università degli studi della calabria · 2011-12-20 · - sapere pratico e apprendimento...

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Università degli studi della Calabria

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea Specialistica in

Scienze delle Politiche e dei Servizi Sociali

Tesi di Laurea

“La Riflessività come filtro per incanalare il sapere

pratico”

Relatore Candidata

Sicora Alessandro Corno Elena Natali Gina

Anno Accademico 2008/2009

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INDICE

Introduzione » p.5

PARTE PRIMA

L’attitudine riflessiva alla radice della

professionalità degli assistenti sociali » p.9

1. Riflessività » p.10

- Il Professionista Riflessivo

- Ma chi è il “professionista riflessivo” ?

2. Epistemologia e natura del sapere del servizio sociale » p.33

- Sapere pratico e servizio sociale

- Sapere pratico e apprendimento organizzativo

- Cambiamento organizzativo

- Sapere pratico e Comunità di pratiche

3. Riflessività e Formazione Permanente » p.68

- La formazione continua come processo

“endogeno” alla pratica professionale

- La Formazione Permanente nel Servizio Sociale

- Valutazione e Formazione Permanente

- Le metodologie di pratica riflessiva

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PARTE SECONDA

La Ricerca » p.109

4. La ricerca: ipotesi di ricerca » p.110

- Metodo della ricerca: L’Intervista semi-strutturata

- La Rilevazione dei dati: la pratica professionale riflessiva

1. Rapporto tra Teoria e Pratica professionale

2. Gestire l’incertezza

3. “L’Assistente Sociale Riflessivo”

4. L’apprendimento organizzativo. Settore Pubblico e settore Privato

5. Habitus riflessivo e Formazione permanente

6. In conclusione...

Conclusioni » p.137

5. Allegato

Le Interviste » p.141

BIBLIOGRAFIA » p. 195

SITOGRAFIA » p.196

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“Il coraggio ha due volti. Quello di avanzare e quello di fermarsi o di

ritirarsi. Ci sono, nella vita degli individui, delle imprese e dei popoli,

momenti particolarmente favorevoli in cui sono possibili cose straordinarie.

E’ il momento di forzare il destino, di osare, di buttarsi avanti. I greci

chiamano questa occasione Kairòs. Ma l’occasione, il momento va

riconosciuto. E per farlo occorre lucida intelligenza, saper decifrare i

segnali che ci manda la realtà, ma anche esercitare uno sforzo su noi stessi.

Perché tutti tendiamo a pensare che le cose continueranno nello stesso

modo, ci adagiamo nell’abitudine ed abbiamo paura di rischiare”.

Francesco Alberoni - Abbiate Coraggio- 1998

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Introduzione

Negli ultimi vent’anni una conclamata accelerazione nei cambiamenti

culturali e sociali, la presenza di culture e prospettive differenti, ha richiesto

un continuo confronto tra valori personali e della comunità; la “certezza”

delle conoscenze si è progressivamente sfilacciata, strumenti e metodi sono

considerevolmente moltiplicati e la diffusione delle tecnologie ha di fatto

imposto alla figura dell’assistente sociale modelli innovativi per pensare e

operare.

Il crescente e conseguente interesse epistemico per le pratiche agite nelle

professioni, apportato da Schön, ha sottolineato la dimensione della

conoscenza pratica come una conoscenza che possiede una propria

specificità, diversa da quella del teorico, in quanto essa è giocata nel

contesto.

Si tratta di una linea di ricerca che mette in evidenza come l’assistente

sociale non possa essere un esecutore che applica modelli preconfezionati,

ma un architetto della conoscenza che tesse percorsi con dispositivi vari e

differenziati a livello relazionale, organizzativo e tecnologico.

L’avvento della postmodernità ha, di fatto, imposto un ripensamento

generale dei modelli di pensiero legati all’agire sociale e ha prodotto una

conseguente trasformazione delle idee e delle pratiche nel campo dei servizi

sociali. Una trasformazione tuttora in atto, tesa a ridefinire identità, ruoli e

strategie dell’operatore sociale, non più concepito come puro distributore di

prestazioni standard entro i rassicuranti confini del welfare state

tradizionale, ma come nuovo soggetto di una realtà senza dubbio più

complessa, dai contorni più incerti e dagli spazi di ricerca, di lavoro e di

intervento più ampi.

Si tratta quindi di far emergere modelli alternativi nel descrivere la natura

dei problemi sociali e di impostare le relative soluzioni secondo quadri

mentali e intuizioni nuove, in quanto operando in contesti mutevoli e

complessi, conoscenze e metodologie non bastano e non basta saperle

applicare meccanicamente.

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Con ciò diviene di fondamentale importanza, maturare esperienze nel quale

saper coniugare le conoscenze teoriche e metodologiche con l’esercizio

delle competenze professionali in contesti pratici attraverso la riflessione

sull’esperienza.

Lo stesso termine competenza sembra avere con la conoscenza pratica un

solido legame, come declina ad esempio la definizione più recente fornita da

ISFOL: “…è l’insieme delle conoscenze teoriche e pratiche, delle abilità e

delle capacità che consentono a un individuo un adeguato orientamento in

uno specifico campo d’azione. La competenza si connota quindi come

conoscenza in azione: in essa emerge la componente operativa della

conoscenza, ossia la presenza di un costante orientamento a saldare sapere

e saper fare, anche in situazioni contraddistinte da un elevato livello di

complessità, che quindi esigono schemi altrettanto complessi di pensiero e

di azione.”

La pratica in quanto tale non basta, per “fare esperienza”, per capitalizzarla

e renderla esplicita al soggetto stesso, bisogna che i fatti divengano oggetto

di pensiero, che vengano smontati e indagati. La riflessione investe, dunque,

costantemente tutto il campo dell’esperienza e la compenetra.

Potremmo dire che nel mondo della pratica professionale dell’assistente

sociale, si tratta ancora di una forma di riflessione che non è giunta alla

piena consapevolezza. Perché questa diventi conoscenza è fondamentale

arrivare alla consapevolezza della propria filosofia operativa, coltivare cioè

la capacità di prendere coscienza dell’orizzonte simbolico nel quale si è

immersi e di come con esso ci si relaziona “occorre rilevare le reti di

presupposizioni implicite e di assunzioni tacite, quelle idee che fortemente

radicate nel contesto culturale cui si appartiene, costituiscono una sorta di

‘ontologia personale’, che condensa le nostre idee sulla natura delle cose,

cui corrispondono da un lato una ‘epistemologia spontanea’, che ci guida

nella ricerca della conoscenza e nella verifica della sua affidabilità,

dall’altro una ‘etica soggettiva’, che prescrive le nostre scelte ed i nostri

comportamenti in ordine al dover essere. Nell’insieme si tratta di una

matrice incorporata che orienta il nostro modo di interpretare gli eventi

della vita, selezionando quelli rilevanti e attribuendo ad essi dei significati:

una cornice che opera tacitamente e si mantiene fuori, all’esterno di ogni

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possibilità di problematizzazione, fonte di interrogazione e di elaborazione

che non viene mai interpellata né sottoposta a giudizio. Il soggetto si

comporta, cioè, alla stregua di un sistema auto-organizzativo: va alla

ricerca di conferme alle sue presupposizioni, le classifica tra le cose ovvie o

come esempi probanti e dà loro un ordine nel formato di ‘teorie ad hoc’. Il

sistema è anche autocorrettivo: dinanzi all’episodio che ovvio non si può

considerare, procede all’eliminazione di ciò che disturba, mettendolo da

parte e in qualche modo incapsulandolo” (Damiano 2003).

“Il lavoro di servizio sociale implica il possesso di un sapere pratico o,

meglio, è esso stesso esercizio di un certo sapere pratico; di un sapere cioè

la cui caratteristica fondamentale consiste nell’essere strutturato e diretto in

funzione del compimento di azioni” (Botturi).

Tutte le teorizzazioni metodologiche insieme con le conoscenze

professionali non sono ovviamente inutili, ma diventano la materia

riplasmabile all’interno delle attività e subiscono un costante

accomodamento e una ridefinizione adattandosi al contesto momento per

momento: nascono così nuove teorie di quei casi “unici” di cui è intessuta la

professione dell’assistente sociale.

Questo comporta acquisire e mantenere vigile un habitus riflessivo sul

proprio operato in fase di progettazione, durante e dopo l’azione in un

processo che trasforma il contesto e l’operatore stesso come professionista

in una continua ricorsività pratica-teoria-pratica.

La coerenza di questa impostazione appare con chiarezza:

l’apprendimento significativo consiste nella attiva ristrutturazione delle

relazioni fra concetti;

la via privilegiata alla conoscenza è l’esperienza diretta accompagnata

dalla riflessione;

la conoscenza ha una dimensione sociale che emerge nel dialogo e nella

discussione (la comunicazione è una negoziazione di interpretazioni ad un

livello sempre più raffinato e condiviso).

La proposta formativa è volta ad offrire uno spazio privilegiato di

riconsiderazione, riconoscimento e riflessione sul sé e sulle teorie implicite

che agiscono nell’esperienza che hanno quale elemento fondamentale la

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comprensione di quello che si osserva e si fa, dove nel comprendere c’è

inevitabilmente una messa in gioco del professionista stesso.

Tutto ciò comporta un grande impegno, anche psicologico, e si tratta di un

percorso che difficilmente si è in grado di condurre da soli. Almeno in una

fase di formazione iniziale è necessaria la presenza di un “interlocutore”

capace di sollecitare la riflessione, di porre interrogativi e punti di vista

diversi con cui relazionarsi, di contenere timori e ridurre difese.

Una volta acquisito un habitus riflessivo, un supporto importante può

divenire il gruppo di lavoro che attraverso pratiche discorsive facilita il

distanziamento dal vissuto e sollecita l’impegno di chiarificazione dei

presupposti e dei traguardi dell’azione.

La via della formazione riflessiva intesa come accompagnamento alla vita e

allo sviluppo professionale richiede evidentemente tempo, motivazione e

coinvolgimento, proprio in quanto si tratta di offrire prospettive di analisi

diverse dirette ad indagare presupposizioni e schemi di riferimento personali

e a costruirne progressivamente di nuovi, più congrui a rispondere ai bisogni

espressi e taciti dell’utenza e a quelli posti dal contesto organizzativo e

sociale. Si tratta di avviare una cura della professionalità che può essere

terreno privilegiato per l’associazionismo e in cui può risiedere la sua

specificità ed il plusvalore di accompagnamento all’istituzione, attraverso

attività che necessitano di tempi lunghi e sono orientate a singoli o piccoli

gruppi.

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Parte prima

“L’attitudine riflessiva alla

radice della professionalità degli assistenti sociali”

Riflessività

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Negli ultimi anni numerosi volumi e articoli scientifici si richiamano alla

riflessività, una categoria caratterizzante da sempre la vita umana e

rappresentativa in particolare della modernità. Gli studi disponibili, frutto di

ambiti disciplinari diversi, hanno messo in luce aspetti di grande interesse su

questo tema, inducendo a prendere le distanze da un’accezione semplice e

riduttiva di riflessività in favore di un’accezione più ampia e profonda.

Solitamente si intende la riflessività come la capacità di pensare e, invece,

essa è il processo del pensare il proprio e l’altrui pensiero; è la capacità del

pensiero umano di trarre conseguenze dall’oggetto del suo pensare e si

avvale di operazioni quali: connettere particolare e generale, porre problemi,

ritornare su questioni non concluse, criticare.1

Il senso comune relega la riflessività nell’ambito cognitivo e invece essa si

avvale di emozioni, intuizioni, percezioni, motivazioni, passione,

responsabilità e valori2. In ogni esperienza gli studiosi invitano a riconoscere

i sentimenti per apprezzare ogni opportunità di apprendimento. La

riflessività è spesso associata alla ricerca di senso, cioè a «quelle domande

che, pur indecidibili in quanto destinate a rimanere costitutivamente aperte,

reclamano ciononostante una risposta la cui ricerca impegna a fondo la

mente umana»3.

Secondo alcuni studi la riflessione critica aiuta i professionisti a diventare

persone responsabili, eticamente e moralmente solide4.

La riflessività è un processo nel e del tempo: precedente l’azione

(l’atteggiamento riflessivo come postura mentale descritto da L. Mortari),

attivo durante l’azione (il «fermati e pensa» di H. Arendt) e anticipatore

dell’azione stessa.

Mentre il pensare comune concepisce la riflessività come esercizio del

ripensare a un evento già accaduto, secondo G. Alessandrini essa

1 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

2 Knasel E., Meed J., Rossetti A., 2002., Apprendere sempre. L’apprendimento continuo nel corso della vita, Cortina, Milano, op cit. p. 108.

3 Mortari L., 2004, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione., Carocci, Roma., op.cit. p. 17.

4 Knasel E., Meed J., Rossetti A., Apprendere sempre, cit., p. 113.

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«comprende un momento retroattivo e un momento proattivo, entrambi

necessari a costruire nuovi e più elevati livelli di conoscenza»5.

La riflessività produce esiti originali e sviluppa abitudini percettive che

sostituiscono gli automatismi per avvalersi di emotività, linguaggio e

fenomeni culturali; pensa l’azione possibile e modifica nei partecipanti «il

modo di auto-percepirsi, di gestire certi spazi relazionali dell’agire

quotidiano, con la conseguenza di portare anche a una ristrutturazione

radicale del modo di rapportarsi al contesto»6. L’esito della riflessione è un

nuovo che non aggiunge sapere al sapere, specializzazione alla

specializzazione, ma che connette aspetti trascurati, accoglie domande e si

lascia scuotere da interrogativi e da scoperte7.

La riflessività rappresenta uno dei paradossi che stanno caratterizzando

negli ultimi anni i mondi professionali, in cui si assiste ad una continua e

rapida trasformazione del rapporto tra professionisti e oggetti dell’azione

professionale (prodotti, servizi, saperi). I professionisti si trovano sempre

più spesso a fare i conti con “l’unicità” e con la “complessità” delle

situazioni che comportano un continuo ripensamento dei processi, degli

strumenti e delle modalità di progettazione, di scelta, di azione8.

Molto spesso i processi decisionali e le azioni svolte in condizioni di

incertezza (a cui è associata bassa probabilità di successo), o in situazioni di

“unicità” dei casi, non rientrano nelle procedure che consentono di garantire

standard di qualità di prodotto/processo, di conseguenza, i professionisti

sempre più spesso si trovano di fronte al dilemma dell’agire secondo criteri

che garantiscono il rigore delle scelte e delle azioni rispetto a procedure

prestabilite o a parametri di probabilità, oppure dell’agire in base ad un

criterio di pertinenza rispetto a specifici casi resi intellegibili non attraverso

procedure standard ma, attraverso l’esperienza professionale che

5 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

6 Mortari L., Apprendere dall’esperienza.., cit., p. 33.

7 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].8 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

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spingerebbe a prendere delle decisioni sulla base di rapporti di minoranza e

non di massima probabilità di successo accordata a-priori9.

L’esperienza professionale diviene sempre di più sinonimo di capacità di

intervenire in situazioni che vengono percepite come “incerte”,“difficili”,

“inedite”, “singolari” e “innovative”10. La riflessività viene in aiuto a quanti

si cimentano con problemi pratici che hanno implicazioni «molto più serie»

dei problemi tecnici o scientifici; l’esperienza, infatti, è concreta (quotidiana

e cogente), particolare (poco replicabile), multifattoriale (connessa con

istanze relazionali, organizzative, tecniche, personali, economiche),

irrevocabile, imprevedibile e illimitata11.

Tra gli anni ’80 e ’90, oltre al libro di Schön, “The Reflective Practitioner”

(1983) - nel quale l’autore descive il professionista riflessivo come un

ricercatore molto particolare: come è noto, non produce conoscenze assolute

ma relative12; opera nella pratica, riconosce i rischi della specializzazione e

si fa ideatore di una teoria del caso unico, diversa ma non per questo

subordinata alla ricerca scientifica tradizionale - sono stati pubblicati diversi

testi in cui viene enfatizzata l’importanza della riflessione critica a partire

dalla esperienza professionale dei singoli individui come forma di

apprendimento e di costruzione di senso della pratica stessa. In tutti questi

testi viene posto l’accento sulla natura riflessiva dell’apprendimento e sulle

capacità innovative, creative, artistiche, messe in atto dai professionisti ogni

qualvolta si trovano a dover scegliere ed agire in situazioni di incertezza.

Tali situazioni possono essere caratterizzate da diversi fattori di natura

esogena ed endogena alle organizzazioni: la complessità dell’oggetto

dell’azione professionale e/o delle domande dei clienti/utenti, la

“turbolenza” dei contesti di azione, l’insufficienza dei protocolli e delle

procedure di azione, gli effetti delle interazioni e dello scambio

comunicativo tra soggetti, conflitti di ruolo e di potere all’interno di una 9 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

10 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

11 Ibidem12 Schön D.A., 1993., Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari, Dedalo, op. cit.p. 87.

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determinata organizzazione e divisione del lavoro, gli effetti imprevisti, non

desiderati o perversi delle azioni individuali, collettive e organizzative, gli

effetti prodotti da innovazioni o cambiamenti13.

Il concetto di riflessività appare molto ricco e in grado di sfatare alcuni

luoghi comuni: il pensiero riflessivo, ritornando su se stesso, prende

coscienza e conoscenza delle sue operazioni e dei suoi caratteri, valuta

criticamente il contenuto, il processo e le premesse degli sforzi finalizzati a

interpretare un’esperienza e a darvi significato14. Il processo che la

riflessività promuove è, pertanto, sistemico, in quanto esso invita a collegare

particolare e generale, conoscenza ed esperienza, ragione ed emozione, dati

e significati, pratica e teoria, memoria e apprendimento, tecnica e umanità.

Quando la mente evita l’esercizio del pensare riflessivo, si finisce per stare

in una situazione di anonimia, dove ci si sottrae alla possibilità, ma anche

alla responsabilità, di cercare senso nell’esperienza e, quindi, di farsi autori

e autrici consapevoli di quello che si va pensando e si va facendo15.

Gli oggetti privilegiati dalla riflessività sono emozioni, modelli mentali,

legami tra teoria e pratica. Grazie ad essa ogni soggetto può crescere in

coscienza anziché in incoscienza, in esperienza anziché in semplice vissuto,

nell’essere desto anziché passivo.

Per quanto riguarda gli scopi del lavoro sociale, il processo di pensare il

pensiero può permettere di raggiungere alcune aree di obiettivi —

connettere, verificare, comprendere, scoprire e significare — che, già a una

prima osservazione, appaiono molto simili alle funzioni individuate come

proprie dell’assistente sociale, nonché controllare e collaborare, prendersi

cura delle relazioni interne ed esterne, organizzare e innovare16.

La riflessività aiuta lavoratori cognitivi come questi ad acquisire

consapevolezza dei modelli mentali presenti in sé e negli altri con cui si

scambiano soprattutto prodotti del pensiero e processi. A partire da ogni 13 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

14 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

15 Ibidem

16 Idem

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soggetto, dunque, l’assistente sociale può interrogarsi sul senso, sulle

ragioni, sulle emozioni proprie e altrui e può farlo attivando risorse proprie.

Riflettere, pertanto, aiuta il soggetto a riportare il proprio sé nella

professione. In questo senso il professionista riconosce che la sua expertise

tecnica è immersa in un contesto di significazioni e, scopre i limiti di essa

attraverso la conversazione riflessiva con il cliente. L’operatore attribuisce

al cliente, così come a se stesso, la capacità di intendere, conoscere e

pianificare, promuovendo con esso un contratto riflessivo, così come

definito da Schön.

In un contratto riflessivo fra professionista e utente, quest’ultimo acconsente

non già ad accettare l’autorità del professionista, come avviene

tradizionalmente, ma a sospendere lo scetticismo nei confronti di questa;

egli partecipa con l’operatore all’indagine sulla situazione per la quale

chiede aiuto; cerca di capire cosa sta sperimentando e a rendere tale

comprensione accessibile al professionista quando questi non capisce,

verificandone la competenza. Il professionista, d’altro canto, acconsente a

offrire una prestazione nei limiti delle proprie capacità; ad aiutare il cliente a

capire il significato della consulenza e il fondamento logico delle sue azioni,

cercando allo stesso tempo di imparare i significati che dette azioni hanno

per il cliente e, far sì che questo possa facilmente confrontarsi con lui; ed

infine egli riflette sulle proprie tacite comprensioni17.

«La capacità di riflettere sulle proprie azioni è una competenza di base» e

«questo è vero in particolar modo per i ruoli direttivi18». La dimestichezza

con i diversi modelli mentali, siano essi di apprendimento o di lavoro, è

imprescindibile per chi lavora con l’altro, soprattutto quando la

considerazione di sé e il ruolo dell’esperienza appaiono essenziali per

impostare interventi di successo19.

Secondo J. Dewey (1976 pg 127), non è data nessuna forma riflessiva che

non parta da un disagio conoscitivo e dal desiderio di superarlo. Tra le

cosiddette «molle» della riflessività, altri studiosi annoverano: sensazioni di

17 Schön D. A., Il professionista riflessivo., cit. p. 331

18 Alessandrini G., 1995., Apprendimento organizzativo. La via del Kanbrain, Milano, Unicopli, op. cit., p. 55

19 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

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disagio immotivato, dover fare cose nuove o diverse, rendersi conto che

qualcosa non va o che va troppo bene, non sapere che cosa fare.

La riflessività è adatta a chi abita nei cambiamenti ed è chiamato a gestirli

tra ambiguità e pressioni contrapposte; come sostiene G. Alessandrini (1995

pg 61): “è convinzione diffusa che si sia determinato, negli ultimi anni, un

transito da sistemi organizzativi stabili a sistemi organizzativi flessibili”.

Un altro fattore della riflessività è rappresentato dal fare sistema: N.

Luhmann interpreta la riflessività nella teoria sistemica per «comprendere

l’unità nella molteplicità come complessità»20. Anche questa indicazione è

preziosa e molto pertinente per le figure in oggetto, chiamate a fare squadra,

a connettere gli elementi del sistema organizzativo, a cercare organicità tra

le differenze e ad elaborare segni nei quali tutti si possano riconoscere.

Un impegno spostato «dagli oggetti ai sistemi» è uno dei tratti distintivi

della riflessività21.

Quest’ultima può supportare il soggetto nell’espletare il ruolo nelle sue

implicazioni relazionali: gestire persone, relazioni, dinamiche, opposizioni,

legami, leggere ed elaborare intuizioni, sensazioni e percezioni, dalle quali

dipende in larga misura il lavoro con persone, collaboratori e utenti.

Gestire le persone, non va dimenticato, significa gestire anche se stessi;

fosse anche solo per sé, lo stimolo della riflessività appare prezioso affinché

l’assistente sociale possa dedicare tempo a prendersi cura del suo prendersi

cura degli altri.

La figura in oggetto maneggia risultati e relazioni, ma soprattutto processi.

Gli assistenti sociali sono chiamati a migliorare il processo decisionale,

progettuale o valutativo e non solo a prendere decisioni.

La loro funzione, infatti, «sposta la prospettiva dai fatti ai processi»22:

l’assistente sociale parla di strumenti ma pensa ai fini, usa tecniche ma ha in

mente obiettivi, dà informazioni ma vuole stimolare processi di

consapevolezza sistemica.

È attento ai processi in un modo tutt’altro che astratto, sempre immerso

nell’azione e nella complessità di ogni giorno, nella quale costruisce una 20 Luhmann N., Schorr K. E., 1988., Il sistema educativo. Problemi di riflessività.., Armando, Roma.,op. cit., p. 365

21 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

22 Colombo E., 2003., I molteplici riflessi della riflessività., Rivista Animazione sociale., cit., p. 18.

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teoria per l’azione23. La funzione dell’ assistente sociale si fa nell’azione,

lavora giorno per giorno, costruisce pezzo per pezzo e svela il disegno a

poco a poco.

Accanto alle potenzialità, la disanima proposta invita a riflettere anche sui

rischi. Il primo riguarda le finalità: la riflessività potrebbe indurre la

funzione dell’assistente sociale ad un lavoro analitico (scavare, ritornare

sugli incidenti critici, riflettere, specchiarsi, rivedere) relativo alle diverse

sfaccettature interpretative, finendo col condurre i soggetti a perdersi nel

labirinto dei pensieri. Il secondo rischio fa riferimento alla possibilità che la

ricerca retrospettiva potrebbe avere il sopravvento su quella proattiva.

Rivedere le decisioni, rileggere i fatti, ripensare alle relazioni potrebbe

rappresentare un campo affascinante, ma anche una trappola. Tale rischio, a

ben guardare, non dipende dalla riflessività, ma piuttosto da un uso distorto

di quest’ultima, del quale è opportuno prendere coscienza24.

La riflessività «fa uso» di fatti, esperienze e prodotti per riflettere su scopi,

mezzi e processi della pratica, alla quale restituisce elementi di

miglioramento.

In sintesi, alla luce delle opportunità e dei rischi considerati, la riflessività

appare proponibile come categoria formativa per gli assistenti sociali.

Riflettere non risulta soltanto coerente, ma anche particolarmente utile a

queste figure che possono avvalersene per cercare quell’equilibrio tutt’altro

che scontato, per leggere oltre l’apparenza.

La riflessività si pone come efficace canale formativo e auto-formativo che,

partendo dalle situazioni reali, aiuta ad analizzarle con gli strumenti della

ricerca, esplicitando il senso celato dei processi e arricchendo il soggetto

coinvolto25.

23 Mostarda M.P., 2006 ., Per un Coordinatore Riflessivo., [online]. Animazione Sociale, maggio. Disponibile su: <http://www.sordelli.net/articoli-testi-tesi- > [Data di accesso: 06/11/2009].

24 Ibidem

25 Idem

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1.2 Il Professionista Riflessivo

D. Schön pubblica nel 1983, “The reflective pratictioner” nel quale

sviluppa la concezione della riflessione come chiave di volta del sapere di

un professionista. Durante la sua attività di ricercatore e consulente, Schön

si è interessato all'apprendimento, individuale e collettivo, soprattutto nel

campo della pratica professionale26.

Uno dei temi centrali della riflessione di Schön è il superamento della

tradizionale scissione tra il pensare e l'agire, sapere e fare, decidere e

attuare; egli giunge ad un concetto di apprendimento che trova il proprio

fondamento nel concetto di riflessione nel corso dell'azione27.

Il nostro conoscere è nell'azione stessa, ovvero l’autore, sulla base di

un’attenta analisi del comportamento di professionisti operanti in campi

diversi, indaga i processi di conoscenza e apprendimento in atto nel corso

stesso dell'azione (la pratica professionale), pervenendo alla definizione di

un agire di tipo riflessivo che, proprio a partire dall'incertezza e dall'ansietà

ad esso connessa, può divenire esso stesso generatore di nuova conoscenza.

Gli studi, sostiene Schön, in particolare quelli universitari, si riferiscono a

“una particolare epistemologia, una visione del sapere che favorisce una

disattenzione selettiva verso la competenza pratica e l’abilità artistica del

professionista”28. Questo atteggiamento contribuisce ad ampliare il solco fra

ricerca teorica e pratica professionale.

Secondo la concezione dominante, scrive Schön, l’attività professionale

consiste in un problem solving reso rigoroso dall’applicazione di una teoria

26 Anon., Donald A.Schön, ritratti.[online]. Disponibile su: <http://www.palomar.ao.it/ritratti/schon.htm. > [Data di accesso: 13/11/2009].

27 Idem

28 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 151

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scientifica e da una tecnica.29 I “prototipi” di questo modo di pensare la

professionalità sono la medicina e la giurisprudenza, seguite da vicino

dall’economia e dall’ingegneria. Esiste insomma una linea che parte dai

“principi generali” alla “risoluzione di problemi”.

Una modalità che Schön denomina “Razionalità Tecnica”.

Secondo la Razionalità Tecnica la realtà è conoscibile in modo oggettivo,

univoco, indipendente dai valori e dai punti di vista del professionista che

ricopre il ruolo insieme di spettatore e di gestore30.

Negli ultimi decenni, però, questo approccio ha progressivamente perso una

parte della sua legittimità, a causa soprattutto di una serie di insuccessi e

danni provocati dai “professionisti-esperti” che vi si ispiravano (danni

ambientali causati da opere ingegneristiche, disastri sociali nel terzo mondo

causati da operazioni economiche, ecc.), di conseguenza, si assiste ad una

“crisi di fiducia” nelle professioni che sembra affondare le radici in una

nuova valutazione in chiave scettica dell’effettivo contributo che le

professioni forniscono al benessere della società attraverso la prestazione di

adeguati servizi basati su speciali conoscenze31.

Tale scetticismo è connesso alle questioni dell’interesse personale, della

burocratizzazione e della subordinazione dei professionisti ad interessi

affaristici o governativi.

La loro conoscenza professionale non si armonizza con il carattere mutevole

delle situazioni che caratterizzano l’esercizio della professione, ovvero con

la complessità, l’incertezza, l’instabilità, l’unicità e i conflitti di valore, che

predominano nel contesto della pratica professionale e, che si

contrappongono all’abilità e alle tecniche dell’expertise tradizionale32.

Si delinea dunque un approccio più “problematico” alla realtà, che considera

ogni situazione nella sua complessità e nella sua unicità.

29 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].

30 Anon., Donald A.Schön, ritratti.[online]. Disponibile su: <http://www.palomar.ao.it/ritratti/schon.htm. > [Data di accesso: 13/11/2009].

31 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].

32 Anon., S c h ö n apprendimento riflessivo. P o r t a l e F o r m a z i o n e e s p e r i e n z i a l e . [online]. Disponibile su: < www. formazione - esperienziale . it /.../teoria_ schon .php > [Data di accesso: 05/11/2009].

Page53

L’autore, da ciò, propone una nuova epistemologia della pratica

professionale fondata, appunto, sulla “riflessione nel corso dell’azione33”.

Secondo Schön, il professionista fa parte della situazione in cui deve

intervenire e che cerca di comprendere e, può comprenderla veramente solo

cercando di trasformarla in un'altra comportandosi come uno

sperimentatore. La pratica diventa una ricerca vera e propria nella quale le

soluzioni vengono ipotizzate, sperimentate e valutate.

La «riflessione nel corso dell'azione dipende dall'esperienza della sorpresa.

Quando una prestazione intuitiva, spontanea, non produce altro che risultati

attesi, allora tendiamo a non rifletterci sopra»34.

Quando qualcuno riflette nel corso dell'azione, diventa un ricercatore

operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie

consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del

caso unico. [...] Poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di

azione, l'implementazione è costruita nell'ambito dell'indagine35. [PR p. 94]

Il processo riflessivo marca il ruolo dell’indagine che ha luogo nella realtà

quotidiana dell’azione. E’ questo processo distintivo, di riflessione nel corso

dell’azione o sull’azione che è fondamentale nell’arte (expertise) del

professionista.

Dal punto di vista della “Razionalità Tecnica”, la pratica professionale è un

processo di soluzione di problemi, ovvero problemi di scelta o decisionali

sono risolti mediante la selezione, fra i mezzi disponibili, di quello che

meglio si adatta a determinati fini. Si tratta, dunque, di un’applicazione

della conoscenza a decisioni strumentali. Con questa enfasi sulla soluzione

del problema, viene ignorato l’impostazione di esso, nonché il processo

attraverso cui definiamo la decisione da prendere, i fini da conseguire, i

mezzi che è possibile scegliere36.

33 Anon., Donald A.Schön, ritratti.[online]. Disponibile su: <http://www.palomar.ao.it/ritratti/schon.htm. > [Data di accesso: 13/11/2009].

34Idem

35 Ibidem

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In sostanza, si rileva come il problem solving non sia più l’unica risposta

adeguata alla realtà, almeno se non integrato dal problem setting (la

definizione del problema), e cioè il processo attraverso cui definiamo la

decisione da prendere, i fini da raggiungere e i mezzi da scegliere. Nella

realtà della pratica, i problemi non si presentano al professionista come dati,

essi devono essere costruiti a partire dai materiali di situazioni

problematiche che sono turbative ed incerti37.

Secondo il filosofo ungherese Michael Polanyi (1990 pg 93), l’oggettività

completa e rigorosa, usualmente attribuita alle scienze esatte, sarebbe un

falso ideale in quanto numerosi atti di giudizio personali porrebbero le basi

di ogni attività conoscitiva. Il nostro conoscere è tacito, implicito nei

modelli di azione, il nostro conoscere è nell’azione. Come afferma lo stesso,

tutta la conoscenza è tacita o comunque è radicata nella conoscenza tacita.

Ricorriamo alla conoscenza esplicita nel momento in cui cerchiamo sul

manuale la soluzione al nostro problema, in questo caso ci si avvale di una

conoscenza formalizzata in termini oggettivi, universalistici e scientifici.

Ricorriamo, invece, a quella tacita se ricerchiamo l’opera di chi riteniamo

più esperto o più abile di noi38. L’esperto non è colui che possiede un sapere

con cui è in grado di padroneggiare qualsiasi situazione, al contrario: “Colui

che chiamiamo uno esperto non è solo uno che è diventato tale attraverso

delle esperienze fatte, ma è anche aperto ad altre esperienze. La dialettica

dell’esperienza non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura

all’esperienza che è prodotta dall’esperienza stessa”.39

La conoscenza tacita è: conoscenza che si sa di avere; sapere pratico, che è

osservabile nella pratica lavorativa e organizzativa, sapere esperto che

emerge nelle situazioni non prevedibili, ovvero quando si ha a che fare con

l’imprevisto; la conoscenza tacita è conoscenza personale, che coinvolge

certamente le capacità di raziocinio, ma che si basa soprattutto

sull’intuizione, sulle facoltà percettivo-sensoriali, sul giudizio sensitivo-

36 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su:

<www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].

37 Idem

38 Strati.A., 2006., L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi., Carocci editore., op. cit.p.9539 Polanyi M., 1990., La conoscenza personale Verso una filosofia post-critica, Milano, Rusconi.,op. cit. p. 411

Page53

estetico, è infine sapere organizzativo, in quanto mette in luce quelle

competenze d’autorità che non sono traducibili in norme e, grazie alle quali

la conoscenza organizzativa viene costruita, distribuita, tramandata e

conservata o distrutta e dispersa40.

L’attività lavorativa quotidiana del professionista si fonda sul tacito

conoscere nell’azione; i professionisti a volte riflettono su ciò che fanno e a

volte persino mentre lo fanno, se stimolati dalla sorpresa tornano a riflettere

sull’azione e sul conoscere l’implicito nell’azione.

Possono chiedersi ad esempio: “Quali caratteri si riconoscono nell’azione,

quali sono i criteri in base ai quali formulo questo giudizio? Quali procedure

metto in atto quando svolgo questa attività? Come sto strutturando il

problema che sto cercando di risolvere?”41.

In molti casi la persona esperta non sa rendere esplicita la propria

conoscenza, ovvero non riesce ad argomentare le cause vere ed i mezzi

giusti che forniscono le ragioni della “pratica situata” del proprio intervento.

Egli “sa di sapere”, ma non sa come rendere conoscenza scientifica questo

suo sapere pratico. Nella prassi delle prestazioni spontanee, intuitive,

dell’agire quotidiano, ci dimostriamo intelligenti in modo particolare;

spesso, però, non riusciamo ad esprimere quello che sappiamo e, quando

cerchiamo di farlo ci sentiamo persi o produciamo descrizioni ovviamente

inadeguate. Il professionista nella sua attività quotidiana riesce a riconoscere

i fenomeni legati ad una tecnica o ad una particolarità di struttura ma non è

in grado di fornire una spiegazione adeguata relativa alle regole e alle

procedure di riferimento (senso e processo)42.

Più precisamente, Schön sostiene che l’azione intelligente può essere

guidata da due elementi basilari: la “conoscenza-nell’azione” e la

“riflessione-nell’azione”43.

La prima, la conoscenza-nell’azione, è un’attività cognitiva che si manifesta

in quelle azioni intelligenti che richiedono un certo savoir-faire, come il

40 Strati.A., L’analisi organizzativa.,cit. p.95

41 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].

42 Ibidem43 Berger E., Riflettere l’apprendimento. [online]. Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della Scuola Media, no. 12, marzo 1995, pag. 5-22. Disponibile su: < http://www.scuoladecs.ti.ch/ssp_scarica/articoli/12_Sostegno_identita_Berger.doc. >[Data di accesso: 15/11/2009].

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condurre una bicicletta o l’analizzare istantaneamente un bilancio

d’esercizio.

In entrambi i casi, la conoscenza è intrinseca all’azione, è nell’azione44. Essa

si rivela tramite l’esecuzione spontanea e sapiente di un atto, ed è

singolarmente difficile da verbalizzare. Si tratta di processi non logici, di

schemi d’azione, chiamati anche script che guidano silenziosamente ogni

gesto intelligente. Talvolta, però, la routine produce risultati inattesi, errori

che resistono a correzioni, oppure semplicemente capita di guardare

diversamente il proprio agire. Ognuna di queste esperienze uniche contiene

un elemento di sorpresa, che può condurre il professionista in due direzioni:

ignorare gli elementi perturbatori, procedendo sulla propria strada, oppure

riflettere a quanto sta accadendo. Quest’ultima eventualità può a sua volta

assumere due diverse modalità45.

L’operatore può “fermarsi e pensare”, separando dunque il momento

dell’azione dal momento della riflessione (reflection on action); in questo

caso ci si riferisce a quell’attività retrospettiva di pensiero attivo che si

sviluppa sulla pratica professionale, ma che si colloca esternamente a

questa, ovvero in un momento diverso. Consiste in gran parte nel ricordare e

valutare quanto già realizzato per poi focalizzare con maggiore precisione

obiettivi da perseguire e strategie correlate. Oppure può riflettere nel corso

dell’azione, determinando una modifica di quest’ultima durante il suo

svolgimento (reflection in action)46.

Quando l’operatore riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercatore

operante nel contesto della pratica, non dipende dalle categorie consolidate

della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico47.

