimitata11.
Tra gli anni ’80 e ’90, oltre al libro di Schön, “The Reflective Practitioner”
(1983) - nel quale l’autore descive il professionista riflessivo come un
ricercatore molto particolare: come è noto, non produce conoscenze assolute
ma relative12; opera nella pratica, riconosce i rischi della specializzazione e
si fa ideatore di una teoria del caso unico, diversa ma non per questo
subordinata alla ricerca scientifica tradizionale - sono stati pubblicati diversi
testi in cui viene enfatizzata l’importanza della riflessione critica a partire
dalla esperienza professionale dei singoli individui come forma di
apprendimento e di costruzione di senso della pratica stessa. In tutti questi
testi viene posto l’accento sulla natura riflessiva dell’apprendimento e sulle
capacità innovative, creative, artistiche, messe in atto dai professionisti ogni
qualvolta si trovano a dover scegliere ed agire in situazioni di incertezza.
Tali situazioni possono essere caratterizzate da diversi fattori di natura
esogena ed endogena alle organizzazioni: la complessità dell’oggetto
dell’azione professionale e/o delle domande dei clienti/utenti, la
“turbolenza” dei contesti di azione, l’insufficienza dei protocolli e delle
procedure di azione, gli effetti delle interazioni e dello scambio
comunicativo tra soggetti, conflitti di ruolo e di potere all’interno di una 9 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
10 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
11 Ibidem12 Schön D.A., 1993., Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari, Dedalo, op. cit.p. 87.
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determinata organizzazione e divisione del lavoro, gli effetti imprevisti, non
desiderati o perversi delle azioni individuali, collettive e organizzative, gli
effetti prodotti da innovazioni o cambiamenti13.
Il concetto di riflessività appare molto ricco e in grado di sfatare alcuni
luoghi comuni: il pensiero riflessivo, ritornando su se stesso, prende
coscienza e conoscenza delle sue operazioni e dei suoi caratteri, valuta
criticamente il contenuto, il processo e le premesse degli sforzi finalizzati a
interpretare un’esperienza e a darvi significato14. Il processo che la
riflessività promuove è, pertanto, sistemico, in quanto esso invita a collegare
particolare e generale, conoscenza ed esperienza, ragione ed emozione, dati
e significati, pratica e teoria, memoria e apprendimento, tecnica e umanità.
Quando la mente evita l’esercizio del pensare riflessivo, si finisce per stare
in una situazione di anonimia, dove ci si sottrae alla possibilità, ma anche
alla responsabilità, di cercare senso nell’esperienza e, quindi, di farsi autori
e autrici consapevoli di quello che si va pensando e si va facendo15.
Gli oggetti privilegiati dalla riflessività sono emozioni, modelli mentali,
legami tra teoria e pratica. Grazie ad essa ogni soggetto può crescere in
coscienza anziché in incoscienza, in esperienza anziché in semplice vissuto,
nell’essere desto anziché passivo.
Per quanto riguarda gli scopi del lavoro sociale, il processo di pensare il
pensiero può permettere di raggiungere alcune aree di obiettivi —
connettere, verificare, comprendere, scoprire e significare — che, già a una
prima osservazione, appaiono molto simili alle funzioni individuate come
proprie dell’assistente sociale, nonché controllare e collaborare, prendersi
cura delle relazioni interne ed esterne, organizzare e innovare16.
La riflessività aiuta lavoratori cognitivi come questi ad acquisire
consapevolezza dei modelli mentali presenti in sé e negli altri con cui si
scambiano soprattutto prodotti del pensiero e processi. A partire da ogni 13 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
14 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
15 Ibidem
16 Idem
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soggetto, dunque, l’assistente sociale può interrogarsi sul senso, sulle
ragioni, sulle emozioni proprie e altrui e può farlo attivando risorse proprie.
Riflettere, pertanto, aiuta il soggetto a riportare il proprio sé nella
professione. In questo senso il professionista riconosce che la sua expertise
tecnica è immersa in un contesto di significazioni e, scopre i limiti di essa
attraverso la conversazione riflessiva con il cliente. L’operatore attribuisce
al cliente, così come a se stesso, la capacità di intendere, conoscere e
pianificare, promuovendo con esso un contratto riflessivo, così come
definito da Schön.
In un contratto riflessivo fra professionista e utente, quest’ultimo acconsente
non già ad accettare l’autorità del professionista, come avviene
tradizionalmente, ma a sospendere lo scetticismo nei confronti di questa;
egli partecipa con l’operatore all’indagine sulla situazione per la quale
chiede aiuto; cerca di capire cosa sta sperimentando e a rendere tale
comprensione accessibile al professionista quando questi non capisce,
verificandone la competenza. Il professionista, d’altro canto, acconsente a
offrire una prestazione nei limiti delle proprie capacità; ad aiutare il cliente a
capire il significato della consulenza e il fondamento logico delle sue azioni,
cercando allo stesso tempo di imparare i significati che dette azioni hanno
per il cliente e, far sì che questo possa facilmente confrontarsi con lui; ed
infine egli riflette sulle proprie tacite comprensioni17.
«La capacità di riflettere sulle proprie azioni è una competenza di base» e
«questo è vero in particolar modo per i ruoli direttivi18». La dimestichezza
con i diversi modelli mentali, siano essi di apprendimento o di lavoro, è
imprescindibile per chi lavora con l’altro, soprattutto quando la
considerazione di sé e il ruolo dell’esperienza appaiono essenziali per
impostare interventi di successo19.
Secondo J. Dewey (1976 pg 127), non è data nessuna forma riflessiva che
non parta da un disagio conoscitivo e dal desiderio di superarlo. Tra le
cosiddette «molle» della riflessività, altri studiosi annoverano: sensazioni di
17 Schön D. A., Il professionista riflessivo., cit. p. 331
18 Alessandrini G., 1995., Apprendimento organizzativo. La via del Kanbrain, Milano, Unicopli, op. cit., p. 55
19 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
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disagio immotivato, dover fare cose nuove o diverse, rendersi conto che
qualcosa non va o che va troppo bene, non sapere che cosa fare.
La riflessività è adatta a chi abita nei cambiamenti ed è chiamato a gestirli
tra ambiguità e pressioni contrapposte; come sostiene G. Alessandrini (1995
pg 61): “è convinzione diffusa che si sia determinato, negli ultimi anni, un
transito da sistemi organizzativi stabili a sistemi organizzativi flessibili”.
Un altro fattore della riflessività è rappresentato dal fare sistema: N.
Luhmann interpreta la riflessività nella teoria sistemica per «comprendere
l’unità nella molteplicità come complessità»20. Anche questa indicazione è
preziosa e molto pertinente per le figure in oggetto, chiamate a fare squadra,
a connettere gli elementi del sistema organizzativo, a cercare organicità tra
le differenze e ad elaborare segni nei quali tutti si possano riconoscere.
Un impegno spostato «dagli oggetti ai sistemi» è uno dei tratti distintivi
della riflessività21.
Quest’ultima può supportare il soggetto nell’espletare il ruolo nelle sue
implicazioni relazionali: gestire persone, relazioni, dinamiche, opposizioni,
legami, leggere ed elaborare intuizioni, sensazioni e percezioni, dalle quali
dipende in larga misura il lavoro con persone, collaboratori e utenti.
Gestire le persone, non va dimenticato, significa gestire anche se stessi;
fosse anche solo per sé, lo stimolo della riflessività appare prezioso affinché
l’assistente sociale possa dedicare tempo a prendersi cura del suo prendersi
cura degli altri.
La figura in oggetto maneggia risultati e relazioni, ma soprattutto processi.
Gli assistenti sociali sono chiamati a migliorare il processo decisionale,
progettuale o valutativo e non solo a prendere decisioni.
La loro funzione, infatti, «sposta la prospettiva dai fatti ai processi»22:
l’assistente sociale parla di strumenti ma pensa ai fini, usa tecniche ma ha in
mente obiettivi, dà informazioni ma vuole stimolare processi di
consapevolezza sistemica.
È attento ai processi in un modo tutt’altro che astratto, sempre immerso
nell’azione e nella complessità di ogni giorno, nella quale costruisce una 20 Luhmann N., Schorr K. E., 1988., Il sistema educativo. Problemi di riflessività.., Armando, Roma.,op. cit., p. 365
21 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
22 Colombo E., 2003., I molteplici riflessi della riflessività., Rivista Animazione sociale., cit., p. 18.
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teoria per l’azione23. La funzione dell’ assistente sociale si fa nell’azione,
lavora giorno per giorno, costruisce pezzo per pezzo e svela il disegno a
poco a poco.
Accanto alle potenzialità, la disanima proposta invita a riflettere anche sui
rischi. Il primo riguarda le finalità: la riflessività potrebbe indurre la
funzione dell’assistente sociale ad un lavoro analitico (scavare, ritornare
sugli incidenti critici, riflettere, specchiarsi, rivedere) relativo alle diverse
sfaccettature interpretative, finendo col condurre i soggetti a perdersi nel
labirinto dei pensieri. Il secondo rischio fa riferimento alla possibilità che la
ricerca retrospettiva potrebbe avere il sopravvento su quella proattiva.
Rivedere le decisioni, rileggere i fatti, ripensare alle relazioni potrebbe
rappresentare un campo affascinante, ma anche una trappola. Tale rischio, a
ben guardare, non dipende dalla riflessività, ma piuttosto da un uso distorto
di quest’ultima, del quale è opportuno prendere coscienza24.
La riflessività «fa uso» di fatti, esperienze e prodotti per riflettere su scopi,
mezzi e processi della pratica, alla quale restituisce elementi di
miglioramento.
In sintesi, alla luce delle opportunità e dei rischi considerati, la riflessività
appare proponibile come categoria formativa per gli assistenti sociali.
Riflettere non risulta soltanto coerente, ma anche particolarmente utile a
queste figure che possono avvalersene per cercare quell’equilibrio tutt’altro
che scontato, per leggere oltre l’apparenza.
La riflessività si pone come efficace canale formativo e auto-formativo che,
partendo dalle situazioni reali, aiuta ad analizzarle con gli strumenti della
ricerca, esplicitando il senso celato dei processi e arricchendo il soggetto
coinvolto25.
23 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].
24 Ibidem
25 Idem
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1.2 Il Professionista Riflessivo
D. Schön pubblica nel 1983, “The reflective pratictioner” nel quale
sviluppa la concezione della riflessione come chiave di volta del sapere di
un professionista. Durante la sua attività di ricercatore e consulente, Schön
si è interessato all'apprendimento, individuale e collettivo, soprattutto nel
campo della pratica professionale26.
Uno dei temi centrali della riflessione di Schön è il superamento della
tradizionale scissione tra il pensare e l'agire, sapere e fare, decidere e
attuare; egli giunge ad un concetto di apprendimento che trova il proprio
fondamento nel concetto di riflessione nel corso dell'azione27.
Il nostro conoscere è nell'azione stessa, ovvero l’autore, sulla base di
un’attenta analisi del comportamento di professionisti operanti in campi
diversi, indaga i processi di conoscenza e apprendimento in atto nel corso
stesso dell'azione (la pratica professionale), pervenendo alla definizione di
un agire di tipo riflessivo che, proprio a partire dall'incertezza e dall'ansietà
ad esso connessa, può divenire esso stesso generatore di nuova conoscenza.
Gli studi, sostiene Schön, in particolare quelli universitari, si riferiscono a
“una particolare epistemologia, una visione del sapere che favorisce una
disattenzione selettiva verso la competenza pratica e l’abilità artistica del
professionista”28. Questo atteggiamento contribuisce ad ampliare il solco fra
ricerca teorica e pratica professionale.
Secondo la concezione dominante, scrive Schön, l’attività professionale
consiste in un problem solving reso rigoroso dall’applicazione di una teoria
26 Anon., Donald A.Schön, ritratti.[online]. Disponibile su: <http://www.palomar.ao.it/ritratti/schon.htm. > [Data di accesso: 13/11/2009].
27 Idem
28 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 151
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scientifica e da una tecnica.29 I “prototipi” di questo modo di pensare la
professionalità sono la medicina e la giurisprudenza, seguite da vicino
dall’economia e dall’ingegneria. Esiste insomma una linea che parte dai
“principi generali” alla “risoluzione di problemi”.
Una modalità che Schön denomina “Razionalità Tecnica”.
Secondo la Razionalità Tecnica la realtà è conoscibile in modo oggettivo,
univoco, indipendente dai valori e dai punti di vista del professionista che
ricopre il ruolo insieme di spettatore e di gestore30.
Negli ultimi decenni, però, questo approccio ha progressivamente perso una
parte della sua legittimità, a causa soprattutto di una serie di insuccessi e
danni provocati dai “professionisti-esperti” che vi si ispiravano (danni
ambientali causati da opere ingegneristiche, disastri sociali nel terzo mondo
causati da operazioni economiche, ecc.), di conseguenza, si assiste ad una
“crisi di fiducia” nelle professioni che sembra affondare le radici in una
nuova valutazione in chiave scettica dell’effettivo contributo che le
professioni forniscono al benessere della società attraverso la prestazione di
adeguati servizi basati su speciali conoscenze31.
Tale scetticismo è connesso alle questioni dell’interesse personale, della
burocratizzazione e della subordinazione dei professionisti ad interessi
affaristici o governativi.
La loro conoscenza professionale non si armonizza con il carattere mutevole
delle situazioni che caratterizzano l’esercizio della professione, ovvero con
la complessità, l’incertezza, l’instabilità, l’unicità e i conflitti di valore, che
predominano nel contesto della pratica professionale e, che si
contrappongono all’abilità e alle tecniche dell’expertise tradizionale32.
Si delinea dunque un approccio più “problematico” alla realtà, che considera
ogni situazione nella sua complessità e nella sua unicità.
29 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].
30 Anon., Donald A.Schön, ritratti.[online]. Disponibile su: <http://www.palomar.ao.it/ritratti/schon.htm. > [Data di accesso: 13/11/2009].
31 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].
32 Anon., S c h ö n apprendimento riflessivo. P o r t a l e F o r m a z i o n e e s p e r i e n z i a l e . [online]. Disponibile su: < www. formazione - esperienziale . it /.../teoria_ schon .php > [Data di accesso: 05/11/2009].
Page53
L’autore, da ciò, propone una nuova epistemologia della pratica
professionale fondata, appunto, sulla “riflessione nel corso dell’azione33”.
Secondo Schön, il professionista fa parte della situazione in cui deve
intervenire e che cerca di comprendere e, può comprenderla veramente solo
cercando di trasformarla in un'altra comportandosi come uno
sperimentatore. La pratica diventa una ricerca vera e propria nella quale le
soluzioni vengono ipotizzate, sperimentate e valutate.
La «riflessione nel corso dell'azione dipende dall'esperienza della sorpresa.
Quando una prestazione intuitiva, spontanea, non produce altro che risultati
attesi, allora tendiamo a non rifletterci sopra»34.
Quando qualcuno riflette nel corso dell'azione, diventa un ricercatore
operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie
consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del
caso unico. [...] Poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di
azione, l'implementazione è costruita nell'ambito dell'indagine35. [PR p. 94]
Il processo riflessivo marca il ruolo dell’indagine che ha luogo nella realtà
quotidiana dell’azione. E’ questo processo distintivo, di riflessione nel corso
dell’azione o sull’azione che è fondamentale nell’arte (expertise) del
professionista.
Dal punto di vista della “Razionalità Tecnica”, la pratica professionale è un
processo di soluzione di problemi, ovvero problemi di scelta o decisionali
sono risolti mediante la selezione, fra i mezzi disponibili, di quello che
meglio si adatta a determinati fini. Si tratta, dunque, di un’applicazione
della conoscenza a decisioni strumentali. Con questa enfasi sulla soluzione
del problema, viene ignorato l’impostazione di esso, nonché il processo
attraverso cui definiamo la decisione da prendere, i fini da conseguire, i
mezzi che è possibile scegliere36.
33 Anon., Donald A.Schön, ritratti.[online]. Disponibile su: <http://www.palomar.ao.it/ritratti/schon.htm. > [Data di accesso: 13/11/2009].
34Idem
35 Ibidem
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In sostanza, si rileva come il problem solving non sia più l’unica risposta
adeguata alla realtà, almeno se non integrato dal problem setting (la
definizione del problema), e cioè il processo attraverso cui definiamo la
decisione da prendere, i fini da raggiungere e i mezzi da scegliere. Nella
realtà della pratica, i problemi non si presentano al professionista come dati,
essi devono essere costruiti a partire dai materiali di situazioni
problematiche che sono turbative ed incerti37.
Secondo il filosofo ungherese Michael Polanyi (1990 pg 93), l’oggettività
completa e rigorosa, usualmente attribuita alle scienze esatte, sarebbe un
falso ideale in quanto numerosi atti di giudizio personali porrebbero le basi
di ogni attività conoscitiva. Il nostro conoscere è tacito, implicito nei
modelli di azione, il nostro conoscere è nell’azione. Come afferma lo stesso,
tutta la conoscenza è tacita o comunque è radicata nella conoscenza tacita.
Ricorriamo alla conoscenza esplicita nel momento in cui cerchiamo sul
manuale la soluzione al nostro problema, in questo caso ci si avvale di una
conoscenza formalizzata in termini oggettivi, universalistici e scientifici.
Ricorriamo, invece, a quella tacita se ricerchiamo l’opera di chi riteniamo
più esperto o più abile di noi38. L’esperto non è colui che possiede un sapere
con cui è in grado di padroneggiare qualsiasi situazione, al contrario: “Colui
che chiamiamo uno esperto non è solo uno che è diventato tale attraverso
delle esperienze fatte, ma è anche aperto ad altre esperienze. La dialettica
dell’esperienza non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura
all’esperienza che è prodotta dall’esperienza stessa”.39
La conoscenza tacita è: conoscenza che si sa di avere; sapere pratico, che è
osservabile nella pratica lavorativa e organizzativa, sapere esperto che
emerge nelle situazioni non prevedibili, ovvero quando si ha a che fare con
l’imprevisto; la conoscenza tacita è conoscenza personale, che coinvolge
certamente le capacità di raziocinio, ma che si basa soprattutto
sull’intuizione, sulle facoltà percettivo-sensoriali, sul giudizio sensitivo-
36 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su:
<www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].
37 Idem
38 Strati.A., 2006., L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi., Carocci editore., op. cit.p.9539 Polanyi M., 1990., La conoscenza personale Verso una filosofia post-critica, Milano, Rusconi.,op. cit. p. 411
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estetico, è infine sapere organizzativo, in quanto mette in luce quelle
competenze d’autorità che non sono traducibili in norme e, grazie alle quali
la conoscenza organizzativa viene costruita, distribuita, tramandata e
conservata o distrutta e dispersa40.
L’attività lavorativa quotidiana del professionista si fonda sul tacito
conoscere nell’azione; i professionisti a volte riflettono su ciò che fanno e a
volte persino mentre lo fanno, se stimolati dalla sorpresa tornano a riflettere
sull’azione e sul conoscere l’implicito nell’azione.
Possono chiedersi ad esempio: “Quali caratteri si riconoscono nell’azione,
quali sono i criteri in base ai quali formulo questo giudizio? Quali procedure
metto in atto quando svolgo questa attività? Come sto strutturando il
problema che sto cercando di risolvere?”41.
In molti casi la persona esperta non sa rendere esplicita la propria
conoscenza, ovvero non riesce ad argomentare le cause vere ed i mezzi
giusti che forniscono le ragioni della “pratica situata” del proprio intervento.
Egli “sa di sapere”, ma non sa come rendere conoscenza scientifica questo
suo sapere pratico. Nella prassi delle prestazioni spontanee, intuitive,
dell’agire quotidiano, ci dimostriamo intelligenti in modo particolare;
spesso, però, non riusciamo ad esprimere quello che sappiamo e, quando
cerchiamo di farlo ci sentiamo persi o produciamo descrizioni ovviamente
inadeguate. Il professionista nella sua attività quotidiana riesce a riconoscere
i fenomeni legati ad una tecnica o ad una particolarità di struttura ma non è
in grado di fornire una spiegazione adeguata relativa alle regole e alle
procedure di riferimento (senso e processo)42.
Più precisamente, Schön sostiene che l’azione intelligente può essere
guidata da due elementi basilari: la “conoscenza-nell’azione” e la
“riflessione-nell’azione”43.
La prima, la conoscenza-nell’azione, è un’attività cognitiva che si manifesta
in quelle azioni intelligenti che richiedono un certo savoir-faire, come il
40 Strati.A., L’analisi organizzativa.,cit. p.95
41 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].
42 Ibidem43 Berger E., Riflettere l’apprendimento. [online]. Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della Scuola Media, no. 12, marzo 1995, pag. 5-22. Disponibile su: < http://www.scuoladecs.ti.ch/ssp_scarica/articoli/12_Sostegno_identita_Berger.doc. >[Data di accesso: 15/11/2009].
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condurre una bicicletta o l’analizzare istantaneamente un bilancio
d’esercizio.
In entrambi i casi, la conoscenza è intrinseca all’azione, è nell’azione44. Essa
si rivela tramite l’esecuzione spontanea e sapiente di un atto, ed è
singolarmente difficile da verbalizzare. Si tratta di processi non logici, di
schemi d’azione, chiamati anche script che guidano silenziosamente ogni
gesto intelligente. Talvolta, però, la routine produce risultati inattesi, errori
che resistono a correzioni, oppure semplicemente capita di guardare
diversamente il proprio agire. Ognuna di queste esperienze uniche contiene
un elemento di sorpresa, che può condurre il professionista in due direzioni:
ignorare gli elementi perturbatori, procedendo sulla propria strada, oppure
riflettere a quanto sta accadendo. Quest’ultima eventualità può a sua volta
assumere due diverse modalità45.
L’operatore può “fermarsi e pensare”, separando dunque il momento
dell’azione dal momento della riflessione (reflection on action); in questo
caso ci si riferisce a quell’attività retrospettiva di pensiero attivo che si
sviluppa sulla pratica professionale, ma che si colloca esternamente a
questa, ovvero in un momento diverso. Consiste in gran parte nel ricordare e
valutare quanto già realizzato per poi focalizzare con maggiore precisione
obiettivi da perseguire e strategie correlate. Oppure può riflettere nel corso
dell’azione, determinando una modifica di quest’ultima durante il suo
svolgimento (reflection in action)46.
Quando l’operatore riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercatore
operante nel contesto della pratica, non dipende dalle categorie consolidate
della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico47.
La sua indagine non è limitata a una decisione sui mezzi dipendente da un
preliminare consenso sui fini, in quanto, non tiene separati i mezzi dai fini,
ma li definisce in modo interattivo mentre struttura una situazione
problematica. 44 Colangelo L., 2009., L’apprendimento riflessivo di Donald Schön. [online]. Portale Formazione Esperienziale. Disponibile su: <www.formazione-esperienziale.it/.../schon_apprendimento_riflessivo.pdf> [Data di accesso: 08/11/2009].45 Ibidem
46 Ibidem
47 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].
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Egli non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul problema sino a
raggiungere una decisione che dovrà trasformare in azione48.
Più in generale, l’operatore riflessivo affronta sempre il problema pratico
come un caso unico, sebbene non agisca assolutamente come se non avesse
conoscenze precedentemente acquisite49. Una volta trovate gradualmente le
peculiarità della situazione problematica, egli progetta e realizza
l'intervento. Il problema, dunque, non è mai predefinito, ma va costruito nel
dialogo con la situazione che, essendo incerta e complessa, induce, crea le
condizioni della riflessione nell'azione.
Essendo i casi unici, non è possibile applicare teorie standard, per cui
bisogna reinquadrare e capire la situazione, ricordando che vi sono molti
punti di vista possibili in competizione fra loro50.
In questo ultimo criterio si nota come la connotazione riflessiva agisce
laddove non vi è più necessità di una difesa di ruolo, di mantenimento di un
modello formativo, ma un processo di apertura, un processo di interazione e
un processo di ricerca evolutiva51.
Quando il soggetto e l’oggetto del conoscere (ovvero nel caso in
discussione, rispettivamente, assistente sociale e cosiddetto utente), sono
entrambi persone e sono implicate in un rapporto spesso caratterizzato da
una forte partecipazione emotiva, allora inevitabilmente è ben difficile
procedere secondo i canoni della “Razionalità Tecnica” richiamati prima.
Nel caso specifico appare chiaro che il rapporto tra professionalità,
personalità e intelligenza dell’assistente sociale si può nutrire solo in piccola
parte di una forma di conoscenza di tipo paradigmatico o logico-scientifico,
ma necessita di qualcosa che sia più complesso e soprattutto orientato
all’azione. Nell’ambito del servizio sociale, infatti, la teoria non può che
essere teoria operativa per la pratica sociale52.
48 Berger E., Riflettere l’apprendimento. [online]. Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della Scuola Media, no. 12, marzo 1995, pag. 5-22. Disponibile su: < http://www.scuoladecs.ti.ch/ssp_scarica/articoli/12_Sostegno_identita_Berger.doc.>[Data di accesso: 15/11/2009].
49 Ibidem
50Ibidem
51 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].
52 Sicora.A., 2005.,L’assistente sociale riflessivo. Epistemologia del servizio sociale., Pensa Multimedia, op. cit.p.18
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Come afferma Dal Pra: “Il servizio sociale, come ogni professione, dispone
di un corpo sistematico di conoscenze teoriche, la cui origine è duplice.
Vi è una “teoria della pratica”: è il sapere che si ricava dalla descrizione e
interpretazione della realtà operativa che si fonda su processi osservativi e
induttivi che originano una serie di enunciati ricavati da generalizzazioni
empiriche. Esiste poi una “teoria per la pratica”, costituita dall’apporto che
le diverse impostazioni teoriche delle scienze sociali possono offrire al
servizio sociale.
Nel servizio sociale la teoria non rappresenta una conoscenza per la
conoscenza, ma una conoscenza che orienta l’operatività”53.
Accostando a tale enunciazione il pensiero e la terminologia di Schön si
potrebbe aggiungere a queste due una terza declinazione del termine
“teoria”. Anche per l’assistente sociale si può parlare di “teoria nella
pratica”, ovvero di un corpo di teorie implicite e “personali” che guidano
l’agire del singolo operatore spesso senza che questo ne sia consapevole, se
non in piccola parte. Far emergere tale patrimonio sommerso è impresa non
facile ma può contribuire ad una migliore comprensione delle ragioni dei
successi e dei fallimenti professionali e, in un’ottica più allargata e
aggregata, di quelli organizzativi54.
Le riflessioni operate da Schön sembrano utilizzabili proficuamente ai fini
dello sviluppo professionale, dell’apprendimento organizzativo, del
miglioramento continuo e automotivato di decisionalità e di responsabilità
professionale che oggi rappresentano gli obiettivi più apprezzabili e,
realisticamente perseguibili, dei percorsi di formazione in servizio o come
più opportunamente si va affermando negli ultimi anni, di sviluppo
professionale.
Tuttavia, poiché il professionismo è ancora principalmente identificato con
l’exepertise tecnica, la riflessione nel corso dell’azione non è generalmente
accettata come una forma legittima di conoscere professionale55. Molti
professionisti, chiusi nell’idea di essere degli esperti tecnici, non trovano
alcunché nel contesto della pratica che sia occasione di riflessione.
53 Dal Pra Ponticelli M., 1987., Lineamenti di Servizio Sociale, Roma, Astrolabio, op. cit. p. 79
54 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo.,cit.p.18
55 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p.94
Page53
L’incertezza costituisce per loro una minaccia; la sua ammissione è un
segno di debolezza.
Esperto56 Operatore
riflessivo
Si suppone che io sappia, e io
devo mostrarmi sicuro,
indipendentemente dalla mia
incertezza.
Mantengo le distanze dal
cliente, e mi mantengo nel
ruolo dell'esperto.
Trasmetto al cliente il senso
della mia expertise, ma
comunico un sentimento di
calore e di simpatia
unicamente per "addolcire" la
relazione.
Ricerco la deferenza e il
riconoscimento del mio status
nelle reazioni del cliente nei
riguardi della mia figura
professionale.
Si suppone che io sappia, ma non
sono l'unica persona della
situazione a possedere una
conoscenza rilevante. Le mie
incertezze possono essere una
fonte di apprendimento per me e
per gli altri.
Ricerco delle connessioni con i
pensieri e i sentimenti del cliente.
Lascio che il suo rispetto per la
mia conoscenza emerga dalla sua
scoperta nella situazione.
Ricerco il senso di libertà e la
connessione reale con il cliente,
come una conseguenza
dell'assenza di bisogno di
mantenere una facciata
professionale.
56Ibidem., p.30
Page53
1.3 Ma chi è il “professionista riflessivo” ?
Nell’ambito degli scenari socio-politici e culturali di una società in profondo
cambiamento, è sempre più evidente una “crisi di fiducia” nelle professioni,
determinata dalla necessità di una nuova visione “dell’epistemologia della
pratica” che consenta ai professionisti di ripensarsi non più come “risolutori
di problemi strumentali” ma come artefici creativi e “riflessivi” del proprio
agire, delle proprie scelte e delle proprie mosse nei contesti di pratica, visti
come campi di esperienza problematica da esplorare, indagare, trasformare,
attraverso l’esercizio di una “abilità artistica” connotata da competenze
emergenti in situazioni uniche, incerte e conflittuali57.
Ciò richiede una profonda revisione delle epistemologie che informano i
modelli della formazione professionalizzante allo scopo di disegnare nuove
tipologie di percorsi formativi per “insegnare ed apprendere” il sapere
professionale come sapere empiricamente situato, sostenuto da forme di
“razionalità riflessiva”, indispensabili alla costruzione, all’uso di
conoscenze e allo sviluppo di competenze che nascano dall’agire e che in
esso funzionalmente si traducano58.
Un “buon professionista”, secondo Schön, conosce nell’azione, riflette
sull’azione e nel corso dell’azione.
Un professionista capace è tale poiché è in grado di governare
consapevolmente la “conoscenza nell’azione” (knowing-in-action)59. Questa
forma di conoscenza è tacita, ovvero sommersa negli automatismi delle
57 Anon. 2006., “Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e dell'apprendimento nelle professioni”. [online]. Scienze della formazione – Ricerche. Disponibile su: < www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_Libro> [Data di accesso: 03/12/2009].
58Idem
59 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo..,cit. p 22
Page53
operazioni comuni della vita di tutti i giorni ed è generata dalla riflessione
nell’azione.
Azioni e comportamenti sarebbero la parte visibile di un processo continuo
di adattamenti e rimandi tra azione e conoscenza, si tratta di una dinamica
all’interno della quale è difficile distinguere le diverse componenti e, al
contempo, si rileva spesso una ampia distanza tra le teorie che vengono
dichiarate per descrivere e motivare l’azione e le teorie implicite in essa che,
una volta individuate ed espresse, sono in grado di spiegare meglio delle
prime il perché di comportamenti attuati e di direzioni seguite.
Ad illuminare queste aree nascoste, ma estremamente importanti, dell’agire
di un professionista, spesso concorrono quelle situazioni di errore o quelle
in cui si diventa consapevoli di fallimenti, paure e altre circostanze di solito
rimosse in quanto sgradevoli, tuttavia tali situazioni di limite e di apparente
debolezza possono essere trasformate in opportunità di crescita delle
competenze e delle conoscenze60.
Il professionista riflessivo è colui che nell’agire professionale si pone come
ricercatore, e – grazie a tale atteggiamento – accresce conoscenze e
competenze riflettendo nel/sul suo agire professionale61.
In tal senso tale figura incarna il profilo e lo stile operativo di un
professionista che riflette sull’azione mentre essa si svolge.
Schön sollecita e promuove il superamento della dicotomia tra “conoscenza
forte” (della scienza e del sapere) e “conoscenza debole” (dell’abilità
artistica, della pratica e della semplice opinione) e lo fa in modo molto
chiaro e deciso.62
Un professionista è abitualmente considerato un esperto che risolve
problemi applicando nella pratica teorie e tecniche prodotte in campo
scientifico, ovvero se egli, seguendo il modello della razionalità tecnica, di
fronte a una situazione concreta, attinge al magazzino di problemi e
soluzioni che la scienza ha predisposto. Egli sa che può operare con rigore
ma, lo schema scelto può non essere pertinente, ovvero non riflettere in
modo adeguato la situazione affrontata, in quanto, gran parte delle situazioni 60 Ibidem., p 23
61 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].
62 Idem
Page53
reali si presentano come situazioni aggrovigliate, caratterizzate da
incertezza, disordine e indeterminatezza, dove il primo nodo da sciogliere è
proprio la definizione del problema e, quindi, dei fini da perseguire e dei
mezzi da scegliere63.
Di fronte al dilemma tra rigore e pertinenza, i professionisti migliori non
seguono il modello della razionalità tecnica ma, sviluppano processi
cognitivi basati sull'intuizione e sulla creatività.
Nel caso di situazioni uniche, caratterizzate da incertezza, instabilità e
conflitto di valori, la pratica di questi professionisti si trasforma in una
ricerca in cui, nella definizione del problema, fini e mezzi risultano
interdipendenti, conoscenza e azione inscindibili64.
Schön definisce questa pratica come riflessione nel corso dell'azione e,
ritiene che il dilemma tra rigore e pertinenza possa essere rimosso qualora
sia possibile costruire ''un'epistemologia della pratica che collochi la
soluzione tecnica dei problemi all'interno di un più ampio contesto di
indagine riflessiva, che mostri che la riflessione nel corso dell'azione può
essere rigorosa per propri meriti e, che leghi l'arte dell'esercizio della pratica
in condizioni di incertezza e unicità all'arte della ricerca propria dello
scienziato"65.
Riflettere nel corso dell'azione per Schön vuol dire comportarsi come dei
bravi musicisti che improvvisano durante una sessione di jazz: "ascoltandosi
reciprocamente e ascoltando se stessi, sentono in quale direzione sta
andando la musica e di conseguenza adattano il proprio modo di suonare:
l'improvvisazione consiste nel variare, combinare e ricombinare un insieme
di motivi all'interno dello schema che definisce i limiti dell'esecuzione e le
dà coerenza".66 L’autore analizza diversi casi concreti per mostrare come la
riflessione nel corso dell'azione si realizzi attraverso la sperimentazione.
Per formulare il problema il professionista esprime un'ipotesi sulla
situazione che affronta, e la sperimentazione consiste nel far sì che l'ipotesi
si realizzi; l'azione con cui egli verifica la sua ipotesi è insieme una mossa
63 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p.41
64 Ibidem., p 42
65 Idem., p. 183
66 Ibidem., p.185
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con cui cerca di introdurre un cambiamento nella situazione e una sonda
attraverso cui la esplora67.
L'attività sperimentale è contemporaneamente “esplorazione, verifica di
mosse e verifica di ipotesi, le tre funzioni sono soddisfatte proprio dalle
azioni e, da tale circostanza deriva il carattere distintivo della pratica"68.
La sperimentazione consiste in una spirale di successive fasi di azione e di
apprezzamento dei risultati di essa, che definiscono nuovi problemi e nuove
finalità sino al raggiungimento di una situazione soddisfacente.
I cambiamenti sono l'essenza del metodo, perché il professionista
comprende la situazione solo strutturandola, cercando di trasformarla in
un'altra che preferisce attraverso l'imposizione di un suo criterio d'ordine.
I tentativi di trasformazione produrranno anche risultati non intenzionali e il
professionista deve rimanere aperto alle risposte impertinenti della
situazione, perché se ignorasse la resistenza al cambiamento esercitata da
quest’ultima, l'esperimento diventerebbe una mera profezia che si auto-
realizza69.
Il rigore della sperimentazione consiste non solo nel cercare di strutturare la
situazione ma, nell'accettare il fallimento del proprio tentativo di
strutturarla.
Anche se non segue la razionalità tecnica, il professionista si confronta con
la situazione utilizzando il repertorio di esempi, immagini, descrizioni e
azioni che racchiude il complesso della sua esperienza e di cui dispone per
comprendere e formulare nuove ipotesi70.
La strategia del professionista consiste nel vedere la situazione come
qualcosa che è già presente nel suo repertorio, senza che questo significhi
includerla in una categoria o in una regola consueta. Vedendo questa
situazione come quella, può agire in questa situazione come in quella.
La situazione consueta funge da precedente, o da caso esemplare, il “vedere
come” assume una forma definita ''metafora generativa", che consente di
relazionare l'esperienza passata al caso unico. È la capacità di “vedere 67 Recensione di Mazza, L., L'Indice 1994, n. 9. [online]. IBS Internet bookshop. Disponibile su: <http://www.ibs.it/code/9788822061522/schouml;n-donald-a-/professionista-riflessivo-per.htm> [Data di accesso: 12/11/2009].
68 Ibidem
69 Idem
70Ibidem
Page53
come” e agire, che permette di "sentire" i problemi che non si adattano a
regole predefinite71.
Perché si possa attivare il modo di essere del “professionista riflessivo”
Schön propone:
riflessione nel corso dell’azione (conoscere nel corso dell’azione e
attraverso essa);
conversazione riflessiva con la situazione;
pratica riflessiva.
Il profilo del professionista riflessivo si proietta all’interno di contesti in cui
l’azione e l’impegno del singolo si sviluppano in un sistema di obiettivi e
di relazioni fortemente interdipendenti: l’idea di pratica riflessiva si
intreccia con quella di apprendimento organizzativo; apprendimento
organizzativo e pratica riflessiva sono complementari.
In altre parole, il professionista riflessivo rimette in discussione non solo le
consuetudini, ma anche i valori e i principi di fondo delle organizzazioni che
programmano, organizzano, gestiscono e offrono servizi sociali, facendone
emergere eventuali contraddizioni e disfunzioni, egli diventa una ‘ipotesi’
più realistica e praticabile che in modo chiaro e determinato cerca di farsi
“ambiente organizzato di apprendimento” non solo per gli utenti ma anche
per le altre figure professionali72. Questo paradigma tende, inoltre, a far
emergere le “teorie implicite”, di cui le diverse figure professionali sono
portatori, per conseguire sempre maggiori livelli di padronanza e di
consapevolezza condivisa, queste condizioni e acquisizioni sono
indispensabili per realizzare nell’organizzazione e nella gestione dei
processi effettiva autonomia e responsabilità diffusa.
71 Ibidem
72 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].
Page53
Epistemologia e natura del sapere del servizio sociale
La pratica del servizio sociale è attiva in Italia a partire dagli anni ’30 e, da
allora uno stuolo di assistenti sociali opera alla costruzione del benessere
della nostra società. I recenti cambiamenti legislativi introdotti
nell’itinerario formativo, nel riconoscimento della professione e nella
riforma del sistema assistenziale, hanno riportato alla ribalta alcuni quesiti
circa i fondamenti epistemologici di questo lavoro. Da più parti ci si
interroga sugli intrecci con gli altri saperi, su ciò che rende efficace ed
incisiva l’arte degli assistenti sociali nelle società postmoderne, sulle basi
scientifiche non solo della tradizionale azione di “assistentato”, ma anche
della prevenzione per il benessere delle persone e della cura dei legami
sociali73. A partire dal Dpr 14 del 1987 il servizio sociale è diventato una
disciplina universitaria impartita dapprima nelle scuole dirette a fini
speciali, poi nei diplomi e oggi nei corsi di laurea di base o nelle lauree
specialistiche, con insegnamenti propri e con specifiche modalità di
trasmissioni; si è avviato così quel processo di consolidamento della
posizione del servizio sociale tra le discipline scientifiche ed è in continuo
aumento l’impegno degli studiosi e degli operatori sul campo per la
definizione del suo corpus teorico. Compito della comunità scientifica degli
73 Marzotto C., 2002., Per un’epistemologia del servizio sociale: la posizione del soggetto., F.Angeli, Milano, op.cit.p.32
Page53
assistenti sociali è quello di definire sempre più precisamente le modalità di
conoscenza e di azione sulla realtà soggettiva, gruppale e/o comunitaria74.
L’azione degli assistenti sociali si caratterizza per la stretta connessione tra
momento conoscitivo ed intervento operativo: è a partire dall’incontro tra le
difficoltà relazionali del soggetto e un professionista dell’aiuto che si mette
in moto un processo, che da una parte prende in carico la condizione di
disagio personale e dall’altra promuove risorse per le famiglie o i gruppi
delle nostre comunità locali. Affinché questo circolo virtuoso proceda, è
necessario che l’assistente sociale conquisti una sempre maggiore
consapevolezza delle specificità del suo operare75.
Fino ad oggi abbiamo potuto usufruire della descrizione dei modelli
d’intervento di servizio sociale (sistemico, psicoanalitico, esistenziale,
ecologico, centrato sul compito, comportamentista, psicosociale, funzionale,
ecc.), ma è giunto il momento di riflettere sui saperi pratici propri
dell’assistente sociale per ricollocare la posizione del soggetto e per
riconoscerne le azioni ricorrenti che ne definiscono l’identità.
Il servizio sociale nel suo complesso non è solo tecnica, ma anzitutto una
“prassi”, cioè un’azione che punta direttamente alla trasformazione
dell’agente (in questo caso colui/colei che presta il servizio sociale) e che
per questo tramite raggiunge, modifica e fa agire anche l’altro (in questo
caso chi riceve il servizio).
L’oggetto peculiare del servizio sociale sono le relazioni, i nessi, i legami
tra le persone, tra i componenti di un organismo e tra i gruppi; potremmo
definirlo un oggetto “virtuale” riconducibile allo spazio tra76.