La sua indagine non è limitata a una decisione sui mezzi dipendente da un

preliminare consenso sui fini, in quanto, non tiene separati i mezzi dai fini,

ma li definisce in modo interattivo mentre struttura una situazione

problematica. 44 Colangelo L., 2009., L’apprendimento riflessivo di Donald Schön. [online]. Portale Formazione Esperienziale. Disponibile su: <www.formazione-esperienziale.it/.../schon_apprendimento_riflessivo.pdf> [Data di accesso: 08/11/2009].45 Ibidem

46 Ibidem

47 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].

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Egli non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul problema sino a

raggiungere una decisione che dovrà trasformare in azione48.

Più in generale, l’operatore riflessivo affronta sempre il problema pratico

come un caso unico, sebbene non agisca assolutamente come se non avesse

conoscenze precedentemente acquisite49. Una volta trovate gradualmente le

peculiarità della situazione problematica, egli progetta e realizza

l'intervento. Il problema, dunque, non è mai predefinito, ma va costruito nel

dialogo con la situazione che, essendo incerta e complessa, induce, crea le

condizioni della riflessione nell'azione.

Essendo i casi unici, non è possibile applicare teorie standard, per cui

bisogna reinquadrare e capire la situazione, ricordando che vi sono molti

punti di vista possibili in competizione fra loro50.

In questo ultimo criterio si nota come la connotazione riflessiva agisce

laddove non vi è più necessità di una difesa di ruolo, di mantenimento di un

modello formativo, ma un processo di apertura, un processo di interazione e

un processo di ricerca evolutiva51.

Quando il soggetto e l’oggetto del conoscere (ovvero nel caso in

discussione, rispettivamente, assistente sociale e cosiddetto utente), sono

entrambi persone e sono implicate in un rapporto spesso caratterizzato da

una forte partecipazione emotiva, allora inevitabilmente è ben difficile

procedere secondo i canoni della “Razionalità Tecnica” richiamati prima.

Nel caso specifico appare chiaro che il rapporto tra professionalità,

personalità e intelligenza dell’assistente sociale si può nutrire solo in piccola

parte di una forma di conoscenza di tipo paradigmatico o logico-scientifico,

ma necessita di qualcosa che sia più complesso e soprattutto orientato

all’azione. Nell’ambito del servizio sociale, infatti, la teoria non può che

essere teoria operativa per la pratica sociale52.

48 Berger E., Riflettere l’apprendimento. [online]. Rivista del Servizio di sostegno pedagogico della Scuola Media, no. 12, marzo 1995, pag. 5-22. Disponibile su: < http://www.scuoladecs.ti.ch/ssp_scarica/articoli/12_Sostegno_identita_Berger.doc.>[Data di accesso: 15/11/2009].

49 Ibidem

50Ibidem

51 Padoan I., 2004., Il professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].

52 Sicora.A., 2005.,L’assistente sociale riflessivo. Epistemologia del servizio sociale., Pensa Multimedia, op. cit.p.18

Page53

Come afferma Dal Pra: “Il servizio sociale, come ogni professione, dispone

di un corpo sistematico di conoscenze teoriche, la cui origine è duplice.

Vi è una “teoria della pratica”: è il sapere che si ricava dalla descrizione e

interpretazione della realtà operativa che si fonda su processi osservativi e

induttivi che originano una serie di enunciati ricavati da generalizzazioni

empiriche. Esiste poi una “teoria per la pratica”, costituita dall’apporto che

le diverse impostazioni teoriche delle scienze sociali possono offrire al

servizio sociale.

Nel servizio sociale la teoria non rappresenta una conoscenza per la

conoscenza, ma una conoscenza che orienta l’operatività”53.

Accostando a tale enunciazione il pensiero e la terminologia di Schön si

potrebbe aggiungere a queste due una terza declinazione del termine

“teoria”. Anche per l’assistente sociale si può parlare di “teoria nella

pratica”, ovvero di un corpo di teorie implicite e “personali” che guidano

l’agire del singolo operatore spesso senza che questo ne sia consapevole, se

non in piccola parte. Far emergere tale patrimonio sommerso è impresa non

facile ma può contribuire ad una migliore comprensione delle ragioni dei

successi e dei fallimenti professionali e, in un’ottica più allargata e

aggregata, di quelli organizzativi54.

Le riflessioni operate da Schön sembrano utilizzabili proficuamente ai fini

dello sviluppo professionale, dell’apprendimento organizzativo, del

miglioramento continuo e automotivato di decisionalità e di responsabilità

professionale che oggi rappresentano gli obiettivi più apprezzabili e,

realisticamente perseguibili, dei percorsi di formazione in servizio o come

più opportunamente si va affermando negli ultimi anni, di sviluppo

professionale.

Tuttavia, poiché il professionismo è ancora principalmente identificato con

l’exepertise tecnica, la riflessione nel corso dell’azione non è generalmente

accettata come una forma legittima di conoscere professionale55. Molti

professionisti, chiusi nell’idea di essere degli esperti tecnici, non trovano

alcunché nel contesto della pratica che sia occasione di riflessione.

53 Dal Pra Ponticelli M., 1987., Lineamenti di Servizio Sociale, Roma, Astrolabio, op. cit. p. 79

54 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo.,cit.p.18

55 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p.94

Page53

L’incertezza costituisce per loro una minaccia; la sua ammissione è un

segno di debolezza.

Esperto56 Operatore

riflessivo

Si suppone che io sappia, e io

devo mostrarmi sicuro,

indipendentemente dalla mia

incertezza.

Mantengo le distanze dal

cliente, e mi mantengo nel

ruolo dell'esperto.

Trasmetto al cliente il senso

della mia expertise, ma

comunico un sentimento di

calore e di simpatia

unicamente per "addolcire" la

relazione.

Ricerco la deferenza e il

riconoscimento del mio status

nelle reazioni del cliente nei

riguardi della mia figura

professionale.

Si suppone che io sappia, ma non

sono l'unica persona della

situazione a possedere una

conoscenza rilevante. Le mie

incertezze possono essere una

fonte di apprendimento per me e

per gli altri.

Ricerco delle connessioni con i

pensieri e i sentimenti del cliente.

Lascio che il suo rispetto per la

mia conoscenza emerga dalla sua

scoperta nella situazione.

Ricerco il senso di libertà e la

connessione reale con il cliente,

come una conseguenza

dell'assenza di bisogno di

mantenere una facciata

professionale.

56Ibidem., p.30

Page53

1.3 Ma chi è il “professionista riflessivo” ?

Nell’ambito degli scenari socio-politici e culturali di una società in profondo

cambiamento, è sempre più evidente una “crisi di fiducia” nelle professioni,

determinata dalla necessità di una nuova visione “dell’epistemologia della

pratica” che consenta ai professionisti di ripensarsi non più come “risolutori

di problemi strumentali” ma come artefici creativi e “riflessivi” del proprio

agire, delle proprie scelte e delle proprie mosse nei contesti di pratica, visti

come campi di esperienza problematica da esplorare, indagare, trasformare,

attraverso l’esercizio di una “abilità artistica” connotata da competenze

emergenti in situazioni uniche, incerte e conflittuali57.

Ciò richiede una profonda revisione delle epistemologie che informano i

modelli della formazione professionalizzante allo scopo di disegnare nuove

tipologie di percorsi formativi per “insegnare ed apprendere” il sapere

professionale come sapere empiricamente situato, sostenuto da forme di

“razionalità riflessiva”, indispensabili alla costruzione, all’uso di

conoscenze e allo sviluppo di competenze che nascano dall’agire e che in

esso funzionalmente si traducano58.

Un “buon professionista”, secondo Schön, conosce nell’azione, riflette

sull’azione e nel corso dell’azione.

Un professionista capace è tale poiché è in grado di governare

consapevolmente la “conoscenza nell’azione” (knowing-in-action)59. Questa

forma di conoscenza è tacita, ovvero sommersa negli automatismi delle

57 Anon. 2006., “Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e dell'apprendimento nelle professioni”. [online]. Scienze della formazione – Ricerche. Disponibile su: < www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_Libro> [Data di accesso: 03/12/2009].

58Idem

59 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo..,cit. p 22

Page53

operazioni comuni della vita di tutti i giorni ed è generata dalla riflessione

nell’azione.

Azioni e comportamenti sarebbero la parte visibile di un processo continuo

di adattamenti e rimandi tra azione e conoscenza, si tratta di una dinamica

all’interno della quale è difficile distinguere le diverse componenti e, al

contempo, si rileva spesso una ampia distanza tra le teorie che vengono

dichiarate per descrivere e motivare l’azione e le teorie implicite in essa che,

una volta individuate ed espresse, sono in grado di spiegare meglio delle

prime il perché di comportamenti attuati e di direzioni seguite.

Ad illuminare queste aree nascoste, ma estremamente importanti, dell’agire

di un professionista, spesso concorrono quelle situazioni di errore o quelle

in cui si diventa consapevoli di fallimenti, paure e altre circostanze di solito

rimosse in quanto sgradevoli, tuttavia tali situazioni di limite e di apparente

debolezza possono essere trasformate in opportunità di crescita delle

competenze e delle conoscenze60.

Il professionista riflessivo è colui che nell’agire professionale si pone come

ricercatore, e – grazie a tale atteggiamento – accresce conoscenze e

competenze riflettendo nel/sul suo agire professionale61.

In tal senso tale figura incarna il profilo e lo stile operativo di un

professionista che riflette sull’azione mentre essa si svolge.

Schön sollecita e promuove il superamento della dicotomia tra “conoscenza

forte” (della scienza e del sapere) e “conoscenza debole” (dell’abilità

artistica, della pratica e della semplice opinione) e lo fa in modo molto

chiaro e deciso.62

Un professionista è abitualmente considerato un esperto che risolve

problemi applicando nella pratica teorie e tecniche prodotte in campo

scientifico, ovvero se egli, seguendo il modello della razionalità tecnica, di

fronte a una situazione concreta, attinge al magazzino di problemi e

soluzioni che la scienza ha predisposto. Egli sa che può operare con rigore

ma, lo schema scelto può non essere pertinente, ovvero non riflettere in

modo adeguato la situazione affrontata, in quanto, gran parte delle situazioni 60 Ibidem., p 23

61 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].

62 Idem

Page53

reali si presentano come situazioni aggrovigliate, caratterizzate da

incertezza, disordine e indeterminatezza, dove il primo nodo da sciogliere è

proprio la definizione del problema e, quindi, dei fini da perseguire e dei

mezzi da scegliere63.

Di fronte al dilemma tra rigore e pertinenza, i professionisti migliori non

seguono il modello della razionalità tecnica ma, sviluppano processi

cognitivi basati sull'intuizione e sulla creatività.

Nel caso di situazioni uniche, caratterizzate da incertezza, instabilità e

conflitto di valori, la pratica di questi professionisti si trasforma in una

ricerca in cui, nella definizione del problema, fini e mezzi risultano

interdipendenti, conoscenza e azione inscindibili64.

Schön definisce questa pratica come riflessione nel corso dell'azione e,

ritiene che il dilemma tra rigore e pertinenza possa essere rimosso qualora

sia possibile costruire ''un'epistemologia della pratica che collochi la

soluzione tecnica dei problemi all'interno di un più ampio contesto di

indagine riflessiva, che mostri che la riflessione nel corso dell'azione può

essere rigorosa per propri meriti e, che leghi l'arte dell'esercizio della pratica

in condizioni di incertezza e unicità all'arte della ricerca propria dello

scienziato"65.

Riflettere nel corso dell'azione per Schön vuol dire comportarsi come dei

bravi musicisti che improvvisano durante una sessione di jazz: "ascoltandosi

reciprocamente e ascoltando se stessi, sentono in quale direzione sta

andando la musica e di conseguenza adattano il proprio modo di suonare:

l'improvvisazione consiste nel variare, combinare e ricombinare un insieme

di motivi all'interno dello schema che definisce i limiti dell'esecuzione e le

dà coerenza".66 L’autore analizza diversi casi concreti per mostrare come la

riflessione nel corso dell'azione si realizzi attraverso la sperimentazione.

Per formulare il problema il professionista esprime un'ipotesi sulla

situazione che affronta, e la sperimentazione consiste nel far sì che l'ipotesi

si realizzi; l'azione con cui egli verifica la sua ipotesi è insieme una mossa

63 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p.41

64 Ibidem., p 42

65 Idem., p. 183

66 Ibidem., p.185

Page53

con cui cerca di introdurre un cambiamento nella situazione e una sonda

attraverso cui la esplora67.

L'attività sperimentale è contemporaneamente “esplorazione, verifica di

mosse e verifica di ipotesi, le tre funzioni sono soddisfatte proprio dalle

azioni e, da tale circostanza deriva il carattere distintivo della pratica"68.

La sperimentazione consiste in una spirale di successive fasi di azione e di

apprezzamento dei risultati di essa, che definiscono nuovi problemi e nuove

finalità sino al raggiungimento di una situazione soddisfacente.

I cambiamenti sono l'essenza del metodo, perché il professionista

comprende la situazione solo strutturandola, cercando di trasformarla in

un'altra che preferisce attraverso l'imposizione di un suo criterio d'ordine.

I tentativi di trasformazione produrranno anche risultati non intenzionali e il

professionista deve rimanere aperto alle risposte impertinenti della

situazione, perché se ignorasse la resistenza al cambiamento esercitata da

quest’ultima, l'esperimento diventerebbe una mera profezia che si auto-

realizza69.

Il rigore della sperimentazione consiste non solo nel cercare di strutturare la

situazione ma, nell'accettare il fallimento del proprio tentativo di

strutturarla.

Anche se non segue la razionalità tecnica, il professionista si confronta con

la situazione utilizzando il repertorio di esempi, immagini, descrizioni e

azioni che racchiude il complesso della sua esperienza e di cui dispone per

comprendere e formulare nuove ipotesi70.

La strategia del professionista consiste nel vedere la situazione come

qualcosa che è già presente nel suo repertorio, senza che questo significhi

includerla in una categoria o in una regola consueta. Vedendo questa

situazione come quella, può agire in questa situazione come in quella.

La situazione consueta funge da precedente, o da caso esemplare, il “vedere

come” assume una forma definita ''metafora generativa", che consente di

relazionare l'esperienza passata al caso unico. È la capacità di “vedere 67 Recensione di Mazza, L., L'Indice 1994, n. 9. [online]. IBS Internet bookshop. Disponibile su: <http://www.ibs.it/code/9788822061522/schouml;n-donald-a-/professionista-riflessivo-per.htm> [Data di accesso: 12/11/2009].

68 Ibidem

69 Idem

70Ibidem

Page53

come” e agire, che permette di "sentire" i problemi che non si adattano a

regole predefinite71.

Perché si possa attivare il modo di essere del “professionista riflessivo”

Schön propone:

riflessione nel corso dell’azione (conoscere nel corso dell’azione e

attraverso essa);

conversazione riflessiva con la situazione;

pratica riflessiva.

Il profilo del professionista riflessivo si proietta all’interno di contesti in cui

l’azione e l’impegno del singolo si sviluppano in un sistema di obiettivi e

di relazioni fortemente interdipendenti: l’idea di pratica riflessiva si

intreccia con quella di apprendimento organizzativo; apprendimento

organizzativo e pratica riflessiva sono complementari.

In altre parole, il professionista riflessivo rimette in discussione non solo le

consuetudini, ma anche i valori e i principi di fondo delle organizzazioni che

programmano, organizzano, gestiscono e offrono servizi sociali, facendone

emergere eventuali contraddizioni e disfunzioni, egli diventa una ‘ipotesi’

più realistica e praticabile che in modo chiaro e determinato cerca di farsi

“ambiente organizzato di apprendimento” non solo per gli utenti ma anche

per le altre figure professionali72. Questo paradigma tende, inoltre, a far

emergere le “teorie implicite”, di cui le diverse figure professionali sono

portatori, per conseguire sempre maggiori livelli di padronanza e di

consapevolezza condivisa, queste condizioni e acquisizioni sono

indispensabili per realizzare nell’organizzazione e nella gestione dei

processi effettiva autonomia e responsabilità diffusa.

71 Ibidem

72 Landi U., Professionista riflessivo. [online]. Rivista Didattiva. Disponibile su: <www.rivistadidattica.com/pedagogia/pedagogia_37.htm > [Data di accesso: 01/11/2009].

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Epistemologia e natura del sapere del servizio sociale

La pratica del servizio sociale è attiva in Italia a partire dagli anni ’30 e, da

allora uno stuolo di assistenti sociali opera alla costruzione del benessere

della nostra società. I recenti cambiamenti legislativi introdotti

nell’itinerario formativo, nel riconoscimento della professione e nella

riforma del sistema assistenziale, hanno riportato alla ribalta alcuni quesiti

circa i fondamenti epistemologici di questo lavoro. Da più parti ci si

interroga sugli intrecci con gli altri saperi, su ciò che rende efficace ed

incisiva l’arte degli assistenti sociali nelle società postmoderne, sulle basi

scientifiche non solo della tradizionale azione di “assistentato”, ma anche

della prevenzione per il benessere delle persone e della cura dei legami

sociali73. A partire dal Dpr 14 del 1987 il servizio sociale è diventato una

disciplina universitaria impartita dapprima nelle scuole dirette a fini

speciali, poi nei diplomi e oggi nei corsi di laurea di base o nelle lauree

specialistiche, con insegnamenti propri e con specifiche modalità di

trasmissioni; si è avviato così quel processo di consolidamento della

posizione del servizio sociale tra le discipline scientifiche ed è in continuo

aumento l’impegno degli studiosi e degli operatori sul campo per la

definizione del suo corpus teorico. Compito della comunità scientifica degli

73 Marzotto C., 2002., Per un’epistemologia del servizio sociale: la posizione del soggetto., F.Angeli, Milano, op.cit.p.32

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assistenti sociali è quello di definire sempre più precisamente le modalità di

conoscenza e di azione sulla realtà soggettiva, gruppale e/o comunitaria74.

L’azione degli assistenti sociali si caratterizza per la stretta connessione tra

momento conoscitivo ed intervento operativo: è a partire dall’incontro tra le

difficoltà relazionali del soggetto e un professionista dell’aiuto che si mette

in moto un processo, che da una parte prende in carico la condizione di

disagio personale e dall’altra promuove risorse per le famiglie o i gruppi

delle nostre comunità locali. Affinché questo circolo virtuoso proceda, è

necessario che l’assistente sociale conquisti una sempre maggiore

consapevolezza delle specificità del suo operare75.

Fino ad oggi abbiamo potuto usufruire della descrizione dei modelli

d’intervento di servizio sociale (sistemico, psicoanalitico, esistenziale,

ecologico, centrato sul compito, comportamentista, psicosociale, funzionale,

ecc.), ma è giunto il momento di riflettere sui saperi pratici propri

dell’assistente sociale per ricollocare la posizione del soggetto e per

riconoscerne le azioni ricorrenti che ne definiscono l’identità.

Il servizio sociale nel suo complesso non è solo tecnica, ma anzitutto una

“prassi”, cioè un’azione che punta direttamente alla trasformazione

dell’agente (in questo caso colui/colei che presta il servizio sociale) e che

per questo tramite raggiunge, modifica e fa agire anche l’altro (in questo

caso chi riceve il servizio).

L’oggetto peculiare del servizio sociale sono le relazioni, i nessi, i legami

tra le persone, tra i componenti di un organismo e tra i gruppi; potremmo

definirlo un oggetto “virtuale” riconducibile allo spazio tra76.

Ad esempio a differenza del sapere medico il cui oggetto è materialmente

visibile e misurabile, l’azione di cura dell’assistente sociale è rivolta ad

un’entità non visibile, ma ugualmente reale. Peculiarità dell’oggetto del

servizio sociale è anche il fatto che questo non è dato a priori, non è

circoscrivibile in categorie nosografiche precise, a differenza del paradigma

medico, bensì necessita che qualcuno ponga una richiesta, e questo non

avviene sempre da parte dell’interessato.

74Ibidem.,.p.34

75 Ibidem., p 35

76Idem., p.35

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Il servizio sociale risulta essere un’attività che richiede un ampio e articolato

sapere pratico, nel senso non solo di un’applicazione “tecnica” di un sapere

teorico elaborato altrove, né tantomeno di una pura esperienza, senza criteri

teorici specifici, bensì esso appare sempre in una sintesi soggettiva.

A tale proposito Botturi sostiene che: “anche il servizio sociale è nella sua

attività un’elaborazione ed una realizzazione di sapere pratico che, prende

forma nella misura in cui ogni conoscenza viene resa funzionale ad

un’attività, il cui compito è quello di progettare interventi in situazioni

socialmente rilevanti.”77

Certamente il servizio sociale ha bisogno di saperi puramente teorici, cioè

di quei saperi che hanno un fine solo conoscitivo ma, con questa sola

dotazione non si realizzerebbe nessun servizio sociale che invece prende

forma nella misura in cui ogni conoscenza viene resa funzionale ad

un’attività, il cui compito è, appunto, diretto a progettare interventi in

situazioni socialmente rilevanti.

Tale progettazione di interventi è una forma di sapere pratico, che nel suo

complesso deve saper interpretare la situazione in cui si interviene.

Ciò non significa che non vi siano delle tecniche chiamate a prender parte al

lavoro del servizio sociale ma, questo non può essere efficace se non passa

in qualche misura attraverso sia un coinvolgimento reale di chi presta

servizio, sia dall’iniziativa e dalla partecipazione degli utenti, in quanto a

loro volta soggetti d’azione. In tal modo il servizio sociale non si realizza

come espropriazione dell’altro e delle sue capacità di agire, che in ogni caso

è o può essere (salvo casi di patologia grave) soggetto agente78.

Come afferma Dal Pra Ponticelli le “professioni di aiuto”, come il servizio

sociale, sono caratterizzate da una particolare dinamicità dovendo

continuamente tenere conto dei cambiamenti dei loro “oggetti di analisi e di

intervento” (le persone), del loro contesto socio-culturale e, se operano

nell’ambito di una istituzione pubblica o privata, del mandato professionale

e istituzionale che è stato loro assegnato. In queste professioni si parte

sempre dal contatto con una situazione incerta e sconosciuta, di difficile

interpretazione che talvolta la “razionalità tecnica”, le acquisizioni dalla

77 Ibidem., p 36

78Idem., p.36

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teoria non riescono a decifrare e si ha allora bisogno di ricorrere al “sapere

pratico”79.

Non possono quindi che essere professioni in continua evoluzione sia sul

versante teorico che operativo. Il quadro che emerge è assai complesso e

costellato da ambivalenze e doppi legami tra i quali il “lavoratore del

sociale” cerca di destreggiarsi alla ricerca di un’autonomia tra mille

esigenze istituzionali.

L’assistente sociale agisce da sempre tra una domanda infinita proveniente

dal basso e mille vincoli imposti dall’alto. Fortunatamente, nel gioco tra i

servizi offerti e domande delle persone, queste ultime dettano le regole del

gioco e qualificano l’azione professionale dell’operatore stesso per la

costruzione del well being e non più del benessere dello stato. Ciò che

dovrebbe caratterizzare sempre più l’opera del social worker è il guidare e

potenziare le relazioni all’interno delle reti, in quanto in comune con altre

scienze “pratiche”, il servizio sociale si fonda sulla comunicazione dialogica

e costruisce il suo sapere a partire dall’opera di svelamento che operatore e

utente compiono anche tra le quattro mura degli uffici di servizio sociale80.

L’assistente sociale esiste, si costruisce come entità in relazione, è solo

attraverso e dentro le relazioni con il suo ente e con il cliente che si snoda

l’azione sociale: ciò che lo fa esistere è la relazione.

Il sapere pratico non è mai un sapere neutrale, ma implica il suo soggetto,

che è chiamato in causa direttamente.81

2.2 Sapere pratico e servizio sociale

79 Sicora. A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p.165

80 Marzotto C.,Per un’epistemologia del servizio sociale., cit.p.37

81 Ibidem., .p.37

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Oggi si tende a parlare di scienza, in generale, in questi termini: “un metodo

di sapere è scientifico in quanto è pubblico e intersoggettivabile e quindi in

quanto offre la possibilità di condividere un metodo d’indagine ed insieme

la sua verifica”82.

Il sapere scientifico non è un sapere individuale, ma è caratterizzato dal suo

essere sottoposto metodicamente al controllo della comunità omogenea e

competente, la comunità scientifica.

Si ha coscienza, inoltre, che comunque tutto questo avviene sempre

all’interno di un contesto storico e quindi che anche il sapere scientifico non

è sapere stabile, ma è un sapere che si viene formulando entro un

determinato momento culturale, di cui subisce inevitabilmente il

condizionamento83.

Tipico della filosofia contemporanea è l’aver ritrovato interesse per l’ambito

pratico e per la sua specificità. Nella definizione di Botturi il sapere pratico

è: “un sapere per operare, dove il per ha una funzione costitutiva. Non è un

sapere che si applica all’operare in un secondo momento, ma è un sapere

che si costituisce per operare; dove perciò la finalizzazione dell’agire è

fondante”84.

Ci sono due tipi di sapere pratico: il sapere per l’azione produttiva, cioè il

sapere tecnico e, il sapere per l’azione del soggetto che non ha effetti fuori

di lui, il sapere pratico in senso stretto.

Il sapere produttivo-tecnico è quel sapere che è funzionale alla produzione

di uno stato di cose esterno al soggetto, mentre il secondo, come sapere per

l’azione, è prassi in senso proprio, è appunto un’azione, cioè una

trasformazione del soggetto stesso. Una tale trasformazione può investire

ambiti più o meno vasti del soggetto. L’azione, allora, è diretta a mutare le

sue relazioni e quindi ad influenzare e a cambiare la condizione anche degli

altri. Questo fa capire che il soggetto è implicato nel sapere pratico in un

modo diverso rispetto al sapere teorico. Quest’ultimo mira alla massima

estraniazione del soggetto dal suo sapere, mentre, nel primo caso, egli è

coinvolto, perché il termine ultimo del proprio sapere pratico è la

82 Ibidem., p 34

83Idem., p.26

84 Ibidem., p. 30

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trasformazione di uno stato di cose esterne o, ancor più, è un cambiamento

del comportamento di sé e/o degli altri85.

Il sapere pratico, in quanto mira all’azione, implica il coinvolgimento del

soggetto nel proprio sapere: l’agente cerca di comprendere quello che fa, ma

egli sa che, è anche lui che si mette in gioco nel suo sapere e che mira in

qualche misura ad una sua modificazione. Questo vuol dire che tale soggetto

non potrà mai essere neutrale rispetto a quello che viene compiuto.

Nel sapere pratico vi è dunque rigore senza esattezza, perché non si può

chiedere ad esso l’esattezza che ci si aspetta dal sapere teorico.

Il sapere pratico è un sapere che riguarda l’azione, e come tale riguarda

realtà variabili e solo approssimativamente categorizzabili; esso è legato

all’esperienza, cioè all’azione reale e come tale è sempre singolare e

circostanziato, ne deriva una mancanza di universalità propria delle scienze

esatte, ma è dotato di un’altra modalità universale, nonché quella

tipologica86.

Un esempio significativo di universalità pratica è costituito dal racconto.

Esso si riferisce sempre ad eventi e fatti singolari, ma è in grado di tracciare

una figura dell’esperienza capace di far conoscere qualcosa che vale per

molte o tutte le realtà simili. Il racconto offre un caso significativo del

sapere universale del pratico, perché, componendo elementi particolari noti

per esperienza, fa vedere nessi che valgono anche per tutti i casi simili.

In questo senso il sapere pratico è un sapere narrativo, non nel senso di una

descrizione speculare di quello che avviene, ma in quello di una

interpretazione di figure significative, appunto di “tipi” che mostrano il vero

comune a casi simili87.

Il sapere pratico è un sapere intrinsecamente dialogico, nel senso che esso si

certifica nel suo tentativo di comprensione attraverso il dibattito dei casi.

Ciascun interprete parte dalle sue premesse teoriche e dalle sue tradizioni

culturali, le mette in campo e ne tenta l’applicazione; ma proprio la natura

verosimile del sapere pratico fa sì che esso abbia come sua componente

essenziale il dialogo, cioè il mettere a prova la congruenza dell’ipotesi

85 Ibidem., p.31

86 Idem., p. 32

87 Ibidem., p. 33

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pratica attraverso la discussione con altre ipotesi o con altri aspetti della

medesima. Ogni discussione è possibile soltanto in base all’accettazione

condivisa di alcune opinioni accreditate ed indiscutibili88.

In definitiva il sapere pratico ha natura ermeneutica, cioè interpretativa.

Ermeneutico non vuol dire soggettivistico, ma significa che si cerca sempre

di compiere il tragitto dalla pre-comprensione delle cose, che è data dalla

propria partecipazione ad una tradizione di ciò che è già esperito e alla

situazione oggetto dell’azione da progettare89.

La realtà dell’azione deve essere interpretata, ovvero compresa sia nel suo

insieme complesso che in rapporto all’agente stesso. E’ l’ermeneutica,

infatti, una delle peculiarità dell’azione sociale. Nella realtà si incontra

sempre l’intervento sociale frutto di un’interpretazione che l’operatore

fornisce alla domanda del cliente, a partire dalla propria rappresentazione di

bene comune, dalla valutazione che egli fa delle risorse interne ed esterne al

soggetto e dall’intreccio possibile tra questi fattori in un determinato spazio

e tempo.

Augusto Vino, autore dell’articolo “sapere pratico e apprendimento

organizzativo”, delinea alcune importanti caratteristiche del sapere pratico90:

Il sapere pratico è conoscenza generata dall’azione:

Weick mostra come l’azione preceda la conoscenza. Le conoscenze che già

possediamo – le nostre mappe mentali – non sono di per sé sufficienti ad

orientare l’azione, proprio perché ogni situazione è unica ed irripetibile;

servono piuttosto come spunto, come occasione per avviare l’azione,

durante la quale le reazioni della situazione, e le interpretazioni che di

queste costruiremo, ci consentiranno di pervenire ad una descrizione – una

nuova mappa – della situazione maggiormente adeguata ed efficace.

Il sapere pratico è retrospettivo e riflessivo: è in maniera retrospettiva

che costruiamo il significato degli avvenimenti, e non tanto imputando delle

intenzioni agli attori, quanto piuttosto cercando di comprendere il 88 Idem., p 34

89 Ibidem., p. 36

90 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].

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significato dell’intero svolgersi dell’azione. Quando accogliamo il punto di

vista degli altri attori allora il significato della storia cambia radicalmente

ma, questa nuova comprensione della storia porta anche ad una diversa

comprensione di sé.

Gadamer insegna: “Chiunque comprenda qualcosa, comprende sé stesso in

essa”. La ricostruzione dell’azione è riflessiva nel senso che implica un ri-

pensare a sé stessi, alla propria posizione, alle proprie decisioni ed alle

convinzioni che ci hanno spinto a prendere determinate decisioni.

Comprendere diversamente una situazione è possibile solo se nello stesso

tempo modifichiamo, consapevolmente, i nostri pregiudizi e le nostre

aspettative su quella situazione;

Il sapere pratico è narrativo

La narrazione è la forma privilegiata della ricerca del significato.

La vita organizzativa è un ordito di storie e narrazioni: gli attori

organizzativi scambiano esperienze, interpretano situazioni, ricercano

regolarità nei comportamenti propri ed altrui, scambiandosi storie.

Sono singole storie quelle su cui costruiamo ed argomentiamo giudizi anche

generali, quelle da cui traiamo motivo per formulare valutazioni e decisioni.

La narrazione infatti dà conto degli esiti inattesi, degli effetti non voluti che

spesso determinano il significato di un’azione. Il significato dell’azione è

infatti determinato da ciò che essa produce, piuttosto che da ciò che la

muove.

Inoltre, per così dire, le storie si fanno con i “se”: la forma del racconto

permette di ipotizzare esiti diversi, condizioni diverse, scelte ed azioni

differenti; sollecita la ricostruzione di ciò che avrebbe potuto essere. La

narrazione consente di ritrovare nel passato altri futuri possibili. Nel far

questo colloca gli attori organizzativi in una prospettiva in cui le loro

possibilità sono più ampie di quelle che di fatto si sono realizzate, e così

mantiene aperto l’orizzonte della possibilità, di contro a quello della

necessità. La cultura di una organizzazione – la “memoria organizzativa”– è

costruita proprio attraverso lo scambio e la condivisione di esperienze sotto

forma di storie;

Il sapere pratico è orientato al futuro

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Weick chiama “sensemaking” l’attribuzione di senso a ciò che è accaduto.

Questa attività per la quale un episodio, una azione, acquisisce un certo

significato e non un altro, è orientata non rispetto al passato, ma rispetto al

futuro. L’interpretazione che si da di un evento dipende dal “progetto” in cui

quell’evento è inserito da parte di chi ne elabora il significato. E’ solo in

relazione al corso futuro degli eventi auspicato dai diversi attori, che si

definisce il significato degli eventi passati.

E’ il “progetto”, la prospettiva di ciò che dovrà accadere, il punto di vista

da cui gli attori interpellano ciò che è accaduto per comprenderne il

significato.

In questo senso, il sapere pratico è un sapere progettante, costruito

ripercorrendo riflessivamente il passato, ma traguardato sul futuro.

Il sapere pratico si costruisce a partire dalle domande che ogni attore

formula, ma che allo stesso tempo orienta, guida alla formulazione delle

domande più opportune, più feconde;

Il sapere pratico è contestuale

E’ il contesto che definisce cosa sia un comportamento competente, e non la

abilità o la conoscenza tecnica del singolo. Il comportamento competente in

un determinato contesto organizzativo può benissimo non esserlo in un altro

contesto, pur apparentemente simile.

Il sapere pratico, che pure si può ritenere che “appartenga” alle persone, ai

singoli attori organizzativi, è piuttosto un sapere contestuale, i suoi

contenuti ed i suoi criteri di valutazione sono definiti dallo specifico

contesto organizzativo. In questo senso, funziona un po’ come il linguaggio:

saper parlare è una competenza individuale ma non privata, in quanto essa è

invece collettiva.

Così come non può esistere un linguaggio privato – semplicemente perché

non avrebbe una grande utilità - allo stesso modo non può esistere un sapere

pratico privato, non contestuale.

Ciò significa che al mutare del contesto cambiano i criteri con cui un

comportamento viene valutato come adeguato, ed il sapere pratico che vale

in un contesto non vale altrettanto in un altro contesto.

2.3 Sapere pratico e apprendimento organizzativo

Page53

La pratica è centrale per la comprensione dei fenomeni organizzativi, in

quanto fa emergere la conoscenza situata nell’organizzazione; il sapere

esperto che si esprime nella performatività dell’agire organizzativo;

l’importanza delle culture materiali, degli artefatti dello spazio

organizzativo unitamente alle pratiche discorsive ed ai codici normativi;

l’habitus fatto di senso del gioco, abilità personali e di inventiva; la

comunicazione organizzativa della conoscenza che mette in luce i processi

di apprendimento organizzativo91.

I primi studi sull’apprendimento vedono contrapposte due prospettive: una

cognitiva, che concepisce l’apprendimento come un modo di conoscere il

mondo che ha luogo nelle istituzioni e nei momenti ad esso dedicati, ovvero,

esso è il prodotto dell’acquisizione di conoscenza entro contesti formali e ad

esso deputati. L’apprendimento avviene, dunque, nella testa delle persone e

viene inteso come un “problema individuale”, in quanto, considera

l’individuo moralmente responsabile dei risultati del suo apprendimento e di

conseguenza la ricerca è focalizzata più sugli aspetti legati alla distribuzione

della conoscenza che sulla sua creazione, nonché sull’efficienza ed efficacia

dei processi di istruzione e acquisizione delle conoscenze92.

La prospettiva sociale, contrapposta a quella cognitiva, al contrario narra

come apprendere sia parte dello stare al mondo e dell’essere sociale.

Apprendere ha a che fare con il partecipare, con il divenire membro di una

comunità, in quanto, le relazioni sociali sono importanti per la trasmissione

del sapere, l’acquisizione di capacità e lo sviluppo relazionale dell’identità.

In questo senso l’apprendimento è sempre un “apprendimento situato93” nel

campo dell’interazione sociale.

Quest’ultimo approccio sostiene, a differenza del “mentalismo” che separa

mente e corpo, che i fenomeni mentali sono sociali e che hanno luogo in

relazione a una situazione sociale e materiale.

La mente dunque non è un contenitore che attende di essere riempita, ma è

mente in azione nel mondo quotidiano.

91 Gherardi S., Nicolini D. 2004., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., Carocci, op.cit. p.24

92 Ibidem., p 30

93 Ibidem., p.43

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Cambia, quindi, il locus e la natura dei processi di apprendimento: la

conoscenza non è acquisita passivamente e, unicamente nei luoghi formali,

in quanto, l’apprendimento è un processo generativo di conoscenza,

indissociabile dal coinvolgimento attivo nella situazione e nel contesto e

dalle modalità di partecipazione al mondo quotidiano.

Sono dunque labili i confini tra la conoscenza prodotta professionalmente,

che le discipline scientifiche definiscono oggettiva, universale e

decontestualizzata, e la conoscenza di ogni giorno: il sapere quotidiano94.

La prospettiva sociale consente di rappresentare l’apprendimento

organizzativo come situato nei contesti lavorativi quotidiani; distribuito

entro le comunità che creano, impiegano e innovano corpi di conoscenza

specialistica; custodito entro le relazioni sociali e trasmesso attraverso esse,

radicato entro situazioni e contesti materiali e oggettivato in artefatti e

routine. L’approccio sociale è stato contestualizzo entro il cosiddetto

“nuovo apprendimento organizzativo” che, a partire dagli anni ’90,

interpreta l’apprendimento nelle organizzazioni come il prodotto di

sequenze di attività, azioni e interazioni che costruiscono e ricostruiscono

l’immagine e le pratiche dell’organizzazione stessa.