Ad esempio a differenza del sapere medico il cui oggetto è materialmente
visibile e misurabile, l’azione di cura dell’assistente sociale è rivolta ad
un’entità non visibile, ma ugualmente reale. Peculiarità dell’oggetto del
servizio sociale è anche il fatto che questo non è dato a priori, non è
circoscrivibile in categorie nosografiche precise, a differenza del paradigma
medico, bensì necessita che qualcuno ponga una richiesta, e questo non
avviene sempre da parte dell’interessato.
74Ibidem.,.p.34
75 Ibidem., p 35
76Idem., p.35
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Il servizio sociale risulta essere un’attività che richiede un ampio e articolato
sapere pratico, nel senso non solo di un’applicazione “tecnica” di un sapere
teorico elaborato altrove, né tantomeno di una pura esperienza, senza criteri
teorici specifici, bensì esso appare sempre in una sintesi soggettiva.
A tale proposito Botturi sostiene che: “anche il servizio sociale è nella sua
attività un’elaborazione ed una realizzazione di sapere pratico che, prende
forma nella misura in cui ogni conoscenza viene resa funzionale ad
un’attività, il cui compito è quello di progettare interventi in situazioni
socialmente rilevanti.”77
Certamente il servizio sociale ha bisogno di saperi puramente teorici, cioè
di quei saperi che hanno un fine solo conoscitivo ma, con questa sola
dotazione non si realizzerebbe nessun servizio sociale che invece prende
forma nella misura in cui ogni conoscenza viene resa funzionale ad
un’attività, il cui compito è, appunto, diretto a progettare interventi in
situazioni socialmente rilevanti.
Tale progettazione di interventi è una forma di sapere pratico, che nel suo
complesso deve saper interpretare la situazione in cui si interviene.
Ciò non significa che non vi siano delle tecniche chiamate a prender parte al
lavoro del servizio sociale ma, questo non può essere efficace se non passa
in qualche misura attraverso sia un coinvolgimento reale di chi presta
servizio, sia dall’iniziativa e dalla partecipazione degli utenti, in quanto a
loro volta soggetti d’azione. In tal modo il servizio sociale non si realizza
come espropriazione dell’altro e delle sue capacità di agire, che in ogni caso
è o può essere (salvo casi di patologia grave) soggetto agente78.
Come afferma Dal Pra Ponticelli le “professioni di aiuto”, come il servizio
sociale, sono caratterizzate da una particolare dinamicità dovendo
continuamente tenere conto dei cambiamenti dei loro “oggetti di analisi e di
intervento” (le persone), del loro contesto socio-culturale e, se operano
nell’ambito di una istituzione pubblica o privata, del mandato professionale
e istituzionale che è stato loro assegnato. In queste professioni si parte
sempre dal contatto con una situazione incerta e sconosciuta, di difficile
interpretazione che talvolta la “razionalità tecnica”, le acquisizioni dalla
77 Ibidem., p 36
78Idem., p.36
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teoria non riescono a decifrare e si ha allora bisogno di ricorrere al “sapere
pratico”79.
Non possono quindi che essere professioni in continua evoluzione sia sul
versante teorico che operativo. Il quadro che emerge è assai complesso e
costellato da ambivalenze e doppi legami tra i quali il “lavoratore del
sociale” cerca di destreggiarsi alla ricerca di un’autonomia tra mille
esigenze istituzionali.
L’assistente sociale agisce da sempre tra una domanda infinita proveniente
dal basso e mille vincoli imposti dall’alto. Fortunatamente, nel gioco tra i
servizi offerti e domande delle persone, queste ultime dettano le regole del
gioco e qualificano l’azione professionale dell’operatore stesso per la
costruzione del well being e non più del benessere dello stato. Ciò che
dovrebbe caratterizzare sempre più l’opera del social worker è il guidare e
potenziare le relazioni all’interno delle reti, in quanto in comune con altre
scienze “pratiche”, il servizio sociale si fonda sulla comunicazione dialogica
e costruisce il suo sapere a partire dall’opera di svelamento che operatore e
utente compiono anche tra le quattro mura degli uffici di servizio sociale80.
L’assistente sociale esiste, si costruisce come entità in relazione, è solo
attraverso e dentro le relazioni con il suo ente e con il cliente che si snoda
l’azione sociale: ciò che lo fa esistere è la relazione.
Il sapere pratico non è mai un sapere neutrale, ma implica il suo soggetto,
che è chiamato in causa direttamente.81
2.2 Sapere pratico e servizio sociale
79 Sicora. A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p.165
80 Marzotto C.,Per un’epistemologia del servizio sociale., cit.p.37
81 Ibidem., .p.37
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Oggi si tende a parlare di scienza, in generale, in questi termini: “un metodo
di sapere è scientifico in quanto è pubblico e intersoggettivabile e quindi in
quanto offre la possibilità di condividere un metodo d’indagine ed insieme
la sua verifica”82.
Il sapere scientifico non è un sapere individuale, ma è caratterizzato dal suo
essere sottoposto metodicamente al controllo della comunità omogenea e
competente, la comunità scientifica.
Si ha coscienza, inoltre, che comunque tutto questo avviene sempre
all’interno di un contesto storico e quindi che anche il sapere scientifico non
è sapere stabile, ma è un sapere che si viene formulando entro un
determinato momento culturale, di cui subisce inevitabilmente il
condizionamento83.
Tipico della filosofia contemporanea è l’aver ritrovato interesse per l’ambito
pratico e per la sua specificità. Nella definizione di Botturi il sapere pratico
è: “un sapere per operare, dove il per ha una funzione costitutiva. Non è un
sapere che si applica all’operare in un secondo momento, ma è un sapere
che si costituisce per operare; dove perciò la finalizzazione dell’agire è
fondante”84.
Ci sono due tipi di sapere pratico: il sapere per l’azione produttiva, cioè il
sapere tecnico e, il sapere per l’azione del soggetto che non ha effetti fuori
di lui, il sapere pratico in senso stretto.
Il sapere produttivo-tecnico è quel sapere che è funzionale alla produzione
di uno stato di cose esterno al soggetto, mentre il secondo, come sapere per
l’azione, è prassi in senso proprio, è appunto un’azione, cioè una
trasformazione del soggetto stesso. Una tale trasformazione può investire
ambiti più o meno vasti del soggetto. L’azione, allora, è diretta a mutare le
sue relazioni e quindi ad influenzare e a cambiare la condizione anche degli
altri. Questo fa capire che il soggetto è implicato nel sapere pratico in un
modo diverso rispetto al sapere teorico. Quest’ultimo mira alla massima
estraniazione del soggetto dal suo sapere, mentre, nel primo caso, egli è
coinvolto, perché il termine ultimo del proprio sapere pratico è la
82 Ibidem., p 34
83Idem., p.26
84 Ibidem., p. 30
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trasformazione di uno stato di cose esterne o, ancor più, è un cambiamento
del comportamento di sé e/o degli altri85.
Il sapere pratico, in quanto mira all’azione, implica il coinvolgimento del
soggetto nel proprio sapere: l’agente cerca di comprendere quello che fa, ma
egli sa che, è anche lui che si mette in gioco nel suo sapere e che mira in
qualche misura ad una sua modificazione. Questo vuol dire che tale soggetto
non potrà mai essere neutrale rispetto a quello che viene compiuto.
Nel sapere pratico vi è dunque rigore senza esattezza, perché non si può
chiedere ad esso l’esattezza che ci si aspetta dal sapere teorico.
Il sapere pratico è un sapere che riguarda l’azione, e come tale riguarda
realtà variabili e solo approssimativamente categorizzabili; esso è legato
all’esperienza, cioè all’azione reale e come tale è sempre singolare e
circostanziato, ne deriva una mancanza di universalità propria delle scienze
esatte, ma è dotato di un’altra modalità universale, nonché quella
tipologica86.
Un esempio significativo di universalità pratica è costituito dal racconto.
Esso si riferisce sempre ad eventi e fatti singolari, ma è in grado di tracciare
una figura dell’esperienza capace di far conoscere qualcosa che vale per
molte o tutte le realtà simili. Il racconto offre un caso significativo del
sapere universale del pratico, perché, componendo elementi particolari noti
per esperienza, fa vedere nessi che valgono anche per tutti i casi simili.
In questo senso il sapere pratico è un sapere narrativo, non nel senso di una
descrizione speculare di quello che avviene, ma in quello di una
interpretazione di figure significative, appunto di “tipi” che mostrano il vero
comune a casi simili87.
Il sapere pratico è un sapere intrinsecamente dialogico, nel senso che esso si
certifica nel suo tentativo di comprensione attraverso il dibattito dei casi.
Ciascun interprete parte dalle sue premesse teoriche e dalle sue tradizioni
culturali, le mette in campo e ne tenta l’applicazione; ma proprio la natura
verosimile del sapere pratico fa sì che esso abbia come sua componente
essenziale il dialogo, cioè il mettere a prova la congruenza dell’ipotesi
85 Ibidem., p.31
86 Idem., p. 32
87 Ibidem., p. 33
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pratica attraverso la discussione con altre ipotesi o con altri aspetti della
medesima. Ogni discussione è possibile soltanto in base all’accettazione
condivisa di alcune opinioni accreditate ed indiscutibili88.
In definitiva il sapere pratico ha natura ermeneutica, cioè interpretativa.
Ermeneutico non vuol dire soggettivistico, ma significa che si cerca sempre
di compiere il tragitto dalla pre-comprensione delle cose, che è data dalla
propria partecipazione ad una tradizione di ciò che è già esperito e alla
situazione oggetto dell’azione da progettare89.
La realtà dell’azione deve essere interpretata, ovvero compresa sia nel suo
insieme complesso che in rapporto all’agente stesso. E’ l’ermeneutica,
infatti, una delle peculiarità dell’azione sociale. Nella realtà si incontra
sempre l’intervento sociale frutto di un’interpretazione che l’operatore
fornisce alla domanda del cliente, a partire dalla propria rappresentazione di
bene comune, dalla valutazione che egli fa delle risorse interne ed esterne al
soggetto e dall’intreccio possibile tra questi fattori in un determinato spazio
e tempo.
Augusto Vino, autore dell’articolo “sapere pratico e apprendimento
organizzativo”, delinea alcune importanti caratteristiche del sapere pratico90:
Il sapere pratico è conoscenza generata dall’azione:
Weick mostra come l’azione preceda la conoscenza. Le conoscenze che già
possediamo – le nostre mappe mentali – non sono di per sé sufficienti ad
orientare l’azione, proprio perché ogni situazione è unica ed irripetibile;
servono piuttosto come spunto, come occasione per avviare l’azione,
durante la quale le reazioni della situazione, e le interpretazioni che di
queste costruiremo, ci consentiranno di pervenire ad una descrizione – una
nuova mappa – della situazione maggiormente adeguata ed efficace.
Il sapere pratico è retrospettivo e riflessivo: è in maniera retrospettiva
che costruiamo il significato degli avvenimenti, e non tanto imputando delle
intenzioni agli attori, quanto piuttosto cercando di comprendere il 88 Idem., p 34
89 Ibidem., p. 36
90 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].
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significato dell’intero svolgersi dell’azione. Quando accogliamo il punto di
vista degli altri attori allora il significato della storia cambia radicalmente
ma, questa nuova comprensione della storia porta anche ad una diversa
comprensione di sé.
Gadamer insegna: “Chiunque comprenda qualcosa, comprende sé stesso in
essa”. La ricostruzione dell’azione è riflessiva nel senso che implica un ri-
pensare a sé stessi, alla propria posizione, alle proprie decisioni ed alle
convinzioni che ci hanno spinto a prendere determinate decisioni.
Comprendere diversamente una situazione è possibile solo se nello stesso
tempo modifichiamo, consapevolmente, i nostri pregiudizi e le nostre
aspettative su quella situazione;
Il sapere pratico è narrativo
La narrazione è la forma privilegiata della ricerca del significato.
La vita organizzativa è un ordito di storie e narrazioni: gli attori
organizzativi scambiano esperienze, interpretano situazioni, ricercano
regolarità nei comportamenti propri ed altrui, scambiandosi storie.
Sono singole storie quelle su cui costruiamo ed argomentiamo giudizi anche
generali, quelle da cui traiamo motivo per formulare valutazioni e decisioni.
La narrazione infatti dà conto degli esiti inattesi, degli effetti non voluti che
spesso determinano il significato di un’azione. Il significato dell’azione è
infatti determinato da ciò che essa produce, piuttosto che da ciò che la
muove.
Inoltre, per così dire, le storie si fanno con i “se”: la forma del racconto
permette di ipotizzare esiti diversi, condizioni diverse, scelte ed azioni
differenti; sollecita la ricostruzione di ciò che avrebbe potuto essere. La
narrazione consente di ritrovare nel passato altri futuri possibili. Nel far
questo colloca gli attori organizzativi in una prospettiva in cui le loro
possibilità sono più ampie di quelle che di fatto si sono realizzate, e così
mantiene aperto l’orizzonte della possibilità, di contro a quello della
necessità. La cultura di una organizzazione – la “memoria organizzativa”– è
costruita proprio attraverso lo scambio e la condivisione di esperienze sotto
forma di storie;
Il sapere pratico è orientato al futuro
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Weick chiama “sensemaking” l’attribuzione di senso a ciò che è accaduto.
Questa attività per la quale un episodio, una azione, acquisisce un certo
significato e non un altro, è orientata non rispetto al passato, ma rispetto al
futuro. L’interpretazione che si da di un evento dipende dal “progetto” in cui
quell’evento è inserito da parte di chi ne elabora il significato. E’ solo in
relazione al corso futuro degli eventi auspicato dai diversi attori, che si
definisce il significato degli eventi passati.
E’ il “progetto”, la prospettiva di ciò che dovrà accadere, il punto di vista
da cui gli attori interpellano ciò che è accaduto per comprenderne il
significato.
In questo senso, il sapere pratico è un sapere progettante, costruito
ripercorrendo riflessivamente il passato, ma traguardato sul futuro.
Il sapere pratico si costruisce a partire dalle domande che ogni attore
formula, ma che allo stesso tempo orienta, guida alla formulazione delle
domande più opportune, più feconde;
Il sapere pratico è contestuale
E’ il contesto che definisce cosa sia un comportamento competente, e non la
abilità o la conoscenza tecnica del singolo. Il comportamento competente in
un determinato contesto organizzativo può benissimo non esserlo in un altro
contesto, pur apparentemente simile.
Il sapere pratico, che pure si può ritenere che “appartenga” alle persone, ai
singoli attori organizzativi, è piuttosto un sapere contestuale, i suoi
contenuti ed i suoi criteri di valutazione sono definiti dallo specifico
contesto organizzativo. In questo senso, funziona un po’ come il linguaggio:
saper parlare è una competenza individuale ma non privata, in quanto essa è
invece collettiva.
Così come non può esistere un linguaggio privato – semplicemente perché
non avrebbe una grande utilità - allo stesso modo non può esistere un sapere
pratico privato, non contestuale.
Ciò significa che al mutare del contesto cambiano i criteri con cui un
comportamento viene valutato come adeguato, ed il sapere pratico che vale
in un contesto non vale altrettanto in un altro contesto.
2.3 Sapere pratico e apprendimento organizzativo
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La pratica è centrale per la comprensione dei fenomeni organizzativi, in
quanto fa emergere la conoscenza situata nell’organizzazione; il sapere
esperto che si esprime nella performatività dell’agire organizzativo;
l’importanza delle culture materiali, degli artefatti dello spazio
organizzativo unitamente alle pratiche discorsive ed ai codici normativi;
l’habitus fatto di senso del gioco, abilità personali e di inventiva; la
comunicazione organizzativa della conoscenza che mette in luce i processi
di apprendimento organizzativo91.
I primi studi sull’apprendimento vedono contrapposte due prospettive: una
cognitiva, che concepisce l’apprendimento come un modo di conoscere il
mondo che ha luogo nelle istituzioni e nei momenti ad esso dedicati, ovvero,
esso è il prodotto dell’acquisizione di conoscenza entro contesti formali e ad
esso deputati. L’apprendimento avviene, dunque, nella testa delle persone e
viene inteso come un “problema individuale”, in quanto, considera
l’individuo moralmente responsabile dei risultati del suo apprendimento e di
conseguenza la ricerca è focalizzata più sugli aspetti legati alla distribuzione
della conoscenza che sulla sua creazione, nonché sull’efficienza ed efficacia
dei processi di istruzione e acquisizione delle conoscenze92.
La prospettiva sociale, contrapposta a quella cognitiva, al contrario narra
come apprendere sia parte dello stare al mondo e dell’essere sociale.
Apprendere ha a che fare con il partecipare, con il divenire membro di una
comunità, in quanto, le relazioni sociali sono importanti per la trasmissione
del sapere, l’acquisizione di capacità e lo sviluppo relazionale dell’identità.
In questo senso l’apprendimento è sempre un “apprendimento situato93” nel
campo dell’interazione sociale.
Quest’ultimo approccio sostiene, a differenza del “mentalismo” che separa
mente e corpo, che i fenomeni mentali sono sociali e che hanno luogo in
relazione a una situazione sociale e materiale.
La mente dunque non è un contenitore che attende di essere riempita, ma è
mente in azione nel mondo quotidiano.
91 Gherardi S., Nicolini D. 2004., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., Carocci, op.cit. p.24
92 Ibidem., p 30
93 Ibidem., p.43
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Cambia, quindi, il locus e la natura dei processi di apprendimento: la
conoscenza non è acquisita passivamente e, unicamente nei luoghi formali,
in quanto, l’apprendimento è un processo generativo di conoscenza,
indissociabile dal coinvolgimento attivo nella situazione e nel contesto e
dalle modalità di partecipazione al mondo quotidiano.
Sono dunque labili i confini tra la conoscenza prodotta professionalmente,
che le discipline scientifiche definiscono oggettiva, universale e
decontestualizzata, e la conoscenza di ogni giorno: il sapere quotidiano94.
La prospettiva sociale consente di rappresentare l’apprendimento
organizzativo come situato nei contesti lavorativi quotidiani; distribuito
entro le comunità che creano, impiegano e innovano corpi di conoscenza
specialistica; custodito entro le relazioni sociali e trasmesso attraverso esse,
radicato entro situazioni e contesti materiali e oggettivato in artefatti e
routine. L’approccio sociale è stato contestualizzo entro il cosiddetto
“nuovo apprendimento organizzativo” che, a partire dagli anni ’90,
interpreta l’apprendimento nelle organizzazioni come il prodotto di
sequenze di attività, azioni e interazioni che costruiscono e ricostruiscono
l’immagine e le pratiche dell’organizzazione stessa.
L’apprendimento dunque, si inserisce nei contesti di partecipazione ad
attività pratiche; la conoscenza è distribuita entro il tessuto sociale che si
forma attorno a ogni attività materiale e , il linguaggio rappresenta il mezzo
principe per agire nel mondo e sostenere le varie forme di socialità95.
In questo clima l’attenzione degli studiosi si sposta dalla comprensione delle
organizzazioni come un qualcosa di dato, allo studio dei processi e delle
attività dell’ordinare che producono come effetto la realtà organizzativa in
cui siamo immersi; si verifica dunque un progressivo abbandono della
rappresentazione dell’apprendimento organizzativo come apprendimento o
adattamento dell’organizzazione a condizioni ambientali modificate, a
favore di un termine che evoca la concezione sociale dell’organizzazione:
learning in organizing.96
Si consolida l’immagine che organizzare sia apprendere e che
nell’apprendere sia implicato l’organizzare, ovvero viene superata la
94 Idem., p. 40
95 Ibidem., p. 4396Idem., p. 44
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distinzione tra conoscenza e azione. La prima quindi scaturisce dalla
seconda e non dalla diffusione di informazioni o dall’insegnamento97.
L’apprendimento organizzativo come processo conoscitivo non separa le
attività del lavorare, apprendere e innovare, esso è una pratica cognitiva: si
impara agendo. Il conoscere in azione è il cuore dell'apprendimento
organizzativo, in quanto esso esiste solo attraverso e all’interno del processo
di generazione, trasferimento e uso della conoscenza e, quest’ultima non
può essere considerata un insieme di affermazioni che esistono al di fuori
del soggetto conoscente. A un’immagine di conoscenza come possesso
(l’avere conoscenza), si propone l’immagine di apprendimento come attività
conoscitiva che connette entro l’azione e per mezzo di essa i saperi e le
abilità dell’organizzare.
La conoscenza pratica non può essere compresa indipendentemente dalle
relazioni sociali e materiali cui dà luogo e che allo tesso tempo la
sostengono, ne permettono la perpetuazione e ne determinano il
mutamento98.
Le organizzazioni apprendono, e così cambiano, quando gli attori
organizzativi modificano il proprio sapere pratico, quando nuovi punti di
vista si impongono, nuovi significati e nuovi linguaggi emergono99.
Ogni individuo struttura la sua conoscenza a partire dalle proprie esperienze
e conoscenze; i problemi inediti che l’operatore deve affrontare non sono
risolvibili solo in base a repertori tecnici, regole definite o prassi
consolidate.
Di fronte a un problema il professionista, a partire dalle sensazioni che
prova, può far emergere e criticare la propria iniziale comprensione del caso
per costruire una nuova descrizione, arrivando a una nuova teoria del
fenomeno. Egli costruisce una nuova conoscenza pratica.( Schön, 1993).
Gli attori organizzativi, dunque, sono portatori non solo di sapere tecnico –
sapere manipolativo, codificato, prescrittivo – ma anche di un rilevante
sapere pratico. Si tratta di un sapere che consente di “collocarsi in
situazione” interpretandone le caratteristiche, mediando tra le proprie 97 Ibidem., p. 46
98 Ibidem.,p. 48
99 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].
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aspettative e quelle degli altri attori, formulando ipotesi sul significato che
questi ultimi attribuiscono all’azione. In questa direzione non si tratta solo
di agire, ma al tempo stesso di orientare il corso dell’azione nella direzione
auspicata, facendo i conti con le caratteristiche di ambiguità, unicità,
indeterminatezza degli esiti, imprevedibilità, che sono proprie dell’azione100.
Il sapere pratico è sapere tacito, ma non "indicibile"; è contestuale, in primo
luogo, in quanto è sapere sul contesto, ovvero capacità di muoversi in un
determinato ambiente organizzativo; in secondo luogo, è costruito da parte
di ogni attore a partire dalla propria posizione all’interno del contesto,
posizione che gli consente di fare alcune esperienze e non altre, vedere alcu-
-ne cose e non altre, pensare come praticabili alcuni corsi di azione e non
altri; in terzo luogo, è sapere costruito con i materiali, le simbolizzazioni
fornite dal contesto sociale. Il sapere pratico è contestuale poiché capace di
produrre senso solo all’interno del contesto in cui si è generato, in tale
direzione esso è l’elemento che lega il sapere individuale al sapere collettivo
e, consente il passaggio dal livello del singolo attore a quello di un insieme
organizzato di attori101.
Accade così che il sapere pratico degli attori organizzativi, costruito
all’interno di un determinato contesto di azione, opera nel senso di
rafforzare e perpetuare tale contesto.
Il sapere pratico è costitutivo della identità degli attori sociali; fondando la
competenza, il saper fare degli attori, è uno degli elementi che entra nella
loro auto-percezione ed auto-rappresentazione; la modifica di esso richiede
cambiamenti faticosi perché chiama in causa elementi molto profondi, che
hanno a che fare appunto con l’identità102.
Esso è un sapere interpretativo, orientato all'azione e costruito nell'azione, e
quindi con una forte dimensione etica; non codificato ma trasmesso in forme
narrative; è un sapere individuale ma non privato, incardinato nelle reti di
relazioni e, non si può trasferire e tanto meno immagazzinare negli
artefatti tecnologici, così come si tenta di fare nelle esperienze di knowledge
management, ma si modifica per trasformazione, attraverso la riflessione e
la ricostruzione retrospettiva dei corsi di azione.
100 Idem
101 Ibidem102 Idem
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L’organizzazione che apprende, riflette continuamente sul e nel proprio
contesto, in modo da poter fare affiorare una continua ridefinizione ed
interpretazione dei significati delle proprie attività in relazione a tutti i livelli
– da quello macro dell’ambiente di cui è parte, a quello meso dei sistemi in
cui la società si organizza, e a quello micro in cui l’essere umano come
singolo, insieme ad altri singoli, partecipa con le proprie azioni, cognitive e
comportamentali alla costruzione di senso – coinvolgendo ogni componente
nel miglioramento di essa attraverso la pratica del lavoro.
E’ attraverso un’attenta meta-riflessione su ciò che sta alla base dell’azione
e del comportamento organizzativo, sui processi, sui linguaggi, sulle
dinamiche attivate, sulla consapevolezza della parzialità di ogni punto di
vista e delle precomprensioni, che il sapere e la conoscenza delle
organizzazioni si trasformano nell’abilità di impostare il rapporto con la
realtà. Abilità che conduce ad un agire che produce i cambiamenti desiderati
o necessari103.
Una riflessività attiva non viene, quindi, costruita dall’individuo mediante
un ritrarsi quasi “ascetico” né dal turbino della pratica quotidiana né
tantomeno dal contesto in cui tale pratica si inserisce104. In sintesi, il sapere
in azione e l’apprendimento sociale avvengono nell’ambito di un tessuto
organizzativo in cui i saperi e processi risultano interconnessi e mutuamente
dipendenti105.
L'apprendimento delle organizzazioni non è la mera somma dei singoli
apprendimenti individuali (quali il patrimonio di saperi e saper fare che
hanno gli individui quando entrano in una struttura), ma è il risultato
cumulativo dei processi d'interazione delle persone impegnate nella
realizzazione degli obiettivi organizzativi106. Gli apprendimenti che restano
confinati nell’ambito dell’esperienza del singolo e quindi non radicati
nell’organizzazione, non diventano patrimonio di quest’ultima, in questo
103 Giacomoli B. 2002, L'apprendimento organizzativo come capacità evolutiva. [online]. Università degli studi di milano- Bicocca Diponibile su: <http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=9489 > [Data di accesso: 01/12/2009].
104 Sicora. A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p.174105Anon., L’apprendimento nelle organizzazioni.. . [online]. Diponibile su: <http://www.itsosgadda.it/sito/istituto/sicurezza/index/totale/Modulo%20C/C4_Avezzu.pdf >[Data di accesso: 23/12/2009].
106 Sicora. A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p. 101
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senso l’apprendimento organizzativo ha bisogno perciò di essere
socializzato e condiviso107.
La condivisione dell’apprendimento, non è un presupposto ma, è il risultato
di processi che lavorano sui legami, sulle interdipendenze fra gli attori, sulle
loro intelligenze su problemi e soluzioni e sui repertori delle competenze in
cui queste ultime si depositano.
L’interazione dei soggetti, che compongono l’organizzazione, è mediata
dall’universo dei simboli. Il simbolo è al tempo stesso artefatto, evoca una
relazione sociale ed è portatore di valori sociali ed infine, denota un sapere.
In sostanza esso è un artefatto che traduce un aggregazione di persone in un
collettivo108.
Proprio in questa trasformazione di un aggregato di persone in una
collettività che ha un volto, un’identità, delle forme di convivenza, degli stili
di relazione sociale, dei valori e delle credenze, risiede il significato
sociologico del concetto di cultura. La cultura organizzativa è ciò che
l’organizzazione è. Essa è fatta di simbologie, credenze, valori e modelli
appresi, prodotti e ricreati dalle persone; viene espressa nell’ideazione e
nella progettazione dell’organizzazione e delle attività lavorative, negli
artefatti e nei servizi, nell’architettura degli spazi e nelle tecnologie adottate;
è materiale ed immateriale al tempo stesso ed infine è osservabile ed
evocativa, nel senso che nel comprenderla e comunicarla ci si avvale anche
del processo evocativo della conoscenza che si affida all’intuizione,
all’immaginazione, all’introspezione e all’empatia109.
E’ nella pratica che si può osservare la pluralità delle culture organizzative
che negoziano il significato del lavoro e quello stesso dell’organizzazione.
Secondo quanto riportato da Schein (1985), ogni organizzazione ha una
propria “cultura organizzativa”, ovvero un insieme di assunzioni su ciò che
va fatto e ciò che va evitato e, sono tali assunzioni che guidano la
valutazione dei comportamenti degli attori organizzativi; lo sviluppo di un
comportamento competente, l’acquisizione di un sapere utilizzabile, ed
infine, implica pertanto apprendere e far propria la cultura del contesto in
107 Gherardi S., D. Nicolini D. Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit.p 42
108 A. Strati., 2006., L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi., Carocci editore., cit. p.106109 Idem., p.112
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cui si opera110. I profondi mutamenti strutturali, economici e sociali che
attraversano il mondo del lavoro inducono le organizzazioni ad interrogarsi
su quali siano le modalità più efficaci per gestire la complessità e la
dinamicità con cui si confrontano nel loro operato.
Cresce il convincimento che, per assicurare sopravvivenza e sviluppo, sia
necessario conoscere ed intervenire sui nuclei culturali e valoriali che
sostengono ed orientano le scelte e l’azione dei sistemi organizzativi,
cercando di capire quali siano gli assunti di base ed i valori che spingono le
persone a comportarsi in un determinato modo; capire ciò che per l’impresa
rappresenta il modo corretto di agire; comprendere i comportamenti ai quali
viene dato un significato importante; capire come vengono affrontati i
problemi e come vengono riconosciuti gli eventi positivi; individuare le
manifestazioni pratiche, anche soltanto rituali, che dimostrano l’essere
devoti a determinate credenze ritenute critiche per il successo111.
La cultura di un organizzazione ha una sua storia; è funzionale ad alcune
esigenze e ansie di essa; questa esercita un ruolo positivo in quanto evita il
ripetersi di errori, ma può esercitare anche un ruolo negativo nel momento
in cui di fronte all’imprevisto, crea condizioni di chiusura e di “rifugio”
negli assunti, impedendone una revisione da parte dei soggetti,
trasformandosi, così, in una remora al cambiamento. La cultura
organizzativa spesso si auto-preserva e non cambia, oppure cambia,
rapidamente, in seguito a processi facilitati che scatenano “riflessioni
organizzative” che conducono a riconsiderare e riarticolare valori e
comportamenti112.
Le “riflessioni organizzative“ sono momenti che attivano conversazioni
importanti sulla cultura facendo emergere la naturale propensione alla
collaborazione. Queste riflessioni conducono ad un’evoluzione della cultura
e, richiedono che le persone riflettano insieme, affinché possano
promuovere cambiamento.
110 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].
111 Avallone Francesco.,2008., Culture organizzative:modelli e strumenti di intervento. [online]. Master Ciclo Formazione Formatori (CFF). Diponibile su: <http://www.gruppotiva.it/formazione/workshop-culture.html >[Data di accesso: 01/12/2009].
112 Gastaldi M., 2010, Cambiamento della cultura organizzativa. [online]. Growing Organizations humans in action.
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In sintesi, come abbiamo accennato, le organizzazioni che apprendono
riflettono su se stesse, ovvero, su ciò che una volta che in una
organizzazione si consolida un’unità organizzativa viene dato per scontato:
la cultura organizzativa.
Essa, come già precedentemente argomentato, è un insieme di assunti di
base e convinzioni condivisi dai membri di un’organizzazione funzionale
alla risoluzione dei problemi di adattamento esterno e integrazione interna e,
di gestione dell’ansia generata dall’incertezza che caratterizza la società
odierna113.
L’imprevisto conduce i professionisti a negoziare continuamente tra la
rigorosità del sapere tecnico di cui sono portatori e l’instabilità della pratica,
tra valori e burocrazia, tra etica e tecnica; questo è dovuto, anche, dalla
pressione esercitata dall’efficienza. Quest’ultima irrigidisce i processi di
lavoro e i modelli di riferimento attraverso cui affrontare le situazioni
pratiche costitutivamente instabili, causando, nella maggior parte dei casi,
disagi e la necessità di cambiare, di abbandonare le vecchie abitudini e
vecchi modi di pensare per acquisirne dei nuovi.
Molto spesso accade che in situazioni di incertezza i professionisti elaborino
velocemente delle scelte che producono cambiamenti (occasionali o
permanenti) del loro agire professionale, connessi alle pratiche di lavoro,
alle conoscenze ad esse sottese, alla divisione del lavoro, alle interazioni con
altri soggetti e alle regole.
Non di rado tali cambiamenti possono modificare i campi di azione ed i
confini di una professione fino al punto di renderla quasi irriconoscibile
rispetto ai suoi contenuti più familiari e alle sue pratiche standard, creando
punti di frattura e di tensione all’interno delle organizzazioni oppure
creando occasioni di liberazione, di possibilità di azione non pensate e non
strutturate prima114.
Non sempre le organizzazioni sono in grado di monitorare tali processi, di
farli emergere, di portarli a sistema e quando ciò non avviene l’agire in
situazioni di incertezza produce un apprendimento limitato, sia nel suo
113 Spagnoli P., Culture Organizzative. . [online]. Docente di antropologia Università Urbino. Diponibile su: <www.123people.it/s/paola+spagnoli >[Data di accesso: 13/11/2009].
114 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo. [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
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carattere estensivo (ossia coinvolge pochi soggetti in modo non
prevedibile), sia nel suo carattere intensivo (ossia non va a modificare modi
di pensare, valori, organizzazioni ma soltanto azioni in specifiche
situazioni).
Ciò accade a causa della scarsa capacità delle organizzazioni e dei soggetti
di riflettere e ristrutturare le basi cognitive e istituzionali che sostengono i
modi abituali e dati per scontati di fare le cose, di progettare nuovi modelli
di azione e nuove routine. Gli apprendimenti rimangono quindi invisibili,
frutto di esperimenti locali, periferici, di improvvisazione115.
Fare esperienza dell’imbarazzo, della sorpresa e trarre profitto
dall’imprevisto, è essenziale per imparare e per assumere maggiore
vigilanza, flessibilità e coraggio. La riflessione nel corso dell’azione è sia
causa che conseguenza di sorprese. Quando un professionista, soprattutto se
esperto, comincia ad osservare la propria attività quotidiana utilizzando
metodologie riflessive, generalmente rimane sorpreso.
La sua pratica esplode in una miriade di scoperte: voci prima silenziose si
risvegliano, opportunità e punti di vista inesplorati si dischiudono, ciò che
era scontato diventa nuova esperienza colorata, viva e interattiva116.
Lui stesso scopre che, come professionista, è una figura complessa, molto
meno lineare di quanto si sforzi di apparire ai propri occhi e a quelli dei suoi
utenti, in quanto è quotidianamente impegnato in mosse difficili, rischiose,
creative, dotate di insospettati margini di discrezionalità, continuamente alla
ricerca di soluzioni soddisfacenti – quasi mai ottimali - tra criteri di giudizio
diversi117. Egli riscopre con un maggior grado di consapevolezza, ciò che in
fondo sapeva già: il suo è un lavoro riflessivo perché la sua abilità
fondamentale consiste nella sua capacità di dialogare con la situazione che
deve affrontare, di risolvere in corso d’opera dilemmi di tutti i tipi e di
rispondere agli effetti della sua stessa azione e alle contromosse che altri
soggetti mettono in atto.
Egli si avvicina maggiormente, in tal modo, alla sorgente di quella
intuizione che tanto spesso gli ha permesso di risolvere in extremis
115 Ibidem
116 Schön D. A., Il professionista riflessivo., cit. p. 330117 Consoli F., L’apprendimento riflessivo. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].
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situazioni ingarbugliate, di capire quale fosse in quel momento e in quel
contesto la scelta giusta.
In questa direzione, il professionista tenderà a muoversi in questa palude
così diversa da quella roccia su cui ci si aspetta che un vero professionista
poggi i piedi per darci una risposta sicura. Una palude insidiosa ma piena di
imprevisti e di forme di vita118.
Se è un professionista esperto e responsabile, cercherà di orientare il proprio
comportamento ad un elevato standard di qualità. E’ molto probabile, però,
che dopo aver iniziato ad osservare la propria attività utilizzando
consapevolmente metodologie di pratica riflessiva, troverà che i parametri
di qualità cui si era precedentemente ispirato sono diventati angusti e
parziali. Il concetto di qualità si amplierà fino a comprendere le cose
difficilmente esprimibili quali, per esempio, i numerosi effetti non previsti
della sua azione e questi diventeranno, accanto a quelli espliciti e previsti, e
forse più di loro, amici attesi e potenti fonti di insegnamento119.
Il professionista riscopre, oltre la qualità, il valore della propria attività e che
la metodologia riflessiva può diventare un potente strumento di
apprendimento e di sviluppo delle proprie competenze lungo tutto il corso
della vita. Quando un membro di un’organizzazione, quindi, intraprende la
strada della pratica riflessiva, permettendosi di provare confusione e
incertezza, tende a sottoporre le proprie strutture e teorie a critica e
trasformazioni consapevoli, ovvero mette in dubbio la definizione del suo
compito, le teorie nell’azione che utilizza nell’espletarlo e gli standard di
prestazione mediante i quali egli è controllato.
Egli mette in discussione elementi della struttura di conoscenza
dell’organizzazione nella quale le sue funzioni sono profondamente
radicate120. In questa direzione, egli può accrescere la propria capacità di
contribuire a un significativo apprendimento organizzativo, ma può anche
diventare un pericolo per il sistema stabile di regole e procedure.
Tutto ciò, quindi, risulta nemico del funzionamento tranquillo di
un’organizzazione. Un apprendimento organizzativo significativo è sempre
118 Ibidem
119 Idem
120 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 331
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causa di una situazione difficile per l’organizzazione, in quanto mette in
discussione la stabilità dalla quale dipende una vita organizzativa gestibile;
d'altronde gli individui apprendono all'interno di essa attraverso il fare e la
riflessione sul fare stesso e, un‘organizzazione, la cui sopravvivenza
dipende dall’innovazione e dall’adattamento a un ambiente mutevole, non
può sottrarsi all’apprendimento organizzativo, dato da una revisione delle
routine operative121. L’apprendimento organizzativo, dunque, favorisce i
processi di trasformazione, incrementa la capacità di interazione flessibile
con l’ambiente e quindi far fronte alle circostanze impreviste.
Molto importante, dunque è la capacità di stupirsi, di osservare, di trattare
come un problema gli errori e di accogliere l’inedito.
Infine è importante sottolineare come la doppia esigenza di muoversi tra i
dilemmi e allo stesso tempo di rispondere a domande complesse di clienti
sempre più informati, abbia portato i professionisti verso una
ristrutturazione dei campi professionali e delle configurazioni
organizzative122. I campi di azione dei professionisti coincidono infatti
sempre meno con i confini delle organizzazioni, i quali vengono attraversati
e talvolta superati, a favore della costruzione di network per lo scambio di
informazioni, di esperienze, di aiuto in caso d’urgenza e per la creazione di
relazioni di complementarietà nella strutturazione dei servizi/risposte123.
Queste interazioni danno luogo a sistemi di scambio che possono avvenire
all’interno di uno stesso settore professionale e trasversalmente a più
contesti organizzativi, oppure possono attraversare i confini di diversi settori
professionali. Tali relazioni spesso assumono le caratteristiche di sistemi
sociali di attività e di apprendimento sociale all’interno dei quali i soggetti
condividono obiettivi, regole, divisione del lavoro, ruoli, strumenti, criteri di
qualità, ma che spesso sono invisibili, inglobati nei singoli processi, nelle
soluzioni trovate, nei prodotti e nelle prestazioni124.
121 Consoli F., L’apprendimento riflessivo. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].
122 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo. [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
123 Ibidem
124 Ibidem
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Il sapere prodotto dall’azione dei professionisti diventa così sempre meno
codificabile, sempre meno proceduralizzabile, diviene tacito e incarnato
nelle azioni e nelle soluzioni di volta in volta individuate e distribuito tra i
nodi (attori, contesti) dei diversi sistemi sociali di attività.
La persistente considerazione dell’organizzazione come struttura chiusa fa si
che le relazioni interorganizzative non vengano prese in considerazione.
Possiamo in realtà avere diversi tipi di relazioni interorganizzative, quale
che sia la relazione, è importante oltrepassare il confine per costituire una
rete relazionale in cui le organizzazioni possano cooperare insieme al fine
del raggiungimento di obiettivi prefissati e condivisi125. Molti studi
sull’apprendimento, difatti, mostrano come la circolazione delle conoscenze
non si fermi ai confini di una singola organizzazione, bensì avvenga nel
tessuto organizzativo che connette persone, artefatti e istituzioni sociali ai
vari livelli. Questo evidenzia come oggi i network interorganizzativi stiano
assumendo la forma di network globali e, la globalizzazione pone temi
nuovi quali: la fiducia, la collaborazione e la competizione, la diffusione
delle innovazioni126. Tale forma organizzativa risulta più efficace nel
promuovere un apprendimento basato sulla formazione di mappe mentali
condivise, forme culturali comuni, trasferimento di conoscenza tacita e
quindi, più in generale sulla capacità di stabilire interazioni significative al
fine di creare nuove conoscenze e di gestire con equità il rapporto tra
cooperazione e competizione.
2.4 Cambiamento organizzativo
“Si conosce la realtà solo se
si cerca di cambiarla” (J. Dewey)
125 Gherardi S., Nicolini D. Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p. 80
126 Ibidem., p. 82
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Strati è uno dei primi teorici che si è occupato del cambiamento delle
organizzazioni che si è avuto in seguito all’entrata in crisi delle
organizzazioni tradizionali, fondate sul taylorismo e sul fordismo.
Le organizzazioni infatti si sono trasformate da entità economico-produttive
(organizzazione come struttura) a entità in cui l’agire organizzativo è
collettivo ed è visto come un flusso, un processo.
Nel primo caso l’organizzazione è un qualcosa che si tocca e si vede, ma per
esempio oggi grazie all’evoluzione e alla diffusione di nuove
organizzazioni, come possono essere quelle favorite dalla rete e dallo
sviluppo di internet, abbiamo avuto uno sgretolamento della struttura fisica.
Da forme economico-sociali per la produzione e distribuzione di beni, si è
passati allora a contesti di relazioni sociali, così le organizzazioni sono
anche divenute luoghi di socializzazione.
Oggi le organizzazioni non essendo più strutture, ma processi divengono a
“legami deboli”, fondandosi così su: indeterminatezza, equivocità e
ambiguità127. Per riprendere gli insegnamenti di Bauman siamo inseriti in
una società liquida, in cui questa fluidità dei legami sociali, influisce su tutto
il resto. Tale società denominata società post-moderna è alla base
dell’incertezza e dell’inconsistenza di tutto quello che prima rappresentava
la struttura certa e tangibile della vita dell’uomo.
I servizi sociali sono completamente organizzazioni a legami deboli, ma
sono invischiati in strutture di tipo weberiano, in cui cioè la burocrazia e le
modalità di risposta consuetudinaria sembrano il modo più semplice e
veloce di rispondere all’incertezza dilagante nelle nostre vite128.
L’incertezza è un vincolo che deve essere trasformato in opportunità, essa
deve essere accolta, molto importante è: identificarla, approfondirla e
sfruttarla.
Accogliere l’incertezza significa soprattutto equipaggiare se stessi e le
organizzazioni di cui si è membri con gli strumenti appropriati, questo
richiede la necessità di avere la mentalità giusta volta alla comprensione ed
al confronto continuo con gli aspetti pratici e spiccioli della realtà.
127 Strati. A., L’analisi organizzativa., cit. p.43
128 Bifulco L.., 2002., Che cos’è una organizzazione., Carocci., op.cit. p. 44
Page53
Più che mettere in discussione la realtà è molto più utile mettere in
discussione il modo in cui essa viene percepita allo scopo di identificare e
comprendere l’essenza del quotidiano che veramente conta. Solo partendo
da queste basi sarà poi possibile adoperarsi per stimolare progresso
caratterizzato dal miglioramento reale del nostro vivere e lavorare129.
Vi sono diverse modalità di gestire l’incertezza, essa può essere accolta
oppure eliminata. Queste diverse posizioni possono essere assunte o dai
membri di un organizzazione o dall’organizzazione stessa o da entrambi e,
di conseguenza è possibile delineare quattro tipologie di climi di lavoro
entro la quale si opera. Lo Status quo è il clima che si instaura nel momento
in cui sia l’organizzazione che coloro che vi operano rifiutano l’incertezza; i
membri dell’organizzazione rifiutano le sorprese e raramente ne ricevono.
Il clima disturbante è tipico di un contesto in cui coloro che operano
nell’organizzazione desiderano lavorare con la certezza mentre ritengono
che l’azienda sia troppo aperta, al contrario, all’incertezza. Di conseguenza
essi si sentono sopraffatti da un ambiente di lavoro caotico. Il clima
soffocante avanza quando solo i membri dell’organizzazione accolgono
l’incertezza e di conseguenza si sentono soffocati da un’organizzazione che,
al contrario, tenta di scansarla. Infine il clima dinamico si attua quando sia
coloro che vi operano che l’organizzazione accolgono l’incertezza e di
conseguenza il clima è pieno di energia e in continuo cambiamento.
In questa ottica, accogliere l’incertezza diviene uno “strumento di lavoro”
per guidare se stessi e le organizzazioni ad interpretare al meglio il proprio
ruolo in un mondo sempre più incerto e complesso130. Il conoscersi meglio
ci porta all’agire in modo più consapevole e la pratica rafforza le nostre
risorse ed il nostro potenziale. Il doversi confrontare con l’incertezza
diviene, dunque, un’opportunità di crescita.
Accoglierla richiede leadership, ne rappresenta anzi l’essenza: una delle
manifestazioni più concrete della rilevanza del ruolo di leader. Nella fase del
cambiamento il leader è molto importante perché funge da barriera
protettiva per l’organizzazione e i suoi membri e, da guida per se stesso e gli
129 Ibidem, p. 113
130 Paterni R., Accogliere l’incertezza:l’essenza della leaderschip. [online]. Ibs internet bookshop. Disponibile su: <http://www.ibs.it/code/9788883354359/clampitt-phillip-g/accogliere-incertezza-essenza.html > [Data di accesso: 23/11/2009].
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altri nel confronto con una realtà sempre più diversa e inattesa, soprattutto in
una fase in cui il “vecchio” viene meno e non è ancora costituito il “nuovo”.
Ai fini di una maggiore comprensione del tema in questione, nonché il
cambiamento organizzativo, occorre soffermarsi sul pensiero di due autori.
Si deve ad Argyris e Schön l’idea che i contesti organizzativi, le relazioni
tra persone, organizzazioni e società, e i loro significati, possono essere letti
dal punto di vista della conoscenza. È la conoscenza che a loro avviso
consente di valutare criticamente successi e insuccessi di una data
organizzazione; di ridefinire costantemente azioni ordinarie e indirizzi
strategici; di accogliere e valorizzare punti di vista ulteriori rispetto a quelli
prevalenti; di sperimentare innovazioni tecniche e organizzative; di
collocare gli eventi all’interno di un contesto mentale e di dare loro un
senso; di sostenere le persone nei loro potenzialmente mai finiti tentativi di
crescita culturale e professionale131.
I due autori definiscono l’apprendimento come competenza degli attori
organizzativi, questa competenza si basa su errori e inquiry.
I primi sono incongruenza tra piani e realtà, con il secondo termine
facciamo riferimento a modalità di approcciarsi all’errore non finalizzate
alla creazione di teoria ma, volta a modificare un’azione ed ovviare
all’errore, al fine di creare cambiamento e quindi apprendimento.
Le organizzazioni possono essere per questo definite come costrutti
cognitivi che attraverso l’individuazione e la correzione, accompagnate da
pratiche riflessive, di errori e anomalie, modificano la propria memoria, la
propria mappa concettuale, il proprio modo di essere e di operare, di leggere
e rapportarsi alla realtà. L’espressione di Argyris “Inciampa pure, così
rifletti” è esemplificativa di quanto appena detto.
Diversamente dai contesti di apprendimento individuale laddove
l’individuazione e la correzione dell’errore rimangono esperienza del
singolo, l’apprendimento organizzativo incide e determina insomma
conseguenze, più o meno positive a seconda delle scelte operate, sull’intera
struttura. Errore ed inquiry sono connessi a due livelli di apprendimento,
cioè il single loop learning e il double loop learning. 131 Moretti V., Frame 9. Chris Argyris e Donald A. Schön.. [online]. Disponibile su:
<http://laureacom.wordpress.com/2009/05/26/frame9/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
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L'apprendimento a circuito singolo (single-loop), al verificarsi di un errore,
corregge le strategie e le procedure operative ma lascia invariate le premesse
di fondo ad esse sottostanti, cioè i riferimenti normativi e valoriali e, le
cornici cognitive che prestrutturano la conoscenza e l'azione organizzativa,
ovvero le teorie in uso.
La trasformazione di queste premesse caratterizza invece l'apprendimento a
circuito doppio (double-loop), questo è intrecciato alla sperimentazione e
all'acquisizione di modi di fare e di conoscere alternativi e inediti.
Ai due livelli di apprendimento si affianca un terzo tipo: l'apprendere ad
apprendere (deutero-learning).
Quest’ultimo si riferisce alla capacità di modificare i modi in cui si
apprende e di promuovere attivamente processi e occasioni di
apprendimento132. Se il cambiamento non interessa le teorie in uso, allora si
avrà un cambiamento solo lessicale.
Le organizzazioni come sistemi aperti hanno al proprio interno diversi tipi
di conoscenze. Vale la pena soffermarsi sulle conoscenze "esplicite" e su
quelle "tacite". Le prime riguardano l'espressione di conoscenze codificate
legate all'esecuzione di attività o del loro coordinamento e controllo; le
seconde fanno riferimento ai processi di sedimentazione di conoscenze di
tipo individuale e interattivo, ma fortemente contestualizzate.
Le conoscenze esplicite sono facilmente comunicabili e condivisibili,
mentre le competenze tacite sono di tipo personale, difficili da formalizzare
e trasmettere, esse rappresentano i principi nascosti che guidano l’azione133.
Ai fini del cambiamento nelle organizzazioni diventa importante
trasformare le conoscenze tacite in conoscenze esplicite e trasferirle al
maggior numero di operatori, attraverso una valorizzazione dei vari modelli
mentali che ogni persona costruisce: la difformità del pensiero è
sicuramente una ricchezza da valorizzare e mettere “a sistema”134.
L’apprendimento organizzativo equivale, pertanto, all'insieme di processi
che portano l'organizzazione a porre attenzione a tutti i segnali provenienti
dall'ambiente accettando e valorizzando visioni alternative rispetto a quelle
132 Anon.., L’apprendimento organizzativo. [online]. Disponibile su: <http://www.sociologiadip.unimib.it/mastersqs/dida1/testicinque/lavinia_org.pdf > [Data di accesso: 13/12/2009].
133 Ibidem
134 Ibidem
Page53
dominanti e, molto importante, esso è favorito solo attraverso una revisione
continua degli indirizzi strategici e delle routine organizzative consolidate.
Un’organizzazione apprende, dunque, quando modifica i suoi repertori delle
competenze, cioè le conoscenze, i modelli di azione, le strategie e le
procedure operative condivisi e stabilizzati nel tempo.
In tale direzione significativo è il concetto di disapprendimento delle
routine, in quanto funzionale al cambiamento organizzativo135. Per routine
Levitt e March intendono le forme, i ruoli, le procedure, le convenzioni, le
strategie, le regole formali e le tecnologie attraverso le quali le
organizzazioni operano. Queste possono facilitare l’apprendimento in
quanto riducono la complessità e l’incertezza delle decisioni individuali;
accrescono l’efficienza e servono da memoria organizzativa e, attribuiscono
legittimazione sociale all’organizzazione che si dota di regole
istituzionalizzate dalla società in cui opera.
Contemporaneamente le regole presentano anche un aspetto disfunzionale
sull’apprendimento organizzativo, in quanto hanno effetti coercitivi, nel loro
essere ancorate a premi e sanzioni forzano gli individui al di là delle loro
inclinazioni personali e dello spontaneo coinvolgimento; ostacolano il
cambiamento organizzativo, in quanto spesso le regole pensate in funzione
del raggiungimento di un fine diventano fini a se stesse136.
Il vero sviluppo dell'apprendimento è quello che si verifica nell'apprendere
ad apprendere, ovvero la costante messa in discussione delle routine.
Riflettere su queste ultime significa far riemergere e riconsiderare la cultura
organizzativa, che in essa si sedimentano, per produrre cambiamento
organizzativo.
Attivare percorsi di cambiamento organizzativo, implica quindi progettare
percorsi di apprendimento organizzativo. In questa direzione, fondamentale
è la capacità delle organizzazioni di rappresentare sé stesse come sistemi di
apprendimento, come “impresa intellettuale” e non solo economica o
sociale. E’ infatti evidente come la prima caratteristica, che può favorire
processi di apprendimento, sia la consapevolezza della utilità della auto-
riflessione e dell’esame critico di ciò che accade137.
135 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p.42136 Ibidem., p. 45
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Anche il tempo è una risorsa, in quanto la costruzione di una organizzazione
con una propria identità ed in grado di apprendere è un processo per il quale
non esistono scorciatoie, e le accelerazioni rischiano di essere pericolose.
E’ significativo, inoltre, sottolineare ulteriormente, l’importanza del tempo e
dello spazio da dedicare al confronto sui potenziali dubbi e incertezze che
caratterizzano l’operare e, implementare momenti partecipati nella quale
ripercorrere e rileggere le diverse esperienze, riducendo così il senso di
estraneità. Porre l’attenzione alla storia e alle esperienze accumulate diviene
importante, in quanto questa risorsa significa disporre di termini di
riferimento per valutare l’esperienza attuale. La ricchezza del linguaggio in
uso nella organizzazione, la possibilità di raccontare storie, scambiare
esperienze, promuovere una comunicazione informale ed aperta ad una
pluralità di possibilità interpretative, con una pluralità di canali di
comunicazione e di modalità espressive, favorisce l’esplorazione e la
condivisione di significati138. L’organizzazione deve, dunque, possedere al
suo interno gli strumenti che gli consentano di decifrare l’esperienza, di
valutare la funzionalità delle regole e di rivederle e, gli spazi di verifica
pubblica di assunzioni private, di messa in luce di dilemmi, e di discussioni
pubbliche su temi inerenti alla sfera sensibile.
Ogni organizzazione è un sistema unico, irripetibile, i cui elementi
costitutivi non sono solo “tecnici”, ma anche “sociali”, essi cioè fanno
riferimento ai “mondi vitali” dei soggetti che, con i loro modi di entrare in
relazione, le loro aspettative, percezioni di sé come membri
dell’organizzazione, contribuiscono alla creazione ed alla strutturazione
dell’identità dell’organizzazione stessa.
Il senso organizzativo si costruisce nell’interazione continua tra i membri di
un’organizzazione. Le interazioni sono mediate da simboli, cultura,
linguaggio ma anche dalla distribuzione del potere e dalla capacità di
influenzare all’interno dell’organizzazione. Gli assetti istituzionali – la
struttura delle relazioni – e la componente “immaginativa”, in sostanza la
“cultura”, il vocabolario, il linguaggio dell’organizzazione, sono aspetti
inscindibili e complementari, sicchè risulta impossibile modificare l’uno
137 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].
138 Ibidem
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senza che anche l’altro venga modificato139. Distribuzione del potere, assetti
istituzionali, e cultura dell’organizzazione – e quindi anche schemi cognitivi
e pratiche argomentative – sono, per così dire, le due facce della stessa
medaglia140.
Non è, quindi, solo l’organizzazione che plasma “a sua immagine” il
soggetto che in essa si inserisce, attraverso la trasmissione di norme, valori,
linguaggi procedure, ma è anche l’individuo che con la sua presenza,
interpretazione della realtà e con il suo “ essere parte/ partecipare”, rigenera
e modifica il proprio agire ponendo quesiti all’assetto organizzativo.
Il lavoratore costruisce e ricostruisce conoscenze e competenze nelle
organizzazioni - guidate da proprie strutture di regole e di relazioni- nella
relazione con l’utente, nella collaborazione con gli altri professionisti,
nell’interazione interorganizzativa. Tutto ciò richiede un’attenta
considerazione circa le valenze di significato delle sue comunicazioni ed
azioni. Questo processo sollecita pratiche osservative e riflessive sulle
proprie azioni, ma anche sui propri vissuti, sulle proprie emozioni, sulle
teorie implicite che guidano il soggetto, spesso inconsapevolmente.
Si tratta di un’operazione di osservazione e auto-osservazione, un
atteggiamento di ricerca riflessiva che tende a sviluppare una conoscenza
attiva, capace di “governare consapevolmente la conoscenza nell’azione”.141
Le pratiche riflessive sono modalità di analisi e apprendimento della
conoscenza tacita cristallizzata nell’azione (Polanyi).
Esse permettono di assumere :
• sé stessi e la propria azione professionale come oggetto di analisi;
• una posizione di distacco dalla situazione;
• una maggiore disponibilità ad accettare il cambiamento;
• una prospettiva prima negata;
• nuovi schemi di significato.
Per concludere, e richiamando quanto riportato, è importante che
l’organizzazione si abitui a produrre riflessione su se stessa, utilizzando la
propria esperienza organizzativa. Ogni servizio è diverso dall’altro: ha una
storia, condizionamenti interni ed esterni, proiezioni e conflitti, nodi 139 Idem
140Ibidem
141 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit. p.22
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irrisolti, detto e non detto, tutto ciò concorre a rendere unico l’equilibrio
raggiunto. Per mantenere il livello di efficienza raggiunto, per sbloccare un
servizio in “burn-out” o per creare nuove funzioni organizzative è
necessario che partecipino tutti gli operatori coinvolti, poiché tutti
producono organizzazione. E’utile, dunque, che tutti contribuiscano a
riflettere e a cambiare. Questo chiama in causa la necessità di garantire
legittimità ad una pluralità di punti di vista all’interno dell’organizzazione,
in quanto la riduzione della varietà, avrebbe in questo caso l’effetto di
ridurre la sfera di significatività dei fatti organizzativi142.
Uno stile di linguaggio che privilegi affermazioni non problematiche,
soluzioni piuttosto che problemi, sicurezza piuttosto che dubbi, non aiuta
ad avviare processi riflessivi, non consente di costruire storie e scambiare
significati143.
L’organizzazione ha bisogno di certezze, di efficienza anche sul piano
dell’economia cognitiva; mal sopporta il dubbio, la presenza di punti di
vista dissonanti che obblighino ogni volta a chiarire le premesse
dell’azione, i criteri delle scelte, le opzioni giocate; ma è in questa capacità
di sopportare e lavorare con l’incertezza la condizione che rende possibile la
riflessione o il pensare. Un’istituzione riflessiva deve far posto
all’attenzione verso valori e scopi conflittuali, deve annettere elevata priorità
a procedure flessibili, risposte differenziate, valutazione qualitativa di
processi complessi e responsabilità decentrate di giudizi e azioni144.
In ultimo, è necessario attivare un ambiente di lavoro che tollera un certo
grado di errore e, che considera questo e le connesse opportunità di rivedere
e riformulare la conoscenza personale come un’occasione di apprendimento
e di ricerca di nuove strade; e che consente di lavorare sulle proprie
emozioni, considerate come possibile traccia per la formulazione di ipotesi
interpretative e orientative dell’azione.
I sistemi chiusi non apprendono in quanto sono rigidi, rifiutano e negano lo
sviluppo conoscitivo dei sistemi organizzativi e sociali, attraverso la messa
in atto di resistenze al cambiamento. L’esercizio costante della riflessione
142 Piva.P.T., 2003., I servizi alla persona., Carocci., op.cit. p. 47
143 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].144 Ibidem
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permette l’emergere di nuove pratiche e saperi, limitando i rischi di stasi
apprenditiva e conoscitiva; essa è riferita non solo all’azione ma anche al
cosiddetto “quadro interpretativo personale”, nonché l’insieme delle
motivazioni, rappresentazioni, idee che in maniera più o meno implicita
orientano l’azione.
2.5 Sapere pratico e Comunità di pratiche
Il concetto di Comunità di Pratiche nasce dall’osservazione di soggetti che
svolgono lo stesso lavoro all’interno della medesima organizzazione e, in
virtù della condivisione del medesimo contesto organizzativo e della
frequente interazione, maturano pratiche lavorative omogenee145. Il concetto
in questione è stato elaborato nell’ambito di un filone di ricerca di matrice
sociologica ed antropologica che non si riconosceva più in una visione
passiva e mentalistica del processo di apprendimento pensato come una
semplice acquisizione meccanica di nozioni astratte e formali proposte
dall’esterno. In questa prospettiva, al contrario, l’apprendimento viene
riconosciuto come un processo di natura attiva, caratterizzato dalla
partecipazione e dal coinvolgimento dell’individuo all’interno di un
determinato contesto d’azione nel quale si trova ad operare146.
E’ grazie alle conoscenze che si apprendono e si mettono in uso nello
svolgimento delle pratiche lavorative ed organizzative che la comunità viene
a formarsi, che la memoria di comunità viene creata e che le persone nuove
del mestiere si socializzano alla vita organizzativa. Quel che caratterizza il
145 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].
146 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p.42
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formarsi della comunità è l’atto dell’esperienza, il sapere pratico, la
conoscenza tacita, l’emozione e l’estetica147.
La condivisione di una pratica sostiene un tessuto di relazioni e forme di
socialità che implicano modi comuni di conoscere e di comprendere gli
eventi relativi all’attività comune, questo implica anche il formarsi di un
senso di mutualità e di fiducia che deriva dall’aver sottoscritto un patto
tacito che lega tutti nello sforzo di portare a buon fine l’attività148.
Ogni pratica fornisce alle persone il senso di essere coinvolte nella “stessa”
impresa e questo ha a che fare con il concetto di acquisizione di una nuova
identità.
Questa nuova visione, difatti, implica una forte correlazione tra
apprendimento e identità: apprendere all’interno di una comunità significa
imparare ad essere e ad agire come membro di essa, anziché acquisire
semplicemente un insieme sterile di nozioni ed informazioni, ciò permette a
chi condivide un fare comune non solo di partecipare attivamente a pratiche
concrete - in quanto l’idea di partecipazione sottolinea che si apprende
sempre grazie all’interazione con gli altri e con la situazione che si viene a
creare di conseguenza - ma anche di riconoscersi in un progetto comune e
di sviluppare un repertorio di risorse che includono linguaggio, routine,
strumenti, sensibilità e storia comune149. Queste diverse possibilità di
costruire relazioni significative con gli altri, così come condividere storie
comuni di apprendimento, fa si che si possa sviluppare un forte senso di
appartenenza.
L’idea di comunità di pratica, quindi, mette in evidenza l’esistenza di una
particolare forma di socialità fra i membri di un’organizzazione basata sulla
condivisione di pratiche comuni. Tale forma di socialità costituisce allo
stesso tempo la condizione di esistenza del sapere in azione e il meccanismo
della sua perpetuazione e progressivo mutamento150. La pratica, da una parte
(definibile come il fare all’interno di un determinato contesto storico e
sociale), struttura e dà senso al fare stesso; essa è modo di relazionarsi con il
mondo e da un senso all’esperienza; dall’altra parte la comunità è
147 Strati. A., L’analisi organizzativa., cit. p. 93
148 Ibidem., p. 111149 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p. 46
150Strati. A., L’analisi organizzativa., cit. p. 110
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interpretata come la dimensione sociale e relazionale e, funge da contesto
per l’apprendimento situato. L’apprendimento, perciò, è frutto della
continua negoziazione del significato che ha luogo nello svolgimento e
nell’acquisizione delle pratiche151.
Il sapere è distribuito fra i vari attori ed è veicolato dagli artefatti, che
vengono utilizzati nel corso dello svolgimento dell’attività pratica, dalle
regole e dalle prescrizioni esplicite e tacite. La trasferibilità del sapere
pratico può avvenire solo attraverso la condivisione di esperienze e lo
scambio di storie.
Le conoscenze ed abilità condivise da una comunità di pratiche sono
conoscenze ed abilità tacite, contestuali e difficilmente codificabili; il che
non vuol dire che si tratti di competenze non trasmissibili e non replicabili,
ma che la forma di tale trasmissione non è quella “canonica” di tecniche e
metodologie, ma è piuttosto la forma della narrazione152.
E’ attraverso la narrazione di episodi di lavoro – delle modalità con cui
concretamente, nel singolo caso, si è definito qualcosa come un problema e
si sono individuate le modalità più opportune della sua risoluzione – che si
trasmette, si verifica, si scambia un sapere intorno alle pratiche
professionali153.
La costruzione di storie ha in effetti una duplice funzione, in quanto
consente a chi ascolta di far propria l’esperienza di un collega, ma anche a
chi narra di riflettere sulla propria esperienza.
L’innovazione in una comunità di pratiche si produce così – grazie alla
narrazione - attraverso la riflessione, la trasformazione e l’imitazione.
Il carattere contestuale del sapere pratico fa sì che in nessun caso, percorsi
di apprendimento realizzati da attori organizzativi siano un fatto individuale,
personale; e d’altra parte implica che l’intervento sul contesto organizzativo
abbia ripercussioni anche in termini di sapere pratico dei singoli attori
organizzativi. Non vi è possibilità che si modifichino in maniera concreta le
151 Ibidem., p. 112
152 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].153 Idem
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conoscenze e competenze di un attore, senza che questo implichi una
modifica del contesto organizzativo, cioè della rete delle relazioni154.
Lo sviluppo delle competenze degli attori inseriti in contesti organizzativi è
pertanto un processo di modifica riflessiva della rete delle relazioni.
Focalizzare l’attenzione sul sapere pratico, sul suo carattere contestuale e
intimamente connesso alla esperienza, impone di impostare diversamente il
problema dello sviluppo e della diffusione della conoscenza: non si tratta
più di “estrarre” la conoscenza dai singoli individui, ma, al contrario,
valorizzare la conoscenza diviene tutt’uno con il valorizzare gli individui
che ne sono portatori; si tratta di costruire, modificare, innovare reti di
relazione tra gli attori per consentire alla conoscenza di ricombinarsi,
innovarsi, diffondersi155.
La natura relazionale e sociale delle comunità, fa si che esse si sviluppino in
modo spontaneo al di fuori dell’organigramma aziendale e
indipendentemente dalle intenzioni e dalla volontà dell’impresa,
rappresentando così una componente complementare alla struttura
gerarchica e formale dell’organizzazione e contribuendo in modo rilevante
al suo funzionamento.
La scoperta di questi contesti di relazioni informali tra i dipendenti,
caratterizzati da dinamiche di produzione e circolazione della conoscenza, si
rivela una grande opportunità di sviluppo per le organizzazioni che però
debbono creare le condizioni favorevoli affinché queste comunità possano
essere valorizzate156.
Le comunità di pratica, infatti, rappresentano un valore potenziale per le
organizzazioni, specie per quelle pubbliche ancora caratterizzate da una
mentalità burocratica, poiché rappresentano forme elastiche di cooperazione
che garantiscono flessibilità e capacità di far fronte alla complessità sociale
in modo efficace.
A sostenere quest’ultimo concetto sono i dati, emersi da molte ricerche
condotte sulle caratteristiche che differenziano il settore pubblico dal non
profit, tra i quali si rileva come proprio in quest’ultimo il “fattore umano”
154 Ibidem
155 Ibidem
156 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit.p. 49
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sia maggiormente soddisfatto e motivato grazie alla promozione di un
ambiente di lavoro socialmente più gradevole, armonioso, creativo, con
minori tensioni tra i lavoratori e tra questi e l’organizzazione, rispetto a
quanto avviene nelle strutture pubbliche, il cui ambiente lavorativo non
sembra stimolare e gratificare gli operatori sociali, in quanto operanti
all’interno di organizzazioni in cui si riducono gli spazi dell’informalità e
dell’autonomia mentre aumentano sempre più le maglie del controllo,
ripercuotendosi sulla performance degli operatori e la qualità dei servizi
erogati.
Riflessività e Formazione Permanente
“Oggi vi è la necessità di abbandonare i supermercati
della formazione per tornare alla costruzione artigiana degli
strumenti d’azione professionale” (Prada 2004: 67 – 73)
Promuovere il cambiamento e valorizzare le persone rappresentano gli
imperativi categorici delle attuali logiche di impresa. L’anello che lega
processi di innovazione e imprese è rintracciabile nella qualità della
formazione agita da queste ultime; ovvero se la sfida da cogliere è, appunto,
il cambiamento, occorre coltivare in modo sistematico la formazione dei
soggetti e, questo può avvenire solo quando i sistemi di apprendimento sono
progettati tenendo conto dei bisogni dei soggetti, in direzione di una
maggiore motivazione e progettazione di questi ultimi ai problemi e alle
opportunità che la vita organizzativa presenta157.
157 Consoli F., L’apprendimento riflessivo per la formazione continua. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].
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Nella letteratura del servizio sociale sono frequenti i richiami e gli inviti ad
una formazione veramente continua, nonché alla riflessività quale momento
qualificante di una professionalità che si interroga sul proprio operato e che
è costantemente tesa al miglioramento delle prestazioni fornite, in quanto la
varietà e l’ampiezza degli ambiti di lavoro in cui l’operatore è inserito e
l’accentuata mutevolezza del contesto sociale, rendono insufficienti in breve
tempo le conoscenze e le competenze acquisite nella formazione di base158.
Il concetto di formazione permanente nasce da alcune premesse. Com’è
noto, l’idea che l’uomo non possa sottrarsi all’esigenza di un apprendimento
permanente è molto antica in quanto scaturisce, in modo naturale e
spontaneo, anche dal bisogno della semplice lettura dei dati dell’esperienza
quotidiana. Negli ultimi decenni tale idea ha registrato una sensibile
evoluzione e un notevole ampliamento di significato, fino ad assumere la
connotazione di un fondamentale principio pedagogico.
In tale contesto, dal dibattito che si è sviluppato sul piano culturale in
generale e su quello delle scienze dell’educazione in particolare, è emersa
l’esigenza di costruire un sistema di educazione permanente che abbia i
seguenti caratteri distintivi: continuità, globalità, universalità,
comprensività, differenziazione, dinamicità, realizzazione dell’equilibrio
dello sviluppo verticale, orizzontale e trasversale.
Si evidenzia come la formazione permanente professionale si debba
configurare come un sistema che mette gli individui nelle condizioni di
correlarsi continuamente con la dinamica dei profili professionali e degli
sbocchi occupazionali connessa con l’evoluzione dei sistemi politico-
economici; promuove l’acquisizione di una seria professionalità all’interno
del processo di sviluppo globale della personalità. Essa fa riferimento alla
formazione umana e sociale, permette l’acquisizione di una solida
preparazione culturale; è destinata a tutti i cittadini, qualunque età essi
abbiano, in modo da soddisfare anche la domanda di riqualificazione,
specializzazione e aggiornamento professionale che nasce da esigenze
individuali e/o dal sistema economico-produttivo; utilizza diversi soggetti,
istituzionali e non, e diverse vie, formali ed informali; compone
interdisciplinarmente contenuti dei filoni umanistico, scientifico e
158 Sicora A., Riflessività e formazione.[online]. Centro Studi di Servizio Sociale c3s. Disponibile su: < http://www2.units.it/~c3s/ > [Data di accesso: 15/12/2009].
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tecnologico; soddisfa le mutevoli esigenze, sul piano qualitativo,
quantitativo e territoriale, della domanda e dell’offerta di lavoro; attua
interventi differenziati in funzione dei settori e comparti economici,
dell’ambiente socioculturale, dei fattori territoriali, delle esigenze della
domanda e dell’offerta di lavoro e delle caratteristiche dell’utenza; infine
rende possibili modifiche non traumatiche del ruolo professionale in
conseguenza di cambiamenti che interessano la sfera individuale (età, status
socioeconomico, livello di istruzione, ecc.) e/o l’offerta di lavoro159.
E’ noto che in Italia l’attenzione e le risorse dedicate alla formazione sono
inferiori che in altri paesi europei. Minori sono le ore e le persone coinvolte,
minori sono i campi in cui si fa formazione, meno diffusa, soprattutto è la
consapevolezza della sua necessità a livello di opinione pubblica160.
La convinzione che il tempo dedicato alla formazione continua sia sottratto
al lavoro è molto diffusa sia tra i lavoratori che tra i datori di lavoro e anche
in ampi strati di professionisti.
Al fondo vi è l’idea che il modo più produttivo per imparare, in fin dei conti,
è lavorare. Apprendere nel lavoro e mediante il lavoro sembra meglio che
apprendere in momenti dedicati e con corsi specifici perché in questo modo
si imparano le cose che occorrono, quando occorre e dalle persone che
meglio possono insegnarci: i colleghi, i clienti, i fornitori, gli amici, gli
stessi concorrenti; inoltre l’apprendimento in questo caso avviene senza
interrompere il flusso di lavoro, nel corso stesso dell’attività, con un
considerevole risparmio di denaro, di tempo e di carico organizzativo161.
Imparare nel corso del lavoro sembra quindi più efficace, più mirato ed
economicamente più conveniente. Questa opinione è tanto diffusa che un
investimento in formazione, come investimento specifico, fuori del tempo di
lavoro e in luoghi dedicati, con docenti, tutor e formatori, sembra possibile
solo se esso è in qualche misura spinto dall’esterno, in modo più o meno
coercitivo, e magari è sanzionato da “crediti” che gli attribuiscono valore, e
se i suoi costi sono abbattuti, o almeno ridotti, grazie a contributi esterni.
159 F. Sabatano., 2007., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., Liguori., op.cit. p. 32
160 Consoli F., L’apprendimento riflessivo per la formazione continua. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].161 Idem
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I policy maker e la comunità dei formatori sottolineano che i cambiamenti
continui che investono sia il nucleo tipico dei saperi professionali, sia gli
ambiti che occorre padroneggiare per tradurre in pratica i saperi
professionali (per esempio la gestione, l’informatica, la comunicazione,
ecc.), richiedono spazio, tempo, professionalità e piani formativi dedicati
all’aggiornamento continuo162.
Il flusso costante e multilaterale dei cambiamenti e la frequenza delle
innovazioni che rivoluzionano le conoscenze precedenti rende insostituibile
il ruolo di agenzie specializzate nella gestione, elaborazione, trasmissione
delle informazioni. Proprio questa specializzazione, però, dà alla diffusione
delle innovazioni e all’aggiornamento il carattere di un intervento esogeno,
che viene dall’esterno della pratica lavorativa diretta, dell’ambiente organiz-
-zativo con il quale il professionista interagisce direttamente, della
prospettiva immediata e locale e dai problemi che il professionista deve
fronteggiare quotidianamente163.
Un rapporto più fertile, efficace ed efficiente tra l’apprendimento che
avviene all’interno di un percorso formativo e la pratica professionale è
enormemente facilitato dalle metodologie di apprendimento riflessivo164.
Esse in molti contesti, in Italia e soprattutto nel nord Europa, si sono
dimostrate estremamente efficaci, sia per realizzare un flusso costante di
apprendimento, sia per trasformare quest’ultimo in gestione del
cambiamento e, per fare di esso un momento non solo di adattamento
passivo ma di creazione di nuova conoscenza, di riformulazione del proprio
modo di stare nel mercato professionale e di trasformazione della pratica.
La formazione permanente viene intesa non solo come aggiornamento e
riqualificazione ma soprattutto come apprendimento di atteggiamenti di
riflessività sul proprio lavoro per condurre anche nell’organizzazione e
gestione dei servizi modifiche strutturali, rinforzando il “desiderio di
verifica continua, di disponibilità al cambiamento, di sperimentazione del
162 Ibidem
163 Idem.,
164 Ibidem
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nuovo per la modifica di forme non adeguate di risposta e per una migliore
progettualità e imprenditorialità nei servizi alla persona”165.
Lo strumento più adeguato, dunque, sia a livello di formazione di base che
di formazione permanente, è la riflessione critica sul proprio lavoro
quotidiano alla luce di schemi di riferimento teorico, da ciò, la formazione
più idonea non è chiaramente una formazione-addestramento di tipo
strumentale, ma una formazione culturale e di ampio spettro che vada oltre
la dimensione conoscitiva in direzione di una centralità della dimensione
emozionale e di quella sociale.
E’ importante, pertanto, pensare a percorsi che guardino alla professionalità
come ad un costrutto complesso risultante da un’integrazione sistemica di
tre dimensioni: cognitiva, sociale ed emozionale.
Tale integrazione è possibile solo attraverso l’esercizio di una dimensione
trasversale: la dimensione riflessiva166.
La riflessività si pone come strumento grazie al quale definire uno stile di
pensiero, una modalità di analisi della realtà, un particolare esercizio della
competenza; questi elementi fanno riferimento ad un’idea di conoscenza
intesa come risorsa di adattamento flessibile, capacità di apprendere
dall’esperienza e di risolvere problemi nuovi. Questa considerazione amplia
il significato tradizionale attribuito al concetto di competenza, ovvero essa
va intesa come l’esito di un processo cognitivo, che non si misura solo in
base alle dimensioni del sapere - esprimendosi anche nel modo di
selezionare e di elaborare le informazioni, nelle regole utilizzate per
risolvere un problema, nelle strategie adottate per eseguire una prestazione o
prendere una decisione - ma fa riferimento anche ad aspetti psicologici,
caratteriali e di personalità e non va ridotta al livello delle prestazioni
esplicite.
Le competenze insite nella professione si armonizzano attraverso
un’adeguata integrazione e gestione anche delle emozioni, modalità che
influenza la costruzione dell’identità personale e professionale.
Il comportamento efficace del soggetto è connesso strettamente alla sua
capacità di gestire consapevolmente il proprio ruolo professionale, il quale
165 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo.., cit. p.163
166 Idem., p. 165
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vede coniugati accanto alle conoscenze, esperienze e aspettative, anche i
sentimenti e le emozioni, di cui si acquisisce consapevolezza attraverso
momenti di riflessione, permettendo così al soggetto di gestire l’intreccio
delle due sfere.
La gestione del sé implica una capacità di mediazione e di integrazione tra
l’identità personale e quella professionale, una necessaria consapevolezza
del proprio agire e delle reali motivazioni ed emozioni che lo sostengono167.
Per ritornare al concetto di competenza, essa è costantemente in itinere,
viene rinnovata e ristrutturata, anche radicalmente, in correlazione al
modello culturale, ai saperi, alle pratiche di un tempo storico e ai bisogni
cognitivi/produttivi di una società; per quanto concerne l’aspetto
dell’integrazione, si tratta di mettere in relazione le competenze con ciò che
sta prima, le conoscenze di base, di metodo, avanzate, e ciò che sta dopo,
nonché la meta cognizione, la riflessività e la criticità.
E’ possibile rintracciare alcune caratteristiche fondamentali attribuite al
costrutto di competenza168:
la dinamicità: le competenze non sono statiche, ma si sviluppano e si
apprendono continuamente attraverso le esperienze personali e professionali
dell’individuo;
la multidimensionalità: la competenza è riconducibile ad un insieme articolato di
singolo fattori; essa determina ed è determinata dal comportamento e dai contesti, non
solo lavorativi ed informa ed è informata dall’intera personalità del soggetto;
il carattere sistemico: le competenze racchiudono il patrimonio complessivo di
risorse e di qualità dell’individuo attraverso l’integrazione e non la mera somma delle
singole dimensioni;
la contingenza: le competenze si concretizzano in comportamenti efficaci e
funzionali, e solo attraverso i comportamenti divengono osservabili; le competenze si
manifestano, quindi, nell’interazione tra un soggetto e uno specifico contesto; esse sono
contestualizzate, ossia legate al particolare ambito in cui vengono agite, ma anche
contestualizzanti, in quanto possono modificare attivamente l’ambiente in cui vengono
espresse;
167 Sabatano.F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., cit. p. 83
168 Idem., p. 84
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la flessibilità: le competenze consistono in modi di agire e strategie generali,
esprimendo la necessità di un saper fare che si declini in diverse situazioni e che ponga
l’accento non tanto su un modo specializzato di svolgere un ruolo, quanto su un “saper
fare cose diverse” e su un sapere che riguarda quando scegliere l’una o l’altra
competenza, dal momento che quest’ultima implica decisionalità.
Intendendo la competenza in questa accezione più ampia è possibile
metterla in rapporto con la riflessività.
Sul pensiero riflessivo, infatti, si fonda la possibilità di sviluppo delle
competenze trasversali relative alla soluzione dei problemi, alla presa di
decisione, al controllo delle proprie forme di conoscenza, alla capacità di
comunicare in modo efficace saperi ed esperienze.
Il primo passo, sul versante formativo, consiste nel rendere i soggetti
consapevoli del rapporto tra teorie (scientifiche e ingenue) ed azione, per
smascherare gli automatismi del proprio agire e per comprenderne il senso e
l’origine. Questo è un primo elemento della riflessività, ovvero riflettere sul
proprio agire. Il secondo elemento, quello propriamente riflessivo consiste
per l’appunto nel riflettere sulla propria conoscenza, quindi ridiscuterne la
veridicità, attraversarne i confini, confrontarla con la propria storia
personale169.
Queste mete possono essere raggiunte realizzando un ambiente
professionale riflessivo, che favorisca nei soggetti un continuo rimando
critico tra conoscenze specialistiche, sapere personale ed esperienza, perché
in tale gestione consapevole risiede la possibilità di una espressione creativa
e originale della conoscenza. L’atteggiamento professionale si manifesta
attraverso la disposizione del professionista a gestire situazioni complesse,
attingendo dall’esperienza per orientare il proprio comportamento e,
contempla tre componenti, legate tra loro da rapporti di interdipendenza: la
componente cognitiva, costituita dalle conoscenze teoriche-pratiche
possedute, la componente affettiva, rappresentata dai principi ispiratori, dei
valori personali e professionali e, la componente motivazionale, o spinta
all’azione, che si esprime nelle varie attività professionali170.
La possibilità di esprimere la competenza in senso riflessivo, dunque, è
connessa alla necessità di implementare setting formativi e condivisi, che
169 Schön,D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 340170 Dal Pra Ponticelli.M., 2007., Dizionario di servizio sociale., Carocci Faber., op. cit. p. 123
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vedano la partecipazione attiva di tutti i soggetti a momenti di confronto, di
riconsiderazione, di riconoscimento, di riflessione su se stessi e sulle proprie
conoscenze; capaci di attivare un passaggio dall’implicito all’esplicito,
insito nei propri modi di leggere i problemi; di ricercare ipotesi migliorative;
di effettuare scelte e di prendere decisioni, portando in luce le “aree
nascoste” delle emozioni e dei vissuti.
Lo scopo di tali confronti è, pertanto, quello di rendere l’esperienza guidata
un’occasione per il gruppo di divenire spazio e strumento di condivisione di
obiettivi, di scambio e di relazione sulle esperienze soggettive legate al
proprio agire professionale, di rielaborazione di riflessioni, affinché possano
diventare patrimonio condiviso e tradursi in pratiche operative.
In tal senso il confronto assume una forte valenza formativa, divenendo la
via privilegiata che sostiene la riflessione e che, attraverso di essa, conduce
a negoziare significati, a coniugare le conoscenze implicite, che segnano
l’esperienza di lavoro, con le competenze consapevolmente attivate nei
contesti professionali171.