L’apprendimento dunque, si inserisce nei contesti di partecipazione ad

attività pratiche; la conoscenza è distribuita entro il tessuto sociale che si

forma attorno a ogni attività materiale e , il linguaggio rappresenta il mezzo

principe per agire nel mondo e sostenere le varie forme di socialità95.

In questo clima l’attenzione degli studiosi si sposta dalla comprensione delle

organizzazioni come un qualcosa di dato, allo studio dei processi e delle

attività dell’ordinare che producono come effetto la realtà organizzativa in

cui siamo immersi; si verifica dunque un progressivo abbandono della

rappresentazione dell’apprendimento organizzativo come apprendimento o

adattamento dell’organizzazione a condizioni ambientali modificate, a

favore di un termine che evoca la concezione sociale dell’organizzazione:

learning in organizing.96

Si consolida l’immagine che organizzare sia apprendere e che

nell’apprendere sia implicato l’organizzare, ovvero viene superata la

94 Idem., p. 40

95 Ibidem., p. 4396Idem., p. 44

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distinzione tra conoscenza e azione. La prima quindi scaturisce dalla

seconda e non dalla diffusione di informazioni o dall’insegnamento97.

L’apprendimento organizzativo come processo conoscitivo non separa le

attività del lavorare, apprendere e innovare, esso è una pratica cognitiva: si

impara agendo. Il conoscere in azione è il cuore dell'apprendimento

organizzativo, in quanto esso esiste solo attraverso e all’interno del processo

di generazione, trasferimento e uso della conoscenza e, quest’ultima non

può essere considerata un insieme di affermazioni che esistono al di fuori

del soggetto conoscente. A un’immagine di conoscenza come possesso

(l’avere conoscenza), si propone l’immagine di apprendimento come attività

conoscitiva che connette entro l’azione e per mezzo di essa i saperi e le

abilità dell’organizzare.

La conoscenza pratica non può essere compresa indipendentemente dalle

relazioni sociali e materiali cui dà luogo e che allo tesso tempo la

sostengono, ne permettono la perpetuazione e ne determinano il

mutamento98.

Le organizzazioni apprendono, e così cambiano, quando gli attori

organizzativi modificano il proprio sapere pratico, quando nuovi punti di

vista si impongono, nuovi significati e nuovi linguaggi emergono99.

Ogni individuo struttura la sua conoscenza a partire dalle proprie esperienze

e conoscenze; i problemi inediti che l’operatore deve affrontare non sono

risolvibili solo in base a repertori tecnici, regole definite o prassi

consolidate.

Di fronte a un problema il professionista, a partire dalle sensazioni che

prova, può far emergere e criticare la propria iniziale comprensione del caso

per costruire una nuova descrizione, arrivando a una nuova teoria del

fenomeno. Egli costruisce una nuova conoscenza pratica.( Schön, 1993).

Gli attori organizzativi, dunque, sono portatori non solo di sapere tecnico –

sapere manipolativo, codificato, prescrittivo – ma anche di un rilevante

sapere pratico. Si tratta di un sapere che consente di “collocarsi in

situazione” interpretandone le caratteristiche, mediando tra le proprie 97 Ibidem., p. 46

98 Ibidem.,p. 48

99 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].

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aspettative e quelle degli altri attori, formulando ipotesi sul significato che

questi ultimi attribuiscono all’azione. In questa direzione non si tratta solo

di agire, ma al tempo stesso di orientare il corso dell’azione nella direzione

auspicata, facendo i conti con le caratteristiche di ambiguità, unicità,

indeterminatezza degli esiti, imprevedibilità, che sono proprie dell’azione100.

Il sapere pratico è sapere tacito, ma non "indicibile"; è contestuale, in primo

luogo, in quanto è sapere sul contesto, ovvero capacità di muoversi in un

determinato ambiente organizzativo; in secondo luogo, è costruito da parte

di ogni attore a partire dalla propria posizione all’interno del contesto,

posizione che gli consente di fare alcune esperienze e non altre, vedere alcu-

-ne cose e non altre, pensare come praticabili alcuni corsi di azione e non

altri; in terzo luogo, è sapere costruito con i materiali, le simbolizzazioni

fornite dal contesto sociale. Il sapere pratico è contestuale poiché capace di

produrre senso solo all’interno del contesto in cui si è generato, in tale

direzione esso è l’elemento che lega il sapere individuale al sapere collettivo

e, consente il passaggio dal livello del singolo attore a quello di un insieme

organizzato di attori101.

Accade così che il sapere pratico degli attori organizzativi, costruito

all’interno di un determinato contesto di azione, opera nel senso di

rafforzare e perpetuare tale contesto.

Il sapere pratico è costitutivo della identità degli attori sociali; fondando la

competenza, il saper fare degli attori, è uno degli elementi che entra nella

loro auto-percezione ed auto-rappresentazione; la modifica di esso richiede

cambiamenti faticosi perché chiama in causa elementi molto profondi, che

hanno a che fare appunto con l’identità102.

Esso è un sapere interpretativo, orientato all'azione e costruito nell'azione, e

quindi con una forte dimensione etica; non codificato ma trasmesso in forme

narrative; è un sapere individuale ma non privato, incardinato nelle reti di

relazioni e, non si può trasferire e tanto meno immagazzinare negli

artefatti tecnologici, così come si tenta di fare nelle esperienze di knowledge

management, ma si modifica per trasformazione, attraverso la riflessione e

la ricostruzione retrospettiva dei corsi di azione.

100 Idem

101 Ibidem102 Idem

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L’organizzazione che apprende, riflette continuamente sul e nel proprio

contesto, in modo da poter fare affiorare una continua ridefinizione ed

interpretazione dei significati delle proprie attività in relazione a tutti i livelli

– da quello macro dell’ambiente di cui è parte, a quello meso dei sistemi in

cui la società si organizza, e a quello micro in cui l’essere umano come

singolo, insieme ad altri singoli, partecipa con le proprie azioni, cognitive e

comportamentali alla costruzione di senso – coinvolgendo ogni componente

nel miglioramento di essa attraverso la pratica del lavoro.

E’ attraverso un’attenta meta-riflessione su ciò che sta alla base dell’azione

e del comportamento organizzativo, sui processi, sui linguaggi, sulle

dinamiche attivate, sulla consapevolezza della parzialità di ogni punto di

vista e delle precomprensioni, che il sapere e la conoscenza delle

organizzazioni si trasformano nell’abilità di impostare il rapporto con la

realtà. Abilità che conduce ad un agire che produce i cambiamenti desiderati

o necessari103.

Una riflessività attiva non viene, quindi, costruita dall’individuo mediante

un ritrarsi quasi “ascetico” né dal turbino della pratica quotidiana né

tantomeno dal contesto in cui tale pratica si inserisce104. In sintesi, il sapere

in azione e l’apprendimento sociale avvengono nell’ambito di un tessuto

organizzativo in cui i saperi e processi risultano interconnessi e mutuamente

dipendenti105.

L'apprendimento delle organizzazioni non è la mera somma dei singoli

apprendimenti individuali (quali il patrimonio di saperi e saper fare che

hanno gli individui quando entrano in una struttura), ma è il risultato

cumulativo dei processi d'interazione delle persone impegnate nella

realizzazione degli obiettivi organizzativi106. Gli apprendimenti che restano

confinati nell’ambito dell’esperienza del singolo e quindi non radicati

nell’organizzazione, non diventano patrimonio di quest’ultima, in questo

103 Giacomoli B. 2002, L'apprendimento organizzativo come capacità evolutiva. [online]. Università degli studi di milano- Bicocca Diponibile su: <http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=9489 > [Data di accesso: 01/12/2009].

104 Sicora. A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p.174105Anon., L’apprendimento nelle organizzazioni.. . [online]. Diponibile su: <http://www.itsosgadda.it/sito/istituto/sicurezza/index/totale/Modulo%20C/C4_Avezzu.pdf >[Data di accesso: 23/12/2009].

106 Sicora. A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p. 101

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senso l’apprendimento organizzativo ha bisogno perciò di essere

socializzato e condiviso107.

La condivisione dell’apprendimento, non è un presupposto ma, è il risultato

di processi che lavorano sui legami, sulle interdipendenze fra gli attori, sulle

loro intelligenze su problemi e soluzioni e sui repertori delle competenze in

cui queste ultime si depositano.

L’interazione dei soggetti, che compongono l’organizzazione, è mediata

dall’universo dei simboli. Il simbolo è al tempo stesso artefatto, evoca una

relazione sociale ed è portatore di valori sociali ed infine, denota un sapere.

In sostanza esso è un artefatto che traduce un aggregazione di persone in un

collettivo108.

Proprio in questa trasformazione di un aggregato di persone in una

collettività che ha un volto, un’identità, delle forme di convivenza, degli stili

di relazione sociale, dei valori e delle credenze, risiede il significato

sociologico del concetto di cultura. La cultura organizzativa è ciò che

l’organizzazione è. Essa è fatta di simbologie, credenze, valori e modelli

appresi, prodotti e ricreati dalle persone; viene espressa nell’ideazione e

nella progettazione dell’organizzazione e delle attività lavorative, negli

artefatti e nei servizi, nell’architettura degli spazi e nelle tecnologie adottate;

è materiale ed immateriale al tempo stesso ed infine è osservabile ed

evocativa, nel senso che nel comprenderla e comunicarla ci si avvale anche

del processo evocativo della conoscenza che si affida all’intuizione,

all’immaginazione, all’introspezione e all’empatia109.

E’ nella pratica che si può osservare la pluralità delle culture organizzative

che negoziano il significato del lavoro e quello stesso dell’organizzazione.

Secondo quanto riportato da Schein (1985), ogni organizzazione ha una

propria “cultura organizzativa”, ovvero un insieme di assunzioni su ciò che

va fatto e ciò che va evitato e, sono tali assunzioni che guidano la

valutazione dei comportamenti degli attori organizzativi; lo sviluppo di un

comportamento competente, l’acquisizione di un sapere utilizzabile, ed

infine, implica pertanto apprendere e far propria la cultura del contesto in

107 Gherardi S., D. Nicolini D. Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit.p 42

108 A. Strati., 2006., L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi., Carocci editore., cit. p.106109 Idem., p.112

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cui si opera110. I profondi mutamenti strutturali, economici e sociali che

attraversano il mondo del lavoro inducono le organizzazioni ad interrogarsi

su quali siano le modalità più efficaci per gestire la complessità e la

dinamicità con cui si confrontano nel loro operato.

Cresce il convincimento che, per assicurare sopravvivenza e sviluppo, sia

necessario conoscere ed intervenire sui nuclei culturali e valoriali che

sostengono ed orientano le scelte e l’azione dei sistemi organizzativi,

cercando di capire quali siano gli assunti di base ed i valori che spingono le

persone a comportarsi in un determinato modo; capire ciò che per l’impresa

rappresenta il modo corretto di agire; comprendere i comportamenti ai quali

viene dato un significato importante; capire come vengono affrontati i

problemi e come vengono riconosciuti gli eventi positivi; individuare le

manifestazioni pratiche, anche soltanto rituali, che dimostrano l’essere

devoti a determinate credenze ritenute critiche per il successo111.

La cultura di un organizzazione ha una sua storia; è funzionale ad alcune

esigenze e ansie di essa; questa esercita un ruolo positivo in quanto evita il

ripetersi di errori, ma può esercitare anche un ruolo negativo nel momento

in cui di fronte all’imprevisto, crea condizioni di chiusura e di “rifugio”

negli assunti, impedendone una revisione da parte dei soggetti,

trasformandosi, così, in una remora al cambiamento. La cultura

organizzativa spesso si auto-preserva e non cambia, oppure cambia,

rapidamente, in seguito a processi facilitati che scatenano “riflessioni

organizzative” che conducono a riconsiderare e riarticolare valori e

comportamenti112.

Le “riflessioni organizzative“ sono momenti che attivano conversazioni

importanti sulla cultura facendo emergere la naturale propensione alla

collaborazione. Queste riflessioni conducono ad un’evoluzione della cultura

e, richiedono che le persone riflettano insieme, affinché possano

promuovere cambiamento.

110 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].

111 Avallone Francesco.,2008., Culture organizzative:modelli e strumenti di intervento. [online]. Master Ciclo Formazione Formatori (CFF). Diponibile su: <http://www.gruppotiva.it/formazione/workshop-culture.html >[Data di accesso: 01/12/2009].

112 Gastaldi M., 2010, Cambiamento della cultura organizzativa. [online]. Growing Organizations humans in action.

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In sintesi, come abbiamo accennato, le organizzazioni che apprendono

riflettono su se stesse, ovvero, su ciò che una volta che in una

organizzazione si consolida un’unità organizzativa viene dato per scontato:

la cultura organizzativa.

Essa, come già precedentemente argomentato, è un insieme di assunti di

base e convinzioni condivisi dai membri di un’organizzazione funzionale

alla risoluzione dei problemi di adattamento esterno e integrazione interna e,

di gestione dell’ansia generata dall’incertezza che caratterizza la società

odierna113.

L’imprevisto conduce i professionisti a negoziare continuamente tra la

rigorosità del sapere tecnico di cui sono portatori e l’instabilità della pratica,

tra valori e burocrazia, tra etica e tecnica; questo è dovuto, anche, dalla

pressione esercitata dall’efficienza. Quest’ultima irrigidisce i processi di

lavoro e i modelli di riferimento attraverso cui affrontare le situazioni

pratiche costitutivamente instabili, causando, nella maggior parte dei casi,

disagi e la necessità di cambiare, di abbandonare le vecchie abitudini e

vecchi modi di pensare per acquisirne dei nuovi.

Molto spesso accade che in situazioni di incertezza i professionisti elaborino

velocemente delle scelte che producono cambiamenti (occasionali o

permanenti) del loro agire professionale, connessi alle pratiche di lavoro,

alle conoscenze ad esse sottese, alla divisione del lavoro, alle interazioni con

altri soggetti e alle regole.

Non di rado tali cambiamenti possono modificare i campi di azione ed i

confini di una professione fino al punto di renderla quasi irriconoscibile

rispetto ai suoi contenuti più familiari e alle sue pratiche standard, creando

punti di frattura e di tensione all’interno delle organizzazioni oppure

creando occasioni di liberazione, di possibilità di azione non pensate e non

strutturate prima114.

Non sempre le organizzazioni sono in grado di monitorare tali processi, di

farli emergere, di portarli a sistema e quando ciò non avviene l’agire in

situazioni di incertezza produce un apprendimento limitato, sia nel suo

113 Spagnoli P., Culture Organizzative. . [online]. Docente di antropologia Università Urbino. Diponibile su: <www.123people.it/s/paola+spagnoli >[Data di accesso: 13/11/2009].

114 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo. [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

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carattere estensivo (ossia coinvolge pochi soggetti in modo non

prevedibile), sia nel suo carattere intensivo (ossia non va a modificare modi

di pensare, valori, organizzazioni ma soltanto azioni in specifiche

situazioni).

Ciò accade a causa della scarsa capacità delle organizzazioni e dei soggetti

di riflettere e ristrutturare le basi cognitive e istituzionali che sostengono i

modi abituali e dati per scontati di fare le cose, di progettare nuovi modelli

di azione e nuove routine. Gli apprendimenti rimangono quindi invisibili,

frutto di esperimenti locali, periferici, di improvvisazione115.

Fare esperienza dell’imbarazzo, della sorpresa e trarre profitto

dall’imprevisto, è essenziale per imparare e per assumere maggiore

vigilanza, flessibilità e coraggio. La riflessione nel corso dell’azione è sia

causa che conseguenza di sorprese. Quando un professionista, soprattutto se

esperto, comincia ad osservare la propria attività quotidiana utilizzando

metodologie riflessive, generalmente rimane sorpreso.

La sua pratica esplode in una miriade di scoperte: voci prima silenziose si

risvegliano, opportunità e punti di vista inesplorati si dischiudono, ciò che

era scontato diventa nuova esperienza colorata, viva e interattiva116.

Lui stesso scopre che, come professionista, è una figura complessa, molto

meno lineare di quanto si sforzi di apparire ai propri occhi e a quelli dei suoi

utenti, in quanto è quotidianamente impegnato in mosse difficili, rischiose,

creative, dotate di insospettati margini di discrezionalità, continuamente alla

ricerca di soluzioni soddisfacenti – quasi mai ottimali - tra criteri di giudizio

diversi117. Egli riscopre con un maggior grado di consapevolezza, ciò che in

fondo sapeva già: il suo è un lavoro riflessivo perché la sua abilità

fondamentale consiste nella sua capacità di dialogare con la situazione che

deve affrontare, di risolvere in corso d’opera dilemmi di tutti i tipi e di

rispondere agli effetti della sua stessa azione e alle contromosse che altri

soggetti mettono in atto.

Egli si avvicina maggiormente, in tal modo, alla sorgente di quella

intuizione che tanto spesso gli ha permesso di risolvere in extremis

115 Ibidem

116 Schön D. A., Il professionista riflessivo., cit. p. 330117 Consoli F., L’apprendimento riflessivo. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].

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situazioni ingarbugliate, di capire quale fosse in quel momento e in quel

contesto la scelta giusta.

In questa direzione, il professionista tenderà a muoversi in questa palude

così diversa da quella roccia su cui ci si aspetta che un vero professionista

poggi i piedi per darci una risposta sicura. Una palude insidiosa ma piena di

imprevisti e di forme di vita118.

Se è un professionista esperto e responsabile, cercherà di orientare il proprio

comportamento ad un elevato standard di qualità. E’ molto probabile, però,

che dopo aver iniziato ad osservare la propria attività utilizzando

consapevolmente metodologie di pratica riflessiva, troverà che i parametri

di qualità cui si era precedentemente ispirato sono diventati angusti e

parziali. Il concetto di qualità si amplierà fino a comprendere le cose

difficilmente esprimibili quali, per esempio, i numerosi effetti non previsti

della sua azione e questi diventeranno, accanto a quelli espliciti e previsti, e

forse più di loro, amici attesi e potenti fonti di insegnamento119.

Il professionista riscopre, oltre la qualità, il valore della propria attività e che

la metodologia riflessiva può diventare un potente strumento di

apprendimento e di sviluppo delle proprie competenze lungo tutto il corso

della vita. Quando un membro di un’organizzazione, quindi, intraprende la

strada della pratica riflessiva, permettendosi di provare confusione e

incertezza, tende a sottoporre le proprie strutture e teorie a critica e

trasformazioni consapevoli, ovvero mette in dubbio la definizione del suo

compito, le teorie nell’azione che utilizza nell’espletarlo e gli standard di

prestazione mediante i quali egli è controllato.

Egli mette in discussione elementi della struttura di conoscenza

dell’organizzazione nella quale le sue funzioni sono profondamente

radicate120. In questa direzione, egli può accrescere la propria capacità di

contribuire a un significativo apprendimento organizzativo, ma può anche

diventare un pericolo per il sistema stabile di regole e procedure.

Tutto ciò, quindi, risulta nemico del funzionamento tranquillo di

un’organizzazione. Un apprendimento organizzativo significativo è sempre

118 Ibidem

119 Idem

120 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 331

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causa di una situazione difficile per l’organizzazione, in quanto mette in

discussione la stabilità dalla quale dipende una vita organizzativa gestibile;

d'altronde gli individui apprendono all'interno di essa attraverso il fare e la

riflessione sul fare stesso e, un‘organizzazione, la cui sopravvivenza

dipende dall’innovazione e dall’adattamento a un ambiente mutevole, non

può sottrarsi all’apprendimento organizzativo, dato da una revisione delle

routine operative121. L’apprendimento organizzativo, dunque, favorisce i

processi di trasformazione, incrementa la capacità di interazione flessibile

con l’ambiente e quindi far fronte alle circostanze impreviste.

Molto importante, dunque è la capacità di stupirsi, di osservare, di trattare

come un problema gli errori e di accogliere l’inedito.

Infine è importante sottolineare come la doppia esigenza di muoversi tra i

dilemmi e allo stesso tempo di rispondere a domande complesse di clienti

sempre più informati, abbia portato i professionisti verso una

ristrutturazione dei campi professionali e delle configurazioni

organizzative122. I campi di azione dei professionisti coincidono infatti

sempre meno con i confini delle organizzazioni, i quali vengono attraversati

e talvolta superati, a favore della costruzione di network per lo scambio di

informazioni, di esperienze, di aiuto in caso d’urgenza e per la creazione di

relazioni di complementarietà nella strutturazione dei servizi/risposte123.

Queste interazioni danno luogo a sistemi di scambio che possono avvenire

all’interno di uno stesso settore professionale e trasversalmente a più

contesti organizzativi, oppure possono attraversare i confini di diversi settori

professionali. Tali relazioni spesso assumono le caratteristiche di sistemi

sociali di attività e di apprendimento sociale all’interno dei quali i soggetti

condividono obiettivi, regole, divisione del lavoro, ruoli, strumenti, criteri di

qualità, ma che spesso sono invisibili, inglobati nei singoli processi, nelle

soluzioni trovate, nei prodotti e nelle prestazioni124.

121 Consoli F., L’apprendimento riflessivo. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].

122 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo. [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

123 Ibidem

124 Ibidem

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Il sapere prodotto dall’azione dei professionisti diventa così sempre meno

codificabile, sempre meno proceduralizzabile, diviene tacito e incarnato

nelle azioni e nelle soluzioni di volta in volta individuate e distribuito tra i

nodi (attori, contesti) dei diversi sistemi sociali di attività.

La persistente considerazione dell’organizzazione come struttura chiusa fa si

che le relazioni interorganizzative non vengano prese in considerazione.

Possiamo in realtà avere diversi tipi di relazioni interorganizzative, quale

che sia la relazione, è importante oltrepassare il confine per costituire una

rete relazionale in cui le organizzazioni possano cooperare insieme al fine

del raggiungimento di obiettivi prefissati e condivisi125. Molti studi

sull’apprendimento, difatti, mostrano come la circolazione delle conoscenze

non si fermi ai confini di una singola organizzazione, bensì avvenga nel

tessuto organizzativo che connette persone, artefatti e istituzioni sociali ai

vari livelli. Questo evidenzia come oggi i network interorganizzativi stiano

assumendo la forma di network globali e, la globalizzazione pone temi

nuovi quali: la fiducia, la collaborazione e la competizione, la diffusione

delle innovazioni126. Tale forma organizzativa risulta più efficace nel

promuovere un apprendimento basato sulla formazione di mappe mentali

condivise, forme culturali comuni, trasferimento di conoscenza tacita e

quindi, più in generale sulla capacità di stabilire interazioni significative al

fine di creare nuove conoscenze e di gestire con equità il rapporto tra

cooperazione e competizione.

2.4 Cambiamento organizzativo

“Si conosce la realtà solo se

si cerca di cambiarla” (J. Dewey)

125 Gherardi S., Nicolini D. Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p. 80

126 Ibidem., p. 82

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Strati è uno dei primi teorici che si è occupato del cambiamento delle

organizzazioni che si è avuto in seguito all’entrata in crisi delle

organizzazioni tradizionali, fondate sul taylorismo e sul fordismo.

Le organizzazioni infatti si sono trasformate da entità economico-produttive

(organizzazione come struttura) a entità in cui l’agire organizzativo è

collettivo ed è visto come un flusso, un processo.

Nel primo caso l’organizzazione è un qualcosa che si tocca e si vede, ma per

esempio oggi grazie all’evoluzione e alla diffusione di nuove

organizzazioni, come possono essere quelle favorite dalla rete e dallo

sviluppo di internet, abbiamo avuto uno sgretolamento della struttura fisica.

Da forme economico-sociali per la produzione e distribuzione di beni, si è

passati allora a contesti di relazioni sociali, così le organizzazioni sono

anche divenute luoghi di socializzazione.

Oggi le organizzazioni non essendo più strutture, ma processi divengono a

“legami deboli”, fondandosi così su: indeterminatezza, equivocità e

ambiguità127. Per riprendere gli insegnamenti di Bauman siamo inseriti in

una società liquida, in cui questa fluidità dei legami sociali, influisce su tutto

il resto. Tale società denominata società post-moderna è alla base

dell’incertezza e dell’inconsistenza di tutto quello che prima rappresentava

la struttura certa e tangibile della vita dell’uomo.

I servizi sociali sono completamente organizzazioni a legami deboli, ma

sono invischiati in strutture di tipo weberiano, in cui cioè la burocrazia e le

modalità di risposta consuetudinaria sembrano il modo più semplice e

veloce di rispondere all’incertezza dilagante nelle nostre vite128.

L’incertezza è un vincolo che deve essere trasformato in opportunità, essa

deve essere accolta, molto importante è: identificarla, approfondirla e

sfruttarla.

Accogliere l’incertezza significa soprattutto equipaggiare se stessi e le

organizzazioni di cui si è membri con gli strumenti appropriati, questo

richiede la necessità di avere la mentalità giusta volta alla comprensione ed

al confronto continuo con gli aspetti pratici e spiccioli della realtà.

127 Strati. A., L’analisi organizzativa., cit. p.43

128 Bifulco L.., 2002., Che cos’è una organizzazione., Carocci., op.cit. p. 44

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Più che mettere in discussione la realtà è molto più utile mettere in

discussione il modo in cui essa viene percepita allo scopo di identificare e

comprendere l’essenza del quotidiano che veramente conta. Solo partendo

da queste basi sarà poi possibile adoperarsi per stimolare progresso

caratterizzato dal miglioramento reale del nostro vivere e lavorare129.

Vi sono diverse modalità di gestire l’incertezza, essa può essere accolta

oppure eliminata. Queste diverse posizioni possono essere assunte o dai

membri di un organizzazione o dall’organizzazione stessa o da entrambi e,

di conseguenza è possibile delineare quattro tipologie di climi di lavoro

entro la quale si opera. Lo Status quo è il clima che si instaura nel momento

in cui sia l’organizzazione che coloro che vi operano rifiutano l’incertezza; i

membri dell’organizzazione rifiutano le sorprese e raramente ne ricevono.

Il clima disturbante è tipico di un contesto in cui coloro che operano

nell’organizzazione desiderano lavorare con la certezza mentre ritengono

che l’azienda sia troppo aperta, al contrario, all’incertezza. Di conseguenza

essi si sentono sopraffatti da un ambiente di lavoro caotico. Il clima

soffocante avanza quando solo i membri dell’organizzazione accolgono

l’incertezza e di conseguenza si sentono soffocati da un’organizzazione che,

al contrario, tenta di scansarla. Infine il clima dinamico si attua quando sia

coloro che vi operano che l’organizzazione accolgono l’incertezza e di

conseguenza il clima è pieno di energia e in continuo cambiamento.

In questa ottica, accogliere l’incertezza diviene uno “strumento di lavoro”

per guidare se stessi e le organizzazioni ad interpretare al meglio il proprio

ruolo in un mondo sempre più incerto e complesso130. Il conoscersi meglio

ci porta all’agire in modo più consapevole e la pratica rafforza le nostre

risorse ed il nostro potenziale. Il doversi confrontare con l’incertezza

diviene, dunque, un’opportunità di crescita.

Accoglierla richiede leadership, ne rappresenta anzi l’essenza: una delle

manifestazioni più concrete della rilevanza del ruolo di leader. Nella fase del

cambiamento il leader è molto importante perché funge da barriera

protettiva per l’organizzazione e i suoi membri e, da guida per se stesso e gli

129 Ibidem, p. 113

130 Paterni R., Accogliere l’incertezza:l’essenza della leaderschip. [online]. Ibs internet bookshop. Disponibile su: <http://www.ibs.it/code/9788883354359/clampitt-phillip-g/accogliere-incertezza-essenza.html > [Data di accesso: 23/11/2009].

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altri nel confronto con una realtà sempre più diversa e inattesa, soprattutto in

una fase in cui il “vecchio” viene meno e non è ancora costituito il “nuovo”.

Ai fini di una maggiore comprensione del tema in questione, nonché il

cambiamento organizzativo, occorre soffermarsi sul pensiero di due autori.

Si deve ad Argyris e Schön l’idea che i contesti organizzativi, le relazioni

tra persone, organizzazioni e società, e i loro significati, possono essere letti

dal punto di vista della conoscenza. È la conoscenza che a loro avviso

consente di valutare criticamente successi e insuccessi di una data

organizzazione; di ridefinire costantemente azioni ordinarie e indirizzi

strategici; di accogliere e valorizzare punti di vista ulteriori rispetto a quelli

prevalenti; di sperimentare innovazioni tecniche e organizzative; di

collocare gli eventi all’interno di un contesto mentale e di dare loro un

senso; di sostenere le persone nei loro potenzialmente mai finiti tentativi di

crescita culturale e professionale131.

I due autori definiscono l’apprendimento come competenza degli attori

organizzativi, questa competenza si basa su errori e inquiry.

I primi sono incongruenza tra piani e realtà, con il secondo termine

facciamo riferimento a modalità di approcciarsi all’errore non finalizzate

alla creazione di teoria ma, volta a modificare un’azione ed ovviare

all’errore, al fine di creare cambiamento e quindi apprendimento.

Le organizzazioni possono essere per questo definite come costrutti

cognitivi che attraverso l’individuazione e la correzione, accompagnate da

pratiche riflessive, di errori e anomalie, modificano la propria memoria, la

propria mappa concettuale, il proprio modo di essere e di operare, di leggere

e rapportarsi alla realtà. L’espressione di Argyris “Inciampa pure, così

rifletti” è esemplificativa di quanto appena detto.

Diversamente dai contesti di apprendimento individuale laddove

l’individuazione e la correzione dell’errore rimangono esperienza del

singolo, l’apprendimento organizzativo incide e determina insomma

conseguenze, più o meno positive a seconda delle scelte operate, sull’intera

struttura. Errore ed inquiry sono connessi a due livelli di apprendimento,

cioè il single loop learning e il double loop learning. 131 Moretti V., Frame 9. Chris Argyris e Donald A. Schön.. [online]. Disponibile su:

<http://laureacom.wordpress.com/2009/05/26/frame9/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

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L'apprendimento a circuito singolo (single-loop), al verificarsi di un errore,

corregge le strategie e le procedure operative ma lascia invariate le premesse

di fondo ad esse sottostanti, cioè i riferimenti normativi e valoriali e, le

cornici cognitive che prestrutturano la conoscenza e l'azione organizzativa,

ovvero le teorie in uso.

La trasformazione di queste premesse caratterizza invece l'apprendimento a

circuito doppio (double-loop), questo è intrecciato alla sperimentazione e

all'acquisizione di modi di fare e di conoscere alternativi e inediti.

Ai due livelli di apprendimento si affianca un terzo tipo: l'apprendere ad

apprendere (deutero-learning).

Quest’ultimo si riferisce alla capacità di modificare i modi in cui si

apprende e di promuovere attivamente processi e occasioni di

apprendimento132. Se il cambiamento non interessa le teorie in uso, allora si

avrà un cambiamento solo lessicale.

Le organizzazioni come sistemi aperti hanno al proprio interno diversi tipi

di conoscenze. Vale la pena soffermarsi sulle conoscenze "esplicite" e su

quelle "tacite". Le prime riguardano l'espressione di conoscenze codificate

legate all'esecuzione di attività o del loro coordinamento e controllo; le

seconde fanno riferimento ai processi di sedimentazione di conoscenze di

tipo individuale e interattivo, ma fortemente contestualizzate.

Le conoscenze esplicite sono facilmente comunicabili e condivisibili,

mentre le competenze tacite sono di tipo personale, difficili da formalizzare

e trasmettere, esse rappresentano i principi nascosti che guidano l’azione133.

Ai fini del cambiamento nelle organizzazioni diventa importante

trasformare le conoscenze tacite in conoscenze esplicite e trasferirle al

maggior numero di operatori, attraverso una valorizzazione dei vari modelli

mentali che ogni persona costruisce: la difformità del pensiero è

sicuramente una ricchezza da valorizzare e mettere “a sistema”134.

L’apprendimento organizzativo equivale, pertanto, all'insieme di processi

che portano l'organizzazione a porre attenzione a tutti i segnali provenienti

dall'ambiente accettando e valorizzando visioni alternative rispetto a quelle

132 Anon.., L’apprendimento organizzativo. [online]. Disponibile su: <http://www.sociologiadip.unimib.it/mastersqs/dida1/testicinque/lavinia_org.pdf > [Data di accesso: 13/12/2009].

133 Ibidem

134 Ibidem

Page53

dominanti e, molto importante, esso è favorito solo attraverso una revisione

continua degli indirizzi strategici e delle routine organizzative consolidate.

Un’organizzazione apprende, dunque, quando modifica i suoi repertori delle

competenze, cioè le conoscenze, i modelli di azione, le strategie e le

procedure operative condivisi e stabilizzati nel tempo.

In tale direzione significativo è il concetto di disapprendimento delle

routine, in quanto funzionale al cambiamento organizzativo135. Per routine

Levitt e March intendono le forme, i ruoli, le procedure, le convenzioni, le

strategie, le regole formali e le tecnologie attraverso le quali le

organizzazioni operano. Queste possono facilitare l’apprendimento in

quanto riducono la complessità e l’incertezza delle decisioni individuali;

accrescono l’efficienza e servono da memoria organizzativa e, attribuiscono

legittimazione sociale all’organizzazione che si dota di regole

istituzionalizzate dalla società in cui opera.

Contemporaneamente le regole presentano anche un aspetto disfunzionale

sull’apprendimento organizzativo, in quanto hanno effetti coercitivi, nel loro

essere ancorate a premi e sanzioni forzano gli individui al di là delle loro

inclinazioni personali e dello spontaneo coinvolgimento; ostacolano il

cambiamento organizzativo, in quanto spesso le regole pensate in funzione

del raggiungimento di un fine diventano fini a se stesse136.

Il vero sviluppo dell'apprendimento è quello che si verifica nell'apprendere

ad apprendere, ovvero la costante messa in discussione delle routine.

Riflettere su queste ultime significa far riemergere e riconsiderare la cultura

organizzativa, che in essa si sedimentano, per produrre cambiamento

organizzativo.

Attivare percorsi di cambiamento organizzativo, implica quindi progettare

percorsi di apprendimento organizzativo. In questa direzione, fondamentale

è la capacità delle organizzazioni di rappresentare sé stesse come sistemi di

apprendimento, come “impresa intellettuale” e non solo economica o

sociale. E’ infatti evidente come la prima caratteristica, che può favorire

processi di apprendimento, sia la consapevolezza della utilità della auto-

riflessione e dell’esame critico di ciò che accade137.

135 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p.42136 Ibidem., p. 45

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Anche il tempo è una risorsa, in quanto la costruzione di una organizzazione

con una propria identità ed in grado di apprendere è un processo per il quale

non esistono scorciatoie, e le accelerazioni rischiano di essere pericolose.

E’ significativo, inoltre, sottolineare ulteriormente, l’importanza del tempo e

dello spazio da dedicare al confronto sui potenziali dubbi e incertezze che

caratterizzano l’operare e, implementare momenti partecipati nella quale

ripercorrere e rileggere le diverse esperienze, riducendo così il senso di

estraneità. Porre l’attenzione alla storia e alle esperienze accumulate diviene

importante, in quanto questa risorsa significa disporre di termini di

riferimento per valutare l’esperienza attuale. La ricchezza del linguaggio in

uso nella organizzazione, la possibilità di raccontare storie, scambiare

esperienze, promuovere una comunicazione informale ed aperta ad una

pluralità di possibilità interpretative, con una pluralità di canali di

comunicazione e di modalità espressive, favorisce l’esplorazione e la

condivisione di significati138. L’organizzazione deve, dunque, possedere al

suo interno gli strumenti che gli consentano di decifrare l’esperienza, di

valutare la funzionalità delle regole e di rivederle e, gli spazi di verifica

pubblica di assunzioni private, di messa in luce di dilemmi, e di discussioni

pubbliche su temi inerenti alla sfera sensibile.

Ogni organizzazione è un sistema unico, irripetibile, i cui elementi

costitutivi non sono solo “tecnici”, ma anche “sociali”, essi cioè fanno

riferimento ai “mondi vitali” dei soggetti che, con i loro modi di entrare in

relazione, le loro aspettative, percezioni di sé come membri

dell’organizzazione, contribuiscono alla creazione ed alla strutturazione

dell’identità dell’organizzazione stessa.

Il senso organizzativo si costruisce nell’interazione continua tra i membri di

un’organizzazione. Le interazioni sono mediate da simboli, cultura,

linguaggio ma anche dalla distribuzione del potere e dalla capacità di

influenzare all’interno dell’organizzazione. Gli assetti istituzionali – la

struttura delle relazioni – e la componente “immaginativa”, in sostanza la

“cultura”, il vocabolario, il linguaggio dell’organizzazione, sono aspetti

inscindibili e complementari, sicchè risulta impossibile modificare l’uno

137 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].

138 Ibidem

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senza che anche l’altro venga modificato139. Distribuzione del potere, assetti

istituzionali, e cultura dell’organizzazione – e quindi anche schemi cognitivi

e pratiche argomentative – sono, per così dire, le due facce della stessa

medaglia140.

Non è, quindi, solo l’organizzazione che plasma “a sua immagine” il

soggetto che in essa si inserisce, attraverso la trasmissione di norme, valori,

linguaggi procedure, ma è anche l’individuo che con la sua presenza,

interpretazione della realtà e con il suo “ essere parte/ partecipare”, rigenera

e modifica il proprio agire ponendo quesiti all’assetto organizzativo.

Il lavoratore costruisce e ricostruisce conoscenze e competenze nelle

organizzazioni - guidate da proprie strutture di regole e di relazioni- nella

relazione con l’utente, nella collaborazione con gli altri professionisti,

nell’interazione interorganizzativa. Tutto ciò richiede un’attenta

considerazione circa le valenze di significato delle sue comunicazioni ed

azioni. Questo processo sollecita pratiche osservative e riflessive sulle

proprie azioni, ma anche sui propri vissuti, sulle proprie emozioni, sulle

teorie implicite che guidano il soggetto, spesso inconsapevolmente.