Lo spazio privilegiato di costruzione di ogni singola professionalità è uno
spazio collettivo all’interno di organizzazioni intese come “comunità di
apprendimento”.
La formazione, dunque, è volta a creare dei professionisti riflessivi, essa
porta a mettere in discussione consuetudini, valori e principi e, valorizza
nell’organizzazione le responsabilità dell’individuo e la capacità di
quest’ultimo di promuovere il cambiamento172.
Oltre alla qualità della formazione offerta, occorre volgere l’attenzione
anche alla qualità del contesto di lavoro, ossia alle disponibilità che esso
offre di esprimerla, in funzione dei margini di autonomia, di creatività e di
innovazione consentiti. Sono due gli elementi in gioco: il soggetto che
esprime la competenza in senso riflessivo e l’impresa che dà al soggetto la
possibilità o meno di esprimerla; a essi corrispondono due livelli di
intervento formativo: la formazione dei dipendenti alle competenze
riflessive e, la formazione dei dirigenti per la diffusione di una cultura di
171Sabatano.F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., cit. p. 78
172 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit p. 167
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impresa che, accolga questo elemento di riflessività come fortemente
vincolante rispetto alla possibilità di innovazione e cambiamento173.
La qualità del tessuto organizzativo all’interno del quale si sviluppano le
attività professionali è determinante per la qualità e il potenziale
dell’apprendimento professionale continuo.
In realtà il tessuto organizzativo non funziona come un “contenitore” ma
come un vero e proprio medium di trasmissione delle azioni, delle attività e
delle conoscenze, oppure di un loro blocco, deformazione e dispersione.
Se è vero che la qualità dell’apprendimento continuo è direttamente
proporzionale alla qualità dei rapporti organizzativi, un campo importante
dell’intervento formativo dovrebbe essere dedicato allo sviluppo delle
competenze dei professionisti e delle organizzazioni volte a migliorare la
qualità dell’organizzazione, della connessione di rete e della produzione dei
beni condivisi all’interno dei mondi professionali174. In accordo con Unger,
noi possiamo considerare una organizzazione come un “contesto formativo”
che dà forma ad una serie di routine pratiche e argomentative; esercita
un’influenza sulle assunzioni delle persone circa le possibilità sociali,
sull’identità collettiva e gli interessi di gruppo. In sostanza, essa aiuta a
sostenere un set di ruoli e gerarchie sociali; esiste attraverso la resistenza
che oppone agli sforzi di trasformazione e rende alcune traiettorie di
cambiamento più possibili di altre175.
E’ opportuno che vi sia un passo ulteriore da compiere per il potenziamento
e lo sviluppo della formazione continua, che è quello di stimolare i
professionisti e le organizzazioni a guardare dentro la scatola nera della loro
pratica professionale, e in tal modo aprire la porta dell’apprendimento, per
così dire, dall’interno. Questo passaggio richiede al mondo della formazione
di superare una concezione dell’innovazione di tipo “diffusionista”,
disseminatorio, secondo la quale l’innovazione è concepita come un
movimento che proviene dall’esterno della pratica ed è esogeno ad essa,
mentre la pratica è concepita come uno “stato di stabilità” (Schön, 1993).
173 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p. 36
174 Sabatano F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., .cit. 80
175 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].
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La formazione dovrebbe svilupparsi sia rispetto ad un livello specialistico,
connesso all’apprendimento di contenuti e di tecniche, sia ad un livello
trasversale, relativo a competenze volte a facilitare l’espressione creativa e
autonoma del sapere connesso alla capacità di leggere e gestire
consapevolmente le conoscenze e le esperienze176.
In tal modo, diviene possibile l’empatia, il “partecipare” le emozioni
attraverso il filtro delle proprie competenze. Occorre, pertanto, costruire un
agire formativo complesso, globale, multidimensionale, che consenta di
uscire dalla pura operatività, allo scopo di dare ai soggetti gli strumenti
culturali per riflettere su se stessi e sul valore socio-culturale dei contenuti
disciplinari della propria professione177.
Si tratta pertanto di una formazione al “sapere pratico”, centrata su un
modello riflessivo: “il sapere pratico in quanto mira all’azione, implica il
coinvolgimento del soggetto nel proprio sapere; l’agente cerca di sapere per
comprendere quello che fa e, si mette in gioco nel suo sapere mirando, in
qualche misura, ad una sua modifica”.
In tale prospettiva, obiettivo della formazione diviene non solo e non tanto
la trasmissione delle conoscenze, il “cosa” apprendere, quanto il “come” si
apprende, il “sapere per comprendere” le proprie conoscenze, mettendo
continuamente in discussione i propri modelli interpretativi ed essendo
disponibili a modificarli178.
La formazione si qualifica come tale se, in chi vi partecipa non c’è solo
motivazione a conoscere, ma anche motivazione ad agire la conoscenza, a
sperimentarla e a sperimentarsi attraverso di essa, in altre parole se esiste
apertura al cambiamento personale e al trasferimento sociale di quanto
l’esperienza formativa produce. In tale ottica, il soggetto diventa
protagonista consapevole della sua formazione, in quanto quest’ultima
implica anche il concetto di autoformazione investendo non solo il “sapere
essere”, ma anche il “saper divenire”; questo riflette un concetto di
formazione il cui nucleo centrale è educare al cambiamento, ma è anche
l’educarsi al cambiamento.
176 Sabatano F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo ., cit. p.81
177 Ibidem., p.80
178 Ibidem., p. 81
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L’attività riflessiva investe, dunque, sia il polo pragmatico: sapere e sapere
fare; sapere condivisibile e azione sociale e, sia il polo identitario: sapere
essere e divenire; sviluppo professionale e identità professionale179.
3.2 La formazione continua come processo “endogeno” alla pratica
professionale
La ricerca condotta in questi anni ha restituito alla pratica professionale il
ruolo che le compete nel processo di innovazione e di apprendimento.
La pratica non è uno stato di stabilità, ma una attività di continua
produzione e attivazione del contesto e, con il contesto, di informazioni e
apprendimento180.
Il rapporto con il contesto è la grande risorsa e il grande limite
dell’apprendimento. La pratica alimenta costantemente la produzione, la
comunicazione e la condivisione di informazioni e, la pratica innovativa è
sempre legata al contesto in cui l’operatore opera. L’abilità del
professionista di ottenere gli esiti desiderati è una funzione dello specifico
ambiente locale (economico, tecnologico, culturale, intellettuale,
interpersonale) nel quale si è sviluppata181.
Possiamo parlare di una innovazione incrementale implicita interna alla
pratica per almeno due motivi: da un lato, nessun segmento di una pratica
può essere separato da quel contesto specifico che è dato dalle competenze
distribuite che gli attribuiscono un senso.
Poiché tutto il contesto si trasforma insieme alla singola pratica, sfugge ai
singoli la portata della trasformazione. In secondo luogo, la pratica è fatta di
azioni spesso inconsapevoli, oppure implicite, rese invisibili e 179 Katia Montalbetti., Milano, 11 dicembre 2008., Riflettere per educare., [online]. Diponibile su: <http://www.uciim.milano.it/files/Montalbetti.ppt >[Data di accesso: 22/12/2009].
180 Consoli F., Apprendimento Riflessivo per la formazione continua [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].181 Ibidem
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apparentemente banali dalla stessa ripetizione quotidiana. In questo modo le
innovazioni, che vengono incorporate nelle pratiche in modo incrementale,
diventano invisibili182.
Il processo di apprendimento implicito non è consapevole e soprattutto è
prevalentemente adattivo, e quindi spesso non riesce a produrre una vera
domanda di formazione esplicita e dedicata.
Si rivela qui l’estremo interesse che per il mondo professionale riveste la
pratica riflessiva, una vera e propria metodologia per la trasformazione
dell’apprendimento adattivo, tacito e dell’aggiornamento, come produzione
della conoscenza e strumento di innovazione. Questo apprendimento
continuo è molto diverso dai corsi di aggiornamento che il professionista
può fare per acquisire nuove conoscenze; ma è anche diverso da
quell’apprendimento implicito che egli fa ogni giorno interagendo con tutte
le persone che sono coinvolte nella sua azione e per risolvere i problemi
nuovi mano a mano che gli si presentano183.
Con la metodologia riflessiva, infatti, operiamo un potenziamento dello
sviluppo nella pratica quotidiana e, aumentandone la consapevolezza,
ricongiungiamo azione, produzione di nuova conoscenza, formazione e
innovazione. Grazie alla pratica riflessiva la formazione aumenta la propria
efficacia perché, inducendo un apprendimento di tipo nuovo (apprendimento
riflessivo), capace di ripensare dall’interno la pratica alla luce
dell’innovazione stessa, riesce ad esplorare e riesplorare costantemente il
proprio contesto d’attività.
I professionisti introducono una innovazione e, ogni innovazione è
apprendimento e reinvenzione in un contesto che non è mai individuale ma
sempre collettivo. Il potenziale dell’apprendimento basato sulla pratica
riflessiva consiste nel fatto che le novità apprese mediante la formazione
possono, grazie alle metodologie riflessive, scendere fino ai livelli più
profondi della pratica professionale, normalmente latenti e taciti, e innestarsi
in processi organizzativi che altrimenti potrebbero bloccare l’innovazione
rendendo inutile e frustrante l’apprendimento184.
182 Idem
183 Ibidem
184 Idem
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Vi è un ulteriore elemento cui contribuiscono la pratica e l’apprendimento
riflessivo.
Essi sottolineano quegli elementi di tipo organizzativo e psicologico
individuale che altrimenti possono ostacolare inconsapevolmente e in modo
sotterraneo la trasformazione della formazione in gestione dell’innovazione
mediante un apprendimento riflessivo. L’aggiornamento e la formazione
continua contengono sempre, almeno potenzialmente, una carica di
cambiamento del modo in cui si realizzano le attività professionali e del
profilo stesso delle professioni.
Essi possono sviluppare questa carica solo se si inseriscono in un contesto
abituato a gestire il cambiamento, a produrre nuove conoscenze, ad andare
oltre le proprie esperienze, anche di successo, superando quegli equilibri
magari validi ieri ma che possono essere deleterei domani. L’esperienza
senza riflessione continua e critica rischia di essere una cattiva maestra. In
conseguenza di queste ragioni, le metodologie riflessive sono state inglobate
in molte metodiche formative185. La pratica riflessiva portando alla luce ciò
che vi è di tacito, di non detto, spinge a ricercare continuamente il rapporto
con il vero valore con il quale e sul quale l’operatore lavora, ovvero non dei
valori in termini di convinzioni etiche che precedono l’azione, ma di quei
valori distintivi, da cui si sviluppano le competenze distintive, le quali
producono l’eccellenza nel rapporto professionale, che si alimentano dei
rapporti con la società e con i diversi tipi di “partner”. Si tratta di una ricerca
continua di sviluppo che nel dialogo con la situazione e con gli altri soggetti
implicati, con la costruzione di rapporti di partnership, con lo sviluppo delle
comunità di pratiche, produce continuamente cambiamenti e innovazioni e
che prepara il terreno alla formazione continua186.
La formazione continua diventa in tal modo parte integrante del processo di
valorizzazione della pratica professionale. Molto importante, dunque, è
fornire strumenti concreti e spazi di riflessione, affinché si contribuisca a
migliorare i processi di valorizzazione delle risorse umane. Si tratta di
inverare nuovi spazi per l’apprendimento che offrono nuovi strumenti legati
all’esigenza di ‘imparare ad imparare’. L’apprendimento lungo l’intero
185 Ibidem186 Ibidem
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corso della vita, scrivono Pepe e Serra187, diviene un vero e proprio diritto
alla cittadinanza attiva, il cui esercizio è necessario come fattore produttivo,
come fattore di crescita individuale e di sviluppo delle risorse umane ma
anche come fattore di coesione sociale.
Proprio in funzione dell’importanza di una cittadinanza attiva diviene
importante concepire la formazione e la conoscenza in un nuovo modo.
Si ha un’estensione orizzontale del concetto di formazione, in quanto
l’apprendimento può aver luogo in molti ambiti - professionale, familiare,
sociale ecc.- ed in qualsiasi fase della vita.
Si evidenzia così la complementarità tra diversi tipi di apprendimento
possibili (formale, non formale ed informale), da quello scolastico a quello
che si realizza nell’attività di lavoro o nelle stesse esperienze della vita188.
L’apprendimento di competenze strategiche si connota come autodiretto,
riflessivo e trasformativo, giungendo in tal modo ad arricchire le
competenze professionali in termini di riflessività nell’azione, flessibilità ed
autonomia, valutazione della complessità, per le quali la dimensione sociale
e organizzativa costituisce un’importante cornice di senso. In relazione a
questo scenario, lo sviluppo delle competenze strategiche può essere
rafforzato da modelli attivi e riflessivi di apprendimento come l'action
research, l'action learning, la narrazione, l'autobiografia, la formazione alle
metacompetenze, i principi in diverso modo legati alle comunità di pratica
ed alle comunità di apprendimento.
La formazione deve essere egualmente attenta ad alcune crucialità quali: lo
sviluppo delle metacompetenze, l’aumento dell’incisività della formazione,
la personalizzazione del percorso formativo, il coinvolgimento della persona
nella sua interità, la motivazione alla formazione, lo sviluppo di un pensiero
generativo189. In ambito istituzionale ed organizzativo così come in ambito
formativo, è necessario dunque mobilitare il soggetto, le sue risorse, le sue
capacità, la sua energia, le sue possibilità reali di influenzare ciò che lo
riguarda, il suo “potere”. Dove, in questo caso, con la parola ‘potere’ ci si
riferisce all’empowerment, al potere ‘interno’: “potere nel quale convergono
187 Idem
188 Ibidem
189 Idem
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fattori quali l’energia, la motivazione, la sicurezza in sé, il senso di
padronanza”190.
Non ci può essere una vera qualità della formazione ed un’ottimizzazione
dei percorsi formativi se non si ha senso di sé, autostima e fiducia in se
stessi.
L’approccio biografico, il lavoro di gruppo, il bilancio delle competenze,
sono assolutamente fondamentali per aiutare lo sviluppo dell’autostima e
fiducia in se stessi, per capire i propri punti di forza ed in questo senso
mettere in atto processi di empowerment.
Nella prospettiva di sviluppo di una società della conoscenza in cui il sapere
non sia fattore di nuova miseria per una grande parte del mondo, il futuro
deve essere pensato prima, per tentare di prevenire il rischio dell’esclusione
formativa qualitativa e per sviluppare le enormi potenzialità del sapere e
delle competenze come risorse individuali, sociali ed economiche.
Ciò richiede un’attenzione del tutto inedita per l’esperienza di vita degli
individui, le biografie, nelle quali si realizzano i vissuti e si manifestano le
possibilità non vissute e i potenziali di sviluppo, anche come percorsi di
formazione. In questo contesto appare significativo ricondurre la riflessione
e l’agire formativo a quello che si può definire come un metamodello della
riflessività. Metamodello che individua la riflessività come carattere
fondamentale delle relazioni sociali, delle organizzazioni e dei rapporti
personali191.
Una dimensione che si fonda su una rappresentazione della società come un
sistema aperto finalizzato allo sviluppo, alla facilitazione e al sostegno della
capacità di produzione di un pensiero proattivo, creativo, divergente.
Si sottolinea, di conseguenza, la necessità di costruire una pluralità di vie
per l’apprendimento come condizione per un’ampia diffusione delle
capacità di apprendere e sviluppare un pensiero riflessivo.
Tale capacità riflessiva comporta un’attenzione inedita al tema dell’accesso
e della qualità dei saperi e delle competenze per un numero sempre più
ampio di individui e durante l’intero corso della loro vita, affinché possano
essere attori sociali e superare così il duplice rischio di una curvatura
economicista e funzionalista del ruolo delle conoscenze, di respiro
190 Ibidem191 Ibidem
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inadeguato agli stessi problemi del lavoro e dello sviluppo nell’era della
globalizzazione. Si può così sostenere che il paradigma dell’apprendimento
durante il corso della vita trovi nella dimensione della riflessività nella
società globale un suo profondo ancoraggio teorico.
3.3 La Formazione Permanente nel Servizio Sociale
Ci si pone un interrogativo in riferimento all’applicazione del concetto di
formazione permanente nell’ambito dei servizi sociali: “Ma quale bisogno
formativo esprime la figura dell’assistente sociale in quanto professionista
che opera contemporaneamente in ambiti a volte sconnessi fra loro?”
La formazione permanente può aiutare a ricercare risposte efficaci per
affrontare bisogni sociali in perpetua evoluzione, in quanto essa ha un ruolo
fondamentale nel mantenimento e nello sviluppo delle competenze,
necessarie ad un professionista per affrontare con successo le sfide del
lavoro quotidiano. Il tempo dedicato alla formazione diventa l’occasione per
riflettere sullo stato del proprio agire in servizio o, meglio ancora, sulle
strategie utilizzate per trovare il senso di ciò che l’operatore vede attorno a
sé e per dare direzione alle azioni intraprese, al fine di condurre a soluzione
particolari situazioni problematiche.
Il risultato di tale processo dovrebbe pertanto sostanziarsi in un
miglioramento delle competenze che dovrebbe essere visibile non solo
all’operatore, nei termini di una maggior padronanza nel gestire il proprio
lavoro, ma anche agli utenti che dovrebbero percepire una maggiore qualità
nelle prestazioni e nei servizi erogati a loro favore192.
192 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit p.151
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Ciò può avvenire a condizione che negli assistenti sociali si consolidi
l’abitudine all’autoriflessività e all’esercizio di competenze metodologiche
efficaci per sperimentare progetti e valutarne gli esiti193.
Per poter dare una risposta all’interrogativo prima esposto, è molto
importante soffermarsi sulla nozione di identità, definibile come il
sentimento di coerenza ed unità del sé, alla quale sono riconducibili i
concetti di unicità, differenza e continuità nel tempo194. In tale direzione, la
consapevolezza di appartenere ad un gruppo svolge una funzione
fondamentale su quella parte dell’immagine di sé definita identità sociale, di
cui quella professionale costituisce una preziosa specificazione. Ogni
individuo, infatti, rapportandosi con il mondo esterno, opera una
categorizzazione di sé all’interno di un certo insieme di soggetti, detto
gruppo di appartenenza, caratterizzato da norme e aspettative specifiche che
concorrono alla definizione del ruolo dei suoi membri. Un’insufficiente
consapevolezza dell’insieme dei diritti e dei doveri connessi al proprio ruolo
così come la percezione della marginalità di status del gruppo di
appartenenza darebbero quindi luogo ad ambiguità e conflitti fino a vere e
proprie crisi d’identità sociale195.
Appare a questo punto evidente che l’identità dell’assistente sociale sia
comprensibile solo se rapportata alla pluralità dei principali elementi che
costituiscono per essa dei poli di identificazione e che possono essere così
sintetizzati:
- il cittadino/utente, delle cui istanze l’assistente sociale è, o dovrebbe essere,
portavoce di fronte alle istituzioni e che esercita sull’immagine professionale
un’influenza affatto marginale;
- il sistema delle politiche sociali, che definisce e legittima i profili occupazionali,
regola la mobilità tra i diversi quadri professionali e predispone criteri e modalità dei
compensi;
- il servizio in cui l’operatore è inserito e che richiede lo sviluppo tra gli operatori
di relazioni funzionali all’organizzazione;
193 Ibidem., p.163
194 Pajer.P., 2005., Introduzione ai servizi sociali., FrancoAngeli., op.cit. p. 95
195 Ibidem., p. 96
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- i singoli collaboratori (professionisti e non) che possono basare le proprie
richieste e relazioni su visioni ed esigenze anche divergenti rispetto a quelle proprie
dell’assistente sociale;
- le altre agenzie di matrice eterogenea con le quali la professione si è sempre
rapportata talvolta anche scontrandosi e che, dopo anni di apparente latitanza dalle
scene politiche sembrano destinate a svolgere un ruolo sempre più partecipe nella
programmazione e gestione del settore sociale a livello sia locale sia nazionale;
- la comunità professionale di appartenenza, che pur essendo stata caratterizzata
per lungo tempo da scarsa coesione e disomogeneità culturale, sta in questi anni sempre
più affermandosi;
- le funzioni di consulenza psicosociale;
- le funzioni di animazione socio-politica e sviluppo comunitario della rete sociale
territoriale per la promozione della comunità;
- le funzioni di collaborazione per la programmazione, organizzazione e gestione
dei servizi sociali;
- le attività di formazione e di ricerca sociale.
Da quanto mostrato risulta un profilo professionale estremamente
complesso e frammentato, dotato di tante connotazioni quante sono le
percezioni che su questo confluiscono, e proprio per questo più difficilmente
comprensibile nella sua organicità e coerenza.
Ci si può chiedere infatti quale sia il nesso logico esistente tra società reale,
che è poi la quotidianità dove opera l’assistente sociale, e società
istituzionale, dalla quale la società reale riceve sollecitazioni ed indicazioni,
e con le cui normative deve fare i conti. Sempre più va allentandosi il
legame tra bisogni espressi dal sociale e modalità dei servizi, mentre cresce
enormemente l’interconnessione tra dimensione ideologica e struttura dei
servizi stessi.
Dalla lettura delle più recenti esperienze di ricerca sembra doversi evincere
che è sempre meno il bisogno reale a condizionare l’evoluzione dei servizi,
mentre cresce il peso delle scelte politiche ed ideologiche che finiscono per
essere i veri motivatori e strateghi del servizio. A questo punto l’operatore o
arretra e si estranea, ma con ciò non riuscirebbe a modificare questa logica,
oppure entra nel dibattito cercando di capirlo, di interpretarlo, di insinuarsi
nelle fessure di questa complessa situazione. Formare oggi l’assistente
Page53
sociale, dunque, non significa più solo offrire strumenti più o meno raffinati
e/o più o meno efficaci per risolvere una gamma certamente crescente di
problemi, all’interno di un numero crescente di settori. Se una nuova lettura
di questa professione deve essere fatta, questa non può prescindere dal
prendere atto che l’assistente sociale si trova oggi all’interno di una
dimensione problematica diversa, con implicazioni nuove a livello di lettura
del sociale e quindi nuove esigenze per quanto riguarda la sua formazione
professionale.
Sembra difficile e complesso scattare una fotografia di tale professione,
disegnare in maniera chiara e precisa la sua identità culturale ed operativa,
eppure, nonostante queste difficoltà, l’assistente sociale è il professionista
che più di ogni altro ha dovuto legittimarsi e riorganizzarsi rispetto ai
mutamenti sociali e rispetto alle richieste avanzate dalle politiche sociali e
dalle politiche dei servizi in risposta a questi mutamenti.
Nel lavoro sociale la progressiva centralità del fare rispetto al pensare,
dell’azione sull’interpretazione, ha posto l’operatore di fronte ad una
crescente molteplicità di richieste, provenienti dall’utenza, dalle istituzioni o
dai colleghi. Per sentirsi in grado di gestire queste richieste, l’operatore, si è
sentito spesso in dovere di fare comunque qualcosa pur nell’incertezza
rispetto al come.
Il rischio però è la frammentazione dei servizi, dove ogni operatore segue
strategie e percorsi autonomi e disomogenei. Nei fatti si produce una grossa
scissione fra operatori che pensano ed operatori che fanno, fra operatori che
ricercano e indagano per capire e diagnosticare i problemi e operatori che in
base a queste diagnosi intervengono per affrontarli e risolverli.
Agli uni il monopolio del conoscere, agli altri il monopolio dell’agire.
Per l’assistente sociale la situazione è resa ancora più difficile per il ruolo
forte che giocano in questo senso anche le politiche sociali e quelle dei
servizi, laddove ogni disegno innovatore individua nell’assistente sociale
l’operatore che dovrà agire il cambiamento, depositando su questo
professionista la responsabilità di individuare (o, meglio, attivare) strategie,
metodologie e processi. La formazione permanente ha pertanto il compito
arduo, fra gli altri, di rinnovare e recuperare le dimensioni di professione e
di servizio, capendo e facendo capire che l’assistente sociale non può, da
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solo, mettere insieme realtà frantumate se lui stesso è costretto a proporsi
come frammento, come parte di una realtà. Una realtà in cui i compiti non
vanno divisi, ma condivisi, e in cui le conoscenze non sono separate, ma
integrate. In questa prospettiva la formazione permanente nel servizio
sociale non può incentivare una conoscenza che sia la più estesa possibile,
ma la più approfondita possibile. Tutto ciò è realizzabile soltanto se l’intero
telaio conoscitivo è costantemente rivisto e reso flessibile, soltanto se
l’assistente sociale può disporre di un efficace sistema permanente di
revisione critica e analitica del proprio sapere, saper fare e saper essere.
A. Sicora nel testo “L’assistente sociale riflessivo. Epistemologia del
servizio sociale”, evidenzia dei punti nei quali esprime i principali compiti
che la formazione permanente dovrebbe assolvere:
- fare emergere, valorizzare, e rielaborare le abitudini operative, comunque
cariche di segnali di realtà;
- aiutare gli assistenti sociali a “riconcettualizzare la professione”,
attraverso la denominazione di atti e fasi dell’operare;
- fare inserire contestualmente la “dimensione del progetto globale nel
proprio lavoro”, che consente di considerare unitariamente le iniziative
diversificate, integrandole attraverso un senso comune, e di gestire
strategicamente la dimensione temporale;
- stimolare a “finalizzare” esplicitamente, regolare e consolidare ogni
attività, attraverso la definizione di obiettivi e la prefigurazione di esiti, e
ancora la costruzione di sequenze operative, che limitino lo sfrangiamento
professionale, orientino l’assistente sociale e manifestino all’esterno la
consistenza e la complessità di ogni attività prevista;
- approfondire, per quanto concerne la casistica, la ricaduta dei “principi di
servizio sociale” all’interno della relazione, centrandosi sulla soggettività
intesa anche come diritto a negoziare, sulla crucialità della motivazione
della persona, l’uso produttivo di vincoli per scatenare le intenzionalità
risolutive;
- far prevedere dei “tempi per pensare”: nella settimana, nella giornata, al
termine di ogni micro o macro attività”196.
Come afferma anche Dal Pra: “se non si fa formazione continua, se non si
riflette sul proprio lavoro i servizi diventano sempre più standardizzati e 196 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo., cit. p.164
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burocratici; si giunge presto ad una demotivazione e deresponsabilizzazione
degli operatori con conseguente abbandono del loro ruolo per la ricerca di
immagini più gratificanti”197.
Tale rischio è quanto mai forte se alla carenza di iniziative formative si
aggiungono la scarsa diffusione delle pratiche valutative applicate agli
interventi dagli assistenti sociali e il mancato radicamento dell’abitudine alla
continua riflessione sulla prassi attuata in un’ottica prossima a quella della
ricerca azione.
Può essere utile, in riferimento a quanto detto, richiamare Moro, il quale
segnala il valore pedagogico della diffusione delle pratiche valutative:
“introdurre la cultura della valutazione nei sistemi formativi, significa porre
i temi dell’imprenditorialità, della competizione, della centralità dei progetti
e non delle regole, della qualità dell’offerta, della capacità di coinvolgere
nei processi valutativi gli utenti e tutti i vari soggetti interessati alla
formazione”198.
L’offerta di formazione permanente agli assistenti sociali dovrebbe nascere
dalla ricerca, nella pratica professionale, di un continuo miglioramento
richiesto, esplicitamente o implicitamente, dall’operatore stesso, dall’ente in
cui quest’ultimo è inserito, nonché dagli utenti dei servizi sociali. È stato
evidenziato come la formazione permanente sia un antidoto al fenomeno del
burn-out, diffuso, soprattutto, in presenza di un’organizzazione del lavoro
non flessibile, poco attenta alle dimensioni soggettive, priva di supporti
formativi.
197 Ibidem., p. 74
198 Ibidem., p. 166
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3.4 Valutazione e Formazione Permanente
Prima di addentrarci nel rapporto tra formazione e valutazione, occorre
soffermarsi sul valore che quest’ultima assume rispetto all’operare proprio
della professione dell’assistente sociale.
La valutazione professionale è un processo attraverso il quale le azioni
professionali vengono scomposte e analizzate, con l’obiettivo di fornire al
singolo operatore informazioni utili sulla qualità degli interventi e sulla
natura dei risultati che si ottengono nell’esercizio della pratica
professionale.199 In Italia non si è ancora consolidata una cultura della
valutazione rispetto agli interventi professionali e all’impatto che questi
possono avere sugli utenti, in quanto la complessità del contesto sociale in
cui il servizio sociale si colloca, la diversità dei mandati istituzionali, la
multifattorialità delle variabili che contribuiscono a definire un problema,
rendono difficoltoso elaborare strumenti di valutazione degli effetti che
l’azione professionale produce.
Allo stesso tempo, nel nostro paese stanno emergendo, con forza, riflessioni
sulla qualità, sull’orientamento al cliente, sulla necessità di sviluppare
strategie che consentano di verificare non solo l’efficacia e l’efficienza, ma
anche di misurare il gradimento e la rispondenza dei servizi ai bisogni e alle
attese dei cittadini200.
Occorre evidenziare, difatti, l’importanza che riveste il destinatario delle
prestazioni e dei servizi erogati ai fini della valutazione, quest’ultima intesa
come momento per approfondire processi di riflessività, da parte
dell’assistente sociale, sul proprio operato e sulle relative competenze e
qualità del servizio di cui è membro.
Se fino ad oggi la valutazione nel servizio sociale non si è sviluppata come
attività connaturata e intrinseca alla professione è perché si riscontrano
alcune difficoltà, sia di tipo oggettivo che soggettivo.
Alcune resistenze alla valutazione possono attribuirsi alla posizione teorica,
che ritiene la pratica di servizio sociale maggiormente assimilabile più ad
un’arte che ad una scienza e quindi difficilmente esprimibile in parametri
199Dal Pra Ponticelli M.., Dizionario di servizio sociale., cit.p.766 200 Campanini A., 2007., La valutazione nel servizio sociale.,di Annamaria campanini., Carocci Faber., op.cit.p. 29
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oggettivabili201. Una seconda resistenza, di carattere più soggettivo, è legata
all’assimilazione dei processi di valutazione con quelli di controllo
dell'operato del professionista. Da qui possono attivarsi timori di essere
giudicati, anche come persone, soprattutto laddove non si è acquisita una
maturità professionale e ci si sente insicuri. Vi sono, inoltre, alcune
difficoltà legate alla complessità in cui il servizio sociale opera, ma questo
fatto non dovrebbe scoraggiare a intraprendere la strada della valutazione,
quanto piuttosto dovrebbe stimolare ad individuare le questioni prioritarie e
i metodi più adeguati202.
Un ulteriore problema deriva dalla capacità di esprimere gli obiettivi, i
metodi e i risultati attesi da parte del servizio sociale con un linguaggio che
abbia un certo grado di precisione. Ciò non è sempre facile, in quanto ci
sono elementi di vaghezza e scarsità di formulazione in molta parte della
terminologia del servizio sociale, in particolare, gli obiettivi e i risultati sono
di difficile definizione, poiché ci si preoccupa di creare potenzialità
piuttosto che raggiungere uno “stato finale”; nonché si lavora per aumentare
nei clienti la consapevolezza della propria situazione, di accrescere le
capacità di utilizzo dei servizi, di proteggerli da situazioni a rischio o da
difficoltà, o ancora rendere più adeguato il funzionamento della famiglia.
Questi aspetti sono intangibili e pertanto è difficoltoso determinare il loro
raggiungimento. E’ quindi necessario scomporli, identificando una serie di
risultati che possano essere più facilmente misurabili, senza scadere nella
banalizzazione e produrre una riflessione solo su cambiamenti minori del
comportamento in situazioni limitate o artificiali203.
Due sono le prospettive da cui può svilupparsi un processo di valutazione:
uno dall'esterno e uno interno. Il primo, si avvale di un'équipe di ricerca, ed
ha come obiettivo primario quello di produrre conoscenza e risultati
generalizzabili e si può caratterizzare come valutazione scientifica o
manageriale. Il secondo processo di valutazione, è più orientato a prendere
decisioni di carattere gestionale e, talvolta, è utilizzato per coprire e 201Ibidem.,. p. 24
202 Campanini A., 2006., La valutazione nel servizio sociale. [online]. Disponibile su: <http://www.oasliguria.org/public/oas2/index.php?mod=08_Download&downloadfile=Modulistica%20Generale/Campanini.pdf&mode=go. > [Data di accesso: 22/02/2010].
203Idem.,
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giustificare scelte già effettuate. La valutazione processuale può essere
considerata una valutazione dall'interno ed ha forti valenze di
apprendimento.
Non si vuole qui porre in contrapposizione la valutazione del servizio
sociale, come valutazione compiuta dall'esterno e la valutazione nel servizio
sociale, come prassi operativa che caratterizza l'operatività del
professionista, ma evidenziarne i vantaggi e gli svantaggi che entrambe
presentano204. Mentre la valutazione operata dall’esterno può garantire una
visione più limpida e meno inquinata dall’esposizione a dinamiche organiz-
zative, quella che si sviluppa dall’interno può avere maggiori possibilità,
proprio per l’approfondita conoscenza del contesto, di individuare spazi di
implementazione dell’attività205.
Pur ribadendo il concetto che la valutazione nel servizio sociale non
rimpiazza la valutazione esterna, che può avere una sua utilità, Love
sottolinea l'importanza che “non rimanga esterna all'organizzazione, come
un evento straordinario e occasionale, ma venga integrata nelle attività di
tutti i giorni e si caratterizzi come un processo di sviluppo, di cui ogni
professionista deve assumersi la responsabilità, raccogliendo le
informazioni necessarie e domandandosi come è possibile raggiungere
risultati migliori”.
In questo modo, il prodotto della valutazione diventa un apprendimento
organizzativo, una strada per valutare i progressi e attuare cambiamenti per
ottenere una maggiore efficacia206.
Quanto appena detto può avvenire, in primo luogo quando l’operatore
diventa capace di esplicitare le teorie non dichiarate, sottese alle azioni
individuali e organizzative condotte, ma anche nel momento in cui, in
un’ottica di ricerca riflessiva, nei metodi descritti da Schön o tramite
l’impiego consapevole di strategie di riflessione strutturata, effettua
operazioni di autovalutazione sulle proprie competenze, conoscenze e
azioni.
204 Ibidem
205 Ibidem
206 Campanini A., La valutazione nel servizio sociale.,Annamaria Campanini., cit. p. 28
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Bateson (1994) definisce l'autoriflessività come la condizione di tutti gli
organismi, essa è un modo di conoscere e di comunicare dipendente dal
fatto che si è in vita, “parte danzante di una più ampia danza di parti
interagenti, danza che concorriamo ecologicamente a fare e a far disfare e
che senza posa ci trascina nei suoi ritmi, nelle sue figure, nei suoi
movimenti”207. L'autoriflessività di cui parla Bateson richiede “la cura della
propria inconsapevole sensibilità estetica, richiede cioè la cura del proprio
essere parte di….”.
Esser parte di, significa che il comunicare (fare) ha “natura di creazione
interattiva di contesti e l’interazione ha processi comunicativi”, ovvero che
ogni comunicare si situa dentro una precisa cornice di senso contenuta negli
stessi gesti agiti.
Ogni azione anche la più elementare (atto di percezione sensoriale)
presuppone filtri creativi che rispondono a matrici di senso che si formano,
si stabilizzano e mutano per via di processi relazionali dei quali l’azione è
parte. Essere in relazione, dunque, significa situarsi direttamente in
relazione compartecipativa con l’oggetto e, la riflessività risulta la
condizione assoluta di conoscenza del senso co-costruito208.
Ogni professionista che agisce effettua giudizi autovalutativi che, intrinseci
all’agire, vengono incorporati nell’azione successiva. In molte circostanze
una tale processualità sembra trovare giovamento da una maggiore
consapevolezza e sistematicità che rende possibile non solo l’autocorrezione
della pratica professionale ma, anche la formulazione di ipotesi
interpretative e operative da verificare con strumenti più rigorosi209.
Costruire sistemi di valutazione è necessario, in quanto nel sistema dei
servizi sociali le competenze e le performance degli operatori condizionano
sia la qualità delle prestazioni, sia quella del servizio, essendo la variabile
“uomo” determinante.
207 Padoan I., Il Docente come professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].
208 Idem.,
209 Bezzi C., 2009., Valutazione. Raccolta di citazioni italiane. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: <http://www.valutazione.it/index.php?option=com_content&view=article&id=77:il-metodo-come-linguaggio-terza-parte&catid=34:portolano&Itemid=53 > [Data di accesso: 16/01/2010].
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Nel lavoro sociale, il momento del “fare” è strettamente legato a quello del
“capire”, “interpretare” e “valutare”210; in questa direzione è perciò
necessario organizzare la valutazione affinchè aiuti il singolo operatore a
reggere le incertezze che affronta quotidianamente, a condividere le
responsabilità di scelte complesse e opinabili in un luogo deputato alla
riflessione, allo studio e alla raccolta sistematica delle conoscenze; evita che
si formino dei meccanismi difensivi nei confronti dello stress e delle routine
che portano ad impoverire le prestazioni professionali (il famoso burn-out);
mette il servizio al riparo dalle disfunzioni che si producono quando la
rotazione del personale comporta una perdita delle esperienze e delle
conoscenze possedute dagli operatori che se ne vanno, in quanto,
l’accumulo di un patrimonio culturale collettivo è un modo con cui il
servizio si crea una storia che può trasmettere ai nuovi arrivati e che può
confrontare con altri servizi. Infine, la valutazione permette un dialogo con
“l’esterno”, con i “non addetti ai lavori”, con l’opinione pubblica, con una
realtà sociale che è ancora molto poco informata di ciò che si fa e si realizza
nei servizi. La valutazione in questo senso, assume una funzione formativa
diretta a favorire un miglioramento del servizio, a crescere le competenze e
a rispondere meglio ai propri doveri.
Affinché tale funzione, di apprendimento organizzativo, sia inverata,
occorre per prima cosa che sia voluta da coloro che sono valutati211.
Importanti metodi e strumenti di supporto alla valutazione professionale
possono essere: l’attivazione di percorsi di autovalutazione, che consentono
di attuare verifiche orientate a migliorare la qualità della relazione di aiuto,
ad acquisire una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e degli effetti
derivanti dall’azione professionale durante l’esperienza lavorativa212; la
supervisione, come indicato da Allegri (2000), in quanto presenta come
finalità propria quella di aiutare i partecipanti a crescere e a migliorare la
propria professionalità, a leggere la complessità del lavoro sociale, a gestire
210 Piva.P.T., I servizi alla persona., cit. p.120
211 Bezzi C., 2009., Valutazione. Raccolta di citazioni italiane. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: <http://www.valutazione.it/index.php?option=com_content&view=article&id=77:il-metodo-come-linguaggio-terza-parte&catid=34:portolano&Itemid=53 > [Data di accesso: 16/01/2010].
212 Campanini A., 2005., L’intervento sistemico. Un modello operativo per il servizio sociale., Carocci Faber., op.cit. p.216
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meglio il gruppo e a sviluppare la propria identità professionale213; infine, e
non per questo meno importante, la documentazione professionale, in
quanto strumento di sintesi e ricomposizione dei diversi punti di vista, delle
risorse professionali, degli interventi e delle azioni, nonché dei risultati.
E’ importante soffermarsi sull’ultimo strumento citato, nonchè: la
documentazione professionale.
Non basta assistere o partecipare ad un evento per comprenderne il
significato, in quanto è difficile cogliere appieno le ragioni di operazioni e
attività che, nella quotidianità del lavoro, vengono svolte secondo
meccanismi ampiamente taciti. L’analisi della nostra consapevolezza
“sommersa” è possibile con maggiore facilità quando possiamo osservare
alcune delle sue manifestazioni presenti in ciò che diciamo e nella
documentazione scritta da noi prodotta.
L’analisi della documentazione prodotta, con specifico riferimento alle
relazioni di servizio sociale, rappresentano un’occasione per fare emergere i
modelli teorici sottesi all’azione professionale dell’assistente sociale214.
Scrivere sulla propria pratica permette di mettersi a distanza, di costruire
rappresentazioni, di avanzare interpretazioni, di preparare le osservazioni, di
superare le resistenze al cambiamento. La relazione sul caso sottende una
rete di teorie, spesso ampiamente implicite o comunque date per scontate,
che forniscono quadri interpretativi sulle correlazioni tra i fattori che hanno
generato il problema e che conseguentemente conducono alla scelta di
strategie d’intervento ritenute appropriate dall’operatore. Tale forma di
documentazione ha lo scopo di narrare e di spiegare e, pertanto manifesta
quel “sapere pratico” rigoroso ma senza esattezza, tipologico e narrativo in
quanto costitutivo di significati.
Lo scrivere, dunque, è un’attività elettivamente di natura riflessiva: “scrivo
per scrivermi per sviluppare conoscenza nel corso dell’azione (Schon,
213 Ibidem., p.216
214 Fiamberti C.,2006., La documentazione professionale dall'autoriflessione alla progettualità. [online]. La rivista di Servizio sociale. Disponibile su: < http://www.rivistadiserviziosociale.it/it/rivista.aspx?r=3 > [Data di accesso: 16/01/2010].
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1993)”, si possono distinguere alcuni esiti auto-formativi del mestiere di
scrivere nel lavoro sociale215.
E’ possibile ipotizzare che la scrittura, come atto riflessivo, possa aiutare
l’operatore sia rispetto alla conoscenza del proprio mondo emotivo, sia a
dare una fisionomia ad alcuni fantasmi che spesso accompagnano il lavoro
sociale.