Si tratta di un’operazione di osservazione e auto-osservazione, un

atteggiamento di ricerca riflessiva che tende a sviluppare una conoscenza

attiva, capace di “governare consapevolmente la conoscenza nell’azione”.141

Le pratiche riflessive sono modalità di analisi e apprendimento della

conoscenza tacita cristallizzata nell’azione (Polanyi).

Esse permettono di assumere :

• sé stessi e la propria azione professionale come oggetto di analisi;

• una posizione di distacco dalla situazione;

• una maggiore disponibilità ad accettare il cambiamento;

• una prospettiva prima negata;

• nuovi schemi di significato.

Per concludere, e richiamando quanto riportato, è importante che

l’organizzazione si abitui a produrre riflessione su se stessa, utilizzando la

propria esperienza organizzativa. Ogni servizio è diverso dall’altro: ha una

storia, condizionamenti interni ed esterni, proiezioni e conflitti, nodi 139 Idem

140Ibidem

141 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit. p.22

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irrisolti, detto e non detto, tutto ciò concorre a rendere unico l’equilibrio

raggiunto. Per mantenere il livello di efficienza raggiunto, per sbloccare un

servizio in “burn-out” o per creare nuove funzioni organizzative è

necessario che partecipino tutti gli operatori coinvolti, poiché tutti

producono organizzazione. E’utile, dunque, che tutti contribuiscano a

riflettere e a cambiare. Questo chiama in causa la necessità di garantire

legittimità ad una pluralità di punti di vista all’interno dell’organizzazione,

in quanto la riduzione della varietà, avrebbe in questo caso l’effetto di

ridurre la sfera di significatività dei fatti organizzativi142.

Uno stile di linguaggio che privilegi affermazioni non problematiche,

soluzioni piuttosto che problemi, sicurezza piuttosto che dubbi, non aiuta

ad avviare processi riflessivi, non consente di costruire storie e scambiare

significati143.

L’organizzazione ha bisogno di certezze, di efficienza anche sul piano

dell’economia cognitiva; mal sopporta il dubbio, la presenza di punti di

vista dissonanti che obblighino ogni volta a chiarire le premesse

dell’azione, i criteri delle scelte, le opzioni giocate; ma è in questa capacità

di sopportare e lavorare con l’incertezza la condizione che rende possibile la

riflessione o il pensare. Un’istituzione riflessiva deve far posto

all’attenzione verso valori e scopi conflittuali, deve annettere elevata priorità

a procedure flessibili, risposte differenziate, valutazione qualitativa di

processi complessi e responsabilità decentrate di giudizi e azioni144.

In ultimo, è necessario attivare un ambiente di lavoro che tollera un certo

grado di errore e, che considera questo e le connesse opportunità di rivedere

e riformulare la conoscenza personale come un’occasione di apprendimento

e di ricerca di nuove strade; e che consente di lavorare sulle proprie

emozioni, considerate come possibile traccia per la formulazione di ipotesi

interpretative e orientative dell’azione.

I sistemi chiusi non apprendono in quanto sono rigidi, rifiutano e negano lo

sviluppo conoscitivo dei sistemi organizzativi e sociali, attraverso la messa

in atto di resistenze al cambiamento. L’esercizio costante della riflessione

142 Piva.P.T., 2003., I servizi alla persona., Carocci., op.cit. p. 47

143 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].144 Ibidem

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permette l’emergere di nuove pratiche e saperi, limitando i rischi di stasi

apprenditiva e conoscitiva; essa è riferita non solo all’azione ma anche al

cosiddetto “quadro interpretativo personale”, nonché l’insieme delle

motivazioni, rappresentazioni, idee che in maniera più o meno implicita

orientano l’azione.

2.5 Sapere pratico e Comunità di pratiche

Il concetto di Comunità di Pratiche nasce dall’osservazione di soggetti che

svolgono lo stesso lavoro all’interno della medesima organizzazione e, in

virtù della condivisione del medesimo contesto organizzativo e della

frequente interazione, maturano pratiche lavorative omogenee145. Il concetto

in questione è stato elaborato nell’ambito di un filone di ricerca di matrice

sociologica ed antropologica che non si riconosceva più in una visione

passiva e mentalistica del processo di apprendimento pensato come una

semplice acquisizione meccanica di nozioni astratte e formali proposte

dall’esterno. In questa prospettiva, al contrario, l’apprendimento viene

riconosciuto come un processo di natura attiva, caratterizzato dalla

partecipazione e dal coinvolgimento dell’individuo all’interno di un

determinato contesto d’azione nel quale si trova ad operare146.

E’ grazie alle conoscenze che si apprendono e si mettono in uso nello

svolgimento delle pratiche lavorative ed organizzative che la comunità viene

a formarsi, che la memoria di comunità viene creata e che le persone nuove

del mestiere si socializzano alla vita organizzativa. Quel che caratterizza il

145 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].

146 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p.42

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formarsi della comunità è l’atto dell’esperienza, il sapere pratico, la

conoscenza tacita, l’emozione e l’estetica147.

La condivisione di una pratica sostiene un tessuto di relazioni e forme di

socialità che implicano modi comuni di conoscere e di comprendere gli

eventi relativi all’attività comune, questo implica anche il formarsi di un

senso di mutualità e di fiducia che deriva dall’aver sottoscritto un patto

tacito che lega tutti nello sforzo di portare a buon fine l’attività148.

Ogni pratica fornisce alle persone il senso di essere coinvolte nella “stessa”

impresa e questo ha a che fare con il concetto di acquisizione di una nuova

identità.

Questa nuova visione, difatti, implica una forte correlazione tra

apprendimento e identità: apprendere all’interno di una comunità significa

imparare ad essere e ad agire come membro di essa, anziché acquisire

semplicemente un insieme sterile di nozioni ed informazioni, ciò permette a

chi condivide un fare comune non solo di partecipare attivamente a pratiche

concrete - in quanto l’idea di partecipazione sottolinea che si apprende

sempre grazie all’interazione con gli altri e con la situazione che si viene a

creare di conseguenza - ma anche di riconoscersi in un progetto comune e

di sviluppare un repertorio di risorse che includono linguaggio, routine,

strumenti, sensibilità e storia comune149. Queste diverse possibilità di

costruire relazioni significative con gli altri, così come condividere storie

comuni di apprendimento, fa si che si possa sviluppare un forte senso di

appartenenza.

L’idea di comunità di pratica, quindi, mette in evidenza l’esistenza di una

particolare forma di socialità fra i membri di un’organizzazione basata sulla

condivisione di pratiche comuni. Tale forma di socialità costituisce allo

stesso tempo la condizione di esistenza del sapere in azione e il meccanismo

della sua perpetuazione e progressivo mutamento150. La pratica, da una parte

(definibile come il fare all’interno di un determinato contesto storico e

sociale), struttura e dà senso al fare stesso; essa è modo di relazionarsi con il

mondo e da un senso all’esperienza; dall’altra parte la comunità è

147 Strati. A., L’analisi organizzativa., cit. p. 93

148 Ibidem., p. 111149 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p. 46

150Strati. A., L’analisi organizzativa., cit. p. 110

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interpretata come la dimensione sociale e relazionale e, funge da contesto

per l’apprendimento situato. L’apprendimento, perciò, è frutto della

continua negoziazione del significato che ha luogo nello svolgimento e

nell’acquisizione delle pratiche151.

Il sapere è distribuito fra i vari attori ed è veicolato dagli artefatti, che

vengono utilizzati nel corso dello svolgimento dell’attività pratica, dalle

regole e dalle prescrizioni esplicite e tacite. La trasferibilità del sapere

pratico può avvenire solo attraverso la condivisione di esperienze e lo

scambio di storie.

Le conoscenze ed abilità condivise da una comunità di pratiche sono

conoscenze ed abilità tacite, contestuali e difficilmente codificabili; il che

non vuol dire che si tratti di competenze non trasmissibili e non replicabili,

ma che la forma di tale trasmissione non è quella “canonica” di tecniche e

metodologie, ma è piuttosto la forma della narrazione152.

E’ attraverso la narrazione di episodi di lavoro – delle modalità con cui

concretamente, nel singolo caso, si è definito qualcosa come un problema e

si sono individuate le modalità più opportune della sua risoluzione – che si

trasmette, si verifica, si scambia un sapere intorno alle pratiche

professionali153.

La costruzione di storie ha in effetti una duplice funzione, in quanto

consente a chi ascolta di far propria l’esperienza di un collega, ma anche a

chi narra di riflettere sulla propria esperienza.

L’innovazione in una comunità di pratiche si produce così – grazie alla

narrazione - attraverso la riflessione, la trasformazione e l’imitazione.

Il carattere contestuale del sapere pratico fa sì che in nessun caso, percorsi

di apprendimento realizzati da attori organizzativi siano un fatto individuale,

personale; e d’altra parte implica che l’intervento sul contesto organizzativo

abbia ripercussioni anche in termini di sapere pratico dei singoli attori

organizzativi. Non vi è possibilità che si modifichino in maniera concreta le

151 Ibidem., p. 112

152 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].153 Idem

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conoscenze e competenze di un attore, senza che questo implichi una

modifica del contesto organizzativo, cioè della rete delle relazioni154.

Lo sviluppo delle competenze degli attori inseriti in contesti organizzativi è

pertanto un processo di modifica riflessiva della rete delle relazioni.

Focalizzare l’attenzione sul sapere pratico, sul suo carattere contestuale e

intimamente connesso alla esperienza, impone di impostare diversamente il

problema dello sviluppo e della diffusione della conoscenza: non si tratta

più di “estrarre” la conoscenza dai singoli individui, ma, al contrario,

valorizzare la conoscenza diviene tutt’uno con il valorizzare gli individui

che ne sono portatori; si tratta di costruire, modificare, innovare reti di

relazione tra gli attori per consentire alla conoscenza di ricombinarsi,

innovarsi, diffondersi155.

La natura relazionale e sociale delle comunità, fa si che esse si sviluppino in

modo spontaneo al di fuori dell’organigramma aziendale e

indipendentemente dalle intenzioni e dalla volontà dell’impresa,

rappresentando così una componente complementare alla struttura

gerarchica e formale dell’organizzazione e contribuendo in modo rilevante

al suo funzionamento.

La scoperta di questi contesti di relazioni informali tra i dipendenti,

caratterizzati da dinamiche di produzione e circolazione della conoscenza, si

rivela una grande opportunità di sviluppo per le organizzazioni che però

debbono creare le condizioni favorevoli affinché queste comunità possano

essere valorizzate156.

Le comunità di pratica, infatti, rappresentano un valore potenziale per le

organizzazioni, specie per quelle pubbliche ancora caratterizzate da una

mentalità burocratica, poiché rappresentano forme elastiche di cooperazione

che garantiscono flessibilità e capacità di far fronte alla complessità sociale

in modo efficace.

A sostenere quest’ultimo concetto sono i dati, emersi da molte ricerche

condotte sulle caratteristiche che differenziano il settore pubblico dal non

profit, tra i quali si rileva come proprio in quest’ultimo il “fattore umano”

154 Ibidem

155 Ibidem

156 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit.p. 49

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sia maggiormente soddisfatto e motivato grazie alla promozione di un

ambiente di lavoro socialmente più gradevole, armonioso, creativo, con

minori tensioni tra i lavoratori e tra questi e l’organizzazione, rispetto a

quanto avviene nelle strutture pubbliche, il cui ambiente lavorativo non

sembra stimolare e gratificare gli operatori sociali, in quanto operanti

all’interno di organizzazioni in cui si riducono gli spazi dell’informalità e

dell’autonomia mentre aumentano sempre più le maglie del controllo,

ripercuotendosi sulla performance degli operatori e la qualità dei servizi

erogati.

Riflessività e Formazione Permanente

“Oggi vi è la necessità di abbandonare i supermercati

della formazione per tornare alla costruzione artigiana degli

strumenti d’azione professionale” (Prada 2004: 67 – 73)

Promuovere il cambiamento e valorizzare le persone rappresentano gli

imperativi categorici delle attuali logiche di impresa. L’anello che lega

processi di innovazione e imprese è rintracciabile nella qualità della

formazione agita da queste ultime; ovvero se la sfida da cogliere è, appunto,

il cambiamento, occorre coltivare in modo sistematico la formazione dei

soggetti e, questo può avvenire solo quando i sistemi di apprendimento sono

progettati tenendo conto dei bisogni dei soggetti, in direzione di una

maggiore motivazione e progettazione di questi ultimi ai problemi e alle

opportunità che la vita organizzativa presenta157.

157 Consoli F., L’apprendimento riflessivo per la formazione continua. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].

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Nella letteratura del servizio sociale sono frequenti i richiami e gli inviti ad

una formazione veramente continua, nonché alla riflessività quale momento

qualificante di una professionalità che si interroga sul proprio operato e che

è costantemente tesa al miglioramento delle prestazioni fornite, in quanto la

varietà e l’ampiezza degli ambiti di lavoro in cui l’operatore è inserito e

l’accentuata mutevolezza del contesto sociale, rendono insufficienti in breve

tempo le conoscenze e le competenze acquisite nella formazione di base158.

Il concetto di formazione permanente nasce da alcune premesse. Com’è

noto, l’idea che l’uomo non possa sottrarsi all’esigenza di un apprendimento

permanente è molto antica in quanto scaturisce, in modo naturale e

spontaneo, anche dal bisogno della semplice lettura dei dati dell’esperienza

quotidiana. Negli ultimi decenni tale idea ha registrato una sensibile

evoluzione e un notevole ampliamento di significato, fino ad assumere la

connotazione di un fondamentale principio pedagogico.

In tale contesto, dal dibattito che si è sviluppato sul piano culturale in

generale e su quello delle scienze dell’educazione in particolare, è emersa

l’esigenza di costruire un sistema di educazione permanente che abbia i

seguenti caratteri distintivi: continuità, globalità, universalità,

comprensività, differenziazione, dinamicità, realizzazione dell’equilibrio

dello sviluppo verticale, orizzontale e trasversale.

Si evidenzia come la formazione permanente professionale si debba

configurare come un sistema che mette gli individui nelle condizioni di

correlarsi continuamente con la dinamica dei profili professionali e degli

sbocchi occupazionali connessa con l’evoluzione dei sistemi politico-

economici; promuove l’acquisizione di una seria professionalità all’interno

del processo di sviluppo globale della personalità. Essa fa riferimento alla

formazione umana e sociale, permette l’acquisizione di una solida

preparazione culturale; è destinata a tutti i cittadini, qualunque età essi

abbiano, in modo da soddisfare anche la domanda di riqualificazione,

specializzazione e aggiornamento professionale che nasce da esigenze

individuali e/o dal sistema economico-produttivo; utilizza diversi soggetti,

istituzionali e non, e diverse vie, formali ed informali; compone

interdisciplinarmente contenuti dei filoni umanistico, scientifico e

158 Sicora A., Riflessività e formazione.[online]. Centro Studi di Servizio Sociale c3s. Disponibile su: < http://www2.units.it/~c3s/ > [Data di accesso: 15/12/2009].

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tecnologico; soddisfa le mutevoli esigenze, sul piano qualitativo,

quantitativo e territoriale, della domanda e dell’offerta di lavoro; attua

interventi differenziati in funzione dei settori e comparti economici,

dell’ambiente socioculturale, dei fattori territoriali, delle esigenze della

domanda e dell’offerta di lavoro e delle caratteristiche dell’utenza; infine

rende possibili modifiche non traumatiche del ruolo professionale in

conseguenza di cambiamenti che interessano la sfera individuale (età, status

socioeconomico, livello di istruzione, ecc.) e/o l’offerta di lavoro159.

E’ noto che in Italia l’attenzione e le risorse dedicate alla formazione sono

inferiori che in altri paesi europei. Minori sono le ore e le persone coinvolte,

minori sono i campi in cui si fa formazione, meno diffusa, soprattutto è la

consapevolezza della sua necessità a livello di opinione pubblica160.

La convinzione che il tempo dedicato alla formazione continua sia sottratto

al lavoro è molto diffusa sia tra i lavoratori che tra i datori di lavoro e anche

in ampi strati di professionisti.

Al fondo vi è l’idea che il modo più produttivo per imparare, in fin dei conti,

è lavorare. Apprendere nel lavoro e mediante il lavoro sembra meglio che

apprendere in momenti dedicati e con corsi specifici perché in questo modo

si imparano le cose che occorrono, quando occorre e dalle persone che

meglio possono insegnarci: i colleghi, i clienti, i fornitori, gli amici, gli

stessi concorrenti; inoltre l’apprendimento in questo caso avviene senza

interrompere il flusso di lavoro, nel corso stesso dell’attività, con un

considerevole risparmio di denaro, di tempo e di carico organizzativo161.

Imparare nel corso del lavoro sembra quindi più efficace, più mirato ed

economicamente più conveniente. Questa opinione è tanto diffusa che un

investimento in formazione, come investimento specifico, fuori del tempo di

lavoro e in luoghi dedicati, con docenti, tutor e formatori, sembra possibile

solo se esso è in qualche misura spinto dall’esterno, in modo più o meno

coercitivo, e magari è sanzionato da “crediti” che gli attribuiscono valore, e

se i suoi costi sono abbattuti, o almeno ridotti, grazie a contributi esterni.

159 F. Sabatano., 2007., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., Liguori., op.cit. p. 32

160 Consoli F., L’apprendimento riflessivo per la formazione continua. [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].161 Idem

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I policy maker e la comunità dei formatori sottolineano che i cambiamenti

continui che investono sia il nucleo tipico dei saperi professionali, sia gli

ambiti che occorre padroneggiare per tradurre in pratica i saperi

professionali (per esempio la gestione, l’informatica, la comunicazione,

ecc.), richiedono spazio, tempo, professionalità e piani formativi dedicati

all’aggiornamento continuo162.

Il flusso costante e multilaterale dei cambiamenti e la frequenza delle

innovazioni che rivoluzionano le conoscenze precedenti rende insostituibile

il ruolo di agenzie specializzate nella gestione, elaborazione, trasmissione

delle informazioni. Proprio questa specializzazione, però, dà alla diffusione

delle innovazioni e all’aggiornamento il carattere di un intervento esogeno,

che viene dall’esterno della pratica lavorativa diretta, dell’ambiente organiz-

-zativo con il quale il professionista interagisce direttamente, della

prospettiva immediata e locale e dai problemi che il professionista deve

fronteggiare quotidianamente163.

Un rapporto più fertile, efficace ed efficiente tra l’apprendimento che

avviene all’interno di un percorso formativo e la pratica professionale è

enormemente facilitato dalle metodologie di apprendimento riflessivo164.

Esse in molti contesti, in Italia e soprattutto nel nord Europa, si sono

dimostrate estremamente efficaci, sia per realizzare un flusso costante di

apprendimento, sia per trasformare quest’ultimo in gestione del

cambiamento e, per fare di esso un momento non solo di adattamento

passivo ma di creazione di nuova conoscenza, di riformulazione del proprio

modo di stare nel mercato professionale e di trasformazione della pratica.

La formazione permanente viene intesa non solo come aggiornamento e

riqualificazione ma soprattutto come apprendimento di atteggiamenti di

riflessività sul proprio lavoro per condurre anche nell’organizzazione e

gestione dei servizi modifiche strutturali, rinforzando il “desiderio di

verifica continua, di disponibilità al cambiamento, di sperimentazione del

162 Ibidem

163 Idem.,

164 Ibidem

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nuovo per la modifica di forme non adeguate di risposta e per una migliore

progettualità e imprenditorialità nei servizi alla persona”165.

Lo strumento più adeguato, dunque, sia a livello di formazione di base che

di formazione permanente, è la riflessione critica sul proprio lavoro

quotidiano alla luce di schemi di riferimento teorico, da ciò, la formazione

più idonea non è chiaramente una formazione-addestramento di tipo

strumentale, ma una formazione culturale e di ampio spettro che vada oltre

la dimensione conoscitiva in direzione di una centralità della dimensione

emozionale e di quella sociale.

E’ importante, pertanto, pensare a percorsi che guardino alla professionalità

come ad un costrutto complesso risultante da un’integrazione sistemica di

tre dimensioni: cognitiva, sociale ed emozionale.

Tale integrazione è possibile solo attraverso l’esercizio di una dimensione

trasversale: la dimensione riflessiva166.

La riflessività si pone come strumento grazie al quale definire uno stile di

pensiero, una modalità di analisi della realtà, un particolare esercizio della

competenza; questi elementi fanno riferimento ad un’idea di conoscenza

intesa come risorsa di adattamento flessibile, capacità di apprendere

dall’esperienza e di risolvere problemi nuovi. Questa considerazione amplia

il significato tradizionale attribuito al concetto di competenza, ovvero essa

va intesa come l’esito di un processo cognitivo, che non si misura solo in

base alle dimensioni del sapere - esprimendosi anche nel modo di

selezionare e di elaborare le informazioni, nelle regole utilizzate per

risolvere un problema, nelle strategie adottate per eseguire una prestazione o

prendere una decisione - ma fa riferimento anche ad aspetti psicologici,

caratteriali e di personalità e non va ridotta al livello delle prestazioni

esplicite.

Le competenze insite nella professione si armonizzano attraverso

un’adeguata integrazione e gestione anche delle emozioni, modalità che

influenza la costruzione dell’identità personale e professionale.

Il comportamento efficace del soggetto è connesso strettamente alla sua

capacità di gestire consapevolmente il proprio ruolo professionale, il quale

165 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo.., cit. p.163

166 Idem., p. 165

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vede coniugati accanto alle conoscenze, esperienze e aspettative, anche i

sentimenti e le emozioni, di cui si acquisisce consapevolezza attraverso

momenti di riflessione, permettendo così al soggetto di gestire l’intreccio

delle due sfere.

La gestione del sé implica una capacità di mediazione e di integrazione tra

l’identità personale e quella professionale, una necessaria consapevolezza

del proprio agire e delle reali motivazioni ed emozioni che lo sostengono167.

Per ritornare al concetto di competenza, essa è costantemente in itinere,

viene rinnovata e ristrutturata, anche radicalmente, in correlazione al

modello culturale, ai saperi, alle pratiche di un tempo storico e ai bisogni

cognitivi/produttivi di una società; per quanto concerne l’aspetto

dell’integrazione, si tratta di mettere in relazione le competenze con ciò che

sta prima, le conoscenze di base, di metodo, avanzate, e ciò che sta dopo,

nonché la meta cognizione, la riflessività e la criticità.

E’ possibile rintracciare alcune caratteristiche fondamentali attribuite al

costrutto di competenza168:

la dinamicità: le competenze non sono statiche, ma si sviluppano e si

apprendono continuamente attraverso le esperienze personali e professionali

dell’individuo;

la multidimensionalità: la competenza è riconducibile ad un insieme articolato di

singolo fattori; essa determina ed è determinata dal comportamento e dai contesti, non

solo lavorativi ed informa ed è informata dall’intera personalità del soggetto;

il carattere sistemico: le competenze racchiudono il patrimonio complessivo di

risorse e di qualità dell’individuo attraverso l’integrazione e non la mera somma delle

singole dimensioni;

la contingenza: le competenze si concretizzano in comportamenti efficaci e

funzionali, e solo attraverso i comportamenti divengono osservabili; le competenze si

manifestano, quindi, nell’interazione tra un soggetto e uno specifico contesto; esse sono

contestualizzate, ossia legate al particolare ambito in cui vengono agite, ma anche

contestualizzanti, in quanto possono modificare attivamente l’ambiente in cui vengono

espresse;

167 Sabatano.F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., cit. p. 83

168 Idem., p. 84

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la flessibilità: le competenze consistono in modi di agire e strategie generali,

esprimendo la necessità di un saper fare che si declini in diverse situazioni e che ponga

l’accento non tanto su un modo specializzato di svolgere un ruolo, quanto su un “saper

fare cose diverse” e su un sapere che riguarda quando scegliere l’una o l’altra

competenza, dal momento che quest’ultima implica decisionalità.

Intendendo la competenza in questa accezione più ampia è possibile

metterla in rapporto con la riflessività.

Sul pensiero riflessivo, infatti, si fonda la possibilità di sviluppo delle

competenze trasversali relative alla soluzione dei problemi, alla presa di

decisione, al controllo delle proprie forme di conoscenza, alla capacità di

comunicare in modo efficace saperi ed esperienze.

Il primo passo, sul versante formativo, consiste nel rendere i soggetti

consapevoli del rapporto tra teorie (scientifiche e ingenue) ed azione, per

smascherare gli automatismi del proprio agire e per comprenderne il senso e

l’origine. Questo è un primo elemento della riflessività, ovvero riflettere sul

proprio agire. Il secondo elemento, quello propriamente riflessivo consiste

per l’appunto nel riflettere sulla propria conoscenza, quindi ridiscuterne la

veridicità, attraversarne i confini, confrontarla con la propria storia

personale169.

Queste mete possono essere raggiunte realizzando un ambiente

professionale riflessivo, che favorisca nei soggetti un continuo rimando

critico tra conoscenze specialistiche, sapere personale ed esperienza, perché

in tale gestione consapevole risiede la possibilità di una espressione creativa

e originale della conoscenza. L’atteggiamento professionale si manifesta

attraverso la disposizione del professionista a gestire situazioni complesse,

attingendo dall’esperienza per orientare il proprio comportamento e,

contempla tre componenti, legate tra loro da rapporti di interdipendenza: la

componente cognitiva, costituita dalle conoscenze teoriche-pratiche

possedute, la componente affettiva, rappresentata dai principi ispiratori, dei

valori personali e professionali e, la componente motivazionale, o spinta

all’azione, che si esprime nelle varie attività professionali170.

La possibilità di esprimere la competenza in senso riflessivo, dunque, è

connessa alla necessità di implementare setting formativi e condivisi, che

169 Schön,D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 340170 Dal Pra Ponticelli.M., 2007., Dizionario di servizio sociale., Carocci Faber., op. cit. p. 123

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vedano la partecipazione attiva di tutti i soggetti a momenti di confronto, di

riconsiderazione, di riconoscimento, di riflessione su se stessi e sulle proprie

conoscenze; capaci di attivare un passaggio dall’implicito all’esplicito,

insito nei propri modi di leggere i problemi; di ricercare ipotesi migliorative;

di effettuare scelte e di prendere decisioni, portando in luce le “aree

nascoste” delle emozioni e dei vissuti.

Lo scopo di tali confronti è, pertanto, quello di rendere l’esperienza guidata

un’occasione per il gruppo di divenire spazio e strumento di condivisione di

obiettivi, di scambio e di relazione sulle esperienze soggettive legate al

proprio agire professionale, di rielaborazione di riflessioni, affinché possano

diventare patrimonio condiviso e tradursi in pratiche operative.

In tal senso il confronto assume una forte valenza formativa, divenendo la

via privilegiata che sostiene la riflessione e che, attraverso di essa, conduce

a negoziare significati, a coniugare le conoscenze implicite, che segnano

l’esperienza di lavoro, con le competenze consapevolmente attivate nei

contesti professionali171.

Lo spazio privilegiato di costruzione di ogni singola professionalità è uno

spazio collettivo all’interno di organizzazioni intese come “comunità di

apprendimento”.

La formazione, dunque, è volta a creare dei professionisti riflessivi, essa

porta a mettere in discussione consuetudini, valori e principi e, valorizza

nell’organizzazione le responsabilità dell’individuo e la capacità di

quest’ultimo di promuovere il cambiamento172.

Oltre alla qualità della formazione offerta, occorre volgere l’attenzione

anche alla qualità del contesto di lavoro, ossia alle disponibilità che esso

offre di esprimerla, in funzione dei margini di autonomia, di creatività e di

innovazione consentiti. Sono due gli elementi in gioco: il soggetto che

esprime la competenza in senso riflessivo e l’impresa che dà al soggetto la

possibilità o meno di esprimerla; a essi corrispondono due livelli di

intervento formativo: la formazione dei dipendenti alle competenze

riflessive e, la formazione dei dirigenti per la diffusione di una cultura di

171Sabatano.F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., cit. p. 78

172 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit p. 167

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impresa che, accolga questo elemento di riflessività come fortemente

vincolante rispetto alla possibilità di innovazione e cambiamento173.

La qualità del tessuto organizzativo all’interno del quale si sviluppano le

attività professionali è determinante per la qualità e il potenziale

dell’apprendimento professionale continuo.

In realtà il tessuto organizzativo non funziona come un “contenitore” ma

come un vero e proprio medium di trasmissione delle azioni, delle attività e

delle conoscenze, oppure di un loro blocco, deformazione e dispersione.

Se è vero che la qualità dell’apprendimento continuo è direttamente

proporzionale alla qualità dei rapporti organizzativi, un campo importante

dell’intervento formativo dovrebbe essere dedicato allo sviluppo delle

competenze dei professionisti e delle organizzazioni volte a migliorare la

qualità dell’organizzazione, della connessione di rete e della produzione dei

beni condivisi all’interno dei mondi professionali174. In accordo con Unger,

noi possiamo considerare una organizzazione come un “contesto formativo”

che dà forma ad una serie di routine pratiche e argomentative; esercita

un’influenza sulle assunzioni delle persone circa le possibilità sociali,

sull’identità collettiva e gli interessi di gruppo. In sostanza, essa aiuta a

sostenere un set di ruoli e gerarchie sociali; esiste attraverso la resistenza

che oppone agli sforzi di trasformazione e rende alcune traiettorie di

cambiamento più possibili di altre175.

E’ opportuno che vi sia un passo ulteriore da compiere per il potenziamento

e lo sviluppo della formazione continua, che è quello di stimolare i

professionisti e le organizzazioni a guardare dentro la scatola nera della loro

pratica professionale, e in tal modo aprire la porta dell’apprendimento, per

così dire, dall’interno. Questo passaggio richiede al mondo della formazione

di superare una concezione dell’innovazione di tipo “diffusionista”,

disseminatorio, secondo la quale l’innovazione è concepita come un

movimento che proviene dall’esterno della pratica ed è esogeno ad essa,

mentre la pratica è concepita come uno “stato di stabilità” (Schön, 1993).

173 Gherardi S., Nicolini D., Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni., cit. p. 36

174 Sabatano F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo., .cit. 80

175 Vino A., Lunedì 04 Febbraio 2008 01:00., Sapere pratico e apprendimento organizzativo. [online]. Diponibile su: <http://www.psicologiadellavoro.com/content/view/404/91 >[Data di accesso: 01/12/2009].

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La formazione dovrebbe svilupparsi sia rispetto ad un livello specialistico,

connesso all’apprendimento di contenuti e di tecniche, sia ad un livello

trasversale, relativo a competenze volte a facilitare l’espressione creativa e

autonoma del sapere connesso alla capacità di leggere e gestire

consapevolmente le conoscenze e le esperienze176.

In tal modo, diviene possibile l’empatia, il “partecipare” le emozioni

attraverso il filtro delle proprie competenze. Occorre, pertanto, costruire un

agire formativo complesso, globale, multidimensionale, che consenta di

uscire dalla pura operatività, allo scopo di dare ai soggetti gli strumenti

culturali per riflettere su se stessi e sul valore socio-culturale dei contenuti

disciplinari della propria professione177.

Si tratta pertanto di una formazione al “sapere pratico”, centrata su un

modello riflessivo: “il sapere pratico in quanto mira all’azione, implica il

coinvolgimento del soggetto nel proprio sapere; l’agente cerca di sapere per

comprendere quello che fa e, si mette in gioco nel suo sapere mirando, in

qualche misura, ad una sua modifica”.

In tale prospettiva, obiettivo della formazione diviene non solo e non tanto

la trasmissione delle conoscenze, il “cosa” apprendere, quanto il “come” si

apprende, il “sapere per comprendere” le proprie conoscenze, mettendo

continuamente in discussione i propri modelli interpretativi ed essendo

disponibili a modificarli178.

La formazione si qualifica come tale se, in chi vi partecipa non c’è solo

motivazione a conoscere, ma anche motivazione ad agire la conoscenza, a

sperimentarla e a sperimentarsi attraverso di essa, in altre parole se esiste

apertura al cambiamento personale e al trasferimento sociale di quanto

l’esperienza formativa produce. In tale ottica, il soggetto diventa

protagonista consapevole della sua formazione, in quanto quest’ultima

implica anche il concetto di autoformazione investendo non solo il “sapere

essere”, ma anche il “saper divenire”; questo riflette un concetto di

formazione il cui nucleo centrale è educare al cambiamento, ma è anche

l’educarsi al cambiamento.

176 Sabatano F., La formazione del soggetto per lo sviluppo organizzativo ., cit. p.81

177 Ibidem., p.80

178 Ibidem., p. 81

Page53

L’attività riflessiva investe, dunque, sia il polo pragmatico: sapere e sapere

fare; sapere condivisibile e azione sociale e, sia il polo identitario: sapere

essere e divenire; sviluppo professionale e identità professionale179.

3.2 La formazione continua come processo “endogeno” alla pratica

professionale

La ricerca condotta in questi anni ha restituito alla pratica professionale il

ruolo che le compete nel processo di innovazione e di apprendimento.

La pratica non è uno stato di stabilità, ma una attività di continua

produzione e attivazione del contesto e, con il contesto, di informazioni e

apprendimento180.

Il rapporto con il contesto è la grande risorsa e il grande limite

dell’apprendimento. La pratica alimenta costantemente la produzione, la

comunicazione e la condivisione di informazioni e, la pratica innovativa è

sempre legata al contesto in cui l’operatore opera. L’abilità del

professionista di ottenere gli esiti desiderati è una funzione dello specifico

ambiente locale (economico, tecnologico, culturale, intellettuale,

interpersonale) nel quale si è sviluppata181.

Possiamo parlare di una innovazione incrementale implicita interna alla

pratica per almeno due motivi: da un lato, nessun segmento di una pratica

può essere separato da quel contesto specifico che è dato dalle competenze

distribuite che gli attribuiscono un senso.

Poiché tutto il contesto si trasforma insieme alla singola pratica, sfugge ai

singoli la portata della trasformazione. In secondo luogo, la pratica è fatta di

azioni spesso inconsapevoli, oppure implicite, rese invisibili e 179 Katia Montalbetti., Milano, 11 dicembre 2008., Riflettere per educare., [online]. Diponibile su: <http://www.uciim.milano.it/files/Montalbetti.ppt >[Data di accesso: 22/12/2009].

180 Consoli F., Apprendimento Riflessivo per la formazione continua [online]. Professore associato Università la sapienza Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 29/11/2009].181 Ibidem

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apparentemente banali dalla stessa ripetizione quotidiana. In questo modo le

innovazioni, che vengono incorporate nelle pratiche in modo incrementale,

diventano invisibili182.

Il processo di apprendimento implicito non è consapevole e soprattutto è

prevalentemente adattivo, e quindi spesso non riesce a produrre una vera

domanda di formazione esplicita e dedicata.

Si rivela qui l’estremo interesse che per il mondo professionale riveste la

pratica riflessiva, una vera e propria metodologia per la trasformazione

dell’apprendimento adattivo, tacito e dell’aggiornamento, come produzione

della conoscenza e strumento di innovazione. Questo apprendimento

continuo è molto diverso dai corsi di aggiornamento che il professionista

può fare per acquisire nuove conoscenze; ma è anche diverso da

quell’apprendimento implicito che egli fa ogni giorno interagendo con tutte

le persone che sono coinvolte nella sua azione e per risolvere i problemi

nuovi mano a mano che gli si presentano183.

Con la metodologia riflessiva, infatti, operiamo un potenziamento dello

sviluppo nella pratica quotidiana e, aumentandone la consapevolezza,

ricongiungiamo azione, produzione di nuova conoscenza, formazione e

innovazione. Grazie alla pratica riflessiva la formazione aumenta la propria

efficacia perché, inducendo un apprendimento di tipo nuovo (apprendimento

riflessivo), capace di ripensare dall’interno la pratica alla luce

dell’innovazione stessa, riesce ad esplorare e riesplorare costantemente il

proprio contesto d’attività.

I professionisti introducono una innovazione e, ogni innovazione è

apprendimento e reinvenzione in un contesto che non è mai individuale ma

sempre collettivo. Il potenziale dell’apprendimento basato sulla pratica

riflessiva consiste nel fatto che le novità apprese mediante la formazione

possono, grazie alle metodologie riflessive, scendere fino ai livelli più

profondi della pratica professionale, normalmente latenti e taciti, e innestarsi

in processi organizzativi che altrimenti potrebbero bloccare l’innovazione

rendendo inutile e frustrante l’apprendimento184.

182 Idem

183 Ibidem

184 Idem

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Vi è un ulteriore elemento cui contribuiscono la pratica e l’apprendimento

riflessivo.

Essi sottolineano quegli elementi di tipo organizzativo e psicologico

individuale che altrimenti possono ostacolare inconsapevolmente e in modo

sotterraneo la trasformazione della formazione in gestione dell’innovazione

mediante un apprendimento riflessivo. L’aggiornamento e la formazione

continua contengono sempre, almeno potenzialmente, una carica di

cambiamento del modo in cui si realizzano le attività professionali e del

profilo stesso delle professioni.

Essi possono sviluppare questa carica solo se si inseriscono in un contesto

abituato a gestire il cambiamento, a produrre nuove conoscenze, ad andare

oltre le proprie esperienze, anche di successo, superando quegli equilibri

magari validi ieri ma che possono essere deleterei domani. L’esperienza

senza riflessione continua e critica rischia di essere una cattiva maestra. In

conseguenza di queste ragioni, le metodologie riflessive sono state inglobate

in molte metodiche formative185. La pratica riflessiva portando alla luce ciò

che vi è di tacito, di non detto, spinge a ricercare continuamente il rapporto

con il vero valore con il quale e sul quale l’operatore lavora, ovvero non dei

valori in termini di convinzioni etiche che precedono l’azione, ma di quei

valori distintivi, da cui si sviluppano le competenze distintive, le quali

producono l’eccellenza nel rapporto professionale, che si alimentano dei

rapporti con la società e con i diversi tipi di “partner”. Si tratta di una ricerca

continua di sviluppo che nel dialogo con la situazione e con gli altri soggetti

implicati, con la costruzione di rapporti di partnership, con lo sviluppo delle

comunità di pratiche, produce continuamente cambiamenti e innovazioni e

che prepara il terreno alla formazione continua186.