Cosa sente, cosa ha sentito venendo a contatto con una condizione
problematica? In che misura il suo sentire è un importante veicolo di
conoscenza? Lo scrivere diviene un atto riflessivo nella misura in cui
consente all’operatore una posizione “altra”, decentrata, una posizione che
lo metta in grado di osservare la durezza (l’opacità, la staticità, la
pesantezza…) di realtà sociali spesso poco inclini al mutamento.
Lo scrivere aiuta l’operatore ad assumere una posizione decentrata.
La distanza rappresenta la condizione che consente di osservare e riflettere.
Essa è un valore, non tanto perché consente di recuperare uno sguardo
maggiormente obiettivo sul fenomeno osservato piuttosto, quanto perché
consente di porsi in una posizione maggiormente obliqua: lo scrittore-
operatore ripensa al colloquio effettuato cercando di non far prevalere una
posizione egocentrata (come se dovesse stendere il verbale del colloquio)
ma ponendosi in un punto della stanza del colloquio dove sia possibile far
luce sulla relazione intercorsa tra i tre interlocutori presenti: l’operatore,
l’utente ed il contesto istituzionale216. L’operatore scrive per poter disporre
di uno specchio (bisogno riflessivo) e di un argine (bisogno contenitivo) per
poter affrontare nella realtà quotidiana situazioni complesse, anche perché
emotivamente coinvolgenti.
Anche Capello nel suo testo “Dal colloquio al testo” sottolinea la funzione
di contenimento della scrittura che consente la presa di contatto con le
proprie emozioni e favorisce la pensabilità: “La scrittura come farsi di un
testo, organizza l’osservazione, mette in forma la realtà del vissuto, dà
nuova struttura a ciò che era pensabile e dicibile, rappresenta un livello
215 Ibidem
216 Idem.,
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ulteriore…217”, in tal senso la scrittura propone un metalivello
dell’esperienza, ovvero un ascolto dell’ascolto, un osservazione
dell’osservazione; favorisce la pensabilità e con questo lo sviluppo del
pensiero. Alcuni assistenti sociali soddisfano l’esigenza di riflessività
attraverso altre modalità (supervisioni, confronti gruppali, confronti con la
casistica seguita nel corso del tempo...).
Il bisogno riflessivo trova dunque altri canali oppure si ergono difese che lo
saturano (chiusure, adattamenti a routine, disinvestimenti...). Il problema è
piuttosto connesso alla capacità e possibilità dell’operatore di mantenere
uno spazio aperto per l’interrogazione riflessiva.
La documentazione in tal senso assume anche una valenza progettuale per
l’operatore che si confronta con le proprie interpretazioni ed ipotesi di
lavoro. A questo proposito anche Bini218 sottolinea l’influenza della scrittura
sul processo di aiuto: favorendo il processo interpretativo della realtà la
scrittura comporta una sorta di “riorganizzazione” del significato attribuito
agli eventi ed alle osservazioni.
La “trasformazione” di eventi e di relazioni umane in documentazione,
(oltre a porre il problema dell’oggettività da sempre presente nelle scienze
sociali), “obbliga” l’assistente sociale a “scegliere”, selezionare tra
prospettive differenti, assumere una posizione rispetto alla situazione di cui
si occupa. L’operatore scrive e riscrive l’evento, lo esamina da diverse
prospettive, oscilla tra modelli teorici, propri schemi mentali e condizione
emotiva legata al momento storico della sua biografia personale
(matrimonio, maternità, separazione…)219. E’ attraverso di essa che
l’operatore può esprimere il proprio “stile” inteso come il proprio modo di
intessere forme e contenuti del suo lavoro, uno sguardo peculiare
(specificamente personale e insieme professionale) sulle realtà sociali, un
modo di costruire relazioni, di proporsi nei contesti, di “mettersi in rete”.
Le tecnologie riflessive consentono di scendere nella contraddittorietà e
nell'ambiguità delle situazione senza rinunciare al rigore di un procedere
consapevole. La riflessione nasce per far fronte al caso e
217 Ibidem
218 Idem 219 Ibidem
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all'indeterminatezza, ed è figlia degli incessanti tentativi di abitare
l'ambiguità del progettare. Intraprendere un processo riflessivo significa
costruire, filtrare, incorniciare, esplicitare la fattualità di un procedere tacito,
di dargli consistenza e legittimazione formale220.
La pratica (corne altro modo di fare teoria e come teoria stessa, sia pure
sempre in azione, contestualizzata) per essere negoziata, condivisa, verifica,
ha bisogno di essere formalizzata e quindi "messa in parola".
Infatti, le comunità pratiche hanno bisogno di mettere in parole le loro teorie
che abbiamo definito tacite, intuitive, routinarie.
L'approccio riflessivo si fonda sulla convinzione che i pratici agiscono
razionalmente, risolvono i problemi che incontrano ma non sempre sono
consapevoli di come ragionano e di come li risolvono. Di qui l'importanza
della pratiche narrative come forme per "dare forma" e consapevolezza al
loro agire professionale, attraverso un'attività di riflessione in corso d'opera
o a posteriori, per liberarsi di costrutti limitanti, aprirsi a nuovi problemi,
essere in grado di formalizzare la conoscenza implicita nell'azione221.
Le metodologie qualitative, quali, le tecniche narrative, la ricerca
etnografica – che consente di ricostruire "il mondo della vita" delle persone
– si realizzano attraverso il ricorso a tecniche narrative come i diari, le
biografie, i resoconti, le interviste. Tali tecniche consentono appunto
quell'operazione di "riflessione" sul proprio agire tipiche del professionista
"riflessivo". Questo presuppone la capacità da parte del soggetto
professionale non solo di ricostruire ma di interpretare il proprio agire entro
determinate coordinate che attivano un processo continuo di
consapevolizzazione222.
Ritornando al tema della valutazione e dell’autovalutazione, occorre
sottolineare l’importanza che queste assumono in riferimento al rapporto
con il concetto di formazione permanente. La valutazione e
l’autovalutazione devono essere applicate, sia in itinere che in una fase
successiva, alle esperienze formative, affinchè i risultati che ne derivano,
siano utilizzati per favorire occasioni e spazi di riflessività.
220 Anon., 2008/09, Dalla teoria alla pratica della cura. [online]. Appuni per l’insegnamento di pedagogia clinica. Disponibile su: < http://electronicportfolios.files.wordpress.com/2010/01/pedagogia-clinica-parte-b3.pdf > [Data di accesso: 24/01/2010].
221Idem 222 Ibidem
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Quest’ultima è ritenuta un elemento qualificante di una professionalità che è
tesa al miglioramento delle prestazioni fornite, in continua crescita
professionale e in grado di affrontare le continue sfide che emergono da
contesti operativi in divenire223. La formazione e la sua valutazione
diventano i luoghi ideali per costruire quella figura di “professionista
riflessivo”, capace di ricomporre la divergenza tra teoria, ricerca e pratica e
di migliorare i servizi offerti ai propri utenti/ clienti.
I momenti di formazione sembrano costituire, dunque, uno dei contesti più
adatti per lo sviluppo di modalità di riflessione da utilizzare poi nel corso
dell’azione al fine di rinforzare le competenze professionali. Il riflettere sul
proprio agire professionale può favorire un miglioramento dello stesso; tale
effetto positivo si riversa poi sulla qualità delle prestazioni erogate e sul
benessere di chi di queste è utente finale224.
Tuttavia nel campo del servizio sociale, sono rare le esperienze di
valutazione impostate e, ciò avviene per la scarsità se non addirittura
indisponibilità di strumenti adeguati, nonché per la complessità e l’onerosità
di attività valutative che misurino i benefici prodotti dalla formazione degli
operatori sugli utenti dei servizi socio-assistenziali. Parallelamente a quanto
appena detto emerge un’ampia richiesta di spazi di riflessione, di
assimilazione delle nuove conoscenze e di sperimentazione delle stesse
nell’operatività degli assistenti sociali ma, i fattori organizzativi e il lavoro
condizionato dalle “urgenze” appaiono tra i maggiori ostacoli ad un
effettivo arricchimento della professionalità degli operatori dei servizi alla
persona225. Si denota un accrescersi dell’esigenza, rilevata da molte ricerche,
espressa dagli operatori, di riscoprire una dimensione qualitativa del tempo-
lavoro dedicata ad attività di riflessione (riflessività), formazione e
valutazione del proprio essere professionisti (autovalutazione).
La valutazione si configura come una metodologia di intervento atta a
rilevare fattori di “cambiamento” in una realtà in cui è in corso un
intervento.
223 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit p 161
224 Campanini A., 2006., La valutazione nel servizio sociale. [online]. Disponibile su: <http://www.oasliguria.org/public/oas2/index.php?mod=08_Download&downloadfile=Modulistica%20Generale/Campanini.pdf&mode=go. > [Data di accesso: 22/02/2010].225 Ibidem
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Per poter capire quando e in che misura si ha appreso, il soggetto deve
essere in grado di percepire il cammino, percorso, di misurare la distanza tra
uno stadio iniziale e uno stadio finale e di comprendere i modi con i quali si
è arrivati al raggiungimento dello stadio desiderato.
L’insieme di queste azioni è definibile come “valutazione” sia della
quantità/qualità di ciò che si è appreso sia delle modalità con cui si è
appreso, nello stesso tempo è anche apprendere ad osservarsi come soggetto
agente costruttore della propria conoscenza.
In questo senso mi sembra più appropriato proporre di sostituire al termine
“autovalutazione” quella di “valutazione riflessiva”, intendendo così
sottolineare il fatto che il soggetto mentre valuta, cioè misura il proprio
apprendimento ed esplicita i processi mentali che ha adottato per conoscere,
riflette su se stesso come soggetto produttore di conoscenza226.
Sembra opportuno ricercare precise strategie e metodologie per l’attivazione
consapevole di processi di riflessività, piuttosto che lasciare lo svolgimento
di tale importante attività all’improvvisazione e alla causalità.
Un esempio per intraprendere percorsi di valutazione delle attività
formative, può essere rappresentato da un’articolata griglia di domande che
sembrano utili per valutare in maniera strutturata l’impatto che una specifica
iniziativa formativa frequentata ha prodotto sul proprio agire professionale.
Tale riflessione può essere condotta sia a livello individuale che a livello di
gruppo e può condurre ad una più precisa ridefinizione dei propri bisogni
formativi e della propria “mappa” di competenze. Le dimensioni individuate
per tale processo mentale sono: la soddisfazione relativa all’iniziativa
formativa; la percezione dell’efficacia dei contenuti formativi come risorsa,
con specifico riferimento ai contenuti appresi, agli appunti raccolti e al
materiale didattico ricevuto; la percezione dell’utilità del corso e del suo
impatto sulla propria condotta di lavoro; la percezione dell’impatto
dell’esperienza formativa sulle proprie competenze professionali227.
226 Bezzi C., 2009., Valutazione. Raccolta di citazioni italiane. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: <http://www.valutazione.it/index.php?option=com_content&view=article&id=77:il-metodo-come-linguaggio-terza-parte&catid=34:portolano&Itemid=53 > [Data di accesso: 16/01/2010].227 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p.201
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Traccia per l’autoanalisi della soddisfazione e degli effetti relativi ad una
esperienza formativa
Dimension
e
Domanda
soddisfazione su:
-sviluppo
Competenze
- valutazione corso nel suo
complesso
1. quanto il corso mi sta aiutando ad orientarmi
meglio nella mia professione?
2. il corso valeva il tempo che vi ho investito?
3. complessivamente è stato un buon corso?
4. rifarei il corso?
5. consiglierei anche ad altri colleghi di frequentare
il corso?Percezione dell’efficacia
dei contenuti formativi
come risorsa:
- contenuti appresi
- appunti
-materiale didattico
6. da quanto ho finito il corso quante volte mi è
capitato di:
- ricordare alcuni contenuti appresi durante il corso
con colleghi che lo avevano frequentato con me
- rivedere gli appunti presi durante il corso
- rivedere il materiale didattico raccolto durante il
corso
7. ricordare i contenuti e rivedere gli appunti e il
materiale mi è stato utile per affrontare meglio
alcuni aspetti della mia operatività?
Percezione dell’utilità del
corso e del suo impatto
sulla propria condotta di
lavoro
8. quali sono gli aspetti di ciò che ho appreso
durante l’esperienza formativa che mi sono stati
più utili?
9. che cosa ho modificato a tutt’oggi della mia
pratica di lavoro come risultato di ciò che ho
appreso?
10. a tale proposito , quali sono gli episodi che
ricordo come particolarmente significativi?
11. che cosa ha impedito che l’esperienza
formativa producesse maggiori effetti sulla mia
pratica di lavoro?La percezione dell’impatto
dell’esperienza formativa
sulle proprie competenze
professionali
12. a seguito dell’esperienza formativa quanto
sono variate le mie competenze professionali
rispetto a ciascuna delle seguenti aree:
- competenze di realizzazione e operative (sono
quelle che si riferiscono alla predisposizione ad
agire, più per eseguire compiti che per influenzare
gli altri. Comprendono: l’orientamento al risultato,
l’attenzione all’ordine e alla qualità, lo spirito di
Page53
iniziativa e la ricerca delle informazioni);
- competenza di assistenza e servizio (sono
caratterizzate dal desiderio di aiutare o servire gli
altri, cercando di comprendere le loro
preoccupazioni, interessi e biaogni. Comprendono:
sensibilità interpersonale e orientamento al
cliente);
- competenze manageriali (sono un sottogruppo
specializzato delle competenze d’influenza, in
quanto esprimono l’intenzione di avere specifici
effetti. Comprendono: sviluppo degli altri,
assertività e uso del potere formale, lavoro di
gruppo e cooperazione, leadership del gruppo);
- competenze cognitive ( rappresentano una
versione intellettiva delle competenze operative e
si riferiscono a quanto si fa per capire una
situazione, un compito, un problema,
un’opportunità o un corpo di conoscenze.
Comprendono: pensiero analitico, pensiero
concettuale e capacità tecnico/professionale);
- competenze di efficacia personale ( riflettono un
aspetto della maturità di una persona di fronte agli
altri al lavoro. Comprendono: autocontrollo,
fiducia in sé, flessibilità e impegno verso
l’organizzazione).
3.5 Le metodologie di pratica riflessiva
Page53
I saperi professionali vengono sempre più messi alla prova dalla complessità
e dall’unicità che caratterizzano le situazioni pratiche. Queste caratteristiche
irrompono nel rapporto tra professionista e oggetto dell’azione professionale
nel momento in cui si assiste ad una crescita della domanda di qualità in
tutti i campi della vita, compresi i campi di produzione del sapere.
L’aumento della domanda di qualità avviene nel momento in cui “il
cliente”, “l’utente”, “il portatore di interessi”, “il cittadino”, diventa
l’oggetto di un capovolgimento dei rapporti tra professionista e destinatario
della prestazione, entrando a far parte del processo di definizione dei
bisogni, della progettazione del prodotto/servizio, della valutazione della
sua efficacia. Il “cliente” diventa l’oggetto di un progetto riflessivo
mediante il quale le organizzazioni e i professionisti ridefiniscono i propri
processi decisionali, le proprie pratiche e le proprie identità228.
Il cliente, il cittadino, l’utente non è soltanto il destinatario di un servizio o
di un prodotto, ma interviene sempre più spesso nella progettazione stessa
dei servizi e dei prodotti, avanzando ipotesi circa i propri bisogni e
descrivendo le proprie aspettative.
In alcuni casi si tratta di una vera e propria co-progettazione229.
Tale cambiamento pone in primo piano la complessità degli oggetti
dell’azione professionale, mettendo in discussione il rapporto tra il
professionista, l’oggetto della propria azione, i saperi e il modo in cui questi
vengono costruiti, scambiati, riconosciuti, formati in specifici contesti
organizzativi ma, soprattutto impone l’esigenza di ripensare gli artefatti, i
saperi, i processi e le attività. I professionisti sono riconosciuti come esperti
dai destinatari delle prestazioni proprio perché in grado di agire in differenti
situazioni e di far fronte ad una gamma ampia di problematiche.
Dall’altro lato occorre considerare anche che le domande dei clienti sono
sempre più informate ed esperte.
Le identità dei professionisti e delle organizzazioni si configurano sempre di
più attraverso le modalità mediante le quali gestiscono quotidianamente i
228 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
229 Ibidem
Page53
dilemmi connessi alle scelte d’azione e le relazioni organizzative e
professionali.
Molto spesso i professionisti, pur avvertendo di aver vissuto delle
esperienze professionali significative, non riescono a ricostruirne il
significato, né in termini di superamento dei confini della propria azione
professionale né quindi in termini di identità professionale230.
Questo è strettamente connesso alle caratteristiche dei contesti, dei setting
organizzativi e dei sistemi di attività in cui le specifiche situazioni
significative si verificano. Ogni attività infatti ha senso, valore, in quanto
elemento di un contesto. Tale senso gli viene attribuito ogni volta che da
questo contesto viene attivata, resa necessaria, accreditata e realizzata
irriflessivamente in una situazione di azione. L’attività diviene così veicolo
di realizzazione di schemi di pensiero, modelli di azione, di comportamento
e di valori organizzativi e istituzionali. Si dice: “Va da sé!” in quanto
l’attività considerata costituisce qualcosa a cui non è necessario dedicare
attenzione e che non bisogna mettere in discussione ogni volta nelle
specifiche situazioni di azione. Tale opacità dei sistemi di attività, delle
organizzazioni è funzionale all’efficienza delle organizzazioni stesse231.
In tale opacità viene tuttavia generato un deficit percettivo per cui ciò che
cade al di fuori da ciò che è normato e accreditato in specifici contesti
(reinvenzioni, nuove conoscenze, nuovi assetti organizzativi, nuove routine)
viene trascurato o rimosso, oppure considerato come un “errore”,
“disfunzionale”, “fuori norma” e raramente diviene processo generativo
(Weick, 1979). Ciò provoca nella relazione con il cliente/utente/cittadino
un’inadeguatezza dei processi di interpretazione degli effetti delle proprie
scelte e delle proprie azioni e provoca, nel versante organizzativo,
un’insufficienza dei processi di apprendimento sulla base dell’esperienza e
del verificarsi delle situazioni inattese che limitano le opportunità di
cambiamento. In questo modo le aspettative di tutti gli interlocutori nella
relazione professionale tenderanno ad essere disattese.
E’ per via riflessiva che da processi elementari di apprendimento (di tipo
“single-loop”, fondati sulla reiterazione di soluzioni già sperimentate anche
230 Idem
231 Ibidem
Page53
rispetto a nuovi problemi) si può passare a processi più complessi (di tipo
“double-loop”), in cui avviene la ridefinizione di regole, assunti e valori
dell’agire collettivo232.
Le ipotesi sull’apprendimento riflessivo creano le premesse per nuovi
interventi di cambiamento organizzativo e di formazione.
L’approccio all’apprendimento riflessivo generato dal gruppo britannico
Reflective Learning – UK233, fornisce una serie di visioni e strumenti di
grande interesse e impatto nelle realtà operative.
Ad esempio, recenti contributi (Ghaye, 2007; Ghaye, 2008) chiariscono la
portata dell’introduzione di forme di reflective learning nel sistema sanitario
britannico con un’ampiezza di riferimenti e indicazioni che appaiono
applicabili, con i dovuti adattamenti, anche in altri contesti.
Il focus degli interventi “riflessivi” in sanità si concentra sui piccoli gruppi
professionali. La domanda più essenziale cui rispondono tali interventi è del
tipo “Come possiamo sviluppare team riflessivi che possano sostenere
forme di cura personalizzate e di alta qualità?”A tale domanda, in questo
approccio, si risponde cercando di sviluppare contemporaneamente tre
fattori: l’esperienza personale, il sapere collettivo e la actionable knowledge.
Quest’ultima (la conoscenza che può effettivamente tradursi in azione) è
definita da Ghaye come una conoscenza rivolta al miglioramento di ciò che
si fa, ovvero è “una conoscenza che viene co-costruita dagli attori sul campo
sulla base di quanto essi apprendono riguardo ai processi e ai risultati
ottenuti in determinati contesti e circostanze234.
Essa si sottrae strutturalmente al dominio esclusivo degli “esperti” (ovvero
dei linguaggi esoterici, degli specialismi che tendono a privatizzare la
conoscenza, a renderla esclusiva), e per quanto possibile si mantiene sempre
aperta a revisioni e ad aggiustamenti rispetto alle contingenze”.
Riflettere significa quindi, per molti versi, costruire progressivamente
questo tipo di conoscenza di natura intrinsecamente collettiva e
“contestuale” nella quale si possono combinare il riconoscimento delle 232 Redazione Formazione e Cambiamento., Apprendimento riflessivo e nuovi modelli di Action-Research. [online]. Intervista a massimo Tommassini, ricercatore indipendente, Università UniRoma3. Disponibile su: < <http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/81d6cc569d2aeafdc1256e220031d3e2/156247aff0063725c125744f004c0094/Testo/M2?OpenElement > [Data di accesso: 17/01/2010]. 233
234 Ibidem
Page53
individualità (“chi fa che cosa”) con la comunicazione, lo scambio, la
riflessione efficace.
L’idea è che “la riflessione privata e individualizzata è incapace di
raggiungere e influenzare gli assunti istituzionali e le logiche che regolano
l’azione organizzativa, e corre anche il rischio di essere uno sforzo sterile
dato che gli individui da soli sono raramente nella posizione di realizzare
sostanziali cambiamenti organizzativi” (Nicolini)235.
Nell’approccio reflective learning la riflessività esce da una dimensione
puramente cognitiva e viene assunta in un senso nettamente pratico. Non
semplicemente in quanto permette di elaborare migliori piani d’azione a
livello di singole soggettività (individuali e di piccolo gruppo) ma
soprattutto in quanto permette di migliorare l’azione collettiva. Le pratiche
della riflessione sono direttamente innestate sulle pratiche dell’azione.
PAAR236: Participatory and Appreciative Action Research (Ghaye, 2008b) è
il modello che rappresenta attualmente il riferimento essenziale di
Reflective Learning237. Le metodologie di pratica riflessiva, specie se
sviluppate mediante un approccio di tipo partecipativo e apprezzativo
(Gahye, 2008), consentono di far emergere e di attivare processi di
apprendimento in cui individui e organizzazioni diventano competenti a
trasformare in modo non traumatico e non sanzionatorio novità, anomalie,
sorprese, eventi inattesi, in (nuovi) modelli di azione e in modi di pensare e
di organizzare innovativi. Consentono inoltre di ripensare al rapporto tra
professionista e organizzazione attraverso la strutturazione di un contesto
formativo di tipo riflessivo in cui le relazioni professionali assumono
determinate caratteristiche che permettono di rompere la doppia
autoreferenzialità che caratterizza tale rapporto. Tale rottura e ripensamento
avviene a favore dell’analisi dei processi generativi mediante i quali le
situazioni critiche, inattese, e di successo vengono generate dai sistemi
stessi. Le situazioni inattese possono essere in questo modo considerate
come occasioni di apprendimento e di innovazione e non come momenti
drammatici intrisi della cultura della colpa. I professionisti, i gruppi, le
organizzazioni divengono consapevoli dei processi di cambiamento, di
235 Idem
236
237 Ibidem
Page53
innovazione e di apprendimento connessi alla pratica professionale in
specifici contesti di azione nella misura in cui attivano processi riflessivi,
mediante i quali gli artefatti, le relazioni, gli oggetti, gli obiettivi, le identità
professionali individuali e collettive emergono come “forme” come “oggetti
di valore” da uno sfondo e/o come “testo” da un contesto di pratiche
professionali238. La riflessività consente alle “forme”, agli “oggetti di
valore” di assumere significato e diventare interpretabili e riprogettabili. Gli
oggetti di valore possono essere concepiti come “termini, gesti,
comportamenti, oggetti, che danno l’idea che ciò che avviene, che circola, è
dotato di una densità, di un’oggettività, di una solidità che obbliga a
modificare atteggiamenti, a scuotere preconcetti, a cambiare opinioni, a
modificare le pratiche” (Latour 2007). In questo modo non ha senso parlare
di “impatto” delle situazioni critiche o degli eventi inattesi sui modelli di
azione del singolo professionista o sull’organizzazione, ma piuttosto ha più
senso pensare a tali situazioni come ad occasioni generative di
apprendimento, cambiamento e innovazione, che implicano nuove pratiche,
nuove scelte progettuali, nuove interazioni, nuovi aspetti cognitivi da parte
dei professionisti. Ha dunque più senso parlare di “partecipazione” dei
professionisti ai processi generativi delle nuove relazioni professionali239.
I metodi riflessivi di tipo apprezzativo e partecipativo consentono di
concettualizzare sia le situazioni critiche caratterizzate da forte incertezza e
complessità, sia le situazioni di successo, in termini di percorsi di
apprendimento individuale, collettivo e organizzativo. Sulla base di questa
trasformazione tali approcci sono in grado di favorire la progettazione di
sistemi di attività e di percorsi di azione che hanno la caratteristica di essere
“generativi” dell’innovazione e di favorirne la sua messa a “sistema” a
livello organizzativo240.
L’approccio PAAR si basa infatti su metodi che consentono di (Gahye,
2008)241:
238 Idem
239 Ibidem
240 Idem
241 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].
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• andare oltre alla necessità di cambiare comportamenti organizzativi e
individuali, emersa sulla base di un’analisi dei deficit e delle situazioni di
fallimento, per muoversi verso un’analisi dei successi organizzativi e
individuali e dei processi che hanno portato a tali successi, in modo tale da
riprodurre ed espandere i processi virtuosi al fine di co-costruire vision
future basate su aspetti positivi che caratterizzano il presente;
• andare oltre l’individualismo, causa dell’isolamento professionale e della
solitudine dei processi di apprendimento, per muoversi verso una
dimensione collettiva delle pratiche professionali e dell’apprendimento,
mediante lo sviluppo di sistemi di interconnessione per la condivisione della
conoscenza e mediante l’utilizzo di nuove forme di comunicazione che
consentono di realizzare azioni simultanee da parte di diversi soggetti
diversamente distribuiti nello spazio geo-politico;
• superare una visione monodisciplinare o individuale della conoscenza, per
muoversi verso modalità pluralistiche di produzione della conoscenza e di
comprensione e interpretazione delle esperienze, al fine di individuarne
buoni usi futuri;
• andare oltre i cicli e le spirali di riflessione per muoversi verso un
apprendimento riflessivo (reflective learning) al fine di: sviluppare una
visione apprezzativa, ridefinire le esperienze, costruire una saggezza
collettiva, raggiungere gli obiettivi muoversi oltre.
Parte Seconda
“La Ricerca”
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La ricerca: ipotesi di ricerca
Il tema centrale di questo elaborato è la riflessività, questa intesa come
atteggiamento professionale funzionale alla gestione consapevole e
responsabile dell’apprendimento dall’esperienza, affinchè, quest’ultimo,
possa divenire patrimonio condiviso e tradursi in pratiche operative.
La riflessività permette al singolo operatore di interrogarsi continuamente
sul proprio operato, sulla relazione tra corpus di teorie interiorizzate e
conoscenza generata nell’azione, sulle proprie competenze e sul contesto
lavorativo e organizzativo di cui è membro, in un’ottica di continuo
miglioramento. Come già ampiamente argomentato nella parte teorica, la
riflessività è la condizione necessaria affinchè il professionista del sociale
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diventi consapevole del senso e dell’origine degli automatismi che orientano
il proprio agire, dalla definizione del problema, la progettazione
dell’intervento d’aiuto, alla definizione della soluzione di esso.
La riflessività può essere definita come un filtro attraverso il quale viene
incanalato il sapere pratico.
Il paradigma della pratica è un patrimonio che si accumula lentamente
facendo “depositare” il sapere pratico che filtra dalla riflessione del lavoro
quotidiano e va a costituire il vasto e prezioso bagaglio teorico-operativo di
una professione sociale. Molto importante è, dunque, adottare un
atteggiamento di continua “riflessività” sul proprio lavoro per evidenziare e
depositare il sapere pratico che ogni azione professionale può produrre.
Comprendere la crucialità della pratica significa peraltro riconoscere
l’importanza della riflessività, ovvero del padroneggiamento della pratica
per via riflessiva. Nella dimensione della riflessività si realizza la continua
interrogazione dei soggetti al lavoro sul “senso” delle proprie pratiche, sulla
loro destinazione, sulla possibilità che da esse sorgano nuovi apprendimenti
ed effetti inattesi. Nella riflessività si esprime, dunque, la capacità dei
soggetti di far funzionare dinamicamente i patrimoni di informazioni e
conoscenze di cui essi stessi dispongono in funzione delle esigenze
emergenti. Non basta, solo, cercare di sviluppare l’apprendimento
nelle/delle organizzazioni, anzittutto bisogna insistere sulle modalità
pratiche attraverso le quali è possibile spostare energie dalla ripetitività dei
comportamenti lavorativi e organizzativi verso la consapevolezza dei
comportamenti stessi da parte degli attori, in funzione degli interessi degli
utenti finali. La riflessività è, in fin dei conti, una funzione posta allo snodo
tra il manifestarsi (spesso tacito e irriflesso) delle pratiche, da un lato, e i
momenti dell’apprendimento e della sedimentazione delle competenze,
dall’altro lato.
La riflessività stimola l'attenzione vigile e costante sulle premesse mentali,
sulle routine operative standard, sulle pratiche lavorative e organizzative
consolidate, favorendone una continua messa in discussione. Quest’ultima
premessa invera l’apprendimento individuale e collettivo, basilare per
promuovere percorsi di cambiamento consapevoli e condivisi, necessari per
fronteggiare i presupposti su cui si fonda una società che mutua e si evolve
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velocemente, e che trascina con sé storie di vita che esigono nuovi servizi e
risposte efficaci e sempre più specifiche, rispetto a problemi sempre più
eterogenei e complessi. Questo comporta l’acquisione di un habitus di
ricerca continuo sostenuto da un atteggiamento riflessivo, critico e
consapevole, sul proprio “saper essere” e “saper fare”, che permette di stare
al passo e di operare professionalmente alla luce dei principi e degli scopi
propri del Servizio Sociale.
Nel contesto organizzativo spesso il routinario, l'erogazione immediata di
prestazioni é affrontato “pragmaticamente”, per le ristrettezze dei tempi e le
pressioni esercitate dalle “emergenze”. Queste ultime sono ritenute e vissute
come prioritarie, e ciò comporta il rischio di condizionare e impoverire la
riflessività nell'organizzazione del tempo di lavoro degli stessi assistenti
sociali. E' in una logica “riparativa e contenitiva” singolare che il Servizio
sociale rischia di arenarsi. Quello che é davvero necessario per il Servizio
sociale in generale e per gli assistenti sociali in particolare, é un lavoro sulle
premesse mentali, un ri-orientare la propria professionalità, che chiama in
causa, pur a diversi livelli di responsabilità, tutti gli individui e che consenta
che le aspettative e la realizzazione del benessere trovino una giusta
esplicazione. Da quanto emerge anche dal Rapporto sul lavoro e la
professione di assistente sociale, redatto dalle assistenti sociali dell’ASL n°
4 di Cosenza, nell'attuale “Società del Rischio” gli assistenti sociali, si
caratterizzano sempre più come esperti delle politiche della vita.
Gli assistenti sociali, al giorno d’oggi, intervengono nella vita quotidiana
delle persone per sostenerle nella costruzione di un originale percorso di vita
a fronte delle incertezze e delle scelte che giorno dopo giorno incontrano.
In un ordine sociale post-tradizionale, pertanto, la costruzione di un dato
intervento sociale è un processo dinamico e riflessivo in itinere, e non già un
processo lineare, univoco, etero-diretto dall’alto verso il basso.
La dimensione della riflessività mette in collegamento ogni singolo sé con
sistemi e dinamiche di portata globale. La dottoressa Nigri, assistente
sociale esperto, nel Rapporto sul lavoro e la professione di assistente
sociale, scrive: “Pensare globalmente e agire localmente”, è oggi nella
società del rischio, l’obiettivo e nel contempo la necessità del Servizio
sociale, chiamato a misurarsi con bisogni storici e cronici ma anche con la
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mancanza di “senso” così diffusa tra gli individui della società del rischio242.
Il Servizio Sociale si configura come una professione in fieri il cui sapere va
oltre alla conoscenza come obiettivo, perchè si tratta di un sapere finalizzato
all’acquisizione di strumenti analitici, descrittivi ed esplicativi dei continui
mutamenti della realtà sociale, orientati all’individuazione di strategie di
intervento sostenibili nelle situazioni problematiche sia di carattere
preventivo che emergenziale. La professione di Assistente Sociale, situa la
sua ragion d’essere nella capacità di rompere vecchi steccati ideologici, di
smobilitare vecchie rigidità burocratiche, di produrre innovazioni
istituzionali, di introdurre nuove flessibilità nei servizi di Welfare.
Per le figure professionali in oggetto, fermarsi a riflettere per individuare nel
fluire del senso e dell'esistenza, il rapporto con se stessi e con gli altri, vale a
dire il senso non definitivo ma cambiante di volta in volta, del proprio
vissuto, diventa un'imprescindibile necessità epistemologica essenzialmente
etica, che sostanzia fortemente ogni intervento sociale.
La soggettività risulta pertanto un fattore fondamentale, il mondo emotivo e
il particolare rapporto esistenziale con l'utenza, incidono in forme varie e
complesse, sulle modalità relazionali che si instaurano, nelle diverse
funzioni professionali con gli utenti.
Mettere a fuoco la propria soggettività, attraverso momenti condivisi e
partecipati di confronto, aumentare la consapevolezza sui propri conflitti e
desideri, aiuta a conoscere meglio il personale modo di porsi agli utenti, e
quindi ad interiorizzare una modalità di accettazione, che costituisce il
primo passo per poterne recepire i messaggi, per decodificarne i
comportamenti, per sorreggere nei momenti di difficoltà.
L’obiettivo prioritario della ricerca, dunque, è quello di rispondere ad un
interrogativo principe, ovvero: “in che modo l’atteggiamento riflessivo
qualifica la professionalità dell’assistente sociale e che impatto ha sul suo
operare e nel contesto organizzativo in cui opera”. Questo interrogativo è
diretto a fare luce circa la consapevolezza, negli assistenti sociali, del ruolo
della riflessività nel loro lavoro quotidiniano e rispetto al contesto
organizzativo di cui si è parte. A tal fine è altrettanto importante indagare
242I° Rapporto sul lavoro e la professione di Assistente Sociale nell’Asl N.4., 2007.,Azienda sanitaria n°4. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: www.as4.cosenza.it/as4/download/Rapporto-sul-lavoro-e-la-professione-di-assistente-sociale-AS4.pdf > [Data di accesso: 11/03/2010].
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sui metodi e sugli strumenti utilizzati dagli assistenti sociali per attivare
percorsi riflessivi; sul significato che la riflessività riveste nelle pratiche
lavorative e organizzative messe in atto e sulle percezioni che si hanno di
essa. L’intervista (semi-strutturata) è stata elaborata alla luce di tre macro-
aree: la riflessività, l’apprendimento organizzativo e le pratiche riflessive.
Queste ultime riprendono temi quali la valutazione, la documentazione
professionale e la formazione permanente, funzionali ad inverare spazi e
momenti di apprendimento di atteggiamenti di riflessività affinchè
l’assistente sociale possa incarnare la figura di “professionista riflessivo”,
nonchè di un professionista che “impari a pensare”. Sempre dal Rapporto
sul lavoro e la professione di assistente sociale dell’Asl di Cosenza, emerge
che per imparare a pensare, è necessario entrare in una situazione di crisi; la
crisi provoca un disagio sia nell’azione che nel pensiero, che l’operatore
sente di dover risolvere. Del resto quello dell’Assistente Sociale è un ruolo
che per sua natura è soggetto a rendere la “crisi” un connotato stabile della
professione. La crisi spinge a pensare in “modo nuovo”, a cambiare
l’approccio mentale alle situazioni problematiche per tentare soluzioni
adeguate243.
Metodo della ricerca: L’Intervista semi-strutturata
L’intervista semistruttrata è la tecnica di indagine adottata. Essa viene
guidata da una scaletta di domande, la quale deve seguire alcuni criteri:
• la sequenza delle domande deve andare dal generale al particolare, per
consentire all’intervistato di addentrarsi gradualmente negli argomenti
dell’intervista;
• la scaletta deve essere internamente coerente: se si decide, ad esempio, di
partire da fatti per raccontare emozioni, tale criterio dovrebbe essere
mantenuto lungo tutta la scaletta e non cambiare senza una ragione precisa;
• la scaletta deve contenere le cosiddette “domande sonda” ossia le
domande che aiutano l’intervistatore a sollecitare un parere nei casi dove
l’intervistato è reticente o non ha sul momento un’opinione strutturata ma
deve crearsela nel corso dell’intervista stessa.
243 Idem
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L’intervista semistruttrata si basa su una “traccia”, ossia un elenco di
argomenti che vengono introdotti dagli intervistatori e sui quali gli
intervistati sono sollecitati a rispondere, a esprimere la propria opinione, ai
fini dell’interpretazione del fenomeno oggetto di indagine, in questo caso la
riflessività. L’utilizzo di queste tecniche di indagine afferisce all’adozione
di un approccio qualitativo244.
I sostenitori della ricerca qualitativa partono dal presupposto che ogni
rappresentazione della realtà è sempre espressione di una costruzione
sociale di senso alla quale partecipano tanto gli attori sociali che il
ricercatore.
L’interesse di quest’ultimo è focalizzato sulla comprensione dei fenomeni
cui perviene a partire dalle rappresentazioni che di questi fenomeni danno i
soggetti direttamente coinvolti, le loro categorie concettuali, le connessioni
che essi propongono. Il ricercatore è interessato a dare ragione di come i
modi di agire, le valutazioni e gli orientamenti culturali e valoriali degli
individui assumono significato in rapporto alla situazione e al contesto in
cui si iscrivono.
I tratti caratteristici dell’analisi qualitativa sono245: mira a cogliere i modi di
comprendere il processo e il lavoro delle diverse persone, riconoscendo e
accettando che questi modi possono essere differenti; il focus è sui processi
e sul rapporto tra questi e i risultati in termini di significati attribuiti dagli
attori; l’attenzione si concentra sul modo in cui i significati vengono
costruiti in relazione alle pratiche; vengono messi al centro i significati che
le persone attribuiscono alle situazioni senza ricondurli a presunti standard
di oggettività, l’approccio qualitativo è riflessivo in relazione alla
soggettività dello stesso professionista che opera la valutazione; esso non
pretende di essere avulso e neutro rispetto alle dimensioni valoriali, che
riconosce come intrinseche nella valutazione e semmai da esplicitare.
La Ricerca empirica è stata svolta su un campione di 15 assistenti sociali,
operanti sia nel settore pubblico che privato, per valutare la presenza
dell’approccio riflessivo e rilevare le rappresentazioni dei concetti di
244 De Rose C., 2004., Che cos’è la ricerca sociale?., Carocci., op.cit. p. 23
245 Fargion S., 2007, Valutare il servizio sociale con metodologie qualitative in Campanini A., La valutazione nel servizio sociale., Roma: Carocci, cit. p. 100
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riflessività, ricerca e identità professionale. Si tratta di operatori in servizio
presso: Servizi Sociali di enti comunali, Centro di Salute Mentale,
Consultorio Familiare, Azienda Sanitaria Locale, Azienda Sanitaria
Provinciale, Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile, Ospedale Civile,
Centro per Disabili Mentali, Centro Socio-Assistenziale di Riabilitazione,
équipe Socio-Educativa, Comunità Terapeutica ed infine Assistente Sociale
Progettista. Lo schema d’intervista adottato è il seguente:
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
Apprendimento organizzativo
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
L’organizzazione favorisce questi momenti?
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
Pratiche riflessive
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Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
La Rilevazione dei dati: la pratica professionale riflessiva
1. Rapporto tra Teoria e Pratica professionale
La società della conoscenza non può che essere una società riflessiva.
Modernità liquida, crisi delle certezze, crisi identitaria, rischio della paura
liquida, individualizzazione e globalizzazione e conseguente aumento del
bisogno di distinzione, identificazione e appartenenza fanno sì che la società
della conoscenza non possa non avvalorare il ruolo della pratica.
Questa è intesa come “contesto epistemologico, fonte per la costruzione di
sapere e conseguente rimessa in discussione della distinzione tra fini e
mezzi...”246. Questo sapere prodotto può divenire oggetto della conoscenza
solo attraverso la riflessione, che permette al professionista di ripercorrere il
proprio operato. Durante il percorso lavorativo è importante analizzare
quelle che definiamo le “nostre” pratiche professionali: in cosa sento di
appartenere ad una data comunità di professionisti, e in cosa invece me ne 246 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 142
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distinguo? E ancora: quali sono le pratiche per me centrali del mio lavoro, e
quali quelle periferiche? Riflettere sulle più moderne teorie sulle comunità
di pratiche ed interrogarsi sugli apprendimenti partecipativi, sui contesti
professionali che permettono di innovare o meno e, ancora interrogarsi sul
particolare modo di frequentare e vivere le comunità professionali e di
lavoro in cui quotidianamente ci imbattiamo: quali modalità di
partecipazione prediligo, scelgo o ancora escludo? Quando durante il mio
lavoro mi sento di applicare procedure, e quando invece mi sento interprete?
In che cosa investo o vorrei investire di più nel mio lavoro, quali traiettorie
di partecipazione prediligo? Queste ed altre sono domande che resteranno
sempre aperte perlomeno per un professionista riflessivo, che tende a
riprogettarsi strada facendo, confrontandosi con attenta curiosità, in ascolto
della propria ed altrui traccia, consapevole della ricerca, della fatica e della
soddisfazione che ogni sorpresa saprà riservargli.
La riflessività connota l’apprendere come momento interiore, essa espone,
inevitabilmente, al dialogo con l’incertezza e con la solitudine, incontri,
peraltro, da cui è impossibile prescindere, se ci si vuole nei fatti, misurare
proprio con l’apprendere.
Il servizio sociale, oggi, necessita di questa competenza in quanto
contrassegnato da:
complessità del contesto dei servizi sociali contraddistinto da paradigmi
eterogenei talvolta conflittuali;
incertezza e unicità della situazione/bisogno rendono la conoscenza
professionale sfuggente ai canoni della razionalità tecnica;
conoscenza professionale che non può essere del tutto pre-esistente all’azione
ma si costruisce in corso d’opera conversando con “la situazione”.
Ed è in quest’ultima accezione che si colloca il concetto di esperienza.
Sono proprio le esperienze professionali che possono essere analizzate per
diventare esse stesse fonte di rinnovamento del proprio modo di pensare e di
vivere il lavoro. Le riflessioni sulla propria professionalità divengono,
dunque, un elemento formativo forte per rinnovare l’azione futura, per dare
nuovo vigore alla propria traiettoria professionale. L’esperienza insegna per
significare l’idea che l’aver conosciuto molte cose e l’esser stato dentro
molte situazioni è utile, nella misura in cui attiva capacità di confronto, di
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classificazione, di giudizio. Serve a poco l’esperienza, se non si è in grado
di trovare grazie ad essa, regole e costanti nei casi della vita. Chi fa
esperienza rinnova il suo punto di vista, nega quanto pensava prima e
conquista un nuovo orizzonte. Per cui e’ importante che essa, attraverso la
riflessione, divenga oggetto di confronto, affinchè possa essere strumento
attraverso il quale promuovere cambiamento condiviso.
Alla domanda quanto conta l’esperienza nel suo lavoro e quanto incidono le
teorie, tutte le figure professionali hanno sottolineato l’importanza che
entrambe rivestono per operare in maniera professionale ed efficace.
“Maggiore è l'esperienza professionale dell'assistente sociale, più è obiettiva
l'individuazione del problema, e migliore è la procedura di intervento che si
mette in pratica. Fare riferimento alle teorie consente di affrontare il lavoro
sociale non solo basandosi sul proprio buon senso, ma favorisce un agire
professionale consapevole.
Le teorie aiutano ad incanalare il proprio lavoro fornendo un inquadramento
generale del problema e garantendo uniformità ed uguaglianza
nell'erogazione dei servizi. All'atto pratico, poi, gli interventi sono sempre
specifici ed individualizzati.” (XV Intervista Vedi Allegato).
Più in generale l’esperienza permette di acquisire la capacità di discernere
meglio i problemi che si presentano, aiuta a gestire la complessità propria
del contesto lavorativo, permettendo al professionista di agire
concretamente e nell’immediatezza, di selezionare e attivare le diverse
risorse professionali, personali e dell’utente, che esprime domande sempre
più informate e specifiche, ed istituzionali, rispetto ad una pluralità di attori
(utente, contesto socio-familiare, figure professionali, ente di appartenenza,
territorio), con maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie
competenze. Attraverso l’esperienza il professionista crea delle
categorie/mappe mentali che gli permettono di collegare, per somiglianze o
similitudini, gli eventi passati a quelli che si presentano, facilitandone
l’individuazione della natura dei problemi espressi. “L’esperienza è il canale
principale dalla quale inconsapevolmente attingiamo il nostro modo di
interpretare e di costruire il problema. Dall’esperienza ho potuto creare dei
modelli/schemi, anzi categorie mentali, attraverso la quale riesco a
categorizzare alcuni comportamenti che mi consentono di comprendere
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meglio l’utente, leggere il suo bisogno, e di connettere più aspetti. Riflettere
sull’esperienza mi rende consapevole dei dubbi che si hanno e delle
inefficienze, che possono riguardare anche le pratiche lavorative. Essa ti
permette di metterti in gioco continuamente permettendoti di migliorare. In
un ambiente di stasi, come quello dell’amministrazione pubblica, di sicuro
la riflessività è un potenziale fattore di innovazione e cambiamento, ma è
molto difficile mettere in discussione la cultura consolidata, che guida
l’operatività dei singoli e li tiene al riparo dall’incertezza.” (I Intervista Vedi
Allegato). L’esperienza permette una immediata individuazione,
comprensione e focalizzazione della situazione, seguita dalla
concretizzazione di un intervento di aiuto mirato, nella consapevolezza che
ogni caso è unico e irripetibile. “Sono entrambi importanti, in quanto le
teorie ti danno indicazioni a livello generale e l’esperienza maturata negli
anni ti fa capire che ogni caso è particolare, veramente individuale e allora
un intervento che può andare bene per una situazione non è efficace per
un’altra. La teoria è tenuta in considerazione come punto di riferimento,
come formazione, come forma mentis però poi è l’esperienza che ti aiuta
nell’immediatezza ad individuare un problema. Io lavoro con i minori e ho
rilevato che negli ultimi anni il poblema dell’autismo è in aumento e, se
non avessi avuto casi di bambini autistici esaminati in passato, di fronte a
casi simili avrei avuto enormi difficoltà. Teoricamente so che cos’è
l’autismo, so in che cosa consiste, che cosa comporta, conosco i tipici fattori
comportamentali, ma grazie all’esperienza, sono in grado di individuare
subito se si tratta di un caso di autismo o meno. Teoria e pratica sono
necessariamente inscindibili.” (IV Intervista Vedi Allegato).
L’esperienza diventa un campo in cui la riflessività, intesa come una lente di
lettura, permette al professionista di rapportarsi con il personale mondo
interiore – fatto di emozioni, sensazioni ma, anche di timori e ansie, che
interagiscono nell’espletamento del lavoro, nella lettura del problema e
nell’attivazione delle risorse e delle competenze professionali – e del mondo
altrui, ovvero di colui che del nostro operato ne è utente finale.
“Emozioni e sentimenti fanno parte dell'assistente sociale e anche
dell'utente, l'importante è esserne consapevoli. E' bene riconoscere ciò che ci
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crea fastidio, rabbia, tristezza ma anche gioia per poter agire più
consapevolmente. L'assistente sociale dovrebbe avere di base una
propensione all'aiuto verso i bisognosi che gli consenta di creare un rapporto
significativo con l'utente, basato in particolare su una forte capacità di
ascolto empatico. L'esperienza aiuta a gestire le emozioni per rendere la
capacità di comprendere i bisogni più oggettiva e meno legata all'emotività.”
(XV Intervista Vedi allegato).
Il gruppo di lavoro, attraverso momenti partecipati di riflessività, ripercorre
l'esperienza maturata e acquisisce la consapevolezza delle dinamiche alla
base dei processi, creando nuove strade percorribili di apprendimento.
E’ molto importante, dunque, che l’esperienza sia condivisa e negoziata.
Negoziare significa principalmente collaborare al fine di generare risorse e
rafforzare le relazioni.
Imparare a negoziare con razionalità ed efficacia diventa la strada maestra
per trasformare ogni conflitto in opportunità di sviluppo personale,
organizzativo e sociale.
La premessa, dunque, risiede in uno scambio/confronto ricco e fecondo.
2. Gestire l’incertezza
“Oggi il valore dello sviluppo si identifica sempre più nelle scelte condivise,
perché ogni occasione di incontro/scontro è un momento di confronto, di
collaborazione, ma soprattutto di crescita, per sviluppare le competenze e
valorizzare le individualità. “Esso riveste un’importanza fondamentale, il
confronto e scontro, alcune volte, di fatti permette la costante messa in
discussione della routine, per cui si impara agendo, dove diviene
fondamentale il passaggio dalle conoscenze tacite individuali a quelle
esplicite che divengono patrimonio comune.”(IV Intervista Vedi Allegato).
Il confronto richiede che i singoli interlocutori interagiscano nella
consapevolezza di dipendere l’uno dall’altro e di condividere gli stessi
obiettivi e gli stessi compiti. Ognuno svolge un ruolo specifico e
riconosciuto. Il ruolo rappresenta la parte assegnata a ciascun membro in
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funzione del riconoscimento delle sue competenze e capacità e, racchiude
anche l'insieme dei comportamenti che ci si attende da chi occupa una certa
posizione all'interno del gruppo stesso. Fondamentale per un efficace
sistema di ruoli è la qualità della comunicazione interna al gruppo stesso
perché un suo corretto funzionamento permette che si realizzi
corrispondenza tra attese e richieste dei singoli e prestazioni e
comportamenti del gruppo. La comunicazione è il processo chiave che
permette il funzionamento del lavoro di gruppo poiché permette lo scambio
di informazioni finalizzato al raggiungimento dei risultati. Rappresentativo
di quanto appena argomentato è, anche, il concetto di clima. Esso consiste
nell'insieme degli elementi, delle opinioni, delle percezioni dei singoli
membri rispetto alla qualità dell'ambiente del gruppo e della sua atmosfera.
Una buona percezione del clima si attua quando c'è un giusto sostegno e
calore nel gruppo, i ruoli dei singoli sono riconosciuti e valorizzati, la
comunicazione è aperta, chiara e fornisce feedback accettabili sui
comportamenti delle persone e sui risultati conseguiti.
Una leadership partecipativa e gli obiettivi opportunamente calibrati alle
capacità del gruppo sono tra i fattori che maggiormente influenzano il clima.
Molto dipende da come il lavoratore interpreta e assume il proprio ruolo
entro quella specifica comunità. In primo luogo c'è da sottolineare che le
percezioni degli individui derivano dall'esperienza accumulata sul proprio
luogo di lavoro. La persona si crea una mappa del modo in cui il suo
ambiente funziona, al fine di adottare il comportamento più consono alla
situazione. “Dal confronto sull'agire professionale si produce una crescita
personale e professionale dei soggetti coinvolti perché si possono
condividere modi diversi di vedere lo stesso problema/fenomeno e quindi
apprendere nuovi strumenti e trovare soluzioni innovative. Il confronto
costruttivo fornisce nuovi spunti per riflettere sul proprio operato.
Affrontare problematiche concrete derivate dal lavoro quotidiano, riflettere
insieme sull'evoluzione dei fenomeni in senso ampio o sulle politiche sociali
giova alla crescita personale e professionale dei “partecipanti”.Qualsiasi
organizzazione dovrebbe garantire questi momenti, formativi e/o
informativi, perché darebbero qualità all'organizzazione stessa. Sarebbero
utili da un lato per “raccogliere” il sapere professionale e dall'altro per
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creare una squadra di operatori motivati e capaci di integrarsi
proficuamente.” (XV Intervista Vedi Allegato).
“Il confronto permette una continua messa in discussione dell’operato. Ti
cito ad esempio i brain storming che facciamo quando si cerca una idea
progettuale “innovativa” in risposta ad un bando, non è raro che l’idea
iniziale venga stravolta e si passi a tutt’altro campo di intervento. Il
confronto, dunque, avviene su ogni fase progettuale: dalla ideazione alla
rendicontazione e chiusura del progetto. La metodologia utilizzata
comprende le classiche riunioni face to face, per motivi logistici spesso
siamo in conference calling e non disdegnamo ovviamente i nuovi canali di
comunicazione. La giovane età dei gruppi di lavoro fortunatamente permette
anche questo. E non abbiamo alcun vincolo organizzativo. Lo scontro,
sempre amichevole, ci ha sempre portato alle migliori decisioni, ad oggi
stiamo crescendo insieme in un progetto comune ed unico di lavoro nei
confronti della comunità. Le conoscenze individuali sono sempre depositate
in un patrimonio comune. “ (IX Intervista Vedi Allegato).
In alcune realtà lavorative delle strutture pubbliche, il confronto non è una
pratica codificata e consuetudinaria e questo dipende, soprattutto, dal modo
in cui i membri appartenenti, “sentono” il proprio lavoro, ripercuotendosi
negativamente non solo nell’apertura all’utilizzo di strumenti riflessivi,
quali la valutazione professionale e/o la supervisione, ma anche sulle
prestazioni erogate e sul servizio stesso.
“Per me è importante confrontarsi con gli altri. Ad esempio, alcune volte
anche le osservazioni dei tirocinanti mi hanno fatto riflettere su alcune cose,
però, nella mia esperienza non esiste il confronto perchè subentrano le
invidie, gelosie, competizioni e tutto ciò è indicatore di ignoranza e di
arretratezza e soprattutto questo si riflette e non aiuta nel nostro lavoro.
Tanti anni fa feci una proprosta, nel nostro ufficio, dicendo che avevavmo
bisogno di una supervisione, ma si sono opposte tutte, perchè non si è
accettato il fatto che una figura esterna e per di più una nostra collega,
assistente sociale, potesse aiutarci. Inoltre subentra anche il fatto che si ha
paura di essere giudicate sul proprio operato. Questo significa che oltre ad
essere ingoranti non si conferisce importanza al lavoro che si svolge. Molte
di noi non volevano fare le assistenti sociali, ma capitò il periodo giusto, i
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diplomini e molte intrapresero questa strada, per cui se uno fa questo lavoro
per fare un lavoro, le conseguenze sono queste e tante cose non interessano.
Io al contrario credo nella supervisione e nella sua utilità, perchè nella
maggior parte delle volte siamo prese dalle urgenze e da altre cose e alcune
di queste ci sfuggono.” (XIII Intervista vedi Allegato).
“La supervisione è un sistema di pensiero-meta sull’azione professionale,
uno spazio e un tempo di sospensione, dove ritrovare, attraverso la
riflessione guidata da un esperto esterno all’organizzazione, una distanza
equilibrata dall’azione, per analizzare con lucidità affettiva sia la
dimensione emotiva, sia la dimensione corretta, con spirito critico e di
ricerca”. (Allegri, 2000, p.35). L’espressione lucidità affettiva indica la
ricerca costante di un equilibrio consapevole tra razionalità ed emozione, tra
pensiero e azione, tra capacità progettuale e di intervento e capacità
riflessiva. La supervisione è una pratica agita solo in una struttura su
quindici, tra quelle nelle quali sono state effettuate le interviste.
“I momenti di confronto coincidono con la riunione terapeutica e
organizzativa. Nella prima siamo accompagnati dalla presenza di un
supervisore esterno, quindi completamente avulso dalla realtà lavorativa
della comunita sia interna che esterna. Gli esiti di questi incontri fungono da
importanti punti di riferimento, perchè i punti deboli diventano punti di
forza, e ciò ti rende consapevole di quello che è il tuo limite e di quello su
cui devi andare ancora a lavorare.”(XII Intervista Vedi Allegato).
La valutazione professionale, invece, è associata ai momenti di confronto su
quanto svolto con le altre figure professionali, in sede di riunioni di équipe,
o con gli organi direttivi e/o con i coordinatori di servizio.
“La valutazione è fraintesa e scambiata per una mera elencazione di attività,
senza che si possa entrare nel merito dell’efficacia e dell’appropriatezza
delle prestazioni a cura delle assistenti sociali.”(X Intervista Vedi Allegato).
“La valutazione professionale avviene giornalmente, non sono ovviamente
pratiche codificate, ma consistono piuttosto in attività consuetudinarie, da
cui non scaturisce la realizzazione di griglie valutative vere e proprie, il tutto
rimane cioè in un ambito di colloquialità, e quindi attraverso attività verbale,
non codificata.”(XIV Intervista Vedi Allegato).
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La valutazione professionale è fondamentale per gestire la complessità
attuale e i cambiamenti sociali che rendono sempre più difficoltoso
sviluppare piani a lungo termine, in questa direzione, si sottolinea la
necessità che le organizzazioni e gli assistenti sociali documentino l’impatto
dei loro servizi. “La valutazione prende in esame la nostra efficacia e ci
aiuta a migliorarla; facilita la crescita della nostra responsabilità rispetto agli
utenti e ai clienti, aumenta le nostre conoscenze, evidenziandone i limiti, e
ci aiuta a sviluppare nuovi modi di lavorare e di erogare servizi.” Lishman
(1998, p.101, trad.nostra)247.
Molto dipende anche dagli organi direzionali e dalla cultura consolidata. Un
ambiente che basa la sua ragion d’essere nel confronto e nell’apertura a
momenti di decostruzione, valutazione e analisi sugli impatti degli interventi
attuati, sui dubbi, sulle ansie – generate dalla rapidità dei cambiamenti –
sulle logiche operative e interpretative messe in atto, favorisce la riflessività,
mediante la quale il gruppo gestisce, in una logica concertativa e
partecipativa, l’incertezza.
Accettando e indagando collettivamente l’incertezza è possibile convertirla
in occasione di apprendimento funzionale alla crescita professionale.
“L'incertezza rappresenta sia un rischio che un'opportunità e può
potenzialmente ridurre o accrescere il valore dell’attività che andiamo a
svolgere. Nello stesso apprendimento riflessivo, si utilizzano l’incertezza e
gli errori per riuscire a comprendere il proprio agire, o comunque nel
quotidiano a superare gli imprevisti.
Basti pensare alla stessa imprevedibilità nel servizio sociale, come carattere
dinamico irripetibile, plurale e interdipendente degli scambi relazionali, che
riduce i margini di previsione degli esiti e delle conseguenze
dell’intervento”. ( IV Intervista Vedi Alegato).
L’apprendimento non può rimanere un processo che resta confinato al
singolo individuo, in quanto questo perpetuerebbe un clima statico e
gravemente demotivato e inflessibile. “L’organizzazione non favorisce
momenti di confronto, ma non li contrasta. L’amministrazione pubblica
confida nella “naturale demotivazione” e svilimento della “meglio gioventù
247 Lishman, J.(1999) Introduzione alla valutazione, in: Shaw e J.Lishman, La valutazione nel lavorosociale, Erickson, Trento, p. 101 citato in Campanini A., 2006., La valutazione nel servizio sociale. [online]. Disponibile
su:<http://www.oasliguria.org/public/oas2/index.php?mod=08_Download&downloadfile=Modulistica%20Generale/Campanini.pdf&mode=go. > [Data di accesso: 22/02/2010].
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professionale”. E questo purtroppo avviene. Sempre. Quasi sempre. I
contesti lavorativi della pubblica amministrazione sono per loro di natura
diffidenti e restii ad ogni cambiamento. Tendono inoltre ad attivare una
condotta di lieve o forte resistenza verso atteggiamenti professionali non
riconducibili all’ordinarietà e a tutto ciò che percepiscono come
consuetudinario.” (X Intervista Vedi Allegato).
Dalla ricerca emergono alcuni dati fondamentali che è possibile riscontrare
in tutte le interviste condotte:
• la conoscenza circa l’approccio riflessivo è scarsa ma la competenza
riflessiva è reputata essenziale nello svolgimento dell’attività propria
dell’assistente sociale;
• l’esperienza e la teoria sono entrambi importanti, ma è la prima che
permettere di “fare” il lavoro;
• la supervisione e la valutazione professionale sono pratiche riflessive non
consolidate, nonostante venga riconosciuta la loro necessità;
• le possibilità di incentivare reali percorsi di apprendimento dipende
molto dalla cultura e dal clima organizzativo consolidato. Si riscontra una
distinzione tra strutture pubbliche e private.
3. “L’Assistente Sociale Riflessivo”
La riflessività viene intesa come elemento inscindibile del fare, proprio
dell’assistente sociale, che deve quotidianamente scontrarsi e relazionarsi
con situazioni che esigono letture sistemiche e risposte specifiche, in un
contesto mutevole ed incerto che comporta inevitabilmente, da parte del
professionista, una continua messa in gioco delle conoscenze e delle
competenze professionali possedute, ma che può anche da una parte,
divenire causa di atteggiamenti di chiusura nelle routine operative, dalla
quale si attivano risposte standard e poco flessibili ai bisogni espressi.
“Sicuramente la riflessività nella nostra professione è un atteggiamento
importante e utile al fine di agire in maniera opportuna sia nel lavoro con
l’utente, che nel lavoro di équipe. Tuttavia spesso ci troviamo a dover agire
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in contesti burocratici, organizzativi che difficilmente lasciano del tempo a
disposizione per l’attività riflessiva, nel senso che nei servizi spesso si è
portati più allo svolgimento meccanico delle mansioni piuttosto che al
ragionamento e alla riflessione sulle nostre azioni e sensazioni, del resto
siamo spesso invischiate in organizzazioni prettamente burocratizzate.”(vedi
Allegato XIV Intervista). Attraverso la riflessività il professionista, non
agisce impulsivamente ed emotivamente, o al contrario in maniera
burocratica e meccanica, in quanto pone come oggetto del pensiero i propri
stati d’animo, le proprie emozioni e sensazioni, i propri shemi mentali e
interpretativi, acquisendone consapevolezza e autocoscienza.
“La stessa riflessività diventa basilare allorché l’assistente sociale ad
esempio, che ha da poco concluso un colloquio, deve tessere i vari punti che
ha nella testa, dalla sovrapposizione di elementi di analisi del caso,
impressioni, risonanze emotive, nessi con altre situazioni, con le
problematiche relative al caso, e con l’esperienza professionale. Tutto ciò,
permette di prendere decisioni consapevoli, in quanto fondate su una
conoscenza di ampio respiro, e per evitare risposte di routine, burocratiche o
rituali.” (Vedi Allegato, IV Intervista).
La consapevolezza promossa attraverso la riflessività, rende più responsabili
e diviene potenziale strumento che evita “agiti” suggeriti dalla ripetitività.
Essa permette di porre attenzione alla pratica, all’operatività.
La riflessività promuove un “professionista riflessivo” capace di dare senso
al proprio lavoro anche in presenza delle frustrazioni legate all’opacità,
all’inerzia, ai tempi lunghi della Pubblica Amministrazione, questa è
necessaria per riacquisire il senso e la direzione di marcia del proprio
lavoro, a restituire motivazione e capacità di iniziativa. E’attraverso la
riflessività, inverata da pratiche valutative, auto-valutative e formative, che è
possibile pianificare il lavoro e agire concretamente. Si rileva, inoltre,
l’importanza che la documentazione professionale assume rispetto al lavoro
proprio degli operatori del sociale, questa intesa come momento generatore
di riflessività e, potenziale canale auto-formativo. L'autobiografia è uno
strumento di ricerca e riflessione, per chi svolge una professione d'aiuto e ha
bisogno di riscoprirne senso e modalità, ricercando le radici di una
motivazione nelle proprie immagini ed esperienze; anche perché
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approfondire la storia del personale rapporto con il lavoro d'aiuto, permette
di capire quali sono le premesse in base alle quali si agisce, di integrare
esperienza e sapere, per favorire una conoscenza meta-cognitiva. Rivedere e
ripensare la propria storia, da un'angolazione diversa, favorisce la messa in
discussione, delle proprie modalità relazionali, perché capire meglio la
propria storia di vita, ricostruirla in un nuovo montaggio, che tenga conto di
tutte le scene girate, aiuta a riappropriarsi, anche di ciò che ne ha distorto lo
sviluppo, per indirizzarlo, verso mete più realistiche ed autentiche. “Scrivere
è il tallone d’Achille della professione sociale.” (X Intervista vedi Allegato).
“Scrivere una relazione sociale, registrare una cartella, o stilare il diario
giornaliero, diviene in primo luogo una necessità, perché legata all’ansia del
fare, tipica del lavoro sociale che rischia di sommergere aspetti che la
scrittura consentirebbe di mettere a fuoco. L’operatore scrive per poter
affrontare nella realtà quotidiana situazioni complesse, da cui poter
apprendere e di conseguenza forma se stesso su quello che svolge
quotidianamente, ovvero l’attività di assistente sociale.” (IV Intervista Vedi
Allegato). Molto importante, però, è soffermarsi sul ruolo che
l’organizzazione gioca nel promuovere setting riflessivi.
4. L’apprendimento organizzativo. Settore Pubblico e settore Privato
Nella maggior parte dei casi analizzati, nonché nelle realtà dei servizi
pubblici, l’atteggiamento riflessivo è assunto in quanto necessario per
gestire il proprio lavoro ma, non ci sono specifici strumenti che la
sostengono, quali l’autovalutazione, la valutazione professionale e la
supervisione, in quanto non rappresentano pratiche lavorative e riflessive
riconosciute e accreditate dall’organizzazione.
“Nel nostro servizio non sono previsti precisi strumenti e metodi
“riflessivi”, bensì questo, nel mio caso, si traduce in un’attività individuale
che raramente riesco ad intraprendere con altri colleghi soprattutto se questi
hanno un’altra formazione professionale, mi riferisco ad esempio a figure
come quella dei medici e degli psicologi.” (Vedi Allegato XIV Intervista).
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Nella realtà emergono resistenze personali e organizzative. Partendo da
questa premessa occorre fare una disinzione tra settore pubblico e privato.
E’ soprattutto nel pubblico che si incontrano tali resistenze, anziché nel
privato, nel quale, e secondo quanto dalla ricerca emerge con evidenza,
l’apertura al cambiamento, favorevole all’innovazione e alla conformità
continua a quelli che sono gli standard di qualità delle prestazioni e servizi
erogati, rappresenta la condizione necessaria per la sopravvivenza stessa
della struttura. In riferimento a quanto detto, incentivare gli apprendimenti
individuali e collettivi, inverando momenti di confronto continuo,
applicando pratiche valutative sull’operato e moduli rispondenti a parametri
di qualità, ne costituiscono il motore funzionante. La stessa formazione dei
dipendenti deve essere continua e aggiornata. L’aggiornamento e la
formazione continua contengono sempre, almeno potenzialmente, una carica
di cambiamento del modo in cui si realizzano le attività professionali e del
profilo stesso delle professioni. Essi possono sviluppare questa carica solo
se si inseriscono in un contesto abituato a gestire il cambiamento, a produrre
nuove conoscenze, ad andare oltre le proprie esperienze, anche di successo,
superando quegli equilibri magari validi ieri ma che possono essere deleterei
domani. Il concetto di formazione continua deve essere assolutamente
inserito in un contesto organizzativo disposto all’innovazione, e al
miglioramento delle proprie prestazioni, la volontà positiva insita nei
processi di formazione continua deve tradursi in volontà personale,
professionale ed organizzativa.
E’ nel pubblico che sono maggiormente rilevabili resistenze interne alla
professione. Queste, determinate da più fattori, che sono probabilmente da
addebitare alla sfiducia verso il cambiamento, contraddittoria in una
professione che, invece, basa la sua ragione d’essere sul cambiamento, da
una stanchezza generazionale, quasi una risacca, un non aspettarsi niente di
nuovo e buono nonostante gli sforzi profusi quotidianamente nel lavoro e
dall’insofferenza e timore per eventuali richieste di prestazioni avvertite
come “astruse, improprie, estranee al proprium storico della professione”,
soprattutto lontane dalla propria consueta attività di lavoro con l’utente, al
riparo e/o nella ristrettezza delle mura del servizio.
Il lavoro degli Assistenti Sociali, è strettamente collegato al contesto nel
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quale si svolge. Etimologicamente, il termine contesto deriva dal latino
contextus: la valenza sostantivale del morfema, ben coglie il significato di
“canovaccio sociale”, rete dei punti connessi, all’interno e all’esterno della
quale gli Assistenti Sociali intervengono, consapevoli che, se è in questa
fitta trama che si sviluppano e attecchiscono disagi e bisogni, è anche in
essa che vanno pensate strategie, ricercati, rivalutati e potenziati mezzi e
risorse necessarie alla fuoriuscita dalla morsa del malessere affinché
l’intervento professionale, la relazione d’aiuto, muova al cambiamento.
E’ evidente che i contesti e le persone cambiano continuamente attraverso
l’adozione di usi e stili di vita nuovi. Mutano, di conseguenza, bisogni
materiali ed immateriali degli individui e diviene quindi strategico
individuare le metodologie del lavoro sociale che, di volta in volta,
consentono alle persone di attivare adeguati percorsi di risposta ad essi.
Un contesto organizzativo chiuso non favorisce la crescita dei suoi membri,
i quali in uno stato di abbandono accrescono incertezza, demotivazione,
alienazione nel proprio lavoro, e dalla quale dipende un’accettazione passiva
e acritica della stati generata ed una routinarietà dell’operatività.
Un forte impedimento a tali cambiamenti è rappresentato, anche, dalla
mancanza di potere della professione, che condiziona il cambiamento nei
servizi in cui gli assistenti sociali operano, anche quando sono in palese
contraddizione con l’etica e la filosofia della professione. Lo stesso lavoro
degli assistenti sociali raramente viene considerato un servizio di
importanza primaria, perché la sua utilità non è mai del tutto chiara,
soprattutto a coloro che ne rappresentano i principali stakeholders.
In generale le definizioni e funzioni attribuite alla riflessività, dagli
intervistati, esprimono un elevato grado di coscienza sulla sua importanza,
non solo per la definizione di un progetto di aiuto efficace ed efficiente, ma
anche per interrogarsi costantemente e criticamente sul significato e sugli
esiti del proprio lavoro, sul proprio ruolo, sul contesto organizzativo e
sociale di cui si è parte, e questo incide e si riflette sulla identità
professionale.
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5. Habitus riflessivo e Formazione permanente
Le assistenti sociali affermano che la riflessività influisce in maniera
considerevole sulle competenze metodologiche e relazionali. Queste
corrispondono alle dimensioni giudicate strategiche nella costruzione
identitaria; perciò la riflessività assume un ruolo importante nella
definizione del sé professionale. Il processo di definizione identitaria si
sostanzia non solo di elementi concreti e legati alla prassi ma anche di
dimensioni remote come le motivazioni e i valori; perciò la riflessività
dovrebbe assumere a proprio oggetto non solo questioni tecnico-pratiche ma
anche altre dimensioni non meno significative.
La conoscenza - quella che conta per l’identità professionale - è per lo più
implicita, ossia appresa attraverso pratiche quotidiane acquisite in modo
spesso automatico. E’ proprio nel rendere esplicito ciò che è implicito che
risiede il valore della riflessione possibile in ambito formativo sulla propria
professionalità: una riflessione che restituisca significati al professionista
rendendolo consapevole anche delle sue premesse. Imparare sempre: una
necessità e un obiettivo delle moderne società.
Non si può affrontare la complessità del vivere quotidiano, il rischio del
cambiamento, la pluralità di ruoli a cui donne e uomini devono rispondere,
la velocità dei cambiamenti e la molteplicità delle transizioni, senza un
lavoro costante di riflessività e di apprendimento.
Imparare sempre per orientarsi, per scegliere i propri percorsi, per usare le
informazioni, per sviluppare le competenze necessarie nei diversi contesti,
nelle diverse carriere e ruoli, nelle varie stagioni della vita, per sviluppare
un pensiero creativo e responsabile. In riferimento al concetto di formazione
permanente, tutti gli intervistati hanno espresso l’importanza che essa
riveste ai fini dell’efficacia ed efficienza dell’intervento professionale.
“Come già definito, ho necessità di tali attività di riflessione, di un percorso
formativo costante, di attività di valutazione, e gli esiti di queste attività mi
portano ad un continuo mettere in discussione me stesso come
professionista, quindi dopo una parziale se pur normale sensazione di
disorientamento, non possono che esserci ripercussioni in positivo.”(IV
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Intervista vedi allegato). “Nel mio lavoro è indispensabile aggiornarmi
continuamente. Questo è un campo di addestramento dove c’è sempre da
imparare e metterti in gioco.” (Vedi Allegato VII Intervista).
“Il concetto di formazione permanente è fondamentale per vedere e ri-
ponderare gli interventi e le metodologie utilizzate in passato.” (vedi
Allegato IX Intervista). La formazione continua, dunque, è indispensabile
per operare nella mutevolezza che caratterizza le diverse situazioni che si
affrontano e il contesto nel quale si agisce, essa promuove momenti deputati
alla riflessione sulle impostazioni mentali e operative, ma attiva anche uno
spazio vivace e interattivo di scambio di esperienze.
La maggior parte dei corsi di aggiornamento sono organizzati dall’università
o dall’ordine professionale, raramente l’organizzazione, soprattutto quella
pubblica si occupa della formazione dei propri operatori e, la partecipazione
ad essi dipende molto dalla disponibilità di tempo. E’ emerso, inoltre, che in
alcuni casi, la non partecipazione, ai corsi di aggiornamento e/o seminari,
dipenda anche da una crescente demotivazione, in alcuni professionisti,
dovuta al fatto che non si riscontra, poi, una risposta effettiva a quelli che
sono i bisogni, i problemi espressi che caratterizzano il lavoro quotidiano.
“Io ho bisogno di imparare continuamente, anche dopo trent’anni che opero,
ma, penso che i corsi, i seminari non servino a nulla, in quanto non ti
aiutano poi a gestire la quotidianità e la realtà. Inoltre ritengo che chi fa i
seminari debba operare in questo campo, altrimenti sarebbe uno che parla di
un qualcosa che ignora, a lui estraneo. Una volta che noi portiamo le nostre
esperienze, anche negative, in merito ad esempio all’organizzazione di cui
siamo membri, si dovrebbe poi, attivare una rete, che ci permetta di
migliorare le cose e le esperienze negative che riportiamo. Che ci vado a
fare se quello che poi espongo e recepiscono rimane lì, lettera morta.
L’unica cosa positiva e che si attiva un momento in cui si scambiano le
diverse esperienze. Il corso di formazione deve dare, ma deve anche aiutare
chi vi partecipa a poter affrontare le problematiche riscontrate per migliorare
il servizio e l’operato. Io tutto ciò non l’ho mai riscontrato.” (Vedi Allegato
XII Intervista). Di conseguenza i corsi di aggiornamento e più in generale il
concetto di formazione permanente devono investire ed insistere
nell’incentivazione di un rapporto dialettico e costruttivo tra teoria e realtà,
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e divenire spazi nei quali entrambi possano incontrarsi, dialogare e
decostruirsi vicendevolmente affinchè si possano “formare” soggetti più
responsabili e in grado di agire consapevolmente e professionalmente,
accompagnandoli ad “accompagnare”. La formazione permanente ha
pertanto il compito arduo, fra gli altri, di rinnovare e recuperare le
dimensioni di professione e di servizio. Non ci può essere una vera qualità
della formazione ed un’ottimizzazione dei percorsi formativi se non si ha
senso di sé, autostima e fiducia in se stessi e, il rischio è quanto mai forte se
alla carenza di iniziative formative si aggiungono la scarsa diffusione delle
pratiche valutative applicate agli interventi dagli assistenti sociali e il
mancato radicamento dell’abitudine alla continua riflessione sulla prassi
attuata in un’ottica prossima a quella della ricerca azione.
La situazione in cui le assistenti sociali agiscono richiede lo sviluppo di un
habitus riflessivo, in quanto “la pratica si muove non in quel terreno stabile,
elevato, dove i professionisti potrebbero far uso di quelle teorie e tecniche
fondate sulla ricerca, ma per lo più in quella pianura paludosa ove le
situazioni sono grovigli fuorvianti che non si prestano a soluzioni
tecniche”248.
Lo sviluppo di un habitus riflessivo rappresenta una grande opportunità per
le assistenti sociali. L’adesione convinta al paradigma della riflessività dà
all’assistente sociale la possibilità di migliorare l’efficacia tecnica e
metodologica del suo intervento e al tempo stesso gli offre una risorsa
preziosa per recuperare pienamente la sua funzione:
lo sviluppo di un habitus riflessivo rappresenta una risorsa per consolidare la
dimensione collaborativa nel lavoro fra assistenti sociali. La competenza riflessiva
autenticamente intesa implica l’assunzione di un atteggiamento di apertura e di rimessa
in discussione delle proprie azioni e perciò rappresenta in sé una condizione facilitante
la costruzione di una cultura aperta alla condivisione. Considerare l’investimento sulla
riflessione come compito esclusivamente individuale tradisce il suo significato e rischia
di ingenerare autorefenzialità;
lo sviluppo di un habitus riflessivo rappresenta una risorsa per l’innovazione.
Correttamente inteso l’approccio riflessivo porta ben al di là della semplice rottura
rispetto agli schemi tradizionali e al sapere pre-costituito in quanto contiene un enorme
248 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 340
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potenziale di cambiamento dentro le organizzazioni che occorre avere il coraggio di
assumere.
Il questa logica assume senso la relazione tra riflessività e habitus di ricerca,
per superare questa situazione di impasse.
Sviluppare una pratica riflessiva consente di declinare la ricerca
“dall’interno” della propria professione assumendola come orizzonte di
senso e di significato nella gestione della quotidianità; la ricerca si radica
nella pratica e smette di essere una scelta tecnica divenendo espressione di
quel sapere pratico che compenetra l’identità professionale della figura
professionale in oggetto.
La riflessività come forma mentis, poggia sulla capacità di interrogare se
stessi e il proprio agire, di costruire risposte documentate e disponibili per il
confronto, di accostare il compito in modo dinamico senza con ciò negare il
riferimento ad alcuni valori principali cui ancorare il senso delle proprie
azioni. “L'atteggiamento curioso dell'assistente sociale permette
l'accrescimento del proprio sapere teorico e pratico. Le attività di ricerca
consentono all'assistente sociale di sviluppare una conoscenza approfondita
sui fenomeni e bisogni che incontra nel lavoro quotidiano, e quindi di
scoprire anche nuovi modi di agire professionale. Data l’importanza
strategica occorre evitare che l’habitus riflessivo rimanga appannaggio di
pochi e avvalorare le possibilità dischiuse dalla nuova epistemologia della
pratica professionale ai fini della delineazione di una corrispondente
epistemologia della formazione che supporti intenzionalmente tale processo
considerando la formazione stessa come “un laboratorio di pensiero
riflessivo”. (Vedi Allegato XV Intervista).
La competenza si configura come “una inesauribile conversazione riflessiva
con la situazione. Si è competenti quando si decidono le azioni mentre si
compiono, le si valuta e le si corregge seduta stante, si esplorano gli
elementi impliciti nelle azioni stesse per tenerne immediatamente conto in
quelle successive, si ristrutturano significati e fini contemporaneamente
all’impiego di determinati mezzi, si scopre, si genera e si condivide un
senso di tutto ciò che si fa, senso che si adatta e segue ogni modificazione
dei dati del sistema e delle dinamiche relazionali che lo accompagnano”249.
249 OCDE-CERI, Definition et selection des competences: fondements, théoriques et conceptuels. Document de stratégie, Bruxelles, 2002., citato in convegno “La gestione della classe”, Milano 12.12.2008., [online]. Disponibile su:< http://www.uciim-
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Affinchè quanto detto sia realizzabile, occorre che i professionisti in
questione “sentano” il proprio lavoro.
6. In conclusione...
La mancata interiorizzazione della mission, propria di questa professione,
comporta chiusura e soprattutto discredita la comunità di appartenenza di
questi professionisti e condiziona, anche, l’immagine che è conferita
all’esterno, nonchè ai diversi partners, tra cui la comunità civile e l’utenza
che ne rappresentano i principali stakeholders.
Questo atteggiamento di arroccamento e di perpetuazione del dato,
accompagnato da un’organizzazione, che nel pubblico, è assente, non solo si
esprime come remora alla riflessività e conseguentemente al cambiamento e
all’apprendimento, al confronto - dalla quale discende la consapevolezza del
proprio operato, permettendone di evidenziarne i limiti sulla quale
intervenire per migliorare - impedisce ai servizi in generale e, alle figure
professionali, in particolare, che credono in questo lavoro, di crescere e di
assolvere alle funzioni per le quali il servizio sociale esiste.
L’assenza di uno spazio professionale, mentale e fisico, ha influenzato il
processo di condivisione e valorizzazione delle differenze tra assistenti
sociali, in cui si potesse mettere in gioco e in circolo, competenze,
atteggiamenti, conoscenze.
Sono molte le realtà che non investono sui legami sociali e sono prive del
senso di società civile, rappresentative di una cultura utilitaristica, serva dei
favoritismi e ancella della politica, in cui soppravvive una logica di deleghe
di compiti e deresponsabilità in merito al benessere della comunità.
“Credo che l’incertezza di come agire non sia dovuta al fatto che non ci
siano procedure specifiche o normative di riferimento, ma piuttosto sia
dovuto al fatto che, dopo trent’anni di questo lavoro, il benessere della
persona non importa a nessuno, non interessa ai politici, e forse neanche a
noi che facciamo questo lavoro. C’è pochissima tutela delle persone in
genere, c’è una continua delega di responsabilità. Non ho tante incertezze
sul “come” ma sul “se posso”, sulle risorse, su come poter fare per quella
persona e tutelarla. Le incertezze sono sul sistema.” (XIII Intervista Vedi
Allegato).lombardia.it/Materiale.html > [Data di accesso: 24/02/2010].
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Prima di inverare le presupposizioni finora argomentate, occorre riflettere
sulle radici del problema, nonchè sulla cultura che domina, altrimenti le
teorie apprese, in sede di formazione di base e continua, si trasformano in
utopia, e continua ad essere alimentatato lo stato di disincanto nel quale
viviamo. Oggi si configura un sistema nel quale pochi tessono le trame di
vita e i destini delle persone. La tutela dei diritti della persona deve essere
priorità di tutti, affinchè si possano inverare i principi ispiratori dello Stato
sociale e, questi non possono essere perseguiti unicamente da chi li
interiorizza e li traduce come filo conduttore del proprio lavoro.
La tutela dei diritti non può dipendere solo dal buon senso e dalla
professionalità di pochi.