La formazione continua diventa in tal modo parte integrante del processo di

valorizzazione della pratica professionale. Molto importante, dunque, è

fornire strumenti concreti e spazi di riflessione, affinché si contribuisca a

migliorare i processi di valorizzazione delle risorse umane. Si tratta di

inverare nuovi spazi per l’apprendimento che offrono nuovi strumenti legati

all’esigenza di ‘imparare ad imparare’. L’apprendimento lungo l’intero

185 Ibidem186 Ibidem

Page53

corso della vita, scrivono Pepe e Serra187, diviene un vero e proprio diritto

alla cittadinanza attiva, il cui esercizio è necessario come fattore produttivo,

come fattore di crescita individuale e di sviluppo delle risorse umane ma

anche come fattore di coesione sociale.

Proprio in funzione dell’importanza di una cittadinanza attiva diviene

importante concepire la formazione e la conoscenza in un nuovo modo.

Si ha un’estensione orizzontale del concetto di formazione, in quanto

l’apprendimento può aver luogo in molti ambiti - professionale, familiare,

sociale ecc.- ed in qualsiasi fase della vita.

Si evidenzia così la complementarità tra diversi tipi di apprendimento

possibili (formale, non formale ed informale), da quello scolastico a quello

che si realizza nell’attività di lavoro o nelle stesse esperienze della vita188.

L’apprendimento di competenze strategiche si connota come autodiretto,

riflessivo e trasformativo, giungendo in tal modo ad arricchire le

competenze professionali in termini di riflessività nell’azione, flessibilità ed

autonomia, valutazione della complessità, per le quali la dimensione sociale

e organizzativa costituisce un’importante cornice di senso. In relazione a

questo scenario, lo sviluppo delle competenze strategiche può essere

rafforzato da modelli attivi e riflessivi di apprendimento come l'action

research, l'action learning, la narrazione, l'autobiografia, la formazione alle

metacompetenze, i principi in diverso modo legati alle comunità di pratica

ed alle comunità di apprendimento.

La formazione deve essere egualmente attenta ad alcune crucialità quali: lo

sviluppo delle metacompetenze, l’aumento dell’incisività della formazione,

la personalizzazione del percorso formativo, il coinvolgimento della persona

nella sua interità, la motivazione alla formazione, lo sviluppo di un pensiero

generativo189. In ambito istituzionale ed organizzativo così come in ambito

formativo, è necessario dunque mobilitare il soggetto, le sue risorse, le sue

capacità, la sua energia, le sue possibilità reali di influenzare ciò che lo

riguarda, il suo “potere”. Dove, in questo caso, con la parola ‘potere’ ci si

riferisce all’empowerment, al potere ‘interno’: “potere nel quale convergono

187 Idem

188 Ibidem

189 Idem

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fattori quali l’energia, la motivazione, la sicurezza in sé, il senso di

padronanza”190.

Non ci può essere una vera qualità della formazione ed un’ottimizzazione

dei percorsi formativi se non si ha senso di sé, autostima e fiducia in se

stessi.

L’approccio biografico, il lavoro di gruppo, il bilancio delle competenze,

sono assolutamente fondamentali per aiutare lo sviluppo dell’autostima e

fiducia in se stessi, per capire i propri punti di forza ed in questo senso

mettere in atto processi di empowerment.

Nella prospettiva di sviluppo di una società della conoscenza in cui il sapere

non sia fattore di nuova miseria per una grande parte del mondo, il futuro

deve essere pensato prima, per tentare di prevenire il rischio dell’esclusione

formativa qualitativa e per sviluppare le enormi potenzialità del sapere e

delle competenze come risorse individuali, sociali ed economiche.

Ciò richiede un’attenzione del tutto inedita per l’esperienza di vita degli

individui, le biografie, nelle quali si realizzano i vissuti e si manifestano le

possibilità non vissute e i potenziali di sviluppo, anche come percorsi di

formazione. In questo contesto appare significativo ricondurre la riflessione

e l’agire formativo a quello che si può definire come un metamodello della

riflessività. Metamodello che individua la riflessività come carattere

fondamentale delle relazioni sociali, delle organizzazioni e dei rapporti

personali191.

Una dimensione che si fonda su una rappresentazione della società come un

sistema aperto finalizzato allo sviluppo, alla facilitazione e al sostegno della

capacità di produzione di un pensiero proattivo, creativo, divergente.

Si sottolinea, di conseguenza, la necessità di costruire una pluralità di vie

per l’apprendimento come condizione per un’ampia diffusione delle

capacità di apprendere e sviluppare un pensiero riflessivo.

Tale capacità riflessiva comporta un’attenzione inedita al tema dell’accesso

e della qualità dei saperi e delle competenze per un numero sempre più

ampio di individui e durante l’intero corso della loro vita, affinché possano

essere attori sociali e superare così il duplice rischio di una curvatura

economicista e funzionalista del ruolo delle conoscenze, di respiro

190 Ibidem191 Ibidem

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inadeguato agli stessi problemi del lavoro e dello sviluppo nell’era della

globalizzazione. Si può così sostenere che il paradigma dell’apprendimento

durante il corso della vita trovi nella dimensione della riflessività nella

società globale un suo profondo ancoraggio teorico.

3.3 La Formazione Permanente nel Servizio Sociale

Ci si pone un interrogativo in riferimento all’applicazione del concetto di

formazione permanente nell’ambito dei servizi sociali: “Ma quale bisogno

formativo esprime la figura dell’assistente sociale in quanto professionista

che opera contemporaneamente in ambiti a volte sconnessi fra loro?”

La formazione permanente può aiutare a ricercare risposte efficaci per

affrontare bisogni sociali in perpetua evoluzione, in quanto essa ha un ruolo

fondamentale nel mantenimento e nello sviluppo delle competenze,

necessarie ad un professionista per affrontare con successo le sfide del

lavoro quotidiano. Il tempo dedicato alla formazione diventa l’occasione per

riflettere sullo stato del proprio agire in servizio o, meglio ancora, sulle

strategie utilizzate per trovare il senso di ciò che l’operatore vede attorno a

sé e per dare direzione alle azioni intraprese, al fine di condurre a soluzione

particolari situazioni problematiche.

Il risultato di tale processo dovrebbe pertanto sostanziarsi in un

miglioramento delle competenze che dovrebbe essere visibile non solo

all’operatore, nei termini di una maggior padronanza nel gestire il proprio

lavoro, ma anche agli utenti che dovrebbero percepire una maggiore qualità

nelle prestazioni e nei servizi erogati a loro favore192.

192 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit p.151

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Ciò può avvenire a condizione che negli assistenti sociali si consolidi

l’abitudine all’autoriflessività e all’esercizio di competenze metodologiche

efficaci per sperimentare progetti e valutarne gli esiti193.

Per poter dare una risposta all’interrogativo prima esposto, è molto

importante soffermarsi sulla nozione di identità, definibile come il

sentimento di coerenza ed unità del sé, alla quale sono riconducibili i

concetti di unicità, differenza e continuità nel tempo194. In tale direzione, la

consapevolezza di appartenere ad un gruppo svolge una funzione

fondamentale su quella parte dell’immagine di sé definita identità sociale, di

cui quella professionale costituisce una preziosa specificazione. Ogni

individuo, infatti, rapportandosi con il mondo esterno, opera una

categorizzazione di sé all’interno di un certo insieme di soggetti, detto

gruppo di appartenenza, caratterizzato da norme e aspettative specifiche che

concorrono alla definizione del ruolo dei suoi membri. Un’insufficiente

consapevolezza dell’insieme dei diritti e dei doveri connessi al proprio ruolo

così come la percezione della marginalità di status del gruppo di

appartenenza darebbero quindi luogo ad ambiguità e conflitti fino a vere e

proprie crisi d’identità sociale195.

Appare a questo punto evidente che l’identità dell’assistente sociale sia

comprensibile solo se rapportata alla pluralità dei principali elementi che

costituiscono per essa dei poli di identificazione e che possono essere così

sintetizzati:

- il cittadino/utente, delle cui istanze l’assistente sociale è, o dovrebbe essere,

portavoce di fronte alle istituzioni e che esercita sull’immagine professionale

un’influenza affatto marginale;

- il sistema delle politiche sociali, che definisce e legittima i profili occupazionali,

regola la mobilità tra i diversi quadri professionali e predispone criteri e modalità dei

compensi;

- il servizio in cui l’operatore è inserito e che richiede lo sviluppo tra gli operatori

di relazioni funzionali all’organizzazione;

193 Ibidem., p.163

194 Pajer.P., 2005., Introduzione ai servizi sociali., FrancoAngeli., op.cit. p. 95

195 Ibidem., p. 96

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- i singoli collaboratori (professionisti e non) che possono basare le proprie

richieste e relazioni su visioni ed esigenze anche divergenti rispetto a quelle proprie

dell’assistente sociale;

- le altre agenzie di matrice eterogenea con le quali la professione si è sempre

rapportata talvolta anche scontrandosi e che, dopo anni di apparente latitanza dalle

scene politiche sembrano destinate a svolgere un ruolo sempre più partecipe nella

programmazione e gestione del settore sociale a livello sia locale sia nazionale;

- la comunità professionale di appartenenza, che pur essendo stata caratterizzata

per lungo tempo da scarsa coesione e disomogeneità culturale, sta in questi anni sempre

più affermandosi;

- le funzioni di consulenza psicosociale;

- le funzioni di animazione socio-politica e sviluppo comunitario della rete sociale

territoriale per la promozione della comunità;

- le funzioni di collaborazione per la programmazione, organizzazione e gestione

dei servizi sociali;

- le attività di formazione e di ricerca sociale.

Da quanto mostrato risulta un profilo professionale estremamente

complesso e frammentato, dotato di tante connotazioni quante sono le

percezioni che su questo confluiscono, e proprio per questo più difficilmente

comprensibile nella sua organicità e coerenza.

Ci si può chiedere infatti quale sia il nesso logico esistente tra società reale,

che è poi la quotidianità dove opera l’assistente sociale, e società

istituzionale, dalla quale la società reale riceve sollecitazioni ed indicazioni,

e con le cui normative deve fare i conti. Sempre più va allentandosi il

legame tra bisogni espressi dal sociale e modalità dei servizi, mentre cresce

enormemente l’interconnessione tra dimensione ideologica e struttura dei

servizi stessi.

Dalla lettura delle più recenti esperienze di ricerca sembra doversi evincere

che è sempre meno il bisogno reale a condizionare l’evoluzione dei servizi,

mentre cresce il peso delle scelte politiche ed ideologiche che finiscono per

essere i veri motivatori e strateghi del servizio. A questo punto l’operatore o

arretra e si estranea, ma con ciò non riuscirebbe a modificare questa logica,

oppure entra nel dibattito cercando di capirlo, di interpretarlo, di insinuarsi

nelle fessure di questa complessa situazione. Formare oggi l’assistente

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sociale, dunque, non significa più solo offrire strumenti più o meno raffinati

e/o più o meno efficaci per risolvere una gamma certamente crescente di

problemi, all’interno di un numero crescente di settori. Se una nuova lettura

di questa professione deve essere fatta, questa non può prescindere dal

prendere atto che l’assistente sociale si trova oggi all’interno di una

dimensione problematica diversa, con implicazioni nuove a livello di lettura

del sociale e quindi nuove esigenze per quanto riguarda la sua formazione

professionale.

Sembra difficile e complesso scattare una fotografia di tale professione,

disegnare in maniera chiara e precisa la sua identità culturale ed operativa,

eppure, nonostante queste difficoltà, l’assistente sociale è il professionista

che più di ogni altro ha dovuto legittimarsi e riorganizzarsi rispetto ai

mutamenti sociali e rispetto alle richieste avanzate dalle politiche sociali e

dalle politiche dei servizi in risposta a questi mutamenti.

Nel lavoro sociale la progressiva centralità del fare rispetto al pensare,

dell’azione sull’interpretazione, ha posto l’operatore di fronte ad una

crescente molteplicità di richieste, provenienti dall’utenza, dalle istituzioni o

dai colleghi. Per sentirsi in grado di gestire queste richieste, l’operatore, si è

sentito spesso in dovere di fare comunque qualcosa pur nell’incertezza

rispetto al come.

Il rischio però è la frammentazione dei servizi, dove ogni operatore segue

strategie e percorsi autonomi e disomogenei. Nei fatti si produce una grossa

scissione fra operatori che pensano ed operatori che fanno, fra operatori che

ricercano e indagano per capire e diagnosticare i problemi e operatori che in

base a queste diagnosi intervengono per affrontarli e risolverli.

Agli uni il monopolio del conoscere, agli altri il monopolio dell’agire.

Per l’assistente sociale la situazione è resa ancora più difficile per il ruolo

forte che giocano in questo senso anche le politiche sociali e quelle dei

servizi, laddove ogni disegno innovatore individua nell’assistente sociale

l’operatore che dovrà agire il cambiamento, depositando su questo

professionista la responsabilità di individuare (o, meglio, attivare) strategie,

metodologie e processi. La formazione permanente ha pertanto il compito

arduo, fra gli altri, di rinnovare e recuperare le dimensioni di professione e

di servizio, capendo e facendo capire che l’assistente sociale non può, da

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solo, mettere insieme realtà frantumate se lui stesso è costretto a proporsi

come frammento, come parte di una realtà. Una realtà in cui i compiti non

vanno divisi, ma condivisi, e in cui le conoscenze non sono separate, ma

integrate. In questa prospettiva la formazione permanente nel servizio

sociale non può incentivare una conoscenza che sia la più estesa possibile,

ma la più approfondita possibile. Tutto ciò è realizzabile soltanto se l’intero

telaio conoscitivo è costantemente rivisto e reso flessibile, soltanto se

l’assistente sociale può disporre di un efficace sistema permanente di

revisione critica e analitica del proprio sapere, saper fare e saper essere.

A. Sicora nel testo “L’assistente sociale riflessivo. Epistemologia del

servizio sociale”, evidenzia dei punti nei quali esprime i principali compiti

che la formazione permanente dovrebbe assolvere:

- fare emergere, valorizzare, e rielaborare le abitudini operative, comunque

cariche di segnali di realtà;

- aiutare gli assistenti sociali a “riconcettualizzare la professione”,

attraverso la denominazione di atti e fasi dell’operare;

- fare inserire contestualmente la “dimensione del progetto globale nel

proprio lavoro”, che consente di considerare unitariamente le iniziative

diversificate, integrandole attraverso un senso comune, e di gestire

strategicamente la dimensione temporale;

- stimolare a “finalizzare” esplicitamente, regolare e consolidare ogni

attività, attraverso la definizione di obiettivi e la prefigurazione di esiti, e

ancora la costruzione di sequenze operative, che limitino lo sfrangiamento

professionale, orientino l’assistente sociale e manifestino all’esterno la

consistenza e la complessità di ogni attività prevista;

- approfondire, per quanto concerne la casistica, la ricaduta dei “principi di

servizio sociale” all’interno della relazione, centrandosi sulla soggettività

intesa anche come diritto a negoziare, sulla crucialità della motivazione

della persona, l’uso produttivo di vincoli per scatenare le intenzionalità

risolutive;

- far prevedere dei “tempi per pensare”: nella settimana, nella giornata, al

termine di ogni micro o macro attività”196.

Come afferma anche Dal Pra: “se non si fa formazione continua, se non si

riflette sul proprio lavoro i servizi diventano sempre più standardizzati e 196 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo., cit. p.164

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burocratici; si giunge presto ad una demotivazione e deresponsabilizzazione

degli operatori con conseguente abbandono del loro ruolo per la ricerca di

immagini più gratificanti”197.

Tale rischio è quanto mai forte se alla carenza di iniziative formative si

aggiungono la scarsa diffusione delle pratiche valutative applicate agli

interventi dagli assistenti sociali e il mancato radicamento dell’abitudine alla

continua riflessione sulla prassi attuata in un’ottica prossima a quella della

ricerca azione.

Può essere utile, in riferimento a quanto detto, richiamare Moro, il quale

segnala il valore pedagogico della diffusione delle pratiche valutative:

“introdurre la cultura della valutazione nei sistemi formativi, significa porre

i temi dell’imprenditorialità, della competizione, della centralità dei progetti

e non delle regole, della qualità dell’offerta, della capacità di coinvolgere

nei processi valutativi gli utenti e tutti i vari soggetti interessati alla

formazione”198.

L’offerta di formazione permanente agli assistenti sociali dovrebbe nascere

dalla ricerca, nella pratica professionale, di un continuo miglioramento

richiesto, esplicitamente o implicitamente, dall’operatore stesso, dall’ente in

cui quest’ultimo è inserito, nonché dagli utenti dei servizi sociali. È stato

evidenziato come la formazione permanente sia un antidoto al fenomeno del

burn-out, diffuso, soprattutto, in presenza di un’organizzazione del lavoro

non flessibile, poco attenta alle dimensioni soggettive, priva di supporti

formativi.

197 Ibidem., p. 74

198 Ibidem., p. 166

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3.4 Valutazione e Formazione Permanente

Prima di addentrarci nel rapporto tra formazione e valutazione, occorre

soffermarsi sul valore che quest’ultima assume rispetto all’operare proprio

della professione dell’assistente sociale.

La valutazione professionale è un processo attraverso il quale le azioni

professionali vengono scomposte e analizzate, con l’obiettivo di fornire al

singolo operatore informazioni utili sulla qualità degli interventi e sulla

natura dei risultati che si ottengono nell’esercizio della pratica

professionale.199 In Italia non si è ancora consolidata una cultura della

valutazione rispetto agli interventi professionali e all’impatto che questi

possono avere sugli utenti, in quanto la complessità del contesto sociale in

cui il servizio sociale si colloca, la diversità dei mandati istituzionali, la

multifattorialità delle variabili che contribuiscono a definire un problema,

rendono difficoltoso elaborare strumenti di valutazione degli effetti che

l’azione professionale produce.

Allo stesso tempo, nel nostro paese stanno emergendo, con forza, riflessioni

sulla qualità, sull’orientamento al cliente, sulla necessità di sviluppare

strategie che consentano di verificare non solo l’efficacia e l’efficienza, ma

anche di misurare il gradimento e la rispondenza dei servizi ai bisogni e alle

attese dei cittadini200.

Occorre evidenziare, difatti, l’importanza che riveste il destinatario delle

prestazioni e dei servizi erogati ai fini della valutazione, quest’ultima intesa

come momento per approfondire processi di riflessività, da parte

dell’assistente sociale, sul proprio operato e sulle relative competenze e

qualità del servizio di cui è membro.

Se fino ad oggi la valutazione nel servizio sociale non si è sviluppata come

attività connaturata e intrinseca alla professione è perché si riscontrano

alcune difficoltà, sia di tipo oggettivo che soggettivo.

Alcune resistenze alla valutazione possono attribuirsi alla posizione teorica,

che ritiene la pratica di servizio sociale maggiormente assimilabile più ad

un’arte che ad una scienza e quindi difficilmente esprimibile in parametri

199Dal Pra Ponticelli M.., Dizionario di servizio sociale., cit.p.766 200 Campanini A., 2007., La valutazione nel servizio sociale.,di Annamaria campanini., Carocci Faber., op.cit.p. 29

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oggettivabili201. Una seconda resistenza, di carattere più soggettivo, è legata

all’assimilazione dei processi di valutazione con quelli di controllo

dell'operato del professionista. Da qui possono attivarsi timori di essere

giudicati, anche come persone, soprattutto laddove non si è acquisita una

maturità professionale e ci si sente insicuri. Vi sono, inoltre, alcune

difficoltà legate alla complessità in cui il servizio sociale opera, ma questo

fatto non dovrebbe scoraggiare a intraprendere la strada della valutazione,

quanto piuttosto dovrebbe stimolare ad individuare le questioni prioritarie e

i metodi più adeguati202.

Un ulteriore problema deriva dalla capacità di esprimere gli obiettivi, i

metodi e i risultati attesi da parte del servizio sociale con un linguaggio che

abbia un certo grado di precisione. Ciò non è sempre facile, in quanto ci

sono elementi di vaghezza e scarsità di formulazione in molta parte della

terminologia del servizio sociale, in particolare, gli obiettivi e i risultati sono

di difficile definizione, poiché ci si preoccupa di creare potenzialità

piuttosto che raggiungere uno “stato finale”; nonché si lavora per aumentare

nei clienti la consapevolezza della propria situazione, di accrescere le

capacità di utilizzo dei servizi, di proteggerli da situazioni a rischio o da

difficoltà, o ancora rendere più adeguato il funzionamento della famiglia.

Questi aspetti sono intangibili e pertanto è difficoltoso determinare il loro

raggiungimento. E’ quindi necessario scomporli, identificando una serie di

risultati che possano essere più facilmente misurabili, senza scadere nella

banalizzazione e produrre una riflessione solo su cambiamenti minori del

comportamento in situazioni limitate o artificiali203.

Due sono le prospettive da cui può svilupparsi un processo di valutazione:

uno dall'esterno e uno interno. Il primo, si avvale di un'équipe di ricerca, ed

ha come obiettivo primario quello di produrre conoscenza e risultati

generalizzabili e si può caratterizzare come valutazione scientifica o

manageriale. Il secondo processo di valutazione, è più orientato a prendere

decisioni di carattere gestionale e, talvolta, è utilizzato per coprire e 201Ibidem.,. p. 24

202 Campanini A., 2006., La valutazione nel servizio sociale. [online]. Disponibile su: <http://www.oasliguria.org/public/oas2/index.php?mod=08_Download&downloadfile=Modulistica%20Generale/Campanini.pdf&mode=go. > [Data di accesso: 22/02/2010].

203Idem.,

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giustificare scelte già effettuate. La valutazione processuale può essere

considerata una valutazione dall'interno ed ha forti valenze di

apprendimento.

Non si vuole qui porre in contrapposizione la valutazione del servizio

sociale, come valutazione compiuta dall'esterno e la valutazione nel servizio

sociale, come prassi operativa che caratterizza l'operatività del

professionista, ma evidenziarne i vantaggi e gli svantaggi che entrambe

presentano204. Mentre la valutazione operata dall’esterno può garantire una

visione più limpida e meno inquinata dall’esposizione a dinamiche organiz-

zative, quella che si sviluppa dall’interno può avere maggiori possibilità,

proprio per l’approfondita conoscenza del contesto, di individuare spazi di

implementazione dell’attività205.

Pur ribadendo il concetto che la valutazione nel servizio sociale non

rimpiazza la valutazione esterna, che può avere una sua utilità, Love

sottolinea l'importanza che “non rimanga esterna all'organizzazione, come

un evento straordinario e occasionale, ma venga integrata nelle attività di

tutti i giorni e si caratterizzi come un processo di sviluppo, di cui ogni

professionista deve assumersi la responsabilità, raccogliendo le

informazioni necessarie e domandandosi come è possibile raggiungere

risultati migliori”.

In questo modo, il prodotto della valutazione diventa un apprendimento

organizzativo, una strada per valutare i progressi e attuare cambiamenti per

ottenere una maggiore efficacia206.

Quanto appena detto può avvenire, in primo luogo quando l’operatore

diventa capace di esplicitare le teorie non dichiarate, sottese alle azioni

individuali e organizzative condotte, ma anche nel momento in cui, in

un’ottica di ricerca riflessiva, nei metodi descritti da Schön o tramite

l’impiego consapevole di strategie di riflessione strutturata, effettua

operazioni di autovalutazione sulle proprie competenze, conoscenze e

azioni.

204 Ibidem

205 Ibidem

206 Campanini A., La valutazione nel servizio sociale.,Annamaria Campanini., cit. p. 28

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Bateson (1994) definisce l'autoriflessività come la condizione di tutti gli

organismi, essa è un modo di conoscere e di comunicare dipendente dal

fatto che si è in vita, “parte danzante di una più ampia danza di parti

interagenti, danza che concorriamo ecologicamente a fare e a far disfare e

che senza posa ci trascina nei suoi ritmi, nelle sue figure, nei suoi

movimenti”207. L'autoriflessività di cui parla Bateson richiede “la cura della

propria inconsapevole sensibilità estetica, richiede cioè la cura del proprio

essere parte di….”.

Esser parte di, significa che il comunicare (fare) ha “natura di creazione

interattiva di contesti e l’interazione ha processi comunicativi”, ovvero che

ogni comunicare si situa dentro una precisa cornice di senso contenuta negli

stessi gesti agiti.

Ogni azione anche la più elementare (atto di percezione sensoriale)

presuppone filtri creativi che rispondono a matrici di senso che si formano,

si stabilizzano e mutano per via di processi relazionali dei quali l’azione è

parte. Essere in relazione, dunque, significa situarsi direttamente in

relazione compartecipativa con l’oggetto e, la riflessività risulta la

condizione assoluta di conoscenza del senso co-costruito208.

Ogni professionista che agisce effettua giudizi autovalutativi che, intrinseci

all’agire, vengono incorporati nell’azione successiva. In molte circostanze

una tale processualità sembra trovare giovamento da una maggiore

consapevolezza e sistematicità che rende possibile non solo l’autocorrezione

della pratica professionale ma, anche la formulazione di ipotesi

interpretative e operative da verificare con strumenti più rigorosi209.

Costruire sistemi di valutazione è necessario, in quanto nel sistema dei

servizi sociali le competenze e le performance degli operatori condizionano

sia la qualità delle prestazioni, sia quella del servizio, essendo la variabile

“uomo” determinante.

207 Padoan I., Il Docente come professionista riflessivo. [online]. Docente di pedagogia, Università di venezia. Disponibile su: <www.univirtual.it/.../padoan/... > [Data di accesso: 15/11/2009].

208 Idem.,

209 Bezzi C., 2009., Valutazione. Raccolta di citazioni italiane. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: <http://www.valutazione.it/index.php?option=com_content&view=article&id=77:il-metodo-come-linguaggio-terza-parte&catid=34:portolano&Itemid=53 > [Data di accesso: 16/01/2010].

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Nel lavoro sociale, il momento del “fare” è strettamente legato a quello del

“capire”, “interpretare” e “valutare”210; in questa direzione è perciò

necessario organizzare la valutazione affinchè aiuti il singolo operatore a

reggere le incertezze che affronta quotidianamente, a condividere le

responsabilità di scelte complesse e opinabili in un luogo deputato alla

riflessione, allo studio e alla raccolta sistematica delle conoscenze; evita che

si formino dei meccanismi difensivi nei confronti dello stress e delle routine

che portano ad impoverire le prestazioni professionali (il famoso burn-out);

mette il servizio al riparo dalle disfunzioni che si producono quando la

rotazione del personale comporta una perdita delle esperienze e delle

conoscenze possedute dagli operatori che se ne vanno, in quanto,

l’accumulo di un patrimonio culturale collettivo è un modo con cui il

servizio si crea una storia che può trasmettere ai nuovi arrivati e che può

confrontare con altri servizi. Infine, la valutazione permette un dialogo con

“l’esterno”, con i “non addetti ai lavori”, con l’opinione pubblica, con una

realtà sociale che è ancora molto poco informata di ciò che si fa e si realizza

nei servizi. La valutazione in questo senso, assume una funzione formativa

diretta a favorire un miglioramento del servizio, a crescere le competenze e

a rispondere meglio ai propri doveri.

Affinché tale funzione, di apprendimento organizzativo, sia inverata,

occorre per prima cosa che sia voluta da coloro che sono valutati211.

Importanti metodi e strumenti di supporto alla valutazione professionale

possono essere: l’attivazione di percorsi di autovalutazione, che consentono

di attuare verifiche orientate a migliorare la qualità della relazione di aiuto,

ad acquisire una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e degli effetti

derivanti dall’azione professionale durante l’esperienza lavorativa212; la

supervisione, come indicato da Allegri (2000), in quanto presenta come

finalità propria quella di aiutare i partecipanti a crescere e a migliorare la

propria professionalità, a leggere la complessità del lavoro sociale, a gestire

210 Piva.P.T., I servizi alla persona., cit. p.120

211 Bezzi C., 2009., Valutazione. Raccolta di citazioni italiane. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: <http://www.valutazione.it/index.php?option=com_content&view=article&id=77:il-metodo-come-linguaggio-terza-parte&catid=34:portolano&Itemid=53 > [Data di accesso: 16/01/2010].

212 Campanini A., 2005., L’intervento sistemico. Un modello operativo per il servizio sociale., Carocci Faber., op.cit. p.216

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meglio il gruppo e a sviluppare la propria identità professionale213; infine, e

non per questo meno importante, la documentazione professionale, in

quanto strumento di sintesi e ricomposizione dei diversi punti di vista, delle

risorse professionali, degli interventi e delle azioni, nonché dei risultati.

E’ importante soffermarsi sull’ultimo strumento citato, nonchè: la

documentazione professionale.

Non basta assistere o partecipare ad un evento per comprenderne il

significato, in quanto è difficile cogliere appieno le ragioni di operazioni e

attività che, nella quotidianità del lavoro, vengono svolte secondo

meccanismi ampiamente taciti. L’analisi della nostra consapevolezza

“sommersa” è possibile con maggiore facilità quando possiamo osservare

alcune delle sue manifestazioni presenti in ciò che diciamo e nella

documentazione scritta da noi prodotta.

L’analisi della documentazione prodotta, con specifico riferimento alle

relazioni di servizio sociale, rappresentano un’occasione per fare emergere i

modelli teorici sottesi all’azione professionale dell’assistente sociale214.

Scrivere sulla propria pratica permette di mettersi a distanza, di costruire

rappresentazioni, di avanzare interpretazioni, di preparare le osservazioni, di

superare le resistenze al cambiamento. La relazione sul caso sottende una

rete di teorie, spesso ampiamente implicite o comunque date per scontate,

che forniscono quadri interpretativi sulle correlazioni tra i fattori che hanno

generato il problema e che conseguentemente conducono alla scelta di

strategie d’intervento ritenute appropriate dall’operatore. Tale forma di

documentazione ha lo scopo di narrare e di spiegare e, pertanto manifesta

quel “sapere pratico” rigoroso ma senza esattezza, tipologico e narrativo in

quanto costitutivo di significati.

Lo scrivere, dunque, è un’attività elettivamente di natura riflessiva: “scrivo

per scrivermi per sviluppare conoscenza nel corso dell’azione (Schon,

213 Ibidem., p.216

214 Fiamberti C.,2006., La documentazione professionale dall'autoriflessione alla progettualità. [online]. La rivista di Servizio sociale. Disponibile su: < http://www.rivistadiserviziosociale.it/it/rivista.aspx?r=3 > [Data di accesso: 16/01/2010].

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1993)”, si possono distinguere alcuni esiti auto-formativi del mestiere di

scrivere nel lavoro sociale215.

E’ possibile ipotizzare che la scrittura, come atto riflessivo, possa aiutare

l’operatore sia rispetto alla conoscenza del proprio mondo emotivo, sia a

dare una fisionomia ad alcuni fantasmi che spesso accompagnano il lavoro

sociale.

Cosa sente, cosa ha sentito venendo a contatto con una condizione

problematica? In che misura il suo sentire è un importante veicolo di

conoscenza? Lo scrivere diviene un atto riflessivo nella misura in cui

consente all’operatore una posizione “altra”, decentrata, una posizione che

lo metta in grado di osservare la durezza (l’opacità, la staticità, la

pesantezza…) di realtà sociali spesso poco inclini al mutamento.

Lo scrivere aiuta l’operatore ad assumere una posizione decentrata.

La distanza rappresenta la condizione che consente di osservare e riflettere.

Essa è un valore, non tanto perché consente di recuperare uno sguardo

maggiormente obiettivo sul fenomeno osservato piuttosto, quanto perché

consente di porsi in una posizione maggiormente obliqua: lo scrittore-

operatore ripensa al colloquio effettuato cercando di non far prevalere una

posizione egocentrata (come se dovesse stendere il verbale del colloquio)

ma ponendosi in un punto della stanza del colloquio dove sia possibile far

luce sulla relazione intercorsa tra i tre interlocutori presenti: l’operatore,

l’utente ed il contesto istituzionale216. L’operatore scrive per poter disporre

di uno specchio (bisogno riflessivo) e di un argine (bisogno contenitivo) per

poter affrontare nella realtà quotidiana situazioni complesse, anche perché

emotivamente coinvolgenti.

Anche Capello nel suo testo “Dal colloquio al testo” sottolinea la funzione

di contenimento della scrittura che consente la presa di contatto con le

proprie emozioni e favorisce la pensabilità: “La scrittura come farsi di un

testo, organizza l’osservazione, mette in forma la realtà del vissuto, dà

nuova struttura a ciò che era pensabile e dicibile, rappresenta un livello

215 Ibidem

216 Idem.,

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ulteriore…217”, in tal senso la scrittura propone un metalivello

dell’esperienza, ovvero un ascolto dell’ascolto, un osservazione

dell’osservazione; favorisce la pensabilità e con questo lo sviluppo del

pensiero. Alcuni assistenti sociali soddisfano l’esigenza di riflessività

attraverso altre modalità (supervisioni, confronti gruppali, confronti con la

casistica seguita nel corso del tempo...).

Il bisogno riflessivo trova dunque altri canali oppure si ergono difese che lo

saturano (chiusure, adattamenti a routine, disinvestimenti...). Il problema è

piuttosto connesso alla capacità e possibilità dell’operatore di mantenere

uno spazio aperto per l’interrogazione riflessiva.

La documentazione in tal senso assume anche una valenza progettuale per

l’operatore che si confronta con le proprie interpretazioni ed ipotesi di

lavoro. A questo proposito anche Bini218 sottolinea l’influenza della scrittura

sul processo di aiuto: favorendo il processo interpretativo della realtà la

scrittura comporta una sorta di “riorganizzazione” del significato attribuito

agli eventi ed alle osservazioni.

La “trasformazione” di eventi e di relazioni umane in documentazione,

(oltre a porre il problema dell’oggettività da sempre presente nelle scienze

sociali), “obbliga” l’assistente sociale a “scegliere”, selezionare tra

prospettive differenti, assumere una posizione rispetto alla situazione di cui

si occupa. L’operatore scrive e riscrive l’evento, lo esamina da diverse

prospettive, oscilla tra modelli teorici, propri schemi mentali e condizione

emotiva legata al momento storico della sua biografia personale

(matrimonio, maternità, separazione…)219. E’ attraverso di essa che

l’operatore può esprimere il proprio “stile” inteso come il proprio modo di

intessere forme e contenuti del suo lavoro, uno sguardo peculiare

(specificamente personale e insieme professionale) sulle realtà sociali, un

modo di costruire relazioni, di proporsi nei contesti, di “mettersi in rete”.

Le tecnologie riflessive consentono di scendere nella contraddittorietà e

nell'ambiguità delle situazione senza rinunciare al rigore di un procedere

consapevole. La riflessione nasce per far fronte al caso e

217 Ibidem

218 Idem 219 Ibidem

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all'indeterminatezza, ed è figlia degli incessanti tentativi di abitare

l'ambiguità del progettare. Intraprendere un processo riflessivo significa

costruire, filtrare, incorniciare, esplicitare la fattualità di un procedere tacito,

di dargli consistenza e legittimazione formale220.

La pratica (corne altro modo di fare teoria e come teoria stessa, sia pure

sempre in azione, contestualizzata) per essere negoziata, condivisa, verifica,

ha bisogno di essere formalizzata e quindi "messa in parola".

Infatti, le comunità pratiche hanno bisogno di mettere in parole le loro teorie

che abbiamo definito tacite, intuitive, routinarie.

L'approccio riflessivo si fonda sulla convinzione che i pratici agiscono

razionalmente, risolvono i problemi che incontrano ma non sempre sono

consapevoli di come ragionano e di come li risolvono. Di qui l'importanza

della pratiche narrative come forme per "dare forma" e consapevolezza al

loro agire professionale, attraverso un'attività di riflessione in corso d'opera

o a posteriori, per liberarsi di costrutti limitanti, aprirsi a nuovi problemi,

essere in grado di formalizzare la conoscenza implicita nell'azione221.

Le metodologie qualitative, quali, le tecniche narrative, la ricerca

etnografica – che consente di ricostruire "il mondo della vita" delle persone

– si realizzano attraverso il ricorso a tecniche narrative come i diari, le

biografie, i resoconti, le interviste. Tali tecniche consentono appunto

quell'operazione di "riflessione" sul proprio agire tipiche del professionista

"riflessivo". Questo presuppone la capacità da parte del soggetto

professionale non solo di ricostruire ma di interpretare il proprio agire entro

determinate coordinate che attivano un processo continuo di

consapevolizzazione222.

Ritornando al tema della valutazione e dell’autovalutazione, occorre

sottolineare l’importanza che queste assumono in riferimento al rapporto

con il concetto di formazione permanente. La valutazione e

l’autovalutazione devono essere applicate, sia in itinere che in una fase

successiva, alle esperienze formative, affinchè i risultati che ne derivano,

siano utilizzati per favorire occasioni e spazi di riflessività.

220 Anon., 2008/09, Dalla teoria alla pratica della cura. [online]. Appuni per l’insegnamento di pedagogia clinica. Disponibile su: < http://electronicportfolios.files.wordpress.com/2010/01/pedagogia-clinica-parte-b3.pdf > [Data di accesso: 24/01/2010].

221Idem 222 Ibidem

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Quest’ultima è ritenuta un elemento qualificante di una professionalità che è

tesa al miglioramento delle prestazioni fornite, in continua crescita

professionale e in grado di affrontare le continue sfide che emergono da

contesti operativi in divenire223. La formazione e la sua valutazione

diventano i luoghi ideali per costruire quella figura di “professionista

riflessivo”, capace di ricomporre la divergenza tra teoria, ricerca e pratica e

di migliorare i servizi offerti ai propri utenti/ clienti.

I momenti di formazione sembrano costituire, dunque, uno dei contesti più

adatti per lo sviluppo di modalità di riflessione da utilizzare poi nel corso

dell’azione al fine di rinforzare le competenze professionali. Il riflettere sul

proprio agire professionale può favorire un miglioramento dello stesso; tale

effetto positivo si riversa poi sulla qualità delle prestazioni erogate e sul

benessere di chi di queste è utente finale224.

Tuttavia nel campo del servizio sociale, sono rare le esperienze di

valutazione impostate e, ciò avviene per la scarsità se non addirittura

indisponibilità di strumenti adeguati, nonché per la complessità e l’onerosità

di attività valutative che misurino i benefici prodotti dalla formazione degli

operatori sugli utenti dei servizi socio-assistenziali. Parallelamente a quanto

appena detto emerge un’ampia richiesta di spazi di riflessione, di

assimilazione delle nuove conoscenze e di sperimentazione delle stesse

nell’operatività degli assistenti sociali ma, i fattori organizzativi e il lavoro

condizionato dalle “urgenze” appaiono tra i maggiori ostacoli ad un

effettivo arricchimento della professionalità degli operatori dei servizi alla

persona225. Si denota un accrescersi dell’esigenza, rilevata da molte ricerche,

espressa dagli operatori, di riscoprire una dimensione qualitativa del tempo-

lavoro dedicata ad attività di riflessione (riflessività), formazione e

valutazione del proprio essere professionisti (autovalutazione).

La valutazione si configura come una metodologia di intervento atta a

rilevare fattori di “cambiamento” in una realtà in cui è in corso un

intervento.

223 Sicora A., L’assistente sociale riflessivo., cit p 161

224 Campanini A., 2006., La valutazione nel servizio sociale. [online]. Disponibile su: <http://www.oasliguria.org/public/oas2/index.php?mod=08_Download&downloadfile=Modulistica%20Generale/Campanini.pdf&mode=go. > [Data di accesso: 22/02/2010].225 Ibidem

Page53

Per poter capire quando e in che misura si ha appreso, il soggetto deve

essere in grado di percepire il cammino, percorso, di misurare la distanza tra

uno stadio iniziale e uno stadio finale e di comprendere i modi con i quali si

è arrivati al raggiungimento dello stadio desiderato.

L’insieme di queste azioni è definibile come “valutazione” sia della

quantità/qualità di ciò che si è appreso sia delle modalità con cui si è

appreso, nello stesso tempo è anche apprendere ad osservarsi come soggetto

agente costruttore della propria conoscenza.

In questo senso mi sembra più appropriato proporre di sostituire al termine

“autovalutazione” quella di “valutazione riflessiva”, intendendo così

sottolineare il fatto che il soggetto mentre valuta, cioè misura il proprio

apprendimento ed esplicita i processi mentali che ha adottato per conoscere,

riflette su se stesso come soggetto produttore di conoscenza226.

Sembra opportuno ricercare precise strategie e metodologie per l’attivazione

consapevole di processi di riflessività, piuttosto che lasciare lo svolgimento

di tale importante attività all’improvvisazione e alla causalità.

Un esempio per intraprendere percorsi di valutazione delle attività

formative, può essere rappresentato da un’articolata griglia di domande che

sembrano utili per valutare in maniera strutturata l’impatto che una specifica

iniziativa formativa frequentata ha prodotto sul proprio agire professionale.

Tale riflessione può essere condotta sia a livello individuale che a livello di

gruppo e può condurre ad una più precisa ridefinizione dei propri bisogni

formativi e della propria “mappa” di competenze. Le dimensioni individuate

per tale processo mentale sono: la soddisfazione relativa all’iniziativa

formativa; la percezione dell’efficacia dei contenuti formativi come risorsa,

con specifico riferimento ai contenuti appresi, agli appunti raccolti e al

materiale didattico ricevuto; la percezione dell’utilità del corso e del suo

impatto sulla propria condotta di lavoro; la percezione dell’impatto

dell’esperienza formativa sulle proprie competenze professionali227.

226 Bezzi C., 2009., Valutazione. Raccolta di citazioni italiane. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: <http://www.valutazione.it/index.php?option=com_content&view=article&id=77:il-metodo-come-linguaggio-terza-parte&catid=34:portolano&Itemid=53 > [Data di accesso: 16/01/2010].227 Sicora.A., L’assistente sociale riflessivo., cit.p.201

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Traccia per l’autoanalisi della soddisfazione e degli effetti relativi ad una

esperienza formativa

Dimension

e

Domanda

soddisfazione su:

-sviluppo

Competenze

- valutazione corso nel suo

complesso

1. quanto il corso mi sta aiutando ad orientarmi

meglio nella mia professione?

2. il corso valeva il tempo che vi ho investito?

3. complessivamente è stato un buon corso?

4. rifarei il corso?

5. consiglierei anche ad altri colleghi di frequentare

il corso?Percezione dell’efficacia

dei contenuti formativi

come risorsa:

- contenuti appresi

- appunti

-materiale didattico

6. da quanto ho finito il corso quante volte mi è

capitato di:

- ricordare alcuni contenuti appresi durante il corso

con colleghi che lo avevano frequentato con me

- rivedere gli appunti presi durante il corso

- rivedere il materiale didattico raccolto durante il

corso

7. ricordare i contenuti e rivedere gli appunti e il

materiale mi è stato utile per affrontare meglio

alcuni aspetti della mia operatività?

Percezione dell’utilità del

corso e del suo impatto

sulla propria condotta di

lavoro

8. quali sono gli aspetti di ciò che ho appreso

durante l’esperienza formativa che mi sono stati

più utili?

9. che cosa ho modificato a tutt’oggi della mia

pratica di lavoro come risultato di ciò che ho

appreso?

10. a tale proposito , quali sono gli episodi che

ricordo come particolarmente significativi?

11. che cosa ha impedito che l’esperienza

formativa producesse maggiori effetti sulla mia

pratica di lavoro?La percezione dell’impatto

dell’esperienza formativa

sulle proprie competenze

professionali

12. a seguito dell’esperienza formativa quanto

sono variate le mie competenze professionali

rispetto a ciascuna delle seguenti aree:

- competenze di realizzazione e operative (sono

quelle che si riferiscono alla predisposizione ad

agire, più per eseguire compiti che per influenzare

gli altri. Comprendono: l’orientamento al risultato,

l’attenzione all’ordine e alla qualità, lo spirito di

Page53

iniziativa e la ricerca delle informazioni);

- competenza di assistenza e servizio (sono

caratterizzate dal desiderio di aiutare o servire gli

altri, cercando di comprendere le loro

preoccupazioni, interessi e biaogni. Comprendono:

sensibilità interpersonale e orientamento al

cliente);

- competenze manageriali (sono un sottogruppo

specializzato delle competenze d’influenza, in

quanto esprimono l’intenzione di avere specifici

effetti. Comprendono: sviluppo degli altri,

assertività e uso del potere formale, lavoro di

gruppo e cooperazione, leadership del gruppo);

- competenze cognitive ( rappresentano una

versione intellettiva delle competenze operative e

si riferiscono a quanto si fa per capire una

situazione, un compito, un problema,

un’opportunità o un corpo di conoscenze.

Comprendono: pensiero analitico, pensiero

concettuale e capacità tecnico/professionale);

- competenze di efficacia personale ( riflettono un

aspetto della maturità di una persona di fronte agli

altri al lavoro. Comprendono: autocontrollo,

fiducia in sé, flessibilità e impegno verso

l’organizzazione).

3.5 Le metodologie di pratica riflessiva

Page53

I saperi professionali vengono sempre più messi alla prova dalla complessità

e dall’unicità che caratterizzano le situazioni pratiche. Queste caratteristiche

irrompono nel rapporto tra professionista e oggetto dell’azione professionale

nel momento in cui si assiste ad una crescita della domanda di qualità in

tutti i campi della vita, compresi i campi di produzione del sapere.

L’aumento della domanda di qualità avviene nel momento in cui “il

cliente”, “l’utente”, “il portatore di interessi”, “il cittadino”, diventa

l’oggetto di un capovolgimento dei rapporti tra professionista e destinatario

della prestazione, entrando a far parte del processo di definizione dei

bisogni, della progettazione del prodotto/servizio, della valutazione della

sua efficacia. Il “cliente” diventa l’oggetto di un progetto riflessivo

mediante il quale le organizzazioni e i professionisti ridefiniscono i propri

processi decisionali, le proprie pratiche e le proprie identità228.

Il cliente, il cittadino, l’utente non è soltanto il destinatario di un servizio o

di un prodotto, ma interviene sempre più spesso nella progettazione stessa

dei servizi e dei prodotti, avanzando ipotesi circa i propri bisogni e

descrivendo le proprie aspettative.

In alcuni casi si tratta di una vera e propria co-progettazione229.

Tale cambiamento pone in primo piano la complessità degli oggetti

dell’azione professionale, mettendo in discussione il rapporto tra il

professionista, l’oggetto della propria azione, i saperi e il modo in cui questi

vengono costruiti, scambiati, riconosciuti, formati in specifici contesti

organizzativi ma, soprattutto impone l’esigenza di ripensare gli artefatti, i

saperi, i processi e le attività. I professionisti sono riconosciuti come esperti

dai destinatari delle prestazioni proprio perché in grado di agire in differenti

situazioni e di far fronte ad una gamma ampia di problematiche.

Dall’altro lato occorre considerare anche che le domande dei clienti sono

sempre più informate ed esperte.

Le identità dei professionisti e delle organizzazioni si configurano sempre di

più attraverso le modalità mediante le quali gestiscono quotidianamente i

228 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

229 Ibidem

Page53

dilemmi connessi alle scelte d’azione e le relazioni organizzative e

professionali.

Molto spesso i professionisti, pur avvertendo di aver vissuto delle

esperienze professionali significative, non riescono a ricostruirne il

significato, né in termini di superamento dei confini della propria azione

professionale né quindi in termini di identità professionale230.

Questo è strettamente connesso alle caratteristiche dei contesti, dei setting

organizzativi e dei sistemi di attività in cui le specifiche situazioni

significative si verificano. Ogni attività infatti ha senso, valore, in quanto

elemento di un contesto. Tale senso gli viene attribuito ogni volta che da

questo contesto viene attivata, resa necessaria, accreditata e realizzata

irriflessivamente in una situazione di azione. L’attività diviene così veicolo

di realizzazione di schemi di pensiero, modelli di azione, di comportamento

e di valori organizzativi e istituzionali. Si dice: “Va da sé!” in quanto

l’attività considerata costituisce qualcosa a cui non è necessario dedicare

attenzione e che non bisogna mettere in discussione ogni volta nelle

specifiche situazioni di azione. Tale opacità dei sistemi di attività, delle

organizzazioni è funzionale all’efficienza delle organizzazioni stesse231.

In tale opacità viene tuttavia generato un deficit percettivo per cui ciò che

cade al di fuori da ciò che è normato e accreditato in specifici contesti

(reinvenzioni, nuove conoscenze, nuovi assetti organizzativi, nuove routine)

viene trascurato o rimosso, oppure considerato come un “errore”,

“disfunzionale”, “fuori norma” e raramente diviene processo generativo

(Weick, 1979). Ciò provoca nella relazione con il cliente/utente/cittadino

un’inadeguatezza dei processi di interpretazione degli effetti delle proprie

scelte e delle proprie azioni e provoca, nel versante organizzativo,

un’insufficienza dei processi di apprendimento sulla base dell’esperienza e

del verificarsi delle situazioni inattese che limitano le opportunità di

cambiamento. In questo modo le aspettative di tutti gli interlocutori nella

relazione professionale tenderanno ad essere disattese.

E’ per via riflessiva che da processi elementari di apprendimento (di tipo

“single-loop”, fondati sulla reiterazione di soluzioni già sperimentate anche

230 Idem

231 Ibidem

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rispetto a nuovi problemi) si può passare a processi più complessi (di tipo

“double-loop”), in cui avviene la ridefinizione di regole, assunti e valori

dell’agire collettivo232.

Le ipotesi sull’apprendimento riflessivo creano le premesse per nuovi

interventi di cambiamento organizzativo e di formazione.

L’approccio all’apprendimento riflessivo generato dal gruppo britannico

Reflective Learning – UK233, fornisce una serie di visioni e strumenti di

grande interesse e impatto nelle realtà operative.

Ad esempio, recenti contributi (Ghaye, 2007; Ghaye, 2008) chiariscono la

portata dell’introduzione di forme di reflective learning nel sistema sanitario

britannico con un’ampiezza di riferimenti e indicazioni che appaiono

applicabili, con i dovuti adattamenti, anche in altri contesti.

Il focus degli interventi “riflessivi” in sanità si concentra sui piccoli gruppi

professionali. La domanda più essenziale cui rispondono tali interventi è del

tipo “Come possiamo sviluppare team riflessivi che possano sostenere

forme di cura personalizzate e di alta qualità?”A tale domanda, in questo

approccio, si risponde cercando di sviluppare contemporaneamente tre

fattori: l’esperienza personale, il sapere collettivo e la actionable knowledge.

Quest’ultima (la conoscenza che può effettivamente tradursi in azione) è

definita da Ghaye come una conoscenza rivolta al miglioramento di ciò che

si fa, ovvero è “una conoscenza che viene co-costruita dagli attori sul campo

sulla base di quanto essi apprendono riguardo ai processi e ai risultati

ottenuti in determinati contesti e circostanze234.

Essa si sottrae strutturalmente al dominio esclusivo degli “esperti” (ovvero

dei linguaggi esoterici, degli specialismi che tendono a privatizzare la

conoscenza, a renderla esclusiva), e per quanto possibile si mantiene sempre

aperta a revisioni e ad aggiustamenti rispetto alle contingenze”.

Riflettere significa quindi, per molti versi, costruire progressivamente

questo tipo di conoscenza di natura intrinsecamente collettiva e

“contestuale” nella quale si possono combinare il riconoscimento delle 232 Redazione Formazione e Cambiamento., Apprendimento riflessivo e nuovi modelli di Action-Research. [online]. Intervista a massimo Tommassini, ricercatore indipendente, Università UniRoma3. Disponibile su: < <http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/81d6cc569d2aeafdc1256e220031d3e2/156247aff0063725c125744f004c0094/Testo/M2?OpenElement > [Data di accesso: 17/01/2010]. 233

234 Ibidem

Page53

individualità (“chi fa che cosa”) con la comunicazione, lo scambio, la

riflessione efficace.

L’idea è che “la riflessione privata e individualizzata è incapace di

raggiungere e influenzare gli assunti istituzionali e le logiche che regolano

l’azione organizzativa, e corre anche il rischio di essere uno sforzo sterile

dato che gli individui da soli sono raramente nella posizione di realizzare

sostanziali cambiamenti organizzativi” (Nicolini)235.

Nell’approccio reflective learning la riflessività esce da una dimensione

puramente cognitiva e viene assunta in un senso nettamente pratico. Non

semplicemente in quanto permette di elaborare migliori piani d’azione a

livello di singole soggettività (individuali e di piccolo gruppo) ma

soprattutto in quanto permette di migliorare l’azione collettiva. Le pratiche

della riflessione sono direttamente innestate sulle pratiche dell’azione.

PAAR236: Participatory and Appreciative Action Research (Ghaye, 2008b) è

il modello che rappresenta attualmente il riferimento essenziale di

Reflective Learning237. Le metodologie di pratica riflessiva, specie se

sviluppate mediante un approccio di tipo partecipativo e apprezzativo

(Gahye, 2008), consentono di far emergere e di attivare processi di

apprendimento in cui individui e organizzazioni diventano competenti a

trasformare in modo non traumatico e non sanzionatorio novità, anomalie,

sorprese, eventi inattesi, in (nuovi) modelli di azione e in modi di pensare e

di organizzare innovativi. Consentono inoltre di ripensare al rapporto tra

professionista e organizzazione attraverso la strutturazione di un contesto

formativo di tipo riflessivo in cui le relazioni professionali assumono

determinate caratteristiche che permettono di rompere la doppia

autoreferenzialità che caratterizza tale rapporto. Tale rottura e ripensamento

avviene a favore dell’analisi dei processi generativi mediante i quali le

situazioni critiche, inattese, e di successo vengono generate dai sistemi

stessi. Le situazioni inattese possono essere in questo modo considerate

come occasioni di apprendimento e di innovazione e non come momenti

drammatici intrisi della cultura della colpa. I professionisti, i gruppi, le

organizzazioni divengono consapevoli dei processi di cambiamento, di

235 Idem

236

237 Ibidem

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innovazione e di apprendimento connessi alla pratica professionale in

specifici contesti di azione nella misura in cui attivano processi riflessivi,

mediante i quali gli artefatti, le relazioni, gli oggetti, gli obiettivi, le identità

professionali individuali e collettive emergono come “forme” come “oggetti

di valore” da uno sfondo e/o come “testo” da un contesto di pratiche

professionali238. La riflessività consente alle “forme”, agli “oggetti di

valore” di assumere significato e diventare interpretabili e riprogettabili. Gli

oggetti di valore possono essere concepiti come “termini, gesti,

comportamenti, oggetti, che danno l’idea che ciò che avviene, che circola, è

dotato di una densità, di un’oggettività, di una solidità che obbliga a

modificare atteggiamenti, a scuotere preconcetti, a cambiare opinioni, a

modificare le pratiche” (Latour 2007). In questo modo non ha senso parlare

di “impatto” delle situazioni critiche o degli eventi inattesi sui modelli di

azione del singolo professionista o sull’organizzazione, ma piuttosto ha più

senso pensare a tali situazioni come ad occasioni generative di

apprendimento, cambiamento e innovazione, che implicano nuove pratiche,

nuove scelte progettuali, nuove interazioni, nuovi aspetti cognitivi da parte

dei professionisti. Ha dunque più senso parlare di “partecipazione” dei

professionisti ai processi generativi delle nuove relazioni professionali239.

I metodi riflessivi di tipo apprezzativo e partecipativo consentono di

concettualizzare sia le situazioni critiche caratterizzate da forte incertezza e

complessità, sia le situazioni di successo, in termini di percorsi di

apprendimento individuale, collettivo e organizzativo. Sulla base di questa

trasformazione tali approcci sono in grado di favorire la progettazione di

sistemi di attività e di percorsi di azione che hanno la caratteristica di essere

“generativi” dell’innovazione e di favorirne la sua messa a “sistema” a

livello organizzativo240.

L’approccio PAAR si basa infatti su metodi che consentono di (Gahye,

2008)241:

238 Idem

239 Ibidem

240 Idem

241 Marchi S., Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali., [online]. Assegnista di ricerca, Università Sapienza di Roma. Dicponibile su: < http://db.formez.it/ArchivioNews.nsf/ > [Data di accesso: 23/11/2009].

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• andare oltre alla necessità di cambiare comportamenti organizzativi e

individuali, emersa sulla base di un’analisi dei deficit e delle situazioni di

fallimento, per muoversi verso un’analisi dei successi organizzativi e

individuali e dei processi che hanno portato a tali successi, in modo tale da

riprodurre ed espandere i processi virtuosi al fine di co-costruire vision

future basate su aspetti positivi che caratterizzano il presente;

• andare oltre l’individualismo, causa dell’isolamento professionale e della

solitudine dei processi di apprendimento, per muoversi verso una

dimensione collettiva delle pratiche professionali e dell’apprendimento,

mediante lo sviluppo di sistemi di interconnessione per la condivisione della

conoscenza e mediante l’utilizzo di nuove forme di comunicazione che

consentono di realizzare azioni simultanee da parte di diversi soggetti

diversamente distribuiti nello spazio geo-politico;

• superare una visione monodisciplinare o individuale della conoscenza, per

muoversi verso modalità pluralistiche di produzione della conoscenza e di

comprensione e interpretazione delle esperienze, al fine di individuarne

buoni usi futuri;

• andare oltre i cicli e le spirali di riflessione per muoversi verso un

apprendimento riflessivo (reflective learning) al fine di: sviluppare una

visione apprezzativa, ridefinire le esperienze, costruire una saggezza

collettiva, raggiungere gli obiettivi muoversi oltre.

Parte Seconda

“La Ricerca”

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La ricerca: ipotesi di ricerca

Il tema centrale di questo elaborato è la riflessività, questa intesa come

atteggiamento professionale funzionale alla gestione consapevole e

responsabile dell’apprendimento dall’esperienza, affinchè, quest’ultimo,

possa divenire patrimonio condiviso e tradursi in pratiche operative.

La riflessività permette al singolo operatore di interrogarsi continuamente

sul proprio operato, sulla relazione tra corpus di teorie interiorizzate e

conoscenza generata nell’azione, sulle proprie competenze e sul contesto

lavorativo e organizzativo di cui è membro, in un’ottica di continuo

miglioramento. Come già ampiamente argomentato nella parte teorica, la

riflessività è la condizione necessaria affinchè il professionista del sociale

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diventi consapevole del senso e dell’origine degli automatismi che orientano

il proprio agire, dalla definizione del problema, la progettazione

dell’intervento d’aiuto, alla definizione della soluzione di esso.

La riflessività può essere definita come un filtro attraverso il quale viene

incanalato il sapere pratico.

Il paradigma della pratica è un patrimonio che si accumula lentamente

facendo “depositare” il sapere pratico che filtra dalla riflessione del lavoro

quotidiano e va a costituire il vasto e prezioso bagaglio teorico-operativo di

una professione sociale. Molto importante è, dunque, adottare un

atteggiamento di continua “riflessività” sul proprio lavoro per evidenziare e

depositare il sapere pratico che ogni azione professionale può produrre.

Comprendere la crucialità della pratica significa peraltro riconoscere

l’importanza della riflessività, ovvero del padroneggiamento della pratica

per via riflessiva. Nella dimensione della riflessività si realizza la continua

interrogazione dei soggetti al lavoro sul “senso” delle proprie pratiche, sulla

loro destinazione, sulla possibilità che da esse sorgano nuovi apprendimenti

ed effetti inattesi. Nella riflessività si esprime, dunque, la capacità dei

soggetti di far funzionare dinamicamente i patrimoni di informazioni e

conoscenze di cui essi stessi dispongono in funzione delle esigenze

emergenti. Non basta, solo, cercare di sviluppare l’apprendimento

nelle/delle organizzazioni, anzittutto bisogna insistere sulle modalità

pratiche attraverso le quali è possibile spostare energie dalla ripetitività dei

comportamenti lavorativi e organizzativi verso la consapevolezza dei

comportamenti stessi da parte degli attori, in funzione degli interessi degli

utenti finali. La riflessività è, in fin dei conti, una funzione posta allo snodo

tra il manifestarsi (spesso tacito e irriflesso) delle pratiche, da un lato, e i

momenti dell’apprendimento e della sedimentazione delle competenze,

dall’altro lato.

La riflessività stimola l'attenzione vigile e costante sulle premesse mentali,

sulle routine operative standard, sulle pratiche lavorative e organizzative

consolidate, favorendone una continua messa in discussione. Quest’ultima

premessa invera l’apprendimento individuale e collettivo, basilare per

promuovere percorsi di cambiamento consapevoli e condivisi, necessari per

fronteggiare i presupposti su cui si fonda una società che mutua e si evolve

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velocemente, e che trascina con sé storie di vita che esigono nuovi servizi e

risposte efficaci e sempre più specifiche, rispetto a problemi sempre più

eterogenei e complessi. Questo comporta l’acquisione di un habitus di

ricerca continuo sostenuto da un atteggiamento riflessivo, critico e

consapevole, sul proprio “saper essere” e “saper fare”, che permette di stare

al passo e di operare professionalmente alla luce dei principi e degli scopi

propri del Servizio Sociale.

Nel contesto organizzativo spesso il routinario, l'erogazione immediata di

prestazioni é affrontato “pragmaticamente”, per le ristrettezze dei tempi e le

pressioni esercitate dalle “emergenze”. Queste ultime sono ritenute e vissute

come prioritarie, e ciò comporta il rischio di condizionare e impoverire la

riflessività nell'organizzazione del tempo di lavoro degli stessi assistenti

sociali. E' in una logica “riparativa e contenitiva” singolare che il Servizio

sociale rischia di arenarsi. Quello che é davvero necessario per il Servizio

sociale in generale e per gli assistenti sociali in particolare, é un lavoro sulle

premesse mentali, un ri-orientare la propria professionalità, che chiama in

causa, pur a diversi livelli di responsabilità, tutti gli individui e che consenta

che le aspettative e la realizzazione del benessere trovino una giusta

esplicazione. Da quanto emerge anche dal Rapporto sul lavoro e la

professione di assistente sociale, redatto dalle assistenti sociali dell’ASL n°

4 di Cosenza, nell'attuale “Società del Rischio” gli assistenti sociali, si

caratterizzano sempre più come esperti delle politiche della vita.

Gli assistenti sociali, al giorno d’oggi, intervengono nella vita quotidiana

delle persone per sostenerle nella costruzione di un originale percorso di vita

a fronte delle incertezze e delle scelte che giorno dopo giorno incontrano.

In un ordine sociale post-tradizionale, pertanto, la costruzione di un dato

intervento sociale è un processo dinamico e riflessivo in itinere, e non già un

processo lineare, univoco, etero-diretto dall’alto verso il basso.

La dimensione della riflessività mette in collegamento ogni singolo sé con

sistemi e dinamiche di portata globale. La dottoressa Nigri, assistente

sociale esperto, nel Rapporto sul lavoro e la professione di assistente

sociale, scrive: “Pensare globalmente e agire localmente”, è oggi nella

società del rischio, l’obiettivo e nel contempo la necessità del Servizio

sociale, chiamato a misurarsi con bisogni storici e cronici ma anche con la

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mancanza di “senso” così diffusa tra gli individui della società del rischio242.

Il Servizio Sociale si configura come una professione in fieri il cui sapere va

oltre alla conoscenza come obiettivo, perchè si tratta di un sapere finalizzato

all’acquisizione di strumenti analitici, descrittivi ed esplicativi dei continui

mutamenti della realtà sociale, orientati all’individuazione di strategie di

intervento sostenibili nelle situazioni problematiche sia di carattere

preventivo che emergenziale. La professione di Assistente Sociale, situa la

sua ragion d’essere nella capacità di rompere vecchi steccati ideologici, di

smobilitare vecchie rigidità burocratiche, di produrre innovazioni

istituzionali, di introdurre nuove flessibilità nei servizi di Welfare.

Per le figure professionali in oggetto, fermarsi a riflettere per individuare nel

fluire del senso e dell'esistenza, il rapporto con se stessi e con gli altri, vale a

dire il senso non definitivo ma cambiante di volta in volta, del proprio

vissuto, diventa un'imprescindibile necessità epistemologica essenzialmente

etica, che sostanzia fortemente ogni intervento sociale.

La soggettività risulta pertanto un fattore fondamentale, il mondo emotivo e

il particolare rapporto esistenziale con l'utenza, incidono in forme varie e

complesse, sulle modalità relazionali che si instaurano, nelle diverse

funzioni professionali con gli utenti.

Mettere a fuoco la propria soggettività, attraverso momenti condivisi e

partecipati di confronto, aumentare la consapevolezza sui propri conflitti e

desideri, aiuta a conoscere meglio il personale modo di porsi agli utenti, e

quindi ad interiorizzare una modalità di accettazione, che costituisce il

primo passo per poterne recepire i messaggi, per decodificarne i

comportamenti, per sorreggere nei momenti di difficoltà.

L’obiettivo prioritario della ricerca, dunque, è quello di rispondere ad un

interrogativo principe, ovvero: “in che modo l’atteggiamento riflessivo

qualifica la professionalità dell’assistente sociale e che impatto ha sul suo

operare e nel contesto organizzativo in cui opera”. Questo interrogativo è

diretto a fare luce circa la consapevolezza, negli assistenti sociali, del ruolo

della riflessività nel loro lavoro quotidiniano e rispetto al contesto

organizzativo di cui si è parte. A tal fine è altrettanto importante indagare

242I° Rapporto sul lavoro e la professione di Assistente Sociale nell’Asl N.4., 2007.,Azienda sanitaria n°4. [online]. Sito sulla valutazione. Disponibile su: www.as4.cosenza.it/as4/download/Rapporto-sul-lavoro-e-la-professione-di-assistente-sociale-AS4.pdf > [Data di accesso: 11/03/2010].

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sui metodi e sugli strumenti utilizzati dagli assistenti sociali per attivare

percorsi riflessivi; sul significato che la riflessività riveste nelle pratiche

lavorative e organizzative messe in atto e sulle percezioni che si hanno di

essa. L’intervista (semi-strutturata) è stata elaborata alla luce di tre macro-

aree: la riflessività, l’apprendimento organizzativo e le pratiche riflessive.

Queste ultime riprendono temi quali la valutazione, la documentazione

professionale e la formazione permanente, funzionali ad inverare spazi e

momenti di apprendimento di atteggiamenti di riflessività affinchè

l’assistente sociale possa incarnare la figura di “professionista riflessivo”,

nonchè di un professionista che “impari a pensare”. Sempre dal Rapporto

sul lavoro e la professione di assistente sociale dell’Asl di Cosenza, emerge

che per imparare a pensare, è necessario entrare in una situazione di crisi; la

crisi provoca un disagio sia nell’azione che nel pensiero, che l’operatore

sente di dover risolvere. Del resto quello dell’Assistente Sociale è un ruolo

che per sua natura è soggetto a rendere la “crisi” un connotato stabile della

professione. La crisi spinge a pensare in “modo nuovo”, a cambiare

l’approccio mentale alle situazioni problematiche per tentare soluzioni

adeguate243.

Metodo della ricerca: L’Intervista semi-strutturata

L’intervista semistruttrata è la tecnica di indagine adottata. Essa viene

guidata da una scaletta di domande, la quale deve seguire alcuni criteri:

• la sequenza delle domande deve andare dal generale al particolare, per

consentire all’intervistato di addentrarsi gradualmente negli argomenti

dell’intervista;

• la scaletta deve essere internamente coerente: se si decide, ad esempio, di

partire da fatti per raccontare emozioni, tale criterio dovrebbe essere

mantenuto lungo tutta la scaletta e non cambiare senza una ragione precisa;

• la scaletta deve contenere le cosiddette “domande sonda” ossia le

domande che aiutano l’intervistatore a sollecitare un parere nei casi dove

l’intervistato è reticente o non ha sul momento un’opinione strutturata ma

deve crearsela nel corso dell’intervista stessa.

243 Idem

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L’intervista semistruttrata si basa su una “traccia”, ossia un elenco di

argomenti che vengono introdotti dagli intervistatori e sui quali gli

intervistati sono sollecitati a rispondere, a esprimere la propria opinione, ai

fini dell’interpretazione del fenomeno oggetto di indagine, in questo caso la

riflessività. L’utilizzo di queste tecniche di indagine afferisce all’adozione

di un approccio qualitativo244.

I sostenitori della ricerca qualitativa partono dal presupposto che ogni

rappresentazione della realtà è sempre espressione di una costruzione

sociale di senso alla quale partecipano tanto gli attori sociali che il

ricercatore.

L’interesse di quest’ultimo è focalizzato sulla comprensione dei fenomeni

cui perviene a partire dalle rappresentazioni che di questi fenomeni danno i

soggetti direttamente coinvolti, le loro categorie concettuali, le connessioni

che essi propongono. Il ricercatore è interessato a dare ragione di come i

modi di agire, le valutazioni e gli orientamenti culturali e valoriali degli

individui assumono significato in rapporto alla situazione e al contesto in

cui si iscrivono.

I tratti caratteristici dell’analisi qualitativa sono245: mira a cogliere i modi di

comprendere il processo e il lavoro delle diverse persone, riconoscendo e

accettando che questi modi possono essere differenti; il focus è sui processi

e sul rapporto tra questi e i risultati in termini di significati attribuiti dagli

attori; l’attenzione si concentra sul modo in cui i significati vengono

costruiti in relazione alle pratiche; vengono messi al centro i significati che

le persone attribuiscono alle situazioni senza ricondurli a presunti standard

di oggettività, l’approccio qualitativo è riflessivo in relazione alla

soggettività dello stesso professionista che opera la valutazione; esso non

pretende di essere avulso e neutro rispetto alle dimensioni valoriali, che

riconosce come intrinseche nella valutazione e semmai da esplicitare.

La Ricerca empirica è stata svolta su un campione di 15 assistenti sociali,

operanti sia nel settore pubblico che privato, per valutare la presenza

dell’approccio riflessivo e rilevare le rappresentazioni dei concetti di

244 De Rose C., 2004., Che cos’è la ricerca sociale?., Carocci., op.cit. p. 23

245 Fargion S., 2007, Valutare il servizio sociale con metodologie qualitative in Campanini A., La valutazione nel servizio sociale., Roma: Carocci, cit. p. 100

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riflessività, ricerca e identità professionale. Si tratta di operatori in servizio

presso: Servizi Sociali di enti comunali, Centro di Salute Mentale,

Consultorio Familiare, Azienda Sanitaria Locale, Azienda Sanitaria

Provinciale, Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile, Ospedale Civile,

Centro per Disabili Mentali, Centro Socio-Assistenziale di Riabilitazione,

équipe Socio-Educativa, Comunità Terapeutica ed infine Assistente Sociale

Progettista. Lo schema d’intervista adottato è il seguente:

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

Apprendimento organizzativo

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

L’organizzazione favorisce questi momenti?

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

Pratiche riflessive

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Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

La Rilevazione dei dati: la pratica professionale riflessiva

1. Rapporto tra Teoria e Pratica professionale

La società della conoscenza non può che essere una società riflessiva.

Modernità liquida, crisi delle certezze, crisi identitaria, rischio della paura

liquida, individualizzazione e globalizzazione e conseguente aumento del

bisogno di distinzione, identificazione e appartenenza fanno sì che la società

della conoscenza non possa non avvalorare il ruolo della pratica.

Questa è intesa come “contesto epistemologico, fonte per la costruzione di

sapere e conseguente rimessa in discussione della distinzione tra fini e

mezzi...”246. Questo sapere prodotto può divenire oggetto della conoscenza

solo attraverso la riflessione, che permette al professionista di ripercorrere il

proprio operato. Durante il percorso lavorativo è importante analizzare

quelle che definiamo le “nostre” pratiche professionali: in cosa sento di

appartenere ad una data comunità di professionisti, e in cosa invece me ne 246 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 142

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distinguo? E ancora: quali sono le pratiche per me centrali del mio lavoro, e

quali quelle periferiche? Riflettere sulle più moderne teorie sulle comunità

di pratiche ed interrogarsi sugli apprendimenti partecipativi, sui contesti

professionali che permettono di innovare o meno e, ancora interrogarsi sul

particolare modo di frequentare e vivere le comunità professionali e di

lavoro in cui quotidianamente ci imbattiamo: quali modalità di

partecipazione prediligo, scelgo o ancora escludo? Quando durante il mio

lavoro mi sento di applicare procedure, e quando invece mi sento interprete?

In che cosa investo o vorrei investire di più nel mio lavoro, quali traiettorie

di partecipazione prediligo? Queste ed altre sono domande che resteranno

sempre aperte perlomeno per un professionista riflessivo, che tende a

riprogettarsi strada facendo, confrontandosi con attenta curiosità, in ascolto

della propria ed altrui traccia, consapevole della ricerca, della fatica e della

soddisfazione che ogni sorpresa saprà riservargli.

La riflessività connota l’apprendere come momento interiore, essa espone,

inevitabilmente, al dialogo con l’incertezza e con la solitudine, incontri,

peraltro, da cui è impossibile prescindere, se ci si vuole nei fatti, misurare

proprio con l’apprendere.

Il servizio sociale, oggi, necessita di questa competenza in quanto

contrassegnato da:

complessità del contesto dei servizi sociali contraddistinto da paradigmi

eterogenei talvolta conflittuali;

incertezza e unicità della situazione/bisogno rendono la conoscenza

professionale sfuggente ai canoni della razionalità tecnica;

conoscenza professionale che non può essere del tutto pre-esistente all’azione

ma si costruisce in corso d’opera conversando con “la situazione”.

Ed è in quest’ultima accezione che si colloca il concetto di esperienza.

Sono proprio le esperienze professionali che possono essere analizzate per

diventare esse stesse fonte di rinnovamento del proprio modo di pensare e di

vivere il lavoro. Le riflessioni sulla propria professionalità divengono,

dunque, un elemento formativo forte per rinnovare l’azione futura, per dare

nuovo vigore alla propria traiettoria professionale. L’esperienza insegna per

significare l’idea che l’aver conosciuto molte cose e l’esser stato dentro

molte situazioni è utile, nella misura in cui attiva capacità di confronto, di

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classificazione, di giudizio. Serve a poco l’esperienza, se non si è in grado

di trovare grazie ad essa, regole e costanti nei casi della vita. Chi fa

esperienza rinnova il suo punto di vista, nega quanto pensava prima e

conquista un nuovo orizzonte. Per cui e’ importante che essa, attraverso la

riflessione, divenga oggetto di confronto, affinchè possa essere strumento

attraverso il quale promuovere cambiamento condiviso.

Alla domanda quanto conta l’esperienza nel suo lavoro e quanto incidono le

teorie, tutte le figure professionali hanno sottolineato l’importanza che

entrambe rivestono per operare in maniera professionale ed efficace.

“Maggiore è l'esperienza professionale dell'assistente sociale, più è obiettiva

l'individuazione del problema, e migliore è la procedura di intervento che si

mette in pratica. Fare riferimento alle teorie consente di affrontare il lavoro

sociale non solo basandosi sul proprio buon senso, ma favorisce un agire

professionale consapevole.

Le teorie aiutano ad incanalare il proprio lavoro fornendo un inquadramento

generale del problema e garantendo uniformità ed uguaglianza

nell'erogazione dei servizi. All'atto pratico, poi, gli interventi sono sempre

specifici ed individualizzati.” (XV Intervista Vedi Allegato).