Gli assistenti sociali tesi a contrastare una latente disaffezione e una
percezione di transitorietà e insicurezza, sanno che è anche la volontà ad
apportare ogni giorno qualcosa di buono, umano, corretto e di qualità nel
lavoro. Questo contribuisce a fare la differenza per gli utenti e per i servizi.
La contiguità e attenzione al bisogno materiale e immateriale rende gli
assistenti sociali ansiosi risolutori di problematiche rispondenti a livelli
sociali, economici e politici intersecati, sfuggenti le proprie responsabilità.
Naturalmente la sfida oggi per il Servizio Sociale aziendale é quella di
misurarsi con la propria capacità (qualitativa ma anche quantitativa) di
costruire, concertando con gli altri operatori e soggetti della società civile,
percorsi integrati, affinchè siano relamente perseguite le funzioni che
identificano l’assistente sociale come agente promotore di benessere sociale,
le cui funzioni possono essere così sintetizzate:
- funzione curativo-riparativa, di aiuto ai singoli o gruppi per promuovere il
cambiamento, utilizzando le risorse personali, istituzionali, sociali, comunitarie;
- funzione organizzativo gestionale, all’interno delle organizzazioni per
promuovere ed adeguare le risorse ai bisogni e alla domanda sociali;
- funzione preventivo-promozionale, attivata all’esterno dell’organizzazione,
alfine di favorire processi di integrazione, di partecipazione, di crescita di solidarietà ed
accoglienza, di monitoraggio e ricerca sulla realtà sociale.
Conclusioni
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Un buon operatore sociale, cioè un operatore competente, è colui che alla
routine preferisce l'agire pensato e per questo si qualifica come ricercatore
nella quotidianità; è colui che mira a fare della pratica il luogo in cui si
elabora sapere, che riconosce la necessità di aprirsi al confronto con gli altri
e con la realtà, per riuscire a dare senso alle cose che accadono e per
costruire nuove ipotesi di azione. Mantenersi aperti alla problematicità del
reale sottrae alla sicurezza che è data dall'affidarsi alle teorie date e alle
azioni routinarie ma, apre all'emergere dell'inedito e dell’impensato.
Nel lavoro sociale si parte sempre dal contatto con una realtà incerta,
sconosciuta, di difficile interpretazione, sia per l'operatore che per la
persona in difficoltà. Per aprirsi la strada in queste situazioni complesse,
situazioni dove nessuno ha già chiaro in partenza dove si deve arrivare e
come, l'operatore deve «riconoscere come imprescindibile e necessario ciò
che l'altro dice e fa per capire quale strada è percorribile e verso quale
direzione».250
Proprio per quest'impossibilità di disporre di un sapere a priori che dica
cosa è bene e cosa è giusto fare, il mestiere degli operatori sociali è tanto
difficile. Spiega Mortari: «L'elevato tasso di problematicità dell' agire è
conseguente al fatto che presenta spesso casi unici, differenti l'uno dall'
altro, per i quali non sono disponibili linee precodificate di azione. Ogni
caso richiede uno specifico processo d'indagine finalizzata a promuovere
una comprensione contestuale attraverso cui sia possibile cogliere il profilo
originale della situazione». Il sapere che serve all'operatore, conclude, «non
può dunque che essere un sapere ipotetico, al congiuntivo e destinato a una
revisione critica continua».
A tal fine centrale per gli operatori e la necessità di confrontarsi sull'
esperienza nella miriade di situazioni in cui sono chiamati a lavorare con
altri colleghi, in équipe o con colleghi di altri servizi per affrontare un caso.
La pertinenza degli interventi effettuati può essere oggetto di valutazione
interrogando riflessivamente le pratiche, cioè riaprendole, rimettendole in
250Borgna E., Camarlinghi R., D’Angella F., Sartori P., gennaio 2008., "Possiamo ancora cambiare?", numero di ANIMAZIONE SOCIALE (n.1/08)., [online]. Disponibile su:<.http://www.ceasmarotta.it/download/animazione%20sociale%20(1).doc.> [Data di accesso: 01/03/2010].
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discussione, cercando di dare un senso condiviso agli esiti spesso imprevisti
perché imprevedibili.
Tutti noi tendiamo a stare dentro un pensiero routinario, ad applicare moduli
di azione ripetuti. L'economia dell' agire quotidiano lavora infatti ad
applicare un automatismo del pensiero. Viviamo spesso le cose che
accadono in modo irriflesso, senza ritornarci riflessivamente sopra.
Prendiamo decisioni stando con la mente incapsulata dentro criteri cognitivi
il cui valore è dato per scontato.
Presa nella morsa della frenesia attivistica, la nostra pratica quotidiana
rischia così di restare senza l'ombra di una riflessione. In questo modo ciò
che viviamo, ciò che accade nelle relazioni umane e professionali rimane
mancante di una possibile significazione e il nostro vissuto non diventa
esperienza. Il vissuto è il modo diretto e naturale di vivere le cose che
accadono, l'esperienza invece prende forma quando il vissuto diventa
oggetto di riflessione, quando cioè portiamo sulle cose lo sguardo del
pensiero. L'operatore competente è allora quello che sta sul suo vissuto con
il pensiero e così guadagna sapere dall’esperienza. Il suo fare diventa sapere
perché c'è un accompagnamento riflessivo.
Apprendere dal proprio fare è possibile se pensiamo anche i pensieri che
hanno accompagnato il nostro agire. Occorre cioè portare alla luce quella
che viene definita «conoscenza tacita», vale a dire quei criteri in base ai
quali definiamo le nostre decisioni e formuliamo i nostri giudizi
inconsapevolmente, oppure, più radicalmente, il «sostrato profondo di
opinioni mute» (Merleau-Ponty) in cui è immersa la nostra intera vita.
Spesso nel nostro fare pratico si incorporano modi convenzionali e
conservatori di fare le cose che non vanno rinforzati ma decostruiti
attraverso una lettura critica del nostro fare e pensare. Questo implica una
riflessione forte, un sapersi confrontare con ciò che può aprire altre
prospettive di lettura delle situazioni, al fine di svelare il nascosto che c’è
sotto le pratiche. Stare in una dimensione critica vuol dire stare nella
incertezza; stare là dove si sa che i propri paletti del pensare non sono paletti
duri; sono paletti fragili in modo che possano essere smontati e rimontati
continuamente. Solo così funziona il pensiero critico perché il pensiero
critico è criticare innanzitutto i propri pregiudizi, le proprie routine.
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Autocriticarsi, cioè cercare di vedere sempre i limiti del proprio pensiero.
Proprio nel momento in cui le persone si rendono disponibili a mettere in
discussione i propri pregiudizi; le proprie rappresentazioni implicite, a
decostruire le proprie routine cognitive, riescono a rileggere criticamente le
esperienze di lavoro, producendo in questo modo un apprendimento dall'
esperienza, riuscendo cioè a fare «della pratica il luogo in cui si elabora
sapere».
Ma è proprio questa operazione di decostruzione del proprio pensiero che è
faticosa perché vuol dire stare nel vuoto, ossia stare «in povertà di spirito e
in purezza di cuore»...questa è un' espressione un po' mistica di Marìa
Zambrano, una grande filosofa spagnola vissuta nel '900251. In povertà di
spirito vuol dire stare in una situazione in cui non ho tante certezze perché
se mi attacco alle mie certezze divento incapace di dialogare con gli altri.
Spesso ci attacchiamo alle nostre certezze perché abbiamo paura di cadere
nel vuoto. Se invece riusciamo a sentire che la messa in discussione delle
nostre idee non ci annulla, questo stato di povertà di certezze ci permette di
incontrare l'altro e di affrontare il dialogo in modo costruttivo.
Al fine di allestire un contesto che consenta la co-costruzione di pensiero a
partire dall' esperienza occorre costruire gruppi dove le persone vengano
dalla stessa pratica ma da luoghi differenti, ovvero occorre non mettere
insieme operatori della stessa comunità, perché non faranno che rafforzare i
loro punti di vista e il loro confrontarsi più che un co-costruire sarà una
somma di pensieri che riconfermano l'esistente. Mettere insieme nei gruppi
persone che portano visioni differenti è la condizione necessaria affinché si
crei almeno una differenza di posizioni che muove il pensiero; se non ci
sono differenze non c’è discussione e senza quest’ultima il pensiero non si
mette in discussione, non c’è reale cambiamento. Infine, non si apprende
dall’esperienza se il gruppo non è ispirato a quelli che sono i «principi etici
fondamentali», che sono quelli del rispetto ma anche del parlare con
schiettezza sulle cose, perché altrimenti il riflettere sull' esperienza è una
finzione. Poter discutere implica vedere l'oggetto di lavoro separato da noi
che ne parliamo, confrontarsi significa mettere in atto tutte le visioni
possibili per vedere la cosa da tanti punti di vista. Ma questo significa
251 Rella F., Frank G., 2003., Sentimento e Memoria., Trame/5., Milano., Pendragon., op. cit. p.73
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mettersi in gioco e non stare nell' iper uranio tranquillo delle teorie e delle
proprie convinzioni.
Apprendere dall’esperienza sembra essere la modalità conoscitiva più
adeguata anche nelle situazioni di lavoro con l'utente. Nel lavoro sociale
l'altro non è mai un puro oggetto di trattamento. Si ha bisogno di
quest’ultimo per capire qual è il problema e la strada da percorrere per dare
senso alle cose che di volta in volta accadono nella relazione con l’altro.
La facilitazione dell'apprendimento non è sempre un processo
interventistico, anzi spesso è un processo di riduzione degli spazi di onnipo-
tenza sull'altro.
Polo Identitario Riflessività: -Saper essere e divenire
-Sviluppo Professionale
Attività -Identità professionale
Riflessiva
Polo Pragmatico Riflessione: - Sapere e Saper fare
- Azione professionale
- Sapere condivisibile
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Allegato
“Le Interviste”
(I Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Comune)
Rilfessività e sapere pratico
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Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Assolutamente si. Penso che questa sia un importante veicolo per
apprendere dall’esperienza, dal momento che si opera in contesti in cui le
soluzioni alle difficoltà espresse dagli utenti non sono rintracciabili in testi
ma richiedono intuizione, dinamicità, operatività, concretezza e un sapersi
muovere in un contesto di cui spesso si ingnorano i servizi che lo
costituiscono. Queste qualità sono indispensabili in particolar modo dinanzi
a casi caratterizzati da multifattorialità, (quali ad esempio la mancanza di
una rete familiare, la morte di un parente, l’assumersi responsabilità di cura
di minori, l’ignoranza in merito ai diversi sussidi/diritti di cui si può
godere), i quali richiedono soprattutto competenza e un sapersi muovere
entro una rete di servizi al fine di garantire il benessere dell’utente. Molto
spesso si disconoscono i servizi e le prestazioni erogate sul territorio, in
questo senso l’operatore in prima persona, secondo propria coscienza, deve
essere sempre aggiornato ed attivo, per farsi egli stesso parte di una rete che
molto spesso non funziona e che i vertici delle amministrazioni pubbliche
non sostengono, in quanto non si assume il proprio compito, non viene
interiorizzata la mission e vige un sistema di deleghe. Non vi è la cultura del
confronto e della cooperazione.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Le società si evolvono così come anche le dinamiche ad essa connessa. Le
situazioni problematiche sono diverse e complesse, esse esigono una lettura
sistemica. L’esperienza è il canale principale dalla quale inconsapevolmente
attingiamo il nostro modo di interpretare e di costruire il problema.
Dall’esperienza io, ho potuto creare dei modelli/ schemi, anzi categorie
mentali, attraverso la quale riesco a categorizzare alcuni comportamenti che
mi consentono di comprendere meglio l’utente, leggere il suo bisogno, e di
connettere più aspetti. Riflettere sull’esperienza mi rende consapevole dei
dubbi che si hanno e delle inefficienze, che possono riguardare anche le
pratiche lavorative. Essa ti permette di metterti in gioco continuamente
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permettendoti di migliorare. In un ambiente di stasi, come quello
dell’amministrazione pubblica, di sicuro la riflessività è un potenziale
fattore di innovazione e cambiamento, ma è molto difficile mettere in
discussione la cultura consolidata, che guida l’operatività dei singoli e li
tiene al riparo dall’incertezza. Io ci sto lavorando.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Attraverso il confronto con altre figure e attraverso il continuo
aggiornamento. E’ molto importante andare oltre, allargare l’orizzonte e non
limitarsi alle routine quotidiane. L’informazione e la continua revisione del
proprio operato sono importanti canali di crescita.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Come dicevo precedentemente, sicuramente il bagaglio teorico è
importantissimo, in quanto permentte di conferire organicità al proprio
operato funge da supporto al nostro lavoro, così come la conoscenza delle
leggi che regolano la nostra attività, ma nella definizione del problema e
conseguemtemente nella definizione della soluzione, subentrano altri fattori
molto importanti, quali l’intuizione; la predisposizione ad alcune capacità,
l’ascolto, la comprensione, la capacità di lavorare con il dubbio, con
l’insicurezza, con la consapevolezza di non farcela in alcuni momenti. Tutte
queste si acquisiscono con l’esperienza.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Di sicuro l’incertezza non è un limite ma un’occasione di riflessione di
percorsi possibili da intraprendere per la ricerca di soluzioni e, di attivazione
di risorse sia professionali che istituzionali. La conditio sine qua non, è non
limitarsi alle quattro mura del proprio ufficio ma di utilizzare tutte le risorse
presenti sul territorio, quindi è fondamentale attivarsi per attivare.
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Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Moltissimo, ma è importante anche saperle gestire in modo professionale.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Assolutamente. Il confronto è un importante fattore di crescita, in quanto
non si deve dare per assodato di sapere ogni cosa, ma al contrario si può
apprendere dall’esperienza e anche da quella degli altri.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Non ci sono specifiche pratiche lavorative e organizzative dedicate al
confronto. Il tutto avviene in maniera informale e principalmente tali
momenti sono promossi da me. Non c’è alcuna sala o ufficio apposito,
ovvero alcun spazio e tempo dedicato a questa “attività”. E’ proprio in tali
momenti che introduco alcuni temi, (quali la partecipazione a bandi
enunciati dalla regione, l’utilizzo di faldoni per archiviare le procedure
attivate, l’utilizzo di una stanza apposita per i colloqui,...) La realtà è molto
arretrata, non vi è la logica della cooperazione e della progettualità. Sono
state molte le occasioni in cui ho personalmente elaborato dei progetti per
accedere a finanziamenti, che altrimenti non sarebbero stati presi in
considerazione. Il settore servizi sociali è ampiamente disconosciuto e non
si investe sui servizi alle persone, sui legami sociali e in generale sulla
comunità. Non si ha il senso del benessere civile e la consapevolezza di una
realtà in cui tutte le fasce della popolazione sono a rischio. Il servizio sociale
non è una mera esposizioni di problemi alla quale si conferisce una risposta
meccanica.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.No, almeno formalmente.
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Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Una relazione feconda e costruttiva in quanto la figura in oggetto lavora
con persone, sul territorio, e con tutte le dinamiche ad essi connesse. La
figura in oggetto lavora insieme agli altri, in una logica di rete. In questo
senso deve mantenere una posizione di continua apertura ai cambiamenti,
alle innovazioni, al confronto, affinchè riesca a garantire non solo una
lettura reale del problema, ma anche una risposta efficiente, garantendo la
qualità del servizio e delle prestazioni erogate. La riflessività permette tutto
ciò.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.No, sono io che mi attivo nel momento in cui incontro difficoltà
chiedendo informazioni a colleghe di altri enti, oppure mi documento da
fonti scritte.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Si certo, riflettere, sviluppare una formazione continua, mettere in
discussione continuamente il proprio operato ti fa crescere e ti permette di
agire con più professionalità e soprattutto ti permette di mirare il problema
garantendo poi il benessere della persona. L’ente in cui opero non promuove
o comunque non è informato sui corsi di aggiornamento, sono io che
attraverso il passa parola tra colleghe, mi attivo per partecipare.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.E’ importantissima in quanto apre uno spazio di rifilessività sulla lettura
del problema, sugli interventi attuati e quindi sulle risorse professionali e
istituzionali attivate. Per cui ti aiuta ad apprendere e a migliorarti.
Purtroppo nel comune non c’è un archivio presso il quale posso consultare
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relazioni su casi passati. Sono io che da poco ho avanzato la richiesta di
poter utilizzare i fascicoli per archiviare il mio lavoro. Io lavoro qui da dieci
anni, e non ho nulla del lavoro svolto sinora, e di quello svolto prima che
subentrassi io.
(II Intervista Assistente Sociale Azienda Sanitaria Locale)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.La riflessione è necessaria in ogni processo altrimenti si parla in modo
istintivo e non concreto. Il pensiero deve essere sempre al di sopra del
linguaggio, si deve pensare e poi parlare, riflettere su quello che si vuole
dire, questo è importante per valutare la persona che si ha di fronte e per
valutare anche l’operato degli altri. Di conseguenza tutte le situazioni
problematiche devono essere supportate da un atteggiamento di riflessività.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Penso che abbia una valenza abbastanza dominante altrimenti non ci può
essere organizzazione e pianificazione del lavoro.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Penso che siano presenti in tutti gli strumenti che noi utilizziamo, in
quanto utilizziamo strumenti che garantiscono l’integrazione, questi
necessariamente esigono un confronto tra le diverse figure professionali
(assistente sociale, psicologa, sociologa e pedagogista), e tutti hanno una
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valenza riflessiva. Gli strumenti utilizzati sono protocolli che sono di
raccolta di informazioni e di valutazione.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.L’esperienza aiuta a focalizzare e ad analizzare gli eventi, le teorie ci
aiutano a percorrere e a valutare un processo operativo.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.E’ sopratutto in queste situazioni che subentra la riflessione, in quanto
questa permette di analizzare al fine di comprendere la situazione,
consentendo di prendere decisioni e intervenire nell’immediatezza. Ogni
situazione/problema che si presenta è caratterizzata dall’incertezza. Il nostro
servizio è fluttuante, il lavoro è dinamico, in quanto si ha a che fare con
persone, che possono essere gli utenti ma anche altre figure professionali,
appartenenti ad altri enti (comuni, csm). Non è un lavoro statico, se non in
merito ai protocolli che utilizziamo, è tutto in evoluzione.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Le emozioni cerco di tenerle un pò a freno, anche perchè un
coinvolgimento eccessivo non darebbe aiuto, si attuerebbe un processo poco
professionale. Importante è il distacco per la comprensione di tutti gli aspetti
che caratterizzano il problema.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Il confronto con i colleghi è quotidiano, questa è una pratica presente. Il
confronto è sinergico, in quanto ognuno, nel rispetto delle prorpie
competenze e del proprio ruolo valuta la situazione, il caso, quest’ultimo
non viene letto da un solo punto di vista. Questo è importante in quanto
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molto aiuta a vedere tanti angoli della persona, e aiuta a vedere il problema
in un ottica multifattoriale e non unidirezionale.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Nel servizio sono previsti dei momenti formali dedicati al confronto, sono
dei momenti in cui facciamo una valutazione complessiva, globale di tutti i
casi che abbiamo. Questi momenti avvengono quotidianamente tra colleghe
e una volta a settimana con la responsabile del servizio.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Si, è aperta a questi momenti.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Una relazione importante e necessaria perchè ti permette di promuovere
una comprensione a 360° sulle diverse problematiche, che sono in continua
evoluzione.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Non ci sono specifiche procedure di valutazione professionale, se non
questo confrontarsi giornalmente, che aiuta soprattutto nel momento in cui
vi è una criticità del problema che comporta un incertezza rispetto all’agire.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Queste sono attività che facciamo giornalmente, accompagnate anche da
corsi di aggiornamento, ai quali susseguono momenti di riflessione e scambi
di opinione. Le valutazioni operate alla fine di ogni momento di formazione
ci aiutano ad avere più consapevolezza di quanto appreso.
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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Le relazioni che scriviamo sono importanti in quanto permettono di
mettere a fuoco il nostro modo di interpretare il problema che sarà poi
oggetto di confronto con le colleghe. Da ciò diventa un potenziale momento
auto-formativo e formativo per tutte.
(III Intervista Assistente Sociale Specialista Unità Operativa di
Neuropsichiatria Infantile)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Si notevolmente, in tutte le situazioni di ordine quotidiano, il mio lavoro
richiede un contatto con situazioni pratiche e concrete e se non si mette in
atto un’attività di riflessione su quello che si sta svolgendo si rischia di
commettere degli errori, è sempre bene fare il punto della situazione,
puntualizzare e concretizzare e agire a livello mentale.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Ha un impatto fondamentale, perchè è importante in quanto ci si relaziona
con situazioni così delicate in cui non si può agire a livello impulsivo o solo
tenendo conto dell’esperienza passata, perchè ogni caso è singolo, è fine a se
stesso, ogni caso è individuale, particolare, quindi questo comporta che per
ogni situazione/caso si deve attivare un atteggiamento riflessivo e trovare la
soluzione giusta. Non c’è una soluzione unica per tutti i casi, non allo stesso
modo, magari con accortezze particolari e con dei cambiamenti si deve
sempre attivare un atteggiamento di riflessione.
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Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Intanto utilizzando degli strumenti obiettivi. Utilizzo in primis uno
strumento comune che è il colloquio clinico che ti permette di leggere la
situazione a primo impatto, poi si passa alla valutazione psicodiagnostica
attraverso l’utilizzo di test psicometrici. Attraverso la valutazione dei
risultati di questi strumenti devo mettere anche qualcosa di mio, gli
strumenti sono obiettivi ma devo anche dare una valutazione attraverso la
mia riflessione.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Sono entrambi importanti, in quanto le teorie ti danno indicazioni a livello
generale e l’esperienza maturata negli anni ti fa capire che ogni caso è
particolare, veramente individuale e allora un intervento che può andare
bene per una situazione non va bene per un’altra. La teoria è tenuta in
considerazione come punto di riferimento, come formazione, come forma
mentis però poi è l’esperienza che ti aiuta nell’immediatezza ad individuare
un problema. Io lavoro con i minori, fino a 18 anni, e ho rilevato che negli
ultimi anni il poblema dell’autismo è in aumento, questo è un problema
così delicato e particolare, e se non avessi avuto casi di bambini autistici,
esaminati in passato, di fronte ad un caso simile avrei avuto enormi
difficoltà. Teoricamente so che cos’è l’autismo, so in che cosa consiste, che
cosa comporta, conosco i tipici fattori comportamentali. Negli ultimi dieci
anni ho avuto moltissimi casi di bambini autistici , e grazie a questa
esperienza maturata, sono in grado di individuare subito se si tratta di un
caso di autismo o meno. Teoria e pratica sono necessariamente inscindibili.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Prendo un pò di tempo, cerco di valutare con più attenzione il problema
che mi viene esposto, per non commettere errori e per non deludere le
aspettative di chi si rivolge a me. Rimango nel vago, prendo tempo e
approfondisco l’argomento e poi mi regolo di conseguenza.
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Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Di sicuro se sento che c’è qualcosa che non mi convince, indago
maggiormente. Il tutto è seguito sempre da una intensa ricerca e valutazione
di tutti gli aspetti che caratterizzano la situazione. Mantengo sempre un
distacco emotivo per avere una visione chiara del problema.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Nel settore in cui lavoro è importante un lavoro di equipe, è importante
che le varie figure professionali si mettano insieme a discutere ogni singolo
caso, perchè altrimenti si rischia di essere troppo limitati e riduttivi. Un
problema di un bambino non può essere valutato solo dal punto di vista
psicologico o medico, è necessaria una valutazione completa. L’intervento
dell’assistente sociale è fondamentale per avere una visione completa della
storia personale del bambino, per conoscere l’ambiente sociale in cui il
minore è inserito, e quello familiare, affinchè si abbia una visione più
precisa della problematica che si affronta. Quindi il confronto è funzionale a
tutto questo.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Ogni mercoledì, in struttura, a fine mattinata facciamo una riunione che
vede la partecipazione di tutti gli operatori, nel quale si discute dei vari casi.
Il tutto avviene in una stanza, un ufficio adibito appositamente.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Si assolutamente. Il confronto avviene anche al di là delle mura
dell’organizzazione in sè, perchè fondamentale è anche un lavoro sinergico
con gli altri enti sul territorio. E’ necessario la collaborazione con gli altri
servizi per leggere tutte le sfaccettature del problema. Ad esempio ci è
capitato un caso di un minore la cui madre era in cura presso il centro di
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salute mentale per problemi di ordine psichiatrico, per cui la collaborazione
è necessaria per ricostruire l’anamnesi dell’utente.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Si assolutamente, perchè la riflessività fornisce degli stimoli, idee nuove
che magari non erano state valutate e che ti permette di osservare. Questa è
un input per individuare nuove strategie, e per favorire sempre un
arricchimento continuo.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Si ci sono momenti dedicati all’aggiornamento, i quali prevedono la
partecipazione a corsi organizzati e imposti dall’ente di riferimeno. Altri
invece, li seguiamo di nostra spontanea volontà, questi sono corsi promossi
dall’ordine professionale, i quali prevedono una libera partecipazione.
Questi rilasciano un attestato e i crediti formativi. Alle fine del corso ci sono
degli strumenti valutativi (schede con domande e risposte che poi dobbiamo
dare), utili per ripercorrere quanto appreso nel corso di aggiornamento.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Si. Dedicare tempo a queste attività è importantissimo in quanto le
materie in oggetto sono sempre nuove ed esigono un aggiornamento
continuo, non si può far riferimento unicamente agli studi effettuati nel
periodo universitario. Le teorie cambiano, i problemi si evolvono ed esigono
risposte nuove.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Si perchè leggere le ralzioni sociali ti aiuta a comprendere i tuoi schemi di
riferimento e di ripercorre la tua interpretazione del problema.
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(IV Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Comune)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Si, reputo fondamentale la capacità di una “riflessione continua” sul
proprio fare. La stessa riflessività diventa basilare allorché l’assistente
sociale ad esempio, che ha da poco concluso un colloquio, deve tessere i
vari punti che ha nella testa, dalla sovrapposizione di elementi di analisi del
caso, impressioni, risonanze emotive, nessi con altre situazioni, con le
problematiche relative al problema, e con l’esperienza professionale. Tutto
ciò, permette di prendere decisioni consapevoli, in quanto fondate su una
conoscenza di ampio respiro, e per evitare risposte di routine, burocratiche o
rituali.
• Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Reputo possa avere un impatto positivo, se pur per noi assistenti sociali
che lavoriamo da tanti anni nei servizi sociali di un ente, quale Comune, la
consapevolezza della ripetitività e cronicità di alcune situazioni, la coscienza
della difficoltà di innescare reali percorsi di cambiamento, ci porta a
scontrarci con la difficoltà di riflettere su ciò che mettiamo in atto.
Sicuramente l’apprendimento riflessivo è un processo in cui tutte le forme di
conoscenza, personale, pratica, critica che possono contribuire alla
comprensione della situazione entrano in gioco.
• Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Se penso a ciò che faccio quotidianamente penso che la scrittura nella sua
accezione riflessiva, “quale strumento facilitatore di percorsi di analisi del
proprio lavoro”, possa essere un valido strumento. Ma molte volte ti devi
scontrare con altri fenomeni che ti fanno modificare la pratica, penso la
valutazione riflessiva sull’ambiente e le “sue” risultanze. La pratica non
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diventa un risultato matematico ma ti fa avvicinare alla perfezione e quindi
al vivere nella realtà.
• Nella di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le procedure
(teorie) standard nella definizione di esso?
R.Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento, si presuppone un’azione professionale non riducibile solo al
fare concreto ma costituita da un “agire pensato, verificato, condiviso,
orientato a creare opportunità più che a predisporre soluzioni”, finalizzato a
sostenere la persona nell’acquisizione/ recupero di competenze sociali, nello
sviluppo della consapevolezza di sé e nell’eserciziodell’autodeterminazione;
questo, può dirci, quanto il processo di analisi e valutazione della
situazione/problema, e il conseguente intervento, si debbano collocare in
una dimensione di intersoggettività e riflessività. Ciò permette di sviluppare
ed adeguare conoscenze, di acquisire capacità di problem solving, evitando
“agiti” spesso suggeriti da una sorta di coazione a ripetere. Ma inoltre,
proprio perché si parla si sapere professionale, di sapere pratico, di teorie e
metodologie, non si può non far riferimento a tutto questo, perché è proprio
l’attività dell’assistente sociale che é una attività professionale complessa
basata su di un corpus di teorie conoscenze, all’interno di un rapporto
interpersonale, che viene definito processo di aiuto, questa professionalità-
attività si deve anche relazionare con fattori: ambientali, potere politico
locale, struttura piramidale del pubblico impiego, disponibilità economica
(peg:piano economico gestionale), legislazione e regolamenti carente e
mancanza molte volte di “autonomia”.
• Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R. L'incertezza rappresenta per me, sia un rischio che un'opportunità e può
potenzialmente ridurre o accrescere il valore dell’attività che andiamo a
svolgere. Nello stesso apprendimento riflessivo, si utilizzano l’incertezza e
gli errori per riuscire a comprendere il proprio agire, o comunque nel
quotidiano a superare gli imprevisti. Basti pensare alla stessa
imprevedibilità nel servizio sociale, come carattere dinamico irripetibile,
plurale e interdipendente degli scambi relazionali, che riduce i margini di
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previsione degli esiti e delle conseguenze dell’intervento: casi di
immigrazione clandestina e non, inquinamento, degrado ambientale,
impoverimento, emarginazione, la velocità con cui si susseguono le
innovazioni tecnologiche, le nuove procedure di accesso ai servizi, possono
creare condizioni difficilmente controllabili.
• Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Le emozioni possono diventare un problema, se penso al colloquio, molto
spesso l’operatore diventa “contenitore delle ansie connesse alla condizione
problematica”, potendosi concedere ben poco spazio mentale per dare voce
alle proprie risonanze emotive, ma l’apprendimento riflessivo riconosce la
complessità, diversità e la forte componente emotiva dell’esperienza,
diventa fondamentale la riflessione critica, come messa in discussione dei
propri modi di comprendere le situazioni.
Apprendimento organizzativo
• Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Esso riveste un’importanza fondamentale, il confronto e scontro, alcune
volte, di fatti permette la costante messa in discussione della routine, per cui
si impara agendo, dove diviene fondamentale il passaggio dalle conoscenze
tacite individuali a quelle esplicite che divengono patrimonio comune.
• Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Sicuramente i continui incontri nell’operatività quotidiana mi permettono
di confrontare il mio operato con i miei colleghi, discutendo nelle riunioni
sui casi che il servizio segue, su nuove iniziative, su progettazione da
mettere in atto, su tutto ciò che implica un chiaro, ma a volte è difficile il
confronto.
• L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Come dicevo, “difficile confronto”, perché molto spesso l’organizzazione
non consente tali confronti, perché incide la standardizzazione delle
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procedure o comunque vi è un carico di lavoro eccessivo che non ci
permette di ritagliare uno spazio sufficiente al confronto fra operatori,
professionalità diverse. Molto spesso l’organizzazione, che deve migliorarsi
e apprendere, dovrebbe cercare di creare nuove conoscenze non solo da
informazioni oggettive, ma anche da intuizioni individuali, favorendo la
nascita di comunità operative in funzione del proprio sviluppo.
• Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca si scontrano e si incontrano
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale, esiste relazione
in rapporto alla collocabilità oggettiva e soggettiva rapportata alla casistica
professionale .
Pratiche riflessive
• Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Nel corso dell’attività che svolgo, svariati sono i momenti di valutazione
professionale. Quereshi propone di considerare la valutazione come
“revisione sistematica degli effetti previsti e non di un intervento, servizio o
politica, in relazione alle attività intraprese per raggiungere gli obiettivi
prefissi”. Acquisire un’ottica valutativa rispetto al proprio lavoro non solo
promuove un “professionista riflessivo” capace di dare senso al proprio
lavoro anche in presenza delle frustrazioni legate all’opacità, all’inerzia, ai
tempi lunghi della P.A.; questa mi occorre a riacquisire il senso e la
direzione di marcia del mio lavoro. A restituire motivazione e capacità di
iniziativa.
• Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Si, come già definito, ho necessità di tali attività di riflessione, di un
percorso formativo sulla messa in gioco personale, di attività di valutazione,
e gli esiti di queste attività mi portano ad un continuo “mettere in
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discussione me stesso come professionista, quindi dopo una parziale se pur
normale sensazione di disorientamento, non possono che esserci
ripercussioni in positivo.
• Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.La documentazione, che consiste in tutto ciò che riguardanti gli utenti, il
servizio, l'istituzione e le tematiche che si stanno trattando, deve essere
essenziale, importante per osservare il percorso effettuato. Forse è possibile
ipotizzare che la scrittura con valutazione etimologica e terminologica,
come atto riflessivo, possa aiutare l’operatore a mantenere una posizione di
maggiore equilibrio sia rispetto alle difficili posizioni in cui è collocato, sia
rispetto ai percorsi di aiuto che quotidianamente tenta di sperimentare, dove
lo scrivere diviene un atto riflessivo nella misura in cui consente
all’operatore una posizione “altra”. Allora scrivere una relazione sociale,
registrare una cartella, o stilare il diario giornaliero, diviene in primo luogo
una necessità, perché legata all’ansia del fare, tipica del lavoro sociale che
rischia di sommergere aspetti che la scrittura consentirebbe di mettere a
fuoco. L’operatore scrive per poter affrontare nella realtà quotidiana
situazioni complesse, da cui poter apprendere e di conseguenza forma se
stesso su quello che svolge quotidianamente, ovvero l’attività di assistente
sociale, sarebbe utile valutare le varie casistiche presenti nelle relazioni
sociali e l’evoluzione che hanno subito nella storia dalla prima riforma, la
legge Crispi del 1890, ad oggi con l’ultima legge quadro, 328/2000.
(V Intervista Assistente Sociale Specialista Centro socio-assistenziale di
Riabilitazione)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
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R.Penso proprio di si, perchè riflettendo sul proprio operato ci si può
migliorare, ci si può corregere laddove si ha sbagliato e anche migliorare
laddove si è fatto bene. E’ necessaria più che importante, perchè fa fare un
passo avanti all’assistente sociale proprio nel suo lavoro quotidiano, perchè
fa correggere laddove devia e fa migliorare laddove ha fatto bene, in questo
senso fa fare passi in avanti.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.L’atteggiamento riflessivo è importante sia nel rapporto con l’utente che
nel rapporto con i colleghi, in quanto parte di un équipe socio-educativa,
della quale fanno parte anche gli educatori e gli psicologi, nella quale
eseguiamo delle valutazioni, e nel rapporto con la dirigenza, in quanto
l’assistente sociale dipende dal direttore sanitario. In generale in tutti i
rapporti professionali e non che questa figura comporta. Nel rileggere una
cartella, nel formulare un progetto vado a valutare e a riflettere
sull’impressione che ho avuto nel colloquio con l’utente.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Attraverso colloqui, contatti diretti con l’utente, con il resto del personale
e attraverso il cartaceo, cioè tutte le valutazioni che riguardano l’utenza.
Abbiamo una serie di strumenti di valutazione, quali: la scheda, che noi
chiamiamo spcs, ovvero la scala delle valutazioni delle capacità sociali, si
valuta come il paziente vive nella struttura, come si rapporta con il
personale della struttura e all’esterno. Questo serve a far riflettere e ad
interrogarci sul nostro operato: come io stimolo il paziente a fare in modo
che socializzi, si rapporti sia all’interno che all’esterno? Devo cambiare
qualcosa sul mio operato?
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
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R.L’esperienza occupa un posto alto, io mi sono resa conto che come sono
adesso, dopo dieci anni di lavoro, non lo ero all’inizio. Riflettendo sul mio
lavoro all’inizio, in tante situazioni mi sarei comportata diversamente.
Naturalmente bisogna avere una grande conoscenza degli strumenti e delle
leggi, quello dell’assistente sociale è un lavoro in cui non ci si può mai
sentire arrivati, per cui bisogna essere sempre aggiornati su tutto, perchè
l’utenza fa domade e richieste sempre più variegate, quindi bisogna aver
chiaro quali sono le prorpie competenze, e quelle degli altri. L’esperienza a
livello pratico, ovvero di come condurre un colloquio, di come portare
avanti una relazione d’aiuto, di come scrivere una relazione, conta molto,
perchè con il passare del tempo si migliora sempre di più, ovviamente si
devono avere le capacità per farlo e la mente aperta al miglioramento. Il
sapere teorico, d’altro canto è fondamentale. Ultimamente ho terminato la
specialistica e, questo percorso formativo mi è servito molto come
aggiornamento, e mi sono resa conto che a distanza di 20 anni, da quando
avevo finito la “vecchia” scuola di servizio sociale, le cose sono cambiate e
questo iter formativo mi ha permesso di aggiornarmi. L’aggiornamento deve
essere fondamentale e costante.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Qui abbiamo la fortuna di non lavorare sole, abbiamo un costante contatto
diretto con il direttore sanitario, che ci aiuta e ci sostiene in casi di
difficoltà. Naturalmente è importante non farsi prendere dal panico, se devi
dare una risposta immediata cerchi di dare quella che in quel momento ti
sembra la più giusta. Se si può rimandare la risposta, ovvero se essa non è
urgente, prendi tempo per documentarti e consultarti con le altre figure
professionali. Abbiamo anche necessariamnete creato dei rapporti con il
territorio, per cui tante problematiche le andiamo a verificare a confrontare
con il territorio. Ad esempio se ho un dubbio in merito al tempo necessario
per il rinnovo di una carrozzina, mi informo dalla collega dell’Asl.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
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R.Anche qui è molto importante l’esperienza, le emozioni vanno anche un
pò controllate, in quanto altrimenti sarebbe difficile instaurare poi una
relazione d’aiuto. Non vanno soppresse ma controllate.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Si il confornto con i propri colleghi è centrale, anche per interrogare
criticamente l’operato quotidianamente. Per quanto riguarda il rapporto con
l’utenza noi svolgiamo un duplice lavoro: ci occupiamo di segretariato
sociale, e curiamo il lavoro dei progetti (nella quale individuiamo degli
obiettivi di breve, medio e lungo termine) insieme agli educatori. Il
confronto è importante per avere una valutazione globale.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Sia momenti di riunioni d’equipe, di confronto, sia momenti di confronti
quotidiani informali.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Si, assolutamente.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Si perchè se non c’è riflessione non c’è ricerca e viceversa. Sono molto
collegate le due cose tra di loro.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Si, questi momenti coincidono con momenti di confronto con le colleghe.
Ci informiamo spesso sull’andamento del nostro lavoro, su come stiamo
lavorando. Questi momenti non sono strutturati e accompagnati da
procedure specifiche di valutazione e scaturiscono da un’esigenza personale.
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Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Si, ho fatto la specialistica per questo motivo, e accetto di buon grado la
questione dei crediti formativi. Questo però non deve rendere riduttivo il
fine dei corsi di formazione/aggiornamento. Alla fine dei corsi c’è una sorta
di scheda autovalutativa che oltre a servire a me, per comprendere meglio
quanto il corso mi abbia lasciato, crea dei momenti di riflessione sulla
professione e di scambio di valutazioni reciproche fra colleghe.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto-
formativo?
R.Rileggendo le relazioni sociali si capisce come si è valutato inizialmente il
paziente e questo permette di rilevare eventuali errori di valutazione che si
sono potuti fare. Le relazioni vanno aggiornate costantemente e in esse è
possibile ripercorrere gli stadi di evoluzione di una situazione, esse devono
essere in continuo itinere per tutta la durata del trattamento.
(VI Intervista Assistente Sociale Specialista Centro per disabili mentali)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Penso proprio di si, perchè questa aiuta l’operatore ad interrogare il
proprio operato, ad averne maggiore consapevolezza, è questo è molto
importante soprattutto nel nostro lavoro, in quanto ci relazioniamo con
persone portatori di una pluralità di interessi e problemi, appartenenti ad una
società in continuo cambiamento. Per cui essere riflessivi ti aiuta a vedere
anche eventuali errori che possono riguardare non solo la valutazione che si
fa di un problema o la definizione della soluzione ma anche pratiche
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lavorative proprie del contesto in cui si lavora e quindi a metterle in
discussione.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Sicuramente un impatto costruttivo in quanto essere riflessivi significa
essere aperti a migliorarsi, e questo significa assumere che il lavoro
dell’assitente sociale non è statico ma si costruisce giorno per giorno.
L’essere riflessivi comporta anche introdurre cambiamenti e questo è più
difficile a livello organizzativo, in quanto esiste una gerarchia di ruoli,
esistono pratiche burocratiche difficili da modificare e molto dipende dal
riconoscimento che si conferisce al ruolo dell’assistente sociale.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Noi operiamo attraverso il cartaceo, siamo pieni di procedure che
scandiscono il nostro lavoro. Queste permettono di creare una rete interna di
comunicazione che collega tutti i livelli “della piramide”, e permettono di
gestire meglio il lavoro. Per cui questo favorisce una lettura globale del
problema operata da più figure professionali insieme al direttore della
struttura.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Di sicuro l’esperienza occupa un posto prioritario, in quanto ti permette di
gestire meglio alcune situazioni. Ad esempio se in passato ho riscontrato
casi simili in via generale so come comportarmi. Riesco più facilmente a
fare una diagnosi, anche se ogni caso è unico in quanto subentrano diversi e
tanti fattori come il contesto familiare del paziente o quello comunitario. Le
teorie sono importanti in quanto orientano il comportamento, nel caso
dell’assistente sociale importanti sono i principi, il codice deontologico e di
sicuro tutta la normativa di riferimento. Per cui devono necessariamnete
camminare insieme.
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Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Di sicuro il confronto con gli altri colleghi o con chi ha più esperienza è
fondamentale per agire in queste situazioni. Inoltre non bisogna arrestarsi di
fronte all’imprevisto in quanto questo può diventare un’occasione di
apprendimento, qualora diventa oggetto di riflessione collettiva.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Importante e decostruirle ma non lasciarsi guidare esclusivamente da
queste.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Assolutamente il confronto è importante, sia per avere una visione globale
in merito ai casi/problematiche che si presentano ma, anche in merito alle
pratiche lavorative e all’organizzazione in generale. Il confronto ti permette
di non rimanere intrappolato nelle procedure burocratiche e ti permette di
migliorarle.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Ci sono delle riunioni previste quotidianamente con il direttore in merito
alle diverse problematiche riscontrate e dei momenti di consultazione tra
colleghi sui diversi casi.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Si, perchè sono funzionali alla sua esistenza, in quanto è una struttura
privata e di conseguenza deve essere aperta necessariamente alle
innovazioni e ai cambiamenti, i quali devono essere introdotti per mantenere
un’elevata qualità nell’erogazione delle prestazioni.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
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R.È una relazione essenziale perchè sono estremanente interdipendenti, in
quanto la riflessività è propedeutica alla ricerca, e quest’ultima ti “apre gli
occhi” alla realtà.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Nello specifico no. Dal confronto con i colleghi è possibile operare una
valutazione sul proprio lavoro e dal confronto con il direttore.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Sono necessari sia per accrescere competenze e conoscenze e sia perchè ti
rendono più consapevole del lavoro che svolgi. Ci sono delle griglie di
valutazione e autovalutazione alla fine dei corsi di aggiornamento che ti
permettono di verificare quanto si ha appreso e possono diventare anche
momento di confronto con altri colleghi in merito ai temi trattati.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.E’ importantissimo, perchè ti aiuta a ripercorrere nel tempo i cambiamneti
avvenuti in merito al singolo caso, e ti aiuta a comprendere gli schemi
mentali/interpretativi che metto in atto nella descrizione della
situazione/problema, e a rilevare di conseguenza degli errori laddove ci
sono.
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(VII Intervista Assistente Sociale Comunità Terapeutica)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Molto, soprattutto nello svolgimento del lavoro pratico quotidiano
all’interno della comunità, già dall’approccio relazionale con l’utente perchè
ovviamente si deve essere riflessivi, capaci di saper interagire in maniera
sana, responsabile, non devi lasciare spazio a situazioni che rimandano alla
tua vita personale, quindi si deve essere efficaci ed efficienti.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Un impatto sempre molto forte, anche perchè il contesto organizzativo in
cui opero funziona in maniera sinergica, di conseguenza nulla avviene a
caso, tutto è sanzionato anche a livello normativo, anche i contatti con i
colleghi, lo svolgimento dei compiti e le mansioni devono essere così come
devono essere. C’è una modulistica abbastanza copiosa, che non impedisce
momenti di riflessione e non mi rende neanche meccanica nel lavoro
semmai lo facilita, in quanto sono un metodo di riferimento, perchè si ha
ben chiaro il lavoro che si deve andare a fare e come deve essere espletato il
tutto, e questo facilita la gestione del lavoro quotidiano.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Intanto nella relazione in genere, poi ovviamente nel colloquio e nel
setting-clinico, dove per setting si intende non solo il colloquio individuale
ma anche quello di gruppo. Un’altra metodologia può essere il counseling
con il confronto con l’utente, anche questo è un buon approccio dalla quale
poter sviluppare riflessività.
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Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Io penso che l’esperienza sia basilare, forse più della teoria, perchè con
l’esperienza acquisisci delle metodologie che difficilmente leggi sui libri di
testo, non perchè non siano riportate, ma perchè nel momento in cui le studi
non si ha quella predisposizione mentale e relazionale emotiva che invece
acquisisci con l’esperienza diretta sul campo. La teoria ti guida, è un punto
di riferimento, la pratica e l’esperienza ti permette di farlo il lavoro.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.La prima cosa è non perdere la calma, bisogna essere riflessivi,
puntualizzare la situazione, per quello che può servire valutarla per poi
riportarla a terzi, per avere una maggiore obiettività che difficilmente si può
avere relazionandosi con una situazione di disagio.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Molto importante è rileggerle affinchè non primeggino nella lettura di un
disagio.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Il confronto qua è pane quotidiano, non solo nella gestione del lavoro con
l’utente, ma anche tra colleghi tanto che oltre ad una riunione organizzativa
settimanale, costruiamo un lavoro di supervisione, c’è un referente
terapeutico che ci fa supervisione dei compiti.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Usufruiamo di questo spazio settimanale di confronto: la riunione
organizzativa, e la riunione detta terapeutica. Nella prima riunione trattiamo
i problemi di gestione del lavoro, dalla situazione amministrativa a quella
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manutentiva e poi ovviamente a quello che è il lavoro con l’utente. Nella
riunione terapeutica trattiamo proprio quello che l’operatore vive a livello
emotivo nel contesto e nell’interazione con gli altri, colleghi e utenti.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Si e sono la riunione settimanale organizzativa e quella terapeutica.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Penso sia basilare questa relazione, perchè le persone sono una sorta di
spugna, per cui abbiamo sempre bisogno di imparare, di confrontarci
sempre e di essere sempre dinamici.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Si. Questi momenti coincidono con la riunione terapeutica e
organizzativa. Nella prima siamo accompagnati dalla presenza di un
supervisore esterno, quindi completamente avulso dalla realtà sia interna e
sia esterna della comunità. Gli esiti di questi incontri fungono da importanti
punti di riferimento, perchè i punti deboli diventano punti di forza, in quanto
si acquisice consapevolezza di quello che sono i tuoi limiti o di quello su cui
devi andare ancora a lavorare.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Nel mio lavoro è indispensabile fare questo. Questo è un campo di
addestramento dove c’è sempre da imparare e metterti in gioco. Comunque
intanto hai una metodologia di riferimento che ti permette di fare il tuo
lavoro in maniera esemplare e, poi tutti i moduli interni sono dei criteri
qualità a cui noi abbiamo aderito.
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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Rivedere e rileggere quello che hai fatto, ad esempio il coordinamento di
due settimane prima, ti mette sempre in una condizione di avere chiaro chi
sei e dove stai andando, soprattutto in una professione come la nostra in cui
sei sempre sotto torchio.
(VIII Intervista Assitente Sociale équipe socio-educativa)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Si è importante perchè il nostro lavoro è in continua evoluzione ed esige
una costante opera di riflessione che serve appunto per responsabilizzarti e
migliorarti.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Un impatto importante in quanto ti rende consapevole del fatto che
l’aggiornamento deve essere continuo, così come anche il confronto con i
colleghi ti aiuta a leggere meglio le situazioni che ti si presentano,
comunque l’esperienza ti aiuta poi a sviluppare queste capacità, all’inizio è
sempre dura.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Di sicuro il confronto con le colleghe, discutiamo a lungo sui vari casi,
questa équipe fa parte del’Asl n° 4 e settimanalmente ci sono delle riunioni
con la direttrice. Lei ci aiuta dandoci delle direttive su come svolgere il
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lavoro e valuta il nostro operato. Inoltre io personalmente mi confronto
spesso con una collega psicologa che fa parte di un’altro ente nel momento
in cui il problema riguarda un minore della stessa giurisdizione, per cui ci
sono anche questi confronti “informali”.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R. L’esperienza occupa un posto primario, in quanto ti aiuta a destreggiarti
meglio nelle situazioni, nel rapporto con gli utenti, con i colleghi e anche a
muoverti nel territorio. Le teorie fungono da guida, da punto di riferimento
ma poi è grazie all’asperienza che acquisisci praticità.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Attraverso il confronto con i colleghi e la dottoressa dell’ASL. Ma in
primis rifletto tantissimo in quanto mi relaziono principalmente con i
bambini è questo è un compito molto delicato che richiede sicuramente
sensibilità ma anche molta responsabilità.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Di sicuro subentrano ma poi è molto importante analizzarle e farle
divenire oggetto di confronto con i colleghi.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.È centrale, perchè il confronto ti permette di capire meglio la storia, il
contesto socio-familiare in cui è inserito l’utente. Inoltre il nostro lavoro non
viene fatto in solitudine, creare una rete è importante per avere tutte le
informazioni necessarie per dare risposte efficaci. Il confronto soprattutto
tra colleghe appartenenti ad enti diversi di sicuro ti permette di paragonare
le pratiche lavorative e organizzative specifiche dei due contesti.
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Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Si le riunioni settimanali con la dottoressa dell’ASL e momenti informali
tra colleghe, anche appartenenti ad altre strutture. Oggetto dei confronti
sono, con la dottoressa, i diversi compiti svolti, eventuali chiarimenti in
merito a difficoltà incontrate o errori fatti, quindi in generale l’impostazione
del lavoro e la valutazione di esso. Con le colleghe discutiamo sui casi.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Si.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Una relazione importante in quanto, la riflessione attiva il confronto e la
ricerca, in quanto ci relazioniamo con realtà eterogenee e mutevoli.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Non abbiamo delle schede di autovalutazione. Abbiamo dei reporter che
dovranno essere poi valutati insieme alla dottoressa durante gli incontri
all’ASL. La valutazione professionale si attua negli incontri con la
dottoressa, nel momento in cui ci vengono date delle indicazioni e direttive
su come è stato svolto il compito e su come dovranno essere svolti i
prossimi.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Si è essenziale come dicevo prima, soprattutto nel nostro lavoro. Io non
seguo corsi di aggiornamento da anni in quanto non siamo rese partecipi.
L’approfondimento su alcune tematiche scaturisce solo da un’esigenza
personale. Per cui mi argomento e mi aggiorno personalmente.
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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Aiuta tantissimo in quanto ti permette di riflettere sul problema di
rivalutarlo, di comprenderlo meglio. Inoltre può diventare uno strumento di
confronto con altre colleghe che sicuramente aiuta a smontare alcune
convinzioni o interpretazioni, e a corregere errori.
(IX Intervista Assistente Sociale Progettista)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.La capacità di fare attraverso una riflessione continua è fondamentale. La
competenza riflessiva diventa fondamento professionale nel momento in cui
permette l’essere razionali sulle proprie decisioni: agire consapevolmente e
senza ritualità. Nel corso di una “passeggiata sul territorio” da “studiare”, ad
esempio, diventa fondamentale per raggruppare gli appunti e i pensieri
necessari all’analisi territoriale e definire le problematiche riscontrate
realmente confrontandole con le richieste manifestate, spesso irreali o
sottovalutate, da chi assegna l’analisi stessa.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Operando come libero professionista in diversi settori posso trovare due
diverse risposte: potrebbe trovare un impatto positivo e di “crescita” rispetto
alle realtà territoriali consolidate sul territorio quali gli enti pubblici, ma
spesso, questi cadono anche consapevolmente in un vortice di ripetitività
delle situazioni e non sono aperti a percorsi di cambiamento, la palese
difficoltà di confronto con colleghi “anziani” porta spesso a non poter
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“riflettere” sulle azioni compiute. La metodologia di azione in questi casi
porta ad avere un ruolo di interfaccia “bifronte” da un lato illudendo l’ente
appaltatore e i colleghi di agire nella routine senza “perdere tempo”,
sfruttando magari i ritardi della loro burocrazia; dall’altro assumendo un
“atteggiamento riflessivo” e certamente più professionale nei confronti
dell’utenza. Nelle realtà del terzo settore “nuove”, facenti parte del privato
sociale l’atteggiamento è direttamente e certamente più professionale e si
cerca di agire trattando l’apprendimento riflessivo come contributo
all’analisi e alla conoscenza pratica delle situazioni come già detto.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Spesso preferisco mettere in atto la riflessione e le pratiche riflessive
condotte con i colleghi, non disdegno però una riflessione individuale
condotta introspettivamente - in maniera retrospettiva – ripensando sempre a
qualcosa.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza? Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Nella nostra professione si parte sempre dall’incertezza e da difficoltà
interpretative. Per la definizione del problema e la progettazione
dell’intervento è certamente necessaria l’esperienza associata però alla
capacità di guardare “oltre”, all’empatia e, perché no, all’intuito piuttosto
che alle teorie. Spesso mi ritrovo a confrontarmi con colleghi con molti più
anni di esperienza di me che si ritrovano, probabilmente per i meccanismi di
routine già citati, ad agire quasi inconsapevolmente. Nei casi più difficili è
fondamentale il confronto tra “vecchie” e “nuove” scuole, per l’evidente
stanchezza dei primi e la vivacità dei secondi. Questo per raggiungere un
opportuno equilibrio nell’analisi e nella progettazione dell’intervento di
aiuto, riconducibile al fare concreto e ad un agire pensato e condiviso per
l’acquisizione di capacità atte a sviluppare l’empowerment dell’utenza.
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Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Nei contesti con i quali mi confronto l’incertezza la fa da padrona. Essa è
una opportunità di crescita personale e professionale. Un esempio che potrei
citare è certamente il contesto che si presenta nei casi di ritardo di
pagamenti da parte di enti pubblici laddove si opera in progetti con doppia
finalità quali il servizio di assistenza domiciliare ad opera di donne in
difficoltà, disoccupate di lunga data, ragazze madri, etc: spesso gli enti
rinviano i soldi con risposte piuttosto fantasiose e il tentativo che devo
compiere con i colleghi è di dare certezze, spesso fittizie, alle insistenti
richieste di operatrici realmente bisognose, intervenendo in seguito con i
solleciti nei confronti degli enti appaltatori.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.A mio parere il contesto deve essere poco emozionale per comprendere
con lucidità la metodologia più adatta all’intervento.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? E’
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Come già avrai evinto dalle mie precedenti risposte è fondamentale più
che centrale il confronto permette un continuo confronto e messa in
discussione dell’operato.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Come sai, io mi occupo prevalentemente di progettazione. Ti cito ad
esempio i brain storming che facciamo quando si cerca una idea progettuale
“innovativa” in risposta ad un bando, non è raro che l’idea iniziale venga
stravolta e si passi a tutt’altro campo di intervento. In questo periodo stiamo
lavorando ad una idea, inizialmente dovevamo intervenire sull’integrazione
tra disabili attraverso un progetto con interventi che prevedessero lo sport
come amalgamante, ieri abbiamo deciso dopo una accesa discussione di
intervenire utilizzando un progetto riguardante l’arte. Il confronto come
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avrai capito avviene su ogni fase progettuale: dalla ideazione alla
rendicontazione e chiusura del progetto. La metodologia utilizzata
comprende le classiche riunioni face to face, per motivi logistici spesso
siamo in conference calling e non disdegnamo ovviamente i nuovi canali di
comunicazione. La giovane età dei gruppi di lavoro fortunatamente permette
anche questo. E non abbiamo alcun vincolo organizzativo: sia una pizza o
una riunione formale riusciamo armoniosamente a discutere delle nostre
idee.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Fortunatamente lavoro in un contesto dinamico dove ognuno di noi ha il
proprio bagaglio di esperienze e di idee. Lo scontro, sempre amichevole, ci
ha sempre portato alle migliori decisioni, ad oggi stiamo crescendo insieme
in un progetto comune ed unico di lavoro nei confronti della comunità. Le
conoscenze individuali sono sempre depositate in un patrimonio comune.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.L’atteggiamento riflessivo porta sicuramente ad una riproduzione di
alcuni interventi, spesso gli interventi e le metodologie sembrano simili,
tuttavia lo “stile” personale/professionale, il marchio di fabbrica se
vogliamo utilizzare un termine economico – parliamo di privato sociale, non
è nulla di più di un ridimensionamento o miglioramento nei confronti di un
intervento.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.La valutazione è spesso “obbligata” nei nostri/miei crono programmi. Il
privato impone standard di qualità elevati nei confronti dell’utenza e degli
enti appaltatori: per essere competitivi sul mercato e perché il confronto con
il servizio pubblico è costante.
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Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R. E’ fondamentale per vedere e ri-ponderare gli interventi e le metodologie
utilizzate in passato.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Spesso però mi affido alla memoria e l’introspezione mi permette di
consultare anche le “sensazioni” e “percezioni” difficilmente identificabili
in una sterile relazione.
(X Intervista Loredana Nigri, Assistente sociale esperto -Responsabile
Area Integrazione Sociosanitaria/Servizio sociale professionale ASP di
Cosenza. - Docente a contratto Facoltà Scienze Politiche, Corso di
Laurea Scienze del Servizio Sociale UNICAL)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Sia nel lavoro clinico, nonchè, relazione d’aiuto, che in quello
promozionale, organizzativo.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.I contesti lavorativi della pubblica amministrazione sono per loro natura
diffidenti e restii ad ogni cambiamento. Tendono inoltre ad attivare una
condotta di lieve o forte resistenza verso atteggiamenti professionali non
riconducibili all’ordinarietà e a tutto ciò che percepiscono come
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consuetudinario. Nel mio caso vengo spesso definita, come se ciò fosse una
colpa, come teorica.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Leggo e interpreto ciò che mi si presenta giornalmente in un’ottica
sistemico relazionale, in cui io, l’Azienda in cui lavoro, e le persone, nel
mio caso colleghe/i anche di differente professionalità, che si rivolgono al
servizio di cui sono responsabile, come parti del sistema.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.L’esperienza ci aiuta a contenere l’inevitabile compromissione emotiva,
ma non la evita e forse è meglio così, perché una certa vulnerabilità e
fragilità, paradossalmente rende la Relazione d’aiuto più forte. Metodo e
tecniche del processo d’aiuto incardinano e traducono scientificamente una
realtà, singola e plurale, altrimenti incomprensibile se si usano categorie
interpretative personali, stereotipi, luoghi comuni,buon senso etc.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Mi fermo e penso.Funziona sempre o quasi sempre.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Ancora troppo per fortuna.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Rimane centrale il confronto e va favorito il più spesso possibile. Non
vanno eccessivamente enfatizzate le differenze che emergono. Sono solo un
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modo altro di “leggere e vivere “ una situazione problematica dell’utente e
una condizione lavorativa dell’assistente sociale.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Occasioni formative e progettuali, lavori di gruppo. Condivisione delle
scelte e priorità da affrontare e delle azioni di sistema da attivare.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Non li favorisce, ma non li contrasta. L’amministrazione pubblica confida
nella “naturale demotivazione” e svilimento della “meglio gioventù
professionale”. E questo purtroppo avviene. Sempre.Quasi sempre.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.L’uno discende ed è costitutivo dell’altro.L’atteggiamento riflessivo è lo
stesso “modus ponens” del ricercatore.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Purtroppo ancora no. La valutazione è fraintesa e scambiata per una mera
elencazione di attività, senza che si possa entrare nel merito dell’efficacia e
dell’appropriatezza delle prestazioni a cura delle assistenti sociali.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Si .Mi fanno stare meglio e mi caricano di energia e creatività.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Ne penso tutto il bene possibile.Ma scrivere è il tallone d’Achille della
professione sociale.Purtroppo registro questa negligenza anche nelle giovani
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assistenti sociali, troppo vocate ad un aiuto spesso più simile ad uno slancio
volontaristico che ad una metodologia professionale.
(XI Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Ospedale Civile)
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Certamente, perchè non si può agire senza riflettere su quanto si fa. È
questo in tutte le situazioni, perchè abbiamo un’utenza variegata, e
relazionarsi con problemi e situazioni complesse richiede necessariamente la
riflessività.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Normalmente anche nei rapporti tra colleghi è importante, perchè molto
spesso insieme valutiamo e riflettiamo sui problemi che si presentano e su
quanto ci succede nel rapporto con l’utenza e sulle conseguenze.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Il lavoro, l’operatività è diventata routinaria. Non ci sono pratiche
specifiche, svolgiamo il lavoro come ci si presenta giornalmente. In ogni
situazione che incontriamo attiviamo momenti di riflessione.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R. Le teorie ormai penso che le abbiamo superate da tempo, almeno noi che
lavoriamo da tanti anni e l’esperienza a farci da scuola.
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Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R. Noi spesse volte siamo portate a trovare soluzioni a problemi che
sembrano insolubili ma, comunque cerchiamo sempre di trovarle attraverso
confronti con colleghi e collaborazioni con l’esterno e con il territorio.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R. Penso che le emozioni non debbano incidere nel nostro lavoro, e queste
devono essere sempre oggetto di confronto.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R. Noi abbiamo sempre avuto la buona abitudine di confrontarci e
chiramente è utile questo confronto, in quanto permette di mettere in
discussione i propri modelli operativi utilizzati. Noi non lavoriamo in
compartimenti stagni.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R. Non abbiamo dei momenti specifici dedicati al confronto. Però, di solito
a fine giornata, affrontiamo le diverse problematiche e ci confrontiamo su
quanto successo nella giornata o su casi in corso.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R. In questo periodo non tanto perchè siamo ridotti in organico, siamo
costretti a turni, quindi i momenti di confronto alla fine sono ridotti, in
quanto immerse nelle urgenze quotidiane. Inizialmente c’erano dei giorni
fissi in cui erano previsti momenti formali di confronto, adesso è un pò più
difficile realizzarli.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
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R. Si penso che sia un rapporto interdipendente.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R. Non avviene la valutazione professionale, non c’è una valutazione
dall’alto e nemmeno esterna, operata da un supervisore. Non abbiamo un
referente. La valutazione professionale è piuttosto data dal confronto tra di
noi.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Qualche volta abbiamo partecipato a corsi di aggiornamento, attualmente
no per problemi di organico, che ci porta a fare più turni durante la
settimana. Non possiamo lasciare scoperto il lavoro. In genere partecipiamo
ai corsi promossi dall’università, dall’ordine. La nostra azienda non si
occupa molto della nostra formazione. L’azienda sanitaria, qualche volta, ci
coinvolge. Sono anni che non partecipiamo a corsi di aggiornamento. La
necessità della formazione continua io la vedo sempre.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R. Diciamo di sì, anche se anche questa è diventata routinaria.
(XII Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Comune)
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Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Si, perchè si deve essere riflessivi in tutte le cose, specialmente quando si
tratta di essere determinanti rispetto a persone, nonchè gli utenti che noi
aiutiamo.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R. Sicuramente sul mio operato ha un buon impatto, perchè riflettere
significa accorgersi di possibili errori che si fanno, in quanto non siamo
infallibili. Poi invece per quanto riguarda nell’organizzazione, non ha
nessun impatto perchè non esiste.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R. Nel colloquio sicuramente, io comunque ritengo che le pratiche riflessive
siano messe in atto in tutto, in quanto ad esempio io faccio dei feedback
sulla situazione, ed è in quel momento che rifletto. Anche nella
comparazione di situazioni e sensazioni che potrebbero essere simili rifletto.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R. Io credo che siano importanti entrambi, certamente l’esperienza può
farla da padrona, perchè la teoria resta teoria. Anche se dobbiamo avere
delle conoscenze che ci guidano. E’ l’esperienza che però ci fa acquisire
quella capacità di discernere meglio un problema, perchè poi la realtà è
molto diversa.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R. Questa è una domanda complessa, perchè spesso noi ci troviamo ad
operare in condizioni di incertezza. Ma io credo che l’incertezza di come
agire non sia dovuta al fatto che non ci siano procedure specifiche o
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normative di riferimento, ma piuttosto sia dovuto al fatto che, dopo
trent’anni di questo lavoro, ho appreso che il benessere della persona non
importa a nessuno, non interessa ai politici, e forse neanche a noi che
facciamo questo lavoro. C’è pochissima tutela delle persone in genere, c’è
una continua delega di responsabilità. Non ho tante incertezze sul “come”
ma sul “se posso”, sulle risorse, su come poter fare per quella persona e
tutelarla. Le incertezze sono sul sistema.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R. E’ indubbio che ancora mi emoziono, dopo trent’anni di lavoro. Nel
nostro lavoro si deve lavorare anche con il cuore, di sicuro non bisogna
privilegiarlo. Io, dunque, lavoro su me stessa, perchè comunque devi essere
razionale, perchè poi si finisce per diventare cinici.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R. Per me è importante confrontarsi con gli altri. Ad esempio, alcune volte
anche le osservazioni dei tirocinanti mi hanno fatto riflettere su alcune cose,
però, nella mia esperienza non esiste il confronto perchè subentrano le
invidie, gelosie, competizioni e tutto ciò è indicatore di ignoranza e di
arretratezza e soprattutto questo si riflette e non aiuta nel nostro lavoro.
Tanti anni fa feci una proprosta, nel nostro ufficio, dicendo che avevavmo
bisogno di una supervisione, ma si sono opposte tutte, perchè non si è
accettato il fatto che una figura esterna e per di più una nostra collega,
assistente sociale, potesse aiutarci e, comunque subentra anche il fatto che si
ha paura poi di essere giudicate sul proprio operato. Questo significa che
oltre ad essere ingoranti non si da tanta importanza al lavoro che si svolge.
Molte di noi non volevano fare le assistenti sociali, ma capitò il periodo
giusto, i diplomini e molte intrapresero questa strada, per cui se uno fa
questo lavoro per fare un lavoro, le conseguenza sono queste e tante cose
non interessano. Io al contrario credo nella supervisione e nella sua utilità,
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perchè nella maggior parte delle volte siamo prese dalle urgenze da altre
cose e alcune di queste ci sfuggono.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R. Non ci sono momenti di confronto.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.No. Questo servizio sociale è rimasto sempre allo stesso livello.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R. Penso sia un rapporto propedeutico, interdipendente.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R. Abbiamo delle schede di valutazione, ma sono appiattite, sono tutte
uguali.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
Si, io ho bisogno di imparare continuamente, anche dopo trent’anni che
opero, ma, penso che i corsi, i seminari non servino a nulla, in quanto non ti
aiutano poi a gestire la quotidianità e la realtà. Inoltre ritengo che chi fa i
seminari debba operare in questo campo, altrimenti sarebbe uno che parla di
un qualcosa che ignora, a lui estraneo. Una volta che noi portiamo le nostre
esperienze, anche negative, in merito ad esempio all’organizzazione di cui
siamo membri, si dovrebbe poi, attivare una rete, che ci permetta di
migliorare le cose e le esperienze negative che riportiamo. Che ci vado a
fare se quello che poi espongo e recepiscono rimane lì, lettera morta.
L’unica cosa positiva e che si attiva un momento in cui si scambiano le
diverse esperienze. Il corso di formazione deve dare, ma deve anche aiutare
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chi vi partecipa a poter affrontare le problematiche riscontrate per migliorare
il servizio e l’operato. Io tutto ciò non l’ho mai riscontrato.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R. E’ importantissimo rileggere e leggere, documentarsi continuamente, per
migliorarti e per prendere maggiore consapevolezza, perchè spesso si opera
in maniera frenetica, e questo fa si che molti aspetti siano tralasciati o che
molte azioni poi siano fatte in modo automatico.
(XIII Intervista Assistente Sociale Centro di Salute Mentale )
Rilfessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Penso che la riflessività debba accompagnare ogni fase del lavoro,
soprattutto nella fase iniziale è molto importante, in quanto è in essa che si
deve definire il problema, e quindi vi è una raccolta di dati, informazioni
necessaria per costruire un’anamnesi attenta. Essere riflessivi ti aiuta a
prendere in causa più aspetti, e soprattutto ti aiuta a rilevare dei punti che
magari ti sono poco chiari.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R. Un impatto positivo in quanto ti aiuta a capire meglio cosa stai facendo,
dove e se stai sbagliando, quindi ti aiuta anche ad attivare momenti di
confronto con altre figure professionali, appartenenti all’ente ma anche
esterni. L’impatto a livello organizzativo risiede nel fatto che la riflessività
attiva momenti di confronto e quindi di lettura condivisa di una situazione.
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Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R. Di sicuro la relazione sociale è molro importante, in quanto diventa uno
strumento che ti permette di ripercorrere la storia dell’utente, eventuali
relazioni con altri strutture, nel caso fosse stato ricoverato in una struttura
privata e le relazioni con altri professionisti. Il nostro è un lavoro di rete, ed
è funzionale all’altro. Anche nei colloqui clinici e attraverso i test
psicodiagnostici.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R. Io opero da molti anni, e devo dire che l’esperienza è centrale, in quanto
ti permette di acquisire maggiore scaltrezza nel modo di relazionarti con
l’utente, nel modo di rapportarti ai familiari e anche con le colleghe sia
dell’ente che non. Le teorie sono altrettanto importanti in quanto noi
abbiamo un codice deontologico da rispettare e ti guidano.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R. Diciamo che il lavoro nel CSM è scandito da moduli e pratiche da
osservare, perchè si è a contatto con persone che hanno storie di vita e
familiari particolari. Per cui è molto importante avere non solo sensibilità
ma anche autocontrollo e razionalità, perchè si ha una grande responsabilità.
Quando un problema non è chiaro mi attivo per ricavare tutte le
informazioni possibili anche attraverso il confronto con altre colleghe.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Quelle di sicuro sono presenti ma cerco di rivederle sempre e trarne la
parte positiva per aiutare gli utenti.
Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
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R. E’ centrale. All’interno i ruoli sono ben definiti, per cui una lettura non
solo dal punto di vista mio ma anche psicologico e medico, mi aiutano
moltissimo a vedere il caso a 360°. Molto importante è anche la rete che si
promuove con gli altri servizi. In quanto la maggior parte del nostro lavoro è
appunto caratterizzato dalle relazioni con i colleghi delle altre strutture e
quindi con il territorio.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R. Ci sono degli incontri quotidianamente tra colleghi e una riunione
organizzata settimanalmente sui casi.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R. Si, in quanto sono necessari soprattutto in questo campo.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R. Penso che l’uno sia funzionale all’altro.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R. Non ci sono dei moduli specifici. I momenti di valutazione si hanno
durante le riunioni sui casi.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R. Si, anche se è il tempo che ha volte manca. Comunque ritengo che siano
momenti dalla quale poi attivare riflessione sul proprio operato al fine di
migliorarlo.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
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R. Per me è fondamentale, anche perchè siamo immerse da registri cartacei
e procedure. Essa ti aiuta a ripercorrere non solo il caso che affronti ma
anche eventuali errori.
(XIV Intervista Assistente Sociale Specialista Consultorio Familiare)
Rilfessività e sapere pratico
• Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Sicuramente la riflessività nella nostra professione è un atteggiamento
importante e utile al fine di agire in maniera opportuna sia nel lavoro con
l’utente, che nel lavoro di équipe. Tuttavia spesso ci troviamo a dover agire
in contesti burocratici, organizzativi che difficilmente lasciano del tempo a
disposizione per l’attività riflessiva, nel senso che nei servizi spesso si è
portati più allo svolgimento meccanico delle mansioni piuttosto che al
ragionamento e alla riflessione sulle nostre azioni e sensazioni, del resto
siamo spesso invischiate in organizzazioni prettamente burocratizzate.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.L’impatto di un atteggiamento riflessivo non può che avere dei risvolti
positivi, attraverso di esso riusciamo a comprendere spesso gli errori che
commettiamo nello svolgimento del nostro lavoro, sia esse di back office o
di front office, inoltre ci rende consapevoli dei sentimenti e delle sensazioni
che possiamo provare nello svolgimento delle attività giornaliere e
straordinarie, così da poterli correggere, e da poter migliorare le nostre
prestazioni professionali e lavorative.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
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R.Nel nostro servizio non sono previsti precisi strumenti e metodi
“riflessivi”, bensì questo, nel mio caso, si traduce in un’attività individuale
che raramente riesco ad intraprendere con altri colleghi soprattutto se questi
hanno un’altra formazione professionale, mi riferisco ad esempio a figure
come quella dei medici e degli psicologi.
Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Sicuramente la teoria può ricoprire un ruolo molto importante per chi si
trova a dover operare in una situazione di “noviziato”, tuttavia per chi fa
questo lavoro da tanto tempo la forza trainante è sicuramente l’esperienza
pratica. Infatti, chi ha sulle spalle un po’ di anni di servizio è stato ormai da
tempo disincantato dalla realtà. Nel periodo in cui frequentavo l’università
la teoria faceva sembrare tutto molto più semplice e lineare, quando poi mi
sono trovata nella realtà dei servizi mi sono resa conto che spesso chi si
occupa di “teoria” perde il contatto con la realtà mitizzandola molto spesso.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Da questo punto di vista individuerei un paradosso, infatti, nell’attività
pratica quotidiana gli imprevisti sono quasi all’ordine del giorno, divenendo,
paradossalmente appunto, la normalità. In questo senso l’attività riflessiva
viene messa in atto spontaneamente, l’imprevisto infatti generando
incertezza innesca inevitabilmente un meccanismo riflessivo sulla situazione
che ci si propina.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Ritengo che le emozioni non debbano guidare la nostra attività
professionale, tuttavia non possiamo fare a meno di provare delle emozioni,
l’importante in questo caso è non lasciarsi guidare da queste ma dominarle
in modo tale da impedire un eccessivo coinvolgimento che potrebbe portare
al fallimento dell’intervento d’aiuto.
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Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Il confronto con gli altri è sicuramente una parte importante di qualsiasi
attività professionale e non solo, “discutere” con gli altri ci mette a
conoscenza di altri punti di vista, di altre sensazioni, spesso non ci fa sentire
soli nel dover affrontare situazioni critiche, ma è importante che sia
l’organizzazione a garantire dei momenti di confronto reciproco. Nella mia
esperienza spesso non è stato così, e i momenti di confronto consistono in
realtà in momenti valutativi da parte della direzione del servizio.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.I momenti di “valutazione”, come ho detto precedentemente, ad opera
della direzione avvengono per lo più a fine giornata, è in questo momento
che il lavoro da me svolto durante la giornata viene esaminato e valutato.
Sempre in questo contesto, nel caso in cui siano presenti imperfezioni o
errori ci si “confronta”, anche se è una parola un po’ grossa, il confronto è in
realtà una bocciatura o una nota di merito da parte della direzione, ma ripeto
non sono previsti dei momenti veri e propri di confronto tra colleghi.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Ritengo che l’organizzazione non favorisca questi momenti perché
percepisce la professionalità dell’assistente sociale più finalizzata
all’adempimento di mansioni burocratiche piuttosto che vederla come parte
integrante di un corpo specialistico di intervento psico-sociale.
Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.Penso che il rapporto sia interdipendente. Non ci può essere l’una senza
l’altra.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
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R.Ripeto la valutazione professionale avviene giornalmente, non sono
ovviamente pratiche codificate, ma consistono piuttosto in attività
consuetudinarie, da cui non scaturisce la realizzazione di griglie valutative
vere e proprie, il tutto rimane cioè in un ambito di colloquialità, e quindi
attraverso attività verbale, non codificata, appunto. Personalmente utilizzo
questi momenti al fine di comprendere i miei errori e migliorare la mia
attività lavorativa, ma ripeto purtroppo mi sento confinata in un contesto
fortemente burocratizzato.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Quando posso cerco sempre di dedicare il mio tempo alla riflessione, e
alla formazione, ritengo che il concetto di formazione continua sia di
centrale importanza nello svolgimento del nostro lavoro, ma questo concetto
deve essere assolutamente inserito in un contesto organizzativo disposto
all’innovazione, e al miglioramento delle proprie prestazioni, nel senso che
la volontà positiva insita nei processi di formazione continua debba tradursi
in volontà personale e professionale ed organizzativa.
Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Ritengo che questa funzioni ai fini dell’autoformazione solo nel momento
in cui contenga dei buoni canoni metodologici, nel senso che se la
documentazione professionale che ho prodotto è qualitativamente positiva
allora costituisce strumento di auto-formazione, in caso contrario rischierò
di consolidare e cementificare i miei errori.
(XV Intervista Assistente Sociale Specialista Servizi Sociali Comune)
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Riflessività e sapere pratico
Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul
proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la
professionalità dell’assistente sociale?
R.Riflettere aiuta a crescere come persone e come professionisti. Nel caso
dell'assistente sociale è indispensabile una competenza riflessiva, per
tutelare le persone e non offrire un intervento approssimativo e ripetitivo. Il
rivedere il proprio “fare” è essenziale per non perdere la bussola o farsi
prendere dalla foga di dare risposte a prescindere da chi si ha di fronte. Per
riflettere ci vuole del tempo, la competenza nella riflessione consente di
trovare di volta in volta la strategia migliore di intervento.
Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel
contesto organizzativo di cui fa parte?
R.Un atteggiamento riflessivo fa la differenza. Nel lavoro del singolo
professionista consente di maturare professionalmente, con il conseguente
vantaggio di rispondere in maniera sempre più precisa e puntuale alle
necessità dell'utenza. A livello organizzativo consente invece di strutturare il
lavoro con maggiore efficienza, aumentando la produttività
dell'organizzazione stessa.
Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche
riflessive?
R.Nella pratica professionale cerco di dedicare il tempo necessario ad una
buona analisi dei dati sociali raccolti. Quando non conosco bene un
argomento, cerco letture di approfondimento e se possibile il confronto con
colleghi più esperti.
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Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione
dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza? Quanto aiutano le
procedure (teorie) standard nella definizione di esso?
R.Maggiore è l'esperienza professionale dell'assistente sociale, più è
obiettiva l'individuazione del problema, e migliore è la procedura di
intervento che si mette in pratica. Fare riferimento alle teorie consente di
affrontare il lavoro sociale non solo basandosi sul proprio buon senso, ma
favorisce un agire professionale consapevole. Le teorie aiutano ad
incanalare il proprio lavoro fornendo un inquadramento generale del
problema e garantendo uniformità ed uguaglianza nell'erogazione dei
servizi. All'atto pratico, poi, gli interventi sono sempre specifici ed
individualizzati.
Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?
R.Personalmente cerco di vagliare le varie soluzioni di intervento,
prendendomi comunque del tempo per riflettere nonostante la possibile
urgenza. Se necessario chiedo una consulenza ai colleghi specializzati in
quel determinato settore di intervento.
Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una
situazione?
R.Emozioni e sentimenti fanno parte dell'assistente sociale e anche
dell'utente, l'importante è esserne consapevoli. E' bene riconoscere ciò che ci
crea fastidio, rabbia, tristezza ma anche gioia per poter agire più
consapevolmente. L'assistente sociale dovrebbe avere di base una
propensione all'aiuto verso i bisognosi che gli consenta di creare un rapporto
significativo con l'utente, basato in particolare su una forte capacità di
ascolto empatico. L'esperienza aiuta a gestire le emozioni per rendere la
capacità di comprendere i bisogni più oggettiva e meno legata all'emotività.
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Apprendimento organizzativo
Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è
centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?
R.Il confronto con i colleghi, secondo me, è essenziale. Dal confronto
sull'agire professionale si produce una crescita personale e professionale dei
soggetti coinvolti perché si possono condividere modi diversi di vedere lo
stesso problema/fenomeno e quindi apprendere nuovi strumenti e trovare
soluzioni innovative. Personalmente credo che il confronto costruttivo
fornisca nuovi spunti per riflettere sul proprio operato.
Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto
tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?
R.Nell'ambito distrettuale in cui lavoro ci si incontra in équipe, con il
proprio coordinatore o con colleghi di altri servizi. Affrontare problematiche
concrete derivate dal lavoro quotidiano, riflettere insieme sull'evoluzione dei
fenomeni in senso ampio o sulle politiche sociali giova alla crescita
personale e professionale dei “partecipanti”.
L’organizzazione favorisce questi momenti?
R.Qualsiasi organizzazione dovrebbe garantire questi momenti, formativi
e/o informativi, perché darebbero qualità all'organizzazione stessa.
Sarebbero utili da un lato per “raccogliere” il sapere professionale e
dall'altro per creare una squadra di operatori motivati e capaci di integrarsi
proficuamente.
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Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca
nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?
R.La riflessività è, come già ampiamente detto, è importante per valutare e
migliorarsi. L'atteggiamento curioso dell'assistente sociale permette
l'accrescimento del proprio sapere teorico e pratico. La riflessione e le
attività di ricerca consentono all'assistente sociale di sviluppare una
conoscenza approfondita e consapevole dei fenomeni e dei bisogni che
incontra nel lavoro quotidiano, e quindi di innovare il proprio modo di agire
professionale creando un rapporto interattivo tra teoria e prassi.
Pratiche riflessive
Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i
risultati di essa?
R.Personalmente cerco di ritagliarmi degli spazi per rivedere il mio agire
professionale, anche arricchendomi con nuovi spunti tratti ad esempio da
testi, riviste o suggerimenti di colleghi esperti. Secondo me anche l'essere
supervisori nei tirocini professionali degli studenti di servizio sociale aiuta a
rivedere il proprio modo di fare l'assistente sociale perché, per descrivere
all'altro ciò che si fa e perché lo si fa, si deve necessariamente fermarsi e
fotografare l'agito e anche le motivazioni/teorie che l'hanno fatto diventare
tale.
Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,
formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni
hanno?
R.Dedicare del tempo ad attività di riflessione, formazione e valutazione
non è solo una necessità personale, ma anche un dovere di ogni assistente
sociale. Sono attività che aiutano a modellare l'agire professionale, a
mantenere alta la qualità degli interventi, a perfezionare le competenze.
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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto
formativo?
R.Se per documentazione professionale si intende il materiale prodotto
dall'assistente sociale durante il suo lavoro, es. cartella sociale, relazioni,
ecc..., allora penso che sia uno strumento auto-riflessivo perché è il prodotto
della formazione che l'operatore ha già acquisito. Invece se per
documentazione professionale consideriamo il materiale recuperato da libri,
riviste, siti internet o altre fonti che l'assistente sociale consulta, studia,
allora possiamo considerarla come una modalità di auto-formazione.
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