Più in generale l’esperienza permette di acquisire la capacità di discernere

meglio i problemi che si presentano, aiuta a gestire la complessità propria

del contesto lavorativo, permettendo al professionista di agire

concretamente e nell’immediatezza, di selezionare e attivare le diverse

risorse professionali, personali e dell’utente, che esprime domande sempre

più informate e specifiche, ed istituzionali, rispetto ad una pluralità di attori

(utente, contesto socio-familiare, figure professionali, ente di appartenenza,

territorio), con maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie

competenze. Attraverso l’esperienza il professionista crea delle

categorie/mappe mentali che gli permettono di collegare, per somiglianze o

similitudini, gli eventi passati a quelli che si presentano, facilitandone

l’individuazione della natura dei problemi espressi. “L’esperienza è il canale

principale dalla quale inconsapevolmente attingiamo il nostro modo di

interpretare e di costruire il problema. Dall’esperienza ho potuto creare dei

modelli/schemi, anzi categorie mentali, attraverso la quale riesco a

categorizzare alcuni comportamenti che mi consentono di comprendere

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meglio l’utente, leggere il suo bisogno, e di connettere più aspetti. Riflettere

sull’esperienza mi rende consapevole dei dubbi che si hanno e delle

inefficienze, che possono riguardare anche le pratiche lavorative. Essa ti

permette di metterti in gioco continuamente permettendoti di migliorare. In

un ambiente di stasi, come quello dell’amministrazione pubblica, di sicuro

la riflessività è un potenziale fattore di innovazione e cambiamento, ma è

molto difficile mettere in discussione la cultura consolidata, che guida

l’operatività dei singoli e li tiene al riparo dall’incertezza.” (I Intervista Vedi

Allegato). L’esperienza permette una immediata individuazione,

comprensione e focalizzazione della situazione, seguita dalla

concretizzazione di un intervento di aiuto mirato, nella consapevolezza che

ogni caso è unico e irripetibile. “Sono entrambi importanti, in quanto le

teorie ti danno indicazioni a livello generale e l’esperienza maturata negli

anni ti fa capire che ogni caso è particolare, veramente individuale e allora

un intervento che può andare bene per una situazione non è efficace per

un’altra. La teoria è tenuta in considerazione come punto di riferimento,

come formazione, come forma mentis però poi è l’esperienza che ti aiuta

nell’immediatezza ad individuare un problema. Io lavoro con i minori e ho

rilevato che negli ultimi anni il poblema dell’autismo è in aumento e, se

non avessi avuto casi di bambini autistici esaminati in passato, di fronte a

casi simili avrei avuto enormi difficoltà. Teoricamente so che cos’è

l’autismo, so in che cosa consiste, che cosa comporta, conosco i tipici fattori

comportamentali, ma grazie all’esperienza, sono in grado di individuare

subito se si tratta di un caso di autismo o meno. Teoria e pratica sono

necessariamente inscindibili.” (IV Intervista Vedi Allegato).

L’esperienza diventa un campo in cui la riflessività, intesa come una lente di

lettura, permette al professionista di rapportarsi con il personale mondo

interiore – fatto di emozioni, sensazioni ma, anche di timori e ansie, che

interagiscono nell’espletamento del lavoro, nella lettura del problema e

nell’attivazione delle risorse e delle competenze professionali – e del mondo

altrui, ovvero di colui che del nostro operato ne è utente finale.

“Emozioni e sentimenti fanno parte dell'assistente sociale e anche

dell'utente, l'importante è esserne consapevoli. E' bene riconoscere ciò che ci

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crea fastidio, rabbia, tristezza ma anche gioia per poter agire più

consapevolmente. L'assistente sociale dovrebbe avere di base una

propensione all'aiuto verso i bisognosi che gli consenta di creare un rapporto

significativo con l'utente, basato in particolare su una forte capacità di

ascolto empatico. L'esperienza aiuta a gestire le emozioni per rendere la

capacità di comprendere i bisogni più oggettiva e meno legata all'emotività.”

(XV Intervista Vedi allegato).

Il gruppo di lavoro, attraverso momenti partecipati di riflessività, ripercorre

l'esperienza maturata e acquisisce la consapevolezza delle dinamiche alla

base dei processi, creando nuove strade percorribili di apprendimento.

E’ molto importante, dunque, che l’esperienza sia condivisa e negoziata.

Negoziare significa principalmente collaborare al fine di generare risorse e

rafforzare le relazioni.

Imparare a negoziare con razionalità ed efficacia diventa la strada maestra

per trasformare ogni conflitto in opportunità di sviluppo personale,

organizzativo e sociale.

La premessa, dunque, risiede in uno scambio/confronto ricco e fecondo.

2. Gestire l’incertezza

“Oggi il valore dello sviluppo si identifica sempre più nelle scelte condivise,

perché ogni occasione di incontro/scontro è un momento di confronto, di

collaborazione, ma soprattutto di crescita, per sviluppare le competenze e

valorizzare le individualità. “Esso riveste un’importanza fondamentale, il

confronto e scontro, alcune volte, di fatti permette la costante messa in

discussione della routine, per cui si impara agendo, dove diviene

fondamentale il passaggio dalle conoscenze tacite individuali a quelle

esplicite che divengono patrimonio comune.”(IV Intervista Vedi Allegato).

Il confronto richiede che i singoli interlocutori interagiscano nella

consapevolezza di dipendere l’uno dall’altro e di condividere gli stessi

obiettivi e gli stessi compiti. Ognuno svolge un ruolo specifico e

riconosciuto. Il ruolo rappresenta la parte assegnata a ciascun membro in

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funzione del riconoscimento delle sue competenze e capacità e, racchiude

anche l'insieme dei comportamenti che ci si attende da chi occupa una certa

posizione all'interno del gruppo stesso. Fondamentale per un efficace

sistema di ruoli è la qualità della comunicazione interna al gruppo stesso

perché un suo corretto funzionamento permette che si realizzi

corrispondenza tra attese e richieste dei singoli e prestazioni e

comportamenti del gruppo. La comunicazione è il processo chiave che

permette il funzionamento del lavoro di gruppo poiché permette lo scambio

di informazioni finalizzato al raggiungimento dei risultati. Rappresentativo

di quanto appena argomentato è, anche, il concetto di clima. Esso consiste

nell'insieme degli elementi, delle opinioni, delle percezioni dei singoli

membri rispetto alla qualità dell'ambiente del gruppo e della sua atmosfera.

Una buona percezione del clima si attua quando c'è un giusto sostegno e

calore nel gruppo, i ruoli dei singoli sono riconosciuti e valorizzati, la

comunicazione è aperta, chiara e fornisce feedback accettabili sui

comportamenti delle persone e sui risultati conseguiti.

Una leadership partecipativa e gli obiettivi opportunamente calibrati alle

capacità del gruppo sono tra i fattori che maggiormente influenzano il clima.

Molto dipende da come il lavoratore interpreta e assume il proprio ruolo

entro quella specifica comunità. In primo luogo c'è da sottolineare che le

percezioni degli individui derivano dall'esperienza accumulata sul proprio

luogo di lavoro. La persona si crea una mappa del modo in cui il suo

ambiente funziona, al fine di adottare il comportamento più consono alla

situazione. “Dal confronto sull'agire professionale si produce una crescita

personale e professionale dei soggetti coinvolti perché si possono

condividere modi diversi di vedere lo stesso problema/fenomeno e quindi

apprendere nuovi strumenti e trovare soluzioni innovative. Il confronto

costruttivo fornisce nuovi spunti per riflettere sul proprio operato.

Affrontare problematiche concrete derivate dal lavoro quotidiano, riflettere

insieme sull'evoluzione dei fenomeni in senso ampio o sulle politiche sociali

giova alla crescita personale e professionale dei “partecipanti”.Qualsiasi

organizzazione dovrebbe garantire questi momenti, formativi e/o

informativi, perché darebbero qualità all'organizzazione stessa. Sarebbero

utili da un lato per “raccogliere” il sapere professionale e dall'altro per

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creare una squadra di operatori motivati e capaci di integrarsi

proficuamente.” (XV Intervista Vedi Allegato).

“Il confronto permette una continua messa in discussione dell’operato. Ti

cito ad esempio i brain storming che facciamo quando si cerca una idea

progettuale “innovativa” in risposta ad un bando, non è raro che l’idea

iniziale venga stravolta e si passi a tutt’altro campo di intervento. Il

confronto, dunque, avviene su ogni fase progettuale: dalla ideazione alla

rendicontazione e chiusura del progetto. La metodologia utilizzata

comprende le classiche riunioni face to face, per motivi logistici spesso

siamo in conference calling e non disdegnamo ovviamente i nuovi canali di

comunicazione. La giovane età dei gruppi di lavoro fortunatamente permette

anche questo. E non abbiamo alcun vincolo organizzativo. Lo scontro,

sempre amichevole, ci ha sempre portato alle migliori decisioni, ad oggi

stiamo crescendo insieme in un progetto comune ed unico di lavoro nei

confronti della comunità. Le conoscenze individuali sono sempre depositate

in un patrimonio comune. “ (IX Intervista Vedi Allegato).

In alcune realtà lavorative delle strutture pubbliche, il confronto non è una

pratica codificata e consuetudinaria e questo dipende, soprattutto, dal modo

in cui i membri appartenenti, “sentono” il proprio lavoro, ripercuotendosi

negativamente non solo nell’apertura all’utilizzo di strumenti riflessivi,

quali la valutazione professionale e/o la supervisione, ma anche sulle

prestazioni erogate e sul servizio stesso.

“Per me è importante confrontarsi con gli altri. Ad esempio, alcune volte

anche le osservazioni dei tirocinanti mi hanno fatto riflettere su alcune cose,

però, nella mia esperienza non esiste il confronto perchè subentrano le

invidie, gelosie, competizioni e tutto ciò è indicatore di ignoranza e di

arretratezza e soprattutto questo si riflette e non aiuta nel nostro lavoro.

Tanti anni fa feci una proprosta, nel nostro ufficio, dicendo che avevavmo

bisogno di una supervisione, ma si sono opposte tutte, perchè non si è

accettato il fatto che una figura esterna e per di più una nostra collega,

assistente sociale, potesse aiutarci. Inoltre subentra anche il fatto che si ha

paura di essere giudicate sul proprio operato. Questo significa che oltre ad

essere ingoranti non si conferisce importanza al lavoro che si svolge. Molte

di noi non volevano fare le assistenti sociali, ma capitò il periodo giusto, i

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diplomini e molte intrapresero questa strada, per cui se uno fa questo lavoro

per fare un lavoro, le conseguenze sono queste e tante cose non interessano.

Io al contrario credo nella supervisione e nella sua utilità, perchè nella

maggior parte delle volte siamo prese dalle urgenze e da altre cose e alcune

di queste ci sfuggono.” (XIII Intervista vedi Allegato).

“La supervisione è un sistema di pensiero-meta sull’azione professionale,

uno spazio e un tempo di sospensione, dove ritrovare, attraverso la

riflessione guidata da un esperto esterno all’organizzazione, una distanza

equilibrata dall’azione, per analizzare con lucidità affettiva sia la

dimensione emotiva, sia la dimensione corretta, con spirito critico e di

ricerca”. (Allegri, 2000, p.35). L’espressione lucidità affettiva indica la

ricerca costante di un equilibrio consapevole tra razionalità ed emozione, tra

pensiero e azione, tra capacità progettuale e di intervento e capacità

riflessiva. La supervisione è una pratica agita solo in una struttura su

quindici, tra quelle nelle quali sono state effettuate le interviste.

“I momenti di confronto coincidono con la riunione terapeutica e

organizzativa. Nella prima siamo accompagnati dalla presenza di un

supervisore esterno, quindi completamente avulso dalla realtà lavorativa

della comunita sia interna che esterna. Gli esiti di questi incontri fungono da

importanti punti di riferimento, perchè i punti deboli diventano punti di

forza, e ciò ti rende consapevole di quello che è il tuo limite e di quello su

cui devi andare ancora a lavorare.”(XII Intervista Vedi Allegato).

La valutazione professionale, invece, è associata ai momenti di confronto su

quanto svolto con le altre figure professionali, in sede di riunioni di équipe,

o con gli organi direttivi e/o con i coordinatori di servizio.

“La valutazione è fraintesa e scambiata per una mera elencazione di attività,

senza che si possa entrare nel merito dell’efficacia e dell’appropriatezza

delle prestazioni a cura delle assistenti sociali.”(X Intervista Vedi Allegato).

“La valutazione professionale avviene giornalmente, non sono ovviamente

pratiche codificate, ma consistono piuttosto in attività consuetudinarie, da

cui non scaturisce la realizzazione di griglie valutative vere e proprie, il tutto

rimane cioè in un ambito di colloquialità, e quindi attraverso attività verbale,

non codificata.”(XIV Intervista Vedi Allegato).

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La valutazione professionale è fondamentale per gestire la complessità

attuale e i cambiamenti sociali che rendono sempre più difficoltoso

sviluppare piani a lungo termine, in questa direzione, si sottolinea la

necessità che le organizzazioni e gli assistenti sociali documentino l’impatto

dei loro servizi. “La valutazione prende in esame la nostra efficacia e ci

aiuta a migliorarla; facilita la crescita della nostra responsabilità rispetto agli

utenti e ai clienti, aumenta le nostre conoscenze, evidenziandone i limiti, e

ci aiuta a sviluppare nuovi modi di lavorare e di erogare servizi.” Lishman

(1998, p.101, trad.nostra)247.

Molto dipende anche dagli organi direzionali e dalla cultura consolidata. Un

ambiente che basa la sua ragion d’essere nel confronto e nell’apertura a

momenti di decostruzione, valutazione e analisi sugli impatti degli interventi

attuati, sui dubbi, sulle ansie – generate dalla rapidità dei cambiamenti –

sulle logiche operative e interpretative messe in atto, favorisce la riflessività,

mediante la quale il gruppo gestisce, in una logica concertativa e

partecipativa, l’incertezza.

Accettando e indagando collettivamente l’incertezza è possibile convertirla

in occasione di apprendimento funzionale alla crescita professionale.

“L'incertezza rappresenta sia un rischio che un'opportunità e può

potenzialmente ridurre o accrescere il valore dell’attività che andiamo a

svolgere. Nello stesso apprendimento riflessivo, si utilizzano l’incertezza e

gli errori per riuscire a comprendere il proprio agire, o comunque nel

quotidiano a superare gli imprevisti.

Basti pensare alla stessa imprevedibilità nel servizio sociale, come carattere

dinamico irripetibile, plurale e interdipendente degli scambi relazionali, che

riduce i margini di previsione degli esiti e delle conseguenze

dell’intervento”. ( IV Intervista Vedi Alegato).

L’apprendimento non può rimanere un processo che resta confinato al

singolo individuo, in quanto questo perpetuerebbe un clima statico e

gravemente demotivato e inflessibile. “L’organizzazione non favorisce

momenti di confronto, ma non li contrasta. L’amministrazione pubblica

confida nella “naturale demotivazione” e svilimento della “meglio gioventù

247 Lishman, J.(1999) Introduzione alla valutazione, in: Shaw e J.Lishman, La valutazione nel lavorosociale, Erickson, Trento, p. 101 citato in Campanini A., 2006., La valutazione nel servizio sociale. [online]. Disponibile

su:<http://www.oasliguria.org/public/oas2/index.php?mod=08_Download&downloadfile=Modulistica%20Generale/Campanini.pdf&mode=go. > [Data di accesso: 22/02/2010].

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professionale”. E questo purtroppo avviene. Sempre. Quasi sempre. I

contesti lavorativi della pubblica amministrazione sono per loro di natura

diffidenti e restii ad ogni cambiamento. Tendono inoltre ad attivare una

condotta di lieve o forte resistenza verso atteggiamenti professionali non

riconducibili all’ordinarietà e a tutto ciò che percepiscono come

consuetudinario.” (X Intervista Vedi Allegato).

Dalla ricerca emergono alcuni dati fondamentali che è possibile riscontrare

in tutte le interviste condotte:

• la conoscenza circa l’approccio riflessivo è scarsa ma la competenza

riflessiva è reputata essenziale nello svolgimento dell’attività propria

dell’assistente sociale;

• l’esperienza e la teoria sono entrambi importanti, ma è la prima che

permettere di “fare” il lavoro;

• la supervisione e la valutazione professionale sono pratiche riflessive non

consolidate, nonostante venga riconosciuta la loro necessità;

• le possibilità di incentivare reali percorsi di apprendimento dipende

molto dalla cultura e dal clima organizzativo consolidato. Si riscontra una

distinzione tra strutture pubbliche e private.

3. “L’Assistente Sociale Riflessivo”

La riflessività viene intesa come elemento inscindibile del fare, proprio

dell’assistente sociale, che deve quotidianamente scontrarsi e relazionarsi

con situazioni che esigono letture sistemiche e risposte specifiche, in un

contesto mutevole ed incerto che comporta inevitabilmente, da parte del

professionista, una continua messa in gioco delle conoscenze e delle

competenze professionali possedute, ma che può anche da una parte,

divenire causa di atteggiamenti di chiusura nelle routine operative, dalla

quale si attivano risposte standard e poco flessibili ai bisogni espressi.

“Sicuramente la riflessività nella nostra professione è un atteggiamento

importante e utile al fine di agire in maniera opportuna sia nel lavoro con

l’utente, che nel lavoro di équipe. Tuttavia spesso ci troviamo a dover agire

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in contesti burocratici, organizzativi che difficilmente lasciano del tempo a

disposizione per l’attività riflessiva, nel senso che nei servizi spesso si è

portati più allo svolgimento meccanico delle mansioni piuttosto che al

ragionamento e alla riflessione sulle nostre azioni e sensazioni, del resto

siamo spesso invischiate in organizzazioni prettamente burocratizzate.”(vedi

Allegato XIV Intervista). Attraverso la riflessività il professionista, non

agisce impulsivamente ed emotivamente, o al contrario in maniera

burocratica e meccanica, in quanto pone come oggetto del pensiero i propri

stati d’animo, le proprie emozioni e sensazioni, i propri shemi mentali e

interpretativi, acquisendone consapevolezza e autocoscienza.

“La stessa riflessività diventa basilare allorché l’assistente sociale ad

esempio, che ha da poco concluso un colloquio, deve tessere i vari punti che

ha nella testa, dalla sovrapposizione di elementi di analisi del caso,

impressioni, risonanze emotive, nessi con altre situazioni, con le

problematiche relative al caso, e con l’esperienza professionale. Tutto ciò,

permette di prendere decisioni consapevoli, in quanto fondate su una

conoscenza di ampio respiro, e per evitare risposte di routine, burocratiche o

rituali.” (Vedi Allegato, IV Intervista).

La consapevolezza promossa attraverso la riflessività, rende più responsabili

e diviene potenziale strumento che evita “agiti” suggeriti dalla ripetitività.

Essa permette di porre attenzione alla pratica, all’operatività.

La riflessività promuove un “professionista riflessivo” capace di dare senso

al proprio lavoro anche in presenza delle frustrazioni legate all’opacità,

all’inerzia, ai tempi lunghi della Pubblica Amministrazione, questa è

necessaria per riacquisire il senso e la direzione di marcia del proprio

lavoro, a restituire motivazione e capacità di iniziativa. E’attraverso la

riflessività, inverata da pratiche valutative, auto-valutative e formative, che è

possibile pianificare il lavoro e agire concretamente. Si rileva, inoltre,

l’importanza che la documentazione professionale assume rispetto al lavoro

proprio degli operatori del sociale, questa intesa come momento generatore

di riflessività e, potenziale canale auto-formativo. L'autobiografia è uno

strumento di ricerca e riflessione, per chi svolge una professione d'aiuto e ha

bisogno di riscoprirne senso e modalità, ricercando le radici di una

motivazione nelle proprie immagini ed esperienze; anche perché

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approfondire la storia del personale rapporto con il lavoro d'aiuto, permette

di capire quali sono le premesse in base alle quali si agisce, di integrare

esperienza e sapere, per favorire una conoscenza meta-cognitiva. Rivedere e

ripensare la propria storia, da un'angolazione diversa, favorisce la messa in

discussione, delle proprie modalità relazionali, perché capire meglio la

propria storia di vita, ricostruirla in un nuovo montaggio, che tenga conto di

tutte le scene girate, aiuta a riappropriarsi, anche di ciò che ne ha distorto lo

sviluppo, per indirizzarlo, verso mete più realistiche ed autentiche. “Scrivere

è il tallone d’Achille della professione sociale.” (X Intervista vedi Allegato).

“Scrivere una relazione sociale, registrare una cartella, o stilare il diario

giornaliero, diviene in primo luogo una necessità, perché legata all’ansia del

fare, tipica del lavoro sociale che rischia di sommergere aspetti che la

scrittura consentirebbe di mettere a fuoco. L’operatore scrive per poter

affrontare nella realtà quotidiana situazioni complesse, da cui poter

apprendere e di conseguenza forma se stesso su quello che svolge

quotidianamente, ovvero l’attività di assistente sociale.” (IV Intervista Vedi

Allegato). Molto importante, però, è soffermarsi sul ruolo che

l’organizzazione gioca nel promuovere setting riflessivi.

4. L’apprendimento organizzativo. Settore Pubblico e settore Privato

Nella maggior parte dei casi analizzati, nonché nelle realtà dei servizi

pubblici, l’atteggiamento riflessivo è assunto in quanto necessario per

gestire il proprio lavoro ma, non ci sono specifici strumenti che la

sostengono, quali l’autovalutazione, la valutazione professionale e la

supervisione, in quanto non rappresentano pratiche lavorative e riflessive

riconosciute e accreditate dall’organizzazione.

“Nel nostro servizio non sono previsti precisi strumenti e metodi

“riflessivi”, bensì questo, nel mio caso, si traduce in un’attività individuale

che raramente riesco ad intraprendere con altri colleghi soprattutto se questi

hanno un’altra formazione professionale, mi riferisco ad esempio a figure

come quella dei medici e degli psicologi.” (Vedi Allegato XIV Intervista).

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Nella realtà emergono resistenze personali e organizzative. Partendo da

questa premessa occorre fare una disinzione tra settore pubblico e privato.

E’ soprattutto nel pubblico che si incontrano tali resistenze, anziché nel

privato, nel quale, e secondo quanto dalla ricerca emerge con evidenza,

l’apertura al cambiamento, favorevole all’innovazione e alla conformità

continua a quelli che sono gli standard di qualità delle prestazioni e servizi

erogati, rappresenta la condizione necessaria per la sopravvivenza stessa

della struttura. In riferimento a quanto detto, incentivare gli apprendimenti

individuali e collettivi, inverando momenti di confronto continuo,

applicando pratiche valutative sull’operato e moduli rispondenti a parametri

di qualità, ne costituiscono il motore funzionante. La stessa formazione dei

dipendenti deve essere continua e aggiornata. L’aggiornamento e la

formazione continua contengono sempre, almeno potenzialmente, una carica

di cambiamento del modo in cui si realizzano le attività professionali e del

profilo stesso delle professioni. Essi possono sviluppare questa carica solo

se si inseriscono in un contesto abituato a gestire il cambiamento, a produrre

nuove conoscenze, ad andare oltre le proprie esperienze, anche di successo,

superando quegli equilibri magari validi ieri ma che possono essere deleterei

domani. Il concetto di formazione continua deve essere assolutamente

inserito in un contesto organizzativo disposto all’innovazione, e al

miglioramento delle proprie prestazioni, la volontà positiva insita nei

processi di formazione continua deve tradursi in volontà personale,

professionale ed organizzativa.

E’ nel pubblico che sono maggiormente rilevabili resistenze interne alla

professione. Queste, determinate da più fattori, che sono probabilmente da

addebitare alla sfiducia verso il cambiamento, contraddittoria in una

professione che, invece, basa la sua ragione d’essere sul cambiamento, da

una stanchezza generazionale, quasi una risacca, un non aspettarsi niente di

nuovo e buono nonostante gli sforzi profusi quotidianamente nel lavoro e

dall’insofferenza e timore per eventuali richieste di prestazioni avvertite

come “astruse, improprie, estranee al proprium storico della professione”,

soprattutto lontane dalla propria consueta attività di lavoro con l’utente, al

riparo e/o nella ristrettezza delle mura del servizio.

Il lavoro degli Assistenti Sociali, è strettamente collegato al contesto nel

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quale si svolge. Etimologicamente, il termine contesto deriva dal latino

contextus: la valenza sostantivale del morfema, ben coglie il significato di

“canovaccio sociale”, rete dei punti connessi, all’interno e all’esterno della

quale gli Assistenti Sociali intervengono, consapevoli che, se è in questa

fitta trama che si sviluppano e attecchiscono disagi e bisogni, è anche in

essa che vanno pensate strategie, ricercati, rivalutati e potenziati mezzi e

risorse necessarie alla fuoriuscita dalla morsa del malessere affinché

l’intervento professionale, la relazione d’aiuto, muova al cambiamento.

E’ evidente che i contesti e le persone cambiano continuamente attraverso

l’adozione di usi e stili di vita nuovi. Mutano, di conseguenza, bisogni

materiali ed immateriali degli individui e diviene quindi strategico

individuare le metodologie del lavoro sociale che, di volta in volta,

consentono alle persone di attivare adeguati percorsi di risposta ad essi.

Un contesto organizzativo chiuso non favorisce la crescita dei suoi membri,

i quali in uno stato di abbandono accrescono incertezza, demotivazione,

alienazione nel proprio lavoro, e dalla quale dipende un’accettazione passiva

e acritica della stati generata ed una routinarietà dell’operatività.

Un forte impedimento a tali cambiamenti è rappresentato, anche, dalla

mancanza di potere della professione, che condiziona il cambiamento nei

servizi in cui gli assistenti sociali operano, anche quando sono in palese

contraddizione con l’etica e la filosofia della professione. Lo stesso lavoro

degli assistenti sociali raramente viene considerato un servizio di

importanza primaria, perché la sua utilità non è mai del tutto chiara,

soprattutto a coloro che ne rappresentano i principali stakeholders.

In generale le definizioni e funzioni attribuite alla riflessività, dagli

intervistati, esprimono un elevato grado di coscienza sulla sua importanza,

non solo per la definizione di un progetto di aiuto efficace ed efficiente, ma

anche per interrogarsi costantemente e criticamente sul significato e sugli

esiti del proprio lavoro, sul proprio ruolo, sul contesto organizzativo e

sociale di cui si è parte, e questo incide e si riflette sulla identità

professionale.

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5. Habitus riflessivo e Formazione permanente

Le assistenti sociali affermano che la riflessività influisce in maniera

considerevole sulle competenze metodologiche e relazionali. Queste

corrispondono alle dimensioni giudicate strategiche nella costruzione

identitaria; perciò la riflessività assume un ruolo importante nella

definizione del sé professionale. Il processo di definizione identitaria si

sostanzia non solo di elementi concreti e legati alla prassi ma anche di

dimensioni remote come le motivazioni e i valori; perciò la riflessività

dovrebbe assumere a proprio oggetto non solo questioni tecnico-pratiche ma

anche altre dimensioni non meno significative.

La conoscenza - quella che conta per l’identità professionale - è per lo più

implicita, ossia appresa attraverso pratiche quotidiane acquisite in modo

spesso automatico. E’ proprio nel rendere esplicito ciò che è implicito che

risiede il valore della riflessione possibile in ambito formativo sulla propria

professionalità: una riflessione che restituisca significati al professionista

rendendolo consapevole anche delle sue premesse. Imparare sempre: una

necessità e un obiettivo delle moderne società.

Non si può affrontare la complessità del vivere quotidiano, il rischio del

cambiamento, la pluralità di ruoli a cui donne e uomini devono rispondere,

la velocità dei cambiamenti e la molteplicità delle transizioni, senza un

lavoro costante di riflessività e di apprendimento.

Imparare sempre per orientarsi, per scegliere i propri percorsi, per usare le

informazioni, per sviluppare le competenze necessarie nei diversi contesti,

nelle diverse carriere e ruoli, nelle varie stagioni della vita, per sviluppare

un pensiero creativo e responsabile. In riferimento al concetto di formazione

permanente, tutti gli intervistati hanno espresso l’importanza che essa

riveste ai fini dell’efficacia ed efficienza dell’intervento professionale.

“Come già definito, ho necessità di tali attività di riflessione, di un percorso

formativo costante, di attività di valutazione, e gli esiti di queste attività mi

portano ad un continuo mettere in discussione me stesso come

professionista, quindi dopo una parziale se pur normale sensazione di

disorientamento, non possono che esserci ripercussioni in positivo.”(IV

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Intervista vedi allegato). “Nel mio lavoro è indispensabile aggiornarmi

continuamente. Questo è un campo di addestramento dove c’è sempre da

imparare e metterti in gioco.” (Vedi Allegato VII Intervista).

“Il concetto di formazione permanente è fondamentale per vedere e ri-

ponderare gli interventi e le metodologie utilizzate in passato.” (vedi

Allegato IX Intervista). La formazione continua, dunque, è indispensabile

per operare nella mutevolezza che caratterizza le diverse situazioni che si

affrontano e il contesto nel quale si agisce, essa promuove momenti deputati

alla riflessione sulle impostazioni mentali e operative, ma attiva anche uno

spazio vivace e interattivo di scambio di esperienze.

La maggior parte dei corsi di aggiornamento sono organizzati dall’università

o dall’ordine professionale, raramente l’organizzazione, soprattutto quella

pubblica si occupa della formazione dei propri operatori e, la partecipazione

ad essi dipende molto dalla disponibilità di tempo. E’ emerso, inoltre, che in

alcuni casi, la non partecipazione, ai corsi di aggiornamento e/o seminari,

dipenda anche da una crescente demotivazione, in alcuni professionisti,

dovuta al fatto che non si riscontra, poi, una risposta effettiva a quelli che

sono i bisogni, i problemi espressi che caratterizzano il lavoro quotidiano.

“Io ho bisogno di imparare continuamente, anche dopo trent’anni che opero,

ma, penso che i corsi, i seminari non servino a nulla, in quanto non ti

aiutano poi a gestire la quotidianità e la realtà. Inoltre ritengo che chi fa i

seminari debba operare in questo campo, altrimenti sarebbe uno che parla di

un qualcosa che ignora, a lui estraneo. Una volta che noi portiamo le nostre

esperienze, anche negative, in merito ad esempio all’organizzazione di cui

siamo membri, si dovrebbe poi, attivare una rete, che ci permetta di

migliorare le cose e le esperienze negative che riportiamo. Che ci vado a

fare se quello che poi espongo e recepiscono rimane lì, lettera morta.

L’unica cosa positiva e che si attiva un momento in cui si scambiano le

diverse esperienze. Il corso di formazione deve dare, ma deve anche aiutare

chi vi partecipa a poter affrontare le problematiche riscontrate per migliorare

il servizio e l’operato. Io tutto ciò non l’ho mai riscontrato.” (Vedi Allegato

XII Intervista). Di conseguenza i corsi di aggiornamento e più in generale il

concetto di formazione permanente devono investire ed insistere

nell’incentivazione di un rapporto dialettico e costruttivo tra teoria e realtà,

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e divenire spazi nei quali entrambi possano incontrarsi, dialogare e

decostruirsi vicendevolmente affinchè si possano “formare” soggetti più

responsabili e in grado di agire consapevolmente e professionalmente,

accompagnandoli ad “accompagnare”. La formazione permanente ha

pertanto il compito arduo, fra gli altri, di rinnovare e recuperare le

dimensioni di professione e di servizio. Non ci può essere una vera qualità

della formazione ed un’ottimizzazione dei percorsi formativi se non si ha

senso di sé, autostima e fiducia in se stessi e, il rischio è quanto mai forte se

alla carenza di iniziative formative si aggiungono la scarsa diffusione delle

pratiche valutative applicate agli interventi dagli assistenti sociali e il

mancato radicamento dell’abitudine alla continua riflessione sulla prassi

attuata in un’ottica prossima a quella della ricerca azione.

La situazione in cui le assistenti sociali agiscono richiede lo sviluppo di un

habitus riflessivo, in quanto “la pratica si muove non in quel terreno stabile,

elevato, dove i professionisti potrebbero far uso di quelle teorie e tecniche

fondate sulla ricerca, ma per lo più in quella pianura paludosa ove le

situazioni sono grovigli fuorvianti che non si prestano a soluzioni

tecniche”248.

Lo sviluppo di un habitus riflessivo rappresenta una grande opportunità per

le assistenti sociali. L’adesione convinta al paradigma della riflessività dà

all’assistente sociale la possibilità di migliorare l’efficacia tecnica e

metodologica del suo intervento e al tempo stesso gli offre una risorsa

preziosa per recuperare pienamente la sua funzione:

lo sviluppo di un habitus riflessivo rappresenta una risorsa per consolidare la

dimensione collaborativa nel lavoro fra assistenti sociali. La competenza riflessiva

autenticamente intesa implica l’assunzione di un atteggiamento di apertura e di rimessa

in discussione delle proprie azioni e perciò rappresenta in sé una condizione facilitante

la costruzione di una cultura aperta alla condivisione. Considerare l’investimento sulla

riflessione come compito esclusivamente individuale tradisce il suo significato e rischia

di ingenerare autorefenzialità;

lo sviluppo di un habitus riflessivo rappresenta una risorsa per l’innovazione.

Correttamente inteso l’approccio riflessivo porta ben al di là della semplice rottura

rispetto agli schemi tradizionali e al sapere pre-costituito in quanto contiene un enorme

248 Schön D.A., Il professionista riflessivo., cit. p. 340

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potenziale di cambiamento dentro le organizzazioni che occorre avere il coraggio di

assumere.

Il questa logica assume senso la relazione tra riflessività e habitus di ricerca,

per superare questa situazione di impasse.

Sviluppare una pratica riflessiva consente di declinare la ricerca

“dall’interno” della propria professione assumendola come orizzonte di

senso e di significato nella gestione della quotidianità; la ricerca si radica

nella pratica e smette di essere una scelta tecnica divenendo espressione di

quel sapere pratico che compenetra l’identità professionale della figura

professionale in oggetto.

La riflessività come forma mentis, poggia sulla capacità di interrogare se

stessi e il proprio agire, di costruire risposte documentate e disponibili per il

confronto, di accostare il compito in modo dinamico senza con ciò negare il

riferimento ad alcuni valori principali cui ancorare il senso delle proprie

azioni. “L'atteggiamento curioso dell'assistente sociale permette

l'accrescimento del proprio sapere teorico e pratico. Le attività di ricerca

consentono all'assistente sociale di sviluppare una conoscenza approfondita

sui fenomeni e bisogni che incontra nel lavoro quotidiano, e quindi di

scoprire anche nuovi modi di agire professionale. Data l’importanza

strategica occorre evitare che l’habitus riflessivo rimanga appannaggio di

pochi e avvalorare le possibilità dischiuse dalla nuova epistemologia della

pratica professionale ai fini della delineazione di una corrispondente

epistemologia della formazione che supporti intenzionalmente tale processo

considerando la formazione stessa come “un laboratorio di pensiero

riflessivo”. (Vedi Allegato XV Intervista).

La competenza si configura come “una inesauribile conversazione riflessiva

con la situazione. Si è competenti quando si decidono le azioni mentre si

compiono, le si valuta e le si corregge seduta stante, si esplorano gli

elementi impliciti nelle azioni stesse per tenerne immediatamente conto in

quelle successive, si ristrutturano significati e fini contemporaneamente

all’impiego di determinati mezzi, si scopre, si genera e si condivide un

senso di tutto ciò che si fa, senso che si adatta e segue ogni modificazione

dei dati del sistema e delle dinamiche relazionali che lo accompagnano”249.

249 OCDE-CERI, Definition et selection des competences: fondements, théoriques et conceptuels. Document de stratégie, Bruxelles, 2002., citato in convegno “La gestione della classe”, Milano 12.12.2008., [online]. Disponibile su:< http://www.uciim-

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Affinchè quanto detto sia realizzabile, occorre che i professionisti in

questione “sentano” il proprio lavoro.

6. In conclusione...

La mancata interiorizzazione della mission, propria di questa professione,

comporta chiusura e soprattutto discredita la comunità di appartenenza di

questi professionisti e condiziona, anche, l’immagine che è conferita

all’esterno, nonchè ai diversi partners, tra cui la comunità civile e l’utenza

che ne rappresentano i principali stakeholders.

Questo atteggiamento di arroccamento e di perpetuazione del dato,

accompagnato da un’organizzazione, che nel pubblico, è assente, non solo si

esprime come remora alla riflessività e conseguentemente al cambiamento e

all’apprendimento, al confronto - dalla quale discende la consapevolezza del

proprio operato, permettendone di evidenziarne i limiti sulla quale

intervenire per migliorare - impedisce ai servizi in generale e, alle figure

professionali, in particolare, che credono in questo lavoro, di crescere e di

assolvere alle funzioni per le quali il servizio sociale esiste.

L’assenza di uno spazio professionale, mentale e fisico, ha influenzato il

processo di condivisione e valorizzazione delle differenze tra assistenti

sociali, in cui si potesse mettere in gioco e in circolo, competenze,

atteggiamenti, conoscenze.

Sono molte le realtà che non investono sui legami sociali e sono prive del

senso di società civile, rappresentative di una cultura utilitaristica, serva dei

favoritismi e ancella della politica, in cui soppravvive una logica di deleghe

di compiti e deresponsabilità in merito al benessere della comunità.

“Credo che l’incertezza di come agire non sia dovuta al fatto che non ci

siano procedure specifiche o normative di riferimento, ma piuttosto sia

dovuto al fatto che, dopo trent’anni di questo lavoro, il benessere della

persona non importa a nessuno, non interessa ai politici, e forse neanche a

noi che facciamo questo lavoro. C’è pochissima tutela delle persone in

genere, c’è una continua delega di responsabilità. Non ho tante incertezze

sul “come” ma sul “se posso”, sulle risorse, su come poter fare per quella

persona e tutelarla. Le incertezze sono sul sistema.” (XIII Intervista Vedi

Allegato).lombardia.it/Materiale.html > [Data di accesso: 24/02/2010].

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Prima di inverare le presupposizioni finora argomentate, occorre riflettere

sulle radici del problema, nonchè sulla cultura che domina, altrimenti le

teorie apprese, in sede di formazione di base e continua, si trasformano in

utopia, e continua ad essere alimentatato lo stato di disincanto nel quale

viviamo. Oggi si configura un sistema nel quale pochi tessono le trame di

vita e i destini delle persone. La tutela dei diritti della persona deve essere

priorità di tutti, affinchè si possano inverare i principi ispiratori dello Stato

sociale e, questi non possono essere perseguiti unicamente da chi li

interiorizza e li traduce come filo conduttore del proprio lavoro.

La tutela dei diritti non può dipendere solo dal buon senso e dalla

professionalità di pochi.

Gli assistenti sociali tesi a contrastare una latente disaffezione e una

percezione di transitorietà e insicurezza, sanno che è anche la volontà ad

apportare ogni giorno qualcosa di buono, umano, corretto e di qualità nel

lavoro. Questo contribuisce a fare la differenza per gli utenti e per i servizi.

La contiguità e attenzione al bisogno materiale e immateriale rende gli

assistenti sociali ansiosi risolutori di problematiche rispondenti a livelli

sociali, economici e politici intersecati, sfuggenti le proprie responsabilità.

Naturalmente la sfida oggi per il Servizio Sociale aziendale é quella di

misurarsi con la propria capacità (qualitativa ma anche quantitativa) di

costruire, concertando con gli altri operatori e soggetti della società civile,

percorsi integrati, affinchè siano relamente perseguite le funzioni che

identificano l’assistente sociale come agente promotore di benessere sociale,

le cui funzioni possono essere così sintetizzate:

- funzione curativo-riparativa, di aiuto ai singoli o gruppi per promuovere il

cambiamento, utilizzando le risorse personali, istituzionali, sociali, comunitarie;

- funzione organizzativo gestionale, all’interno delle organizzazioni per

promuovere ed adeguare le risorse ai bisogni e alla domanda sociali;

- funzione preventivo-promozionale, attivata all’esterno dell’organizzazione,

alfine di favorire processi di integrazione, di partecipazione, di crescita di solidarietà ed

accoglienza, di monitoraggio e ricerca sulla realtà sociale.

Conclusioni

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Un buon operatore sociale, cioè un operatore competente, è colui che alla

routine preferisce l'agire pensato e per questo si qualifica come ricercatore

nella quotidianità; è colui che mira a fare della pratica il luogo in cui si

elabora sapere, che riconosce la necessità di aprirsi al confronto con gli altri

e con la realtà, per riuscire a dare senso alle cose che accadono e per

costruire nuove ipotesi di azione. Mantenersi aperti alla problematicità del

reale sottrae alla sicurezza che è data dall'affidarsi alle teorie date e alle

azioni routinarie ma, apre all'emergere dell'inedito e dell’impensato.

Nel lavoro sociale si parte sempre dal contatto con una realtà incerta,

sconosciuta, di difficile interpretazione, sia per l'operatore che per la

persona in difficoltà. Per aprirsi la strada in queste situazioni complesse,

situazioni dove nessuno ha già chiaro in partenza dove si deve arrivare e

come, l'operatore deve «riconoscere come imprescindibile e necessario ciò

che l'altro dice e fa per capire quale strada è percorribile e verso quale

direzione».250

Proprio per quest'impossibilità di disporre di un sapere a priori che dica

cosa è bene e cosa è giusto fare, il mestiere degli operatori sociali è tanto

difficile. Spiega Mortari: «L'elevato tasso di problematicità dell' agire è

conseguente al fatto che presenta spesso casi unici, differenti l'uno dall'

altro, per i quali non sono disponibili linee precodificate di azione. Ogni

caso richiede uno specifico processo d'indagine finalizzata a promuovere

una comprensione contestuale attraverso cui sia possibile cogliere il profilo

originale della situazione». Il sapere che serve all'operatore, conclude, «non

può dunque che essere un sapere ipotetico, al congiuntivo e destinato a una

revisione critica continua».

A tal fine centrale per gli operatori e la necessità di confrontarsi sull'

esperienza nella miriade di situazioni in cui sono chiamati a lavorare con

altri colleghi, in équipe o con colleghi di altri servizi per affrontare un caso.

La pertinenza degli interventi effettuati può essere oggetto di valutazione

interrogando riflessivamente le pratiche, cioè riaprendole, rimettendole in

250Borgna E., Camarlinghi R., D’Angella F., Sartori P., gennaio 2008., "Possiamo ancora cambiare?", numero di ANIMAZIONE SOCIALE (n.1/08)., [online]. Disponibile su:<.http://www.ceasmarotta.it/download/animazione%20sociale%20(1).doc.> [Data di accesso: 01/03/2010].

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discussione, cercando di dare un senso condiviso agli esiti spesso imprevisti

perché imprevedibili.

Tutti noi tendiamo a stare dentro un pensiero routinario, ad applicare moduli

di azione ripetuti. L'economia dell' agire quotidiano lavora infatti ad

applicare un automatismo del pensiero. Viviamo spesso le cose che

accadono in modo irriflesso, senza ritornarci riflessivamente sopra.

Prendiamo decisioni stando con la mente incapsulata dentro criteri cognitivi

il cui valore è dato per scontato.

Presa nella morsa della frenesia attivistica, la nostra pratica quotidiana

rischia così di restare senza l'ombra di una riflessione. In questo modo ciò

che viviamo, ciò che accade nelle relazioni umane e professionali rimane

mancante di una possibile significazione e il nostro vissuto non diventa

esperienza. Il vissuto è il modo diretto e naturale di vivere le cose che

accadono, l'esperienza invece prende forma quando il vissuto diventa

oggetto di riflessione, quando cioè portiamo sulle cose lo sguardo del

pensiero. L'operatore competente è allora quello che sta sul suo vissuto con

il pensiero e così guadagna sapere dall’esperienza. Il suo fare diventa sapere

perché c'è un accompagnamento riflessivo.

Apprendere dal proprio fare è possibile se pensiamo anche i pensieri che

hanno accompagnato il nostro agire. Occorre cioè portare alla luce quella

che viene definita «conoscenza tacita», vale a dire quei criteri in base ai

quali definiamo le nostre decisioni e formuliamo i nostri giudizi

inconsapevolmente, oppure, più radicalmente, il «sostrato profondo di

opinioni mute» (Merleau-Ponty) in cui è immersa la nostra intera vita.

Spesso nel nostro fare pratico si incorporano modi convenzionali e

conservatori di fare le cose che non vanno rinforzati ma decostruiti

attraverso una lettura critica del nostro fare e pensare. Questo implica una

riflessione forte, un sapersi confrontare con ciò che può aprire altre

prospettive di lettura delle situazioni, al fine di svelare il nascosto che c’è

sotto le pratiche. Stare in una dimensione critica vuol dire stare nella

incertezza; stare là dove si sa che i propri paletti del pensare non sono paletti

duri; sono paletti fragili in modo che possano essere smontati e rimontati

continuamente. Solo così funziona il pensiero critico perché il pensiero

critico è criticare innanzitutto i propri pregiudizi, le proprie routine.

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Autocriticarsi, cioè cercare di vedere sempre i limiti del proprio pensiero.

Proprio nel momento in cui le persone si rendono disponibili a mettere in

discussione i propri pregiudizi; le proprie rappresentazioni implicite, a

decostruire le proprie routine cognitive, riescono a rileggere criticamente le

esperienze di lavoro, producendo in questo modo un apprendimento dall'

esperienza, riuscendo cioè a fare «della pratica il luogo in cui si elabora

sapere».

Ma è proprio questa operazione di decostruzione del proprio pensiero che è

faticosa perché vuol dire stare nel vuoto, ossia stare «in povertà di spirito e

in purezza di cuore»...questa è un' espressione un po' mistica di Marìa

Zambrano, una grande filosofa spagnola vissuta nel '900251. In povertà di

spirito vuol dire stare in una situazione in cui non ho tante certezze perché

se mi attacco alle mie certezze divento incapace di dialogare con gli altri.

Spesso ci attacchiamo alle nostre certezze perché abbiamo paura di cadere

nel vuoto. Se invece riusciamo a sentire che la messa in discussione delle

nostre idee non ci annulla, questo stato di povertà di certezze ci permette di

incontrare l'altro e di affrontare il dialogo in modo costruttivo.

Al fine di allestire un contesto che consenta la co-costruzione di pensiero a

partire dall' esperienza occorre costruire gruppi dove le persone vengano

dalla stessa pratica ma da luoghi differenti, ovvero occorre non mettere

insieme operatori della stessa comunità, perché non faranno che rafforzare i

loro punti di vista e il loro confrontarsi più che un co-costruire sarà una

somma di pensieri che riconfermano l'esistente. Mettere insieme nei gruppi

persone che portano visioni differenti è la condizione necessaria affinché si

crei almeno una differenza di posizioni che muove il pensiero; se non ci

sono differenze non c’è discussione e senza quest’ultima il pensiero non si

mette in discussione, non c’è reale cambiamento. Infine, non si apprende

dall’esperienza se il gruppo non è ispirato a quelli che sono i «principi etici

fondamentali», che sono quelli del rispetto ma anche del parlare con

schiettezza sulle cose, perché altrimenti il riflettere sull' esperienza è una

finzione. Poter discutere implica vedere l'oggetto di lavoro separato da noi

che ne parliamo, confrontarsi significa mettere in atto tutte le visioni

possibili per vedere la cosa da tanti punti di vista. Ma questo significa

251 Rella F., Frank G., 2003., Sentimento e Memoria., Trame/5., Milano., Pendragon., op. cit. p.73

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mettersi in gioco e non stare nell' iper uranio tranquillo delle teorie e delle

proprie convinzioni.

Apprendere dall’esperienza sembra essere la modalità conoscitiva più

adeguata anche nelle situazioni di lavoro con l'utente. Nel lavoro sociale

l'altro non è mai un puro oggetto di trattamento. Si ha bisogno di

quest’ultimo per capire qual è il problema e la strada da percorrere per dare

senso alle cose che di volta in volta accadono nella relazione con l’altro.

La facilitazione dell'apprendimento non è sempre un processo

interventistico, anzi spesso è un processo di riduzione degli spazi di onnipo-

tenza sull'altro.

Polo Identitario Riflessività: -Saper essere e divenire

-Sviluppo Professionale

Attività -Identità professionale

Riflessiva

Polo Pragmatico Riflessione: - Sapere e Saper fare

- Azione professionale

- Sapere condivisibile

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Allegato

“Le Interviste”

(I Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Comune)

Rilfessività e sapere pratico

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Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Assolutamente si. Penso che questa sia un importante veicolo per

apprendere dall’esperienza, dal momento che si opera in contesti in cui le

soluzioni alle difficoltà espresse dagli utenti non sono rintracciabili in testi

ma richiedono intuizione, dinamicità, operatività, concretezza e un sapersi

muovere in un contesto di cui spesso si ingnorano i servizi che lo

costituiscono. Queste qualità sono indispensabili in particolar modo dinanzi

a casi caratterizzati da multifattorialità, (quali ad esempio la mancanza di

una rete familiare, la morte di un parente, l’assumersi responsabilità di cura

di minori, l’ignoranza in merito ai diversi sussidi/diritti di cui si può

godere), i quali richiedono soprattutto competenza e un sapersi muovere

entro una rete di servizi al fine di garantire il benessere dell’utente. Molto

spesso si disconoscono i servizi e le prestazioni erogate sul territorio, in

questo senso l’operatore in prima persona, secondo propria coscienza, deve

essere sempre aggiornato ed attivo, per farsi egli stesso parte di una rete che

molto spesso non funziona e che i vertici delle amministrazioni pubbliche

non sostengono, in quanto non si assume il proprio compito, non viene

interiorizzata la mission e vige un sistema di deleghe. Non vi è la cultura del

confronto e della cooperazione.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Le società si evolvono così come anche le dinamiche ad essa connessa. Le

situazioni problematiche sono diverse e complesse, esse esigono una lettura

sistemica. L’esperienza è il canale principale dalla quale inconsapevolmente

attingiamo il nostro modo di interpretare e di costruire il problema.

Dall’esperienza io, ho potuto creare dei modelli/ schemi, anzi categorie

mentali, attraverso la quale riesco a categorizzare alcuni comportamenti che

mi consentono di comprendere meglio l’utente, leggere il suo bisogno, e di

connettere più aspetti. Riflettere sull’esperienza mi rende consapevole dei

dubbi che si hanno e delle inefficienze, che possono riguardare anche le

pratiche lavorative. Essa ti permette di metterti in gioco continuamente

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permettendoti di migliorare. In un ambiente di stasi, come quello

dell’amministrazione pubblica, di sicuro la riflessività è un potenziale

fattore di innovazione e cambiamento, ma è molto difficile mettere in

discussione la cultura consolidata, che guida l’operatività dei singoli e li

tiene al riparo dall’incertezza. Io ci sto lavorando.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Attraverso il confronto con altre figure e attraverso il continuo

aggiornamento. E’ molto importante andare oltre, allargare l’orizzonte e non

limitarsi alle routine quotidiane. L’informazione e la continua revisione del

proprio operato sono importanti canali di crescita.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Come dicevo precedentemente, sicuramente il bagaglio teorico è

importantissimo, in quanto permentte di conferire organicità al proprio

operato funge da supporto al nostro lavoro, così come la conoscenza delle

leggi che regolano la nostra attività, ma nella definizione del problema e

conseguemtemente nella definizione della soluzione, subentrano altri fattori

molto importanti, quali l’intuizione; la predisposizione ad alcune capacità,

l’ascolto, la comprensione, la capacità di lavorare con il dubbio, con

l’insicurezza, con la consapevolezza di non farcela in alcuni momenti. Tutte

queste si acquisiscono con l’esperienza.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Di sicuro l’incertezza non è un limite ma un’occasione di riflessione di

percorsi possibili da intraprendere per la ricerca di soluzioni e, di attivazione

di risorse sia professionali che istituzionali. La conditio sine qua non, è non

limitarsi alle quattro mura del proprio ufficio ma di utilizzare tutte le risorse

presenti sul territorio, quindi è fondamentale attivarsi per attivare.

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Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Moltissimo, ma è importante anche saperle gestire in modo professionale.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Assolutamente. Il confronto è un importante fattore di crescita, in quanto

non si deve dare per assodato di sapere ogni cosa, ma al contrario si può

apprendere dall’esperienza e anche da quella degli altri.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Non ci sono specifiche pratiche lavorative e organizzative dedicate al

confronto. Il tutto avviene in maniera informale e principalmente tali

momenti sono promossi da me. Non c’è alcuna sala o ufficio apposito,

ovvero alcun spazio e tempo dedicato a questa “attività”. E’ proprio in tali

momenti che introduco alcuni temi, (quali la partecipazione a bandi

enunciati dalla regione, l’utilizzo di faldoni per archiviare le procedure

attivate, l’utilizzo di una stanza apposita per i colloqui,...) La realtà è molto

arretrata, non vi è la logica della cooperazione e della progettualità. Sono

state molte le occasioni in cui ho personalmente elaborato dei progetti per

accedere a finanziamenti, che altrimenti non sarebbero stati presi in

considerazione. Il settore servizi sociali è ampiamente disconosciuto e non

si investe sui servizi alle persone, sui legami sociali e in generale sulla

comunità. Non si ha il senso del benessere civile e la consapevolezza di una

realtà in cui tutte le fasce della popolazione sono a rischio. Il servizio sociale

non è una mera esposizioni di problemi alla quale si conferisce una risposta

meccanica.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.No, almeno formalmente.

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Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Una relazione feconda e costruttiva in quanto la figura in oggetto lavora

con persone, sul territorio, e con tutte le dinamiche ad essi connesse. La

figura in oggetto lavora insieme agli altri, in una logica di rete. In questo

senso deve mantenere una posizione di continua apertura ai cambiamenti,

alle innovazioni, al confronto, affinchè riesca a garantire non solo una

lettura reale del problema, ma anche una risposta efficiente, garantendo la

qualità del servizio e delle prestazioni erogate. La riflessività permette tutto

ciò.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.No, sono io che mi attivo nel momento in cui incontro difficoltà

chiedendo informazioni a colleghe di altri enti, oppure mi documento da

fonti scritte.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Si certo, riflettere, sviluppare una formazione continua, mettere in

discussione continuamente il proprio operato ti fa crescere e ti permette di

agire con più professionalità e soprattutto ti permette di mirare il problema

garantendo poi il benessere della persona. L’ente in cui opero non promuove

o comunque non è informato sui corsi di aggiornamento, sono io che

attraverso il passa parola tra colleghe, mi attivo per partecipare.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.E’ importantissima in quanto apre uno spazio di rifilessività sulla lettura

del problema, sugli interventi attuati e quindi sulle risorse professionali e

istituzionali attivate. Per cui ti aiuta ad apprendere e a migliorarti.

Purtroppo nel comune non c’è un archivio presso il quale posso consultare

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relazioni su casi passati. Sono io che da poco ho avanzato la richiesta di

poter utilizzare i fascicoli per archiviare il mio lavoro. Io lavoro qui da dieci

anni, e non ho nulla del lavoro svolto sinora, e di quello svolto prima che

subentrassi io.

(II Intervista Assistente Sociale Azienda Sanitaria Locale)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.La riflessione è necessaria in ogni processo altrimenti si parla in modo

istintivo e non concreto. Il pensiero deve essere sempre al di sopra del

linguaggio, si deve pensare e poi parlare, riflettere su quello che si vuole

dire, questo è importante per valutare la persona che si ha di fronte e per

valutare anche l’operato degli altri. Di conseguenza tutte le situazioni

problematiche devono essere supportate da un atteggiamento di riflessività.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Penso che abbia una valenza abbastanza dominante altrimenti non ci può

essere organizzazione e pianificazione del lavoro.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Penso che siano presenti in tutti gli strumenti che noi utilizziamo, in

quanto utilizziamo strumenti che garantiscono l’integrazione, questi

necessariamente esigono un confronto tra le diverse figure professionali

(assistente sociale, psicologa, sociologa e pedagogista), e tutti hanno una

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valenza riflessiva. Gli strumenti utilizzati sono protocolli che sono di

raccolta di informazioni e di valutazione.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.L’esperienza aiuta a focalizzare e ad analizzare gli eventi, le teorie ci

aiutano a percorrere e a valutare un processo operativo.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.E’ sopratutto in queste situazioni che subentra la riflessione, in quanto

questa permette di analizzare al fine di comprendere la situazione,

consentendo di prendere decisioni e intervenire nell’immediatezza. Ogni

situazione/problema che si presenta è caratterizzata dall’incertezza. Il nostro

servizio è fluttuante, il lavoro è dinamico, in quanto si ha a che fare con

persone, che possono essere gli utenti ma anche altre figure professionali,

appartenenti ad altri enti (comuni, csm). Non è un lavoro statico, se non in

merito ai protocolli che utilizziamo, è tutto in evoluzione.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Le emozioni cerco di tenerle un pò a freno, anche perchè un

coinvolgimento eccessivo non darebbe aiuto, si attuerebbe un processo poco

professionale. Importante è il distacco per la comprensione di tutti gli aspetti

che caratterizzano il problema.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Il confronto con i colleghi è quotidiano, questa è una pratica presente. Il

confronto è sinergico, in quanto ognuno, nel rispetto delle prorpie

competenze e del proprio ruolo valuta la situazione, il caso, quest’ultimo

non viene letto da un solo punto di vista. Questo è importante in quanto

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molto aiuta a vedere tanti angoli della persona, e aiuta a vedere il problema

in un ottica multifattoriale e non unidirezionale.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Nel servizio sono previsti dei momenti formali dedicati al confronto, sono

dei momenti in cui facciamo una valutazione complessiva, globale di tutti i

casi che abbiamo. Questi momenti avvengono quotidianamente tra colleghe

e una volta a settimana con la responsabile del servizio.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Si, è aperta a questi momenti.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Una relazione importante e necessaria perchè ti permette di promuovere

una comprensione a 360° sulle diverse problematiche, che sono in continua

evoluzione.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Non ci sono specifiche procedure di valutazione professionale, se non

questo confrontarsi giornalmente, che aiuta soprattutto nel momento in cui

vi è una criticità del problema che comporta un incertezza rispetto all’agire.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Queste sono attività che facciamo giornalmente, accompagnate anche da

corsi di aggiornamento, ai quali susseguono momenti di riflessione e scambi

di opinione. Le valutazioni operate alla fine di ogni momento di formazione

ci aiutano ad avere più consapevolezza di quanto appreso.

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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Le relazioni che scriviamo sono importanti in quanto permettono di

mettere a fuoco il nostro modo di interpretare il problema che sarà poi

oggetto di confronto con le colleghe. Da ciò diventa un potenziale momento

auto-formativo e formativo per tutte.

(III Intervista Assistente Sociale Specialista Unità Operativa di

Neuropsichiatria Infantile)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Si notevolmente, in tutte le situazioni di ordine quotidiano, il mio lavoro

richiede un contatto con situazioni pratiche e concrete e se non si mette in

atto un’attività di riflessione su quello che si sta svolgendo si rischia di

commettere degli errori, è sempre bene fare il punto della situazione,

puntualizzare e concretizzare e agire a livello mentale.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Ha un impatto fondamentale, perchè è importante in quanto ci si relaziona

con situazioni così delicate in cui non si può agire a livello impulsivo o solo

tenendo conto dell’esperienza passata, perchè ogni caso è singolo, è fine a se

stesso, ogni caso è individuale, particolare, quindi questo comporta che per

ogni situazione/caso si deve attivare un atteggiamento riflessivo e trovare la

soluzione giusta. Non c’è una soluzione unica per tutti i casi, non allo stesso

modo, magari con accortezze particolari e con dei cambiamenti si deve

sempre attivare un atteggiamento di riflessione.

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Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Intanto utilizzando degli strumenti obiettivi. Utilizzo in primis uno

strumento comune che è il colloquio clinico che ti permette di leggere la

situazione a primo impatto, poi si passa alla valutazione psicodiagnostica

attraverso l’utilizzo di test psicometrici. Attraverso la valutazione dei

risultati di questi strumenti devo mettere anche qualcosa di mio, gli

strumenti sono obiettivi ma devo anche dare una valutazione attraverso la

mia riflessione.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Sono entrambi importanti, in quanto le teorie ti danno indicazioni a livello

generale e l’esperienza maturata negli anni ti fa capire che ogni caso è

particolare, veramente individuale e allora un intervento che può andare

bene per una situazione non va bene per un’altra. La teoria è tenuta in

considerazione come punto di riferimento, come formazione, come forma

mentis però poi è l’esperienza che ti aiuta nell’immediatezza ad individuare

un problema. Io lavoro con i minori, fino a 18 anni, e ho rilevato che negli

ultimi anni il poblema dell’autismo è in aumento, questo è un problema

così delicato e particolare, e se non avessi avuto casi di bambini autistici,

esaminati in passato, di fronte ad un caso simile avrei avuto enormi

difficoltà. Teoricamente so che cos’è l’autismo, so in che cosa consiste, che

cosa comporta, conosco i tipici fattori comportamentali. Negli ultimi dieci

anni ho avuto moltissimi casi di bambini autistici , e grazie a questa

esperienza maturata, sono in grado di individuare subito se si tratta di un

caso di autismo o meno. Teoria e pratica sono necessariamente inscindibili.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Prendo un pò di tempo, cerco di valutare con più attenzione il problema

che mi viene esposto, per non commettere errori e per non deludere le

aspettative di chi si rivolge a me. Rimango nel vago, prendo tempo e

approfondisco l’argomento e poi mi regolo di conseguenza.

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Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Di sicuro se sento che c’è qualcosa che non mi convince, indago

maggiormente. Il tutto è seguito sempre da una intensa ricerca e valutazione

di tutti gli aspetti che caratterizzano la situazione. Mantengo sempre un

distacco emotivo per avere una visione chiara del problema.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Nel settore in cui lavoro è importante un lavoro di equipe, è importante

che le varie figure professionali si mettano insieme a discutere ogni singolo

caso, perchè altrimenti si rischia di essere troppo limitati e riduttivi. Un

problema di un bambino non può essere valutato solo dal punto di vista

psicologico o medico, è necessaria una valutazione completa. L’intervento

dell’assistente sociale è fondamentale per avere una visione completa della

storia personale del bambino, per conoscere l’ambiente sociale in cui il

minore è inserito, e quello familiare, affinchè si abbia una visione più

precisa della problematica che si affronta. Quindi il confronto è funzionale a

tutto questo.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Ogni mercoledì, in struttura, a fine mattinata facciamo una riunione che

vede la partecipazione di tutti gli operatori, nel quale si discute dei vari casi.

Il tutto avviene in una stanza, un ufficio adibito appositamente.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Si assolutamente. Il confronto avviene anche al di là delle mura

dell’organizzazione in sè, perchè fondamentale è anche un lavoro sinergico

con gli altri enti sul territorio. E’ necessario la collaborazione con gli altri

servizi per leggere tutte le sfaccettature del problema. Ad esempio ci è

capitato un caso di un minore la cui madre era in cura presso il centro di

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salute mentale per problemi di ordine psichiatrico, per cui la collaborazione

è necessaria per ricostruire l’anamnesi dell’utente.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Si assolutamente, perchè la riflessività fornisce degli stimoli, idee nuove

che magari non erano state valutate e che ti permette di osservare. Questa è

un input per individuare nuove strategie, e per favorire sempre un

arricchimento continuo.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Si ci sono momenti dedicati all’aggiornamento, i quali prevedono la

partecipazione a corsi organizzati e imposti dall’ente di riferimeno. Altri

invece, li seguiamo di nostra spontanea volontà, questi sono corsi promossi

dall’ordine professionale, i quali prevedono una libera partecipazione.

Questi rilasciano un attestato e i crediti formativi. Alle fine del corso ci sono

degli strumenti valutativi (schede con domande e risposte che poi dobbiamo

dare), utili per ripercorrere quanto appreso nel corso di aggiornamento.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Si. Dedicare tempo a queste attività è importantissimo in quanto le

materie in oggetto sono sempre nuove ed esigono un aggiornamento

continuo, non si può far riferimento unicamente agli studi effettuati nel

periodo universitario. Le teorie cambiano, i problemi si evolvono ed esigono

risposte nuove.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Si perchè leggere le ralzioni sociali ti aiuta a comprendere i tuoi schemi di

riferimento e di ripercorre la tua interpretazione del problema.

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(IV Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Comune)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Si, reputo fondamentale la capacità di una “riflessione continua” sul

proprio fare. La stessa riflessività diventa basilare allorché l’assistente

sociale ad esempio, che ha da poco concluso un colloquio, deve tessere i

vari punti che ha nella testa, dalla sovrapposizione di elementi di analisi del

caso, impressioni, risonanze emotive, nessi con altre situazioni, con le

problematiche relative al problema, e con l’esperienza professionale. Tutto

ciò, permette di prendere decisioni consapevoli, in quanto fondate su una

conoscenza di ampio respiro, e per evitare risposte di routine, burocratiche o

rituali.

• Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Reputo possa avere un impatto positivo, se pur per noi assistenti sociali

che lavoriamo da tanti anni nei servizi sociali di un ente, quale Comune, la

consapevolezza della ripetitività e cronicità di alcune situazioni, la coscienza

della difficoltà di innescare reali percorsi di cambiamento, ci porta a

scontrarci con la difficoltà di riflettere su ciò che mettiamo in atto.

Sicuramente l’apprendimento riflessivo è un processo in cui tutte le forme di

conoscenza, personale, pratica, critica che possono contribuire alla

comprensione della situazione entrano in gioco.

• Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Se penso a ciò che faccio quotidianamente penso che la scrittura nella sua

accezione riflessiva, “quale strumento facilitatore di percorsi di analisi del

proprio lavoro”, possa essere un valido strumento. Ma molte volte ti devi

scontrare con altri fenomeni che ti fanno modificare la pratica, penso la

valutazione riflessiva sull’ambiente e le “sue” risultanze. La pratica non

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diventa un risultato matematico ma ti fa avvicinare alla perfezione e quindi

al vivere nella realtà.

• Nella di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le procedure

(teorie) standard nella definizione di esso?

R.Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento, si presuppone un’azione professionale non riducibile solo al

fare concreto ma costituita da un “agire pensato, verificato, condiviso,

orientato a creare opportunità più che a predisporre soluzioni”, finalizzato a

sostenere la persona nell’acquisizione/ recupero di competenze sociali, nello

sviluppo della consapevolezza di sé e nell’eserciziodell’autodeterminazione;

questo, può dirci, quanto il processo di analisi e valutazione della

situazione/problema, e il conseguente intervento, si debbano collocare in

una dimensione di intersoggettività e riflessività. Ciò permette di sviluppare

ed adeguare conoscenze, di acquisire capacità di problem solving, evitando

“agiti” spesso suggeriti da una sorta di coazione a ripetere. Ma inoltre,

proprio perché si parla si sapere professionale, di sapere pratico, di teorie e

metodologie, non si può non far riferimento a tutto questo, perché è proprio

l’attività dell’assistente sociale che é una attività professionale complessa

basata su di un corpus di teorie conoscenze, all’interno di un rapporto

interpersonale, che viene definito processo di aiuto, questa professionalità-

attività si deve anche relazionare con fattori: ambientali, potere politico

locale, struttura piramidale del pubblico impiego, disponibilità economica

(peg:piano economico gestionale), legislazione e regolamenti carente e

mancanza molte volte di “autonomia”.

• Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R. L'incertezza rappresenta per me, sia un rischio che un'opportunità e può

potenzialmente ridurre o accrescere il valore dell’attività che andiamo a

svolgere. Nello stesso apprendimento riflessivo, si utilizzano l’incertezza e

gli errori per riuscire a comprendere il proprio agire, o comunque nel

quotidiano a superare gli imprevisti. Basti pensare alla stessa

imprevedibilità nel servizio sociale, come carattere dinamico irripetibile,

plurale e interdipendente degli scambi relazionali, che riduce i margini di

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previsione degli esiti e delle conseguenze dell’intervento: casi di

immigrazione clandestina e non, inquinamento, degrado ambientale,

impoverimento, emarginazione, la velocità con cui si susseguono le

innovazioni tecnologiche, le nuove procedure di accesso ai servizi, possono

creare condizioni difficilmente controllabili.

• Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Le emozioni possono diventare un problema, se penso al colloquio, molto

spesso l’operatore diventa “contenitore delle ansie connesse alla condizione

problematica”, potendosi concedere ben poco spazio mentale per dare voce

alle proprie risonanze emotive, ma l’apprendimento riflessivo riconosce la

complessità, diversità e la forte componente emotiva dell’esperienza,

diventa fondamentale la riflessione critica, come messa in discussione dei

propri modi di comprendere le situazioni.

Apprendimento organizzativo

• Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Esso riveste un’importanza fondamentale, il confronto e scontro, alcune

volte, di fatti permette la costante messa in discussione della routine, per cui

si impara agendo, dove diviene fondamentale il passaggio dalle conoscenze

tacite individuali a quelle esplicite che divengono patrimonio comune.

• Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Sicuramente i continui incontri nell’operatività quotidiana mi permettono

di confrontare il mio operato con i miei colleghi, discutendo nelle riunioni

sui casi che il servizio segue, su nuove iniziative, su progettazione da

mettere in atto, su tutto ciò che implica un chiaro, ma a volte è difficile il

confronto.

• L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Come dicevo, “difficile confronto”, perché molto spesso l’organizzazione

non consente tali confronti, perché incide la standardizzazione delle

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procedure o comunque vi è un carico di lavoro eccessivo che non ci

permette di ritagliare uno spazio sufficiente al confronto fra operatori,

professionalità diverse. Molto spesso l’organizzazione, che deve migliorarsi

e apprendere, dovrebbe cercare di creare nuove conoscenze non solo da

informazioni oggettive, ma anche da intuizioni individuali, favorendo la

nascita di comunità operative in funzione del proprio sviluppo.

• Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca si scontrano e si incontrano

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale, esiste relazione

in rapporto alla collocabilità oggettiva e soggettiva rapportata alla casistica

professionale .

Pratiche riflessive

• Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Nel corso dell’attività che svolgo, svariati sono i momenti di valutazione

professionale. Quereshi propone di considerare la valutazione come

“revisione sistematica degli effetti previsti e non di un intervento, servizio o

politica, in relazione alle attività intraprese per raggiungere gli obiettivi

prefissi”. Acquisire un’ottica valutativa rispetto al proprio lavoro non solo

promuove un “professionista riflessivo” capace di dare senso al proprio

lavoro anche in presenza delle frustrazioni legate all’opacità, all’inerzia, ai

tempi lunghi della P.A.; questa mi occorre a riacquisire il senso e la

direzione di marcia del mio lavoro. A restituire motivazione e capacità di

iniziativa.

• Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Si, come già definito, ho necessità di tali attività di riflessione, di un

percorso formativo sulla messa in gioco personale, di attività di valutazione,

e gli esiti di queste attività mi portano ad un continuo “mettere in

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discussione me stesso come professionista, quindi dopo una parziale se pur

normale sensazione di disorientamento, non possono che esserci

ripercussioni in positivo.

• Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.La documentazione, che consiste in tutto ciò che riguardanti gli utenti, il

servizio, l'istituzione e le tematiche che si stanno trattando, deve essere

essenziale, importante per osservare il percorso effettuato. Forse è possibile

ipotizzare che la scrittura con valutazione etimologica e terminologica,

come atto riflessivo, possa aiutare l’operatore a mantenere una posizione di

maggiore equilibrio sia rispetto alle difficili posizioni in cui è collocato, sia

rispetto ai percorsi di aiuto che quotidianamente tenta di sperimentare, dove

lo scrivere diviene un atto riflessivo nella misura in cui consente

all’operatore una posizione “altra”. Allora scrivere una relazione sociale,

registrare una cartella, o stilare il diario giornaliero, diviene in primo luogo

una necessità, perché legata all’ansia del fare, tipica del lavoro sociale che

rischia di sommergere aspetti che la scrittura consentirebbe di mettere a

fuoco. L’operatore scrive per poter affrontare nella realtà quotidiana

situazioni complesse, da cui poter apprendere e di conseguenza forma se

stesso su quello che svolge quotidianamente, ovvero l’attività di assistente

sociale, sarebbe utile valutare le varie casistiche presenti nelle relazioni

sociali e l’evoluzione che hanno subito nella storia dalla prima riforma, la

legge Crispi del 1890, ad oggi con l’ultima legge quadro, 328/2000.

(V Intervista Assistente Sociale Specialista Centro socio-assistenziale di

Riabilitazione)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

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R.Penso proprio di si, perchè riflettendo sul proprio operato ci si può

migliorare, ci si può corregere laddove si ha sbagliato e anche migliorare

laddove si è fatto bene. E’ necessaria più che importante, perchè fa fare un

passo avanti all’assistente sociale proprio nel suo lavoro quotidiano, perchè

fa correggere laddove devia e fa migliorare laddove ha fatto bene, in questo

senso fa fare passi in avanti.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.L’atteggiamento riflessivo è importante sia nel rapporto con l’utente che

nel rapporto con i colleghi, in quanto parte di un équipe socio-educativa,

della quale fanno parte anche gli educatori e gli psicologi, nella quale

eseguiamo delle valutazioni, e nel rapporto con la dirigenza, in quanto

l’assistente sociale dipende dal direttore sanitario. In generale in tutti i

rapporti professionali e non che questa figura comporta. Nel rileggere una

cartella, nel formulare un progetto vado a valutare e a riflettere

sull’impressione che ho avuto nel colloquio con l’utente.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Attraverso colloqui, contatti diretti con l’utente, con il resto del personale

e attraverso il cartaceo, cioè tutte le valutazioni che riguardano l’utenza.

Abbiamo una serie di strumenti di valutazione, quali: la scheda, che noi

chiamiamo spcs, ovvero la scala delle valutazioni delle capacità sociali, si

valuta come il paziente vive nella struttura, come si rapporta con il

personale della struttura e all’esterno. Questo serve a far riflettere e ad

interrogarci sul nostro operato: come io stimolo il paziente a fare in modo

che socializzi, si rapporti sia all’interno che all’esterno? Devo cambiare

qualcosa sul mio operato?

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

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R.L’esperienza occupa un posto alto, io mi sono resa conto che come sono

adesso, dopo dieci anni di lavoro, non lo ero all’inizio. Riflettendo sul mio

lavoro all’inizio, in tante situazioni mi sarei comportata diversamente.

Naturalmente bisogna avere una grande conoscenza degli strumenti e delle

leggi, quello dell’assistente sociale è un lavoro in cui non ci si può mai

sentire arrivati, per cui bisogna essere sempre aggiornati su tutto, perchè

l’utenza fa domade e richieste sempre più variegate, quindi bisogna aver

chiaro quali sono le prorpie competenze, e quelle degli altri. L’esperienza a

livello pratico, ovvero di come condurre un colloquio, di come portare

avanti una relazione d’aiuto, di come scrivere una relazione, conta molto,

perchè con il passare del tempo si migliora sempre di più, ovviamente si

devono avere le capacità per farlo e la mente aperta al miglioramento. Il

sapere teorico, d’altro canto è fondamentale. Ultimamente ho terminato la

specialistica e, questo percorso formativo mi è servito molto come

aggiornamento, e mi sono resa conto che a distanza di 20 anni, da quando

avevo finito la “vecchia” scuola di servizio sociale, le cose sono cambiate e

questo iter formativo mi ha permesso di aggiornarmi. L’aggiornamento deve

essere fondamentale e costante.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Qui abbiamo la fortuna di non lavorare sole, abbiamo un costante contatto

diretto con il direttore sanitario, che ci aiuta e ci sostiene in casi di

difficoltà. Naturalmente è importante non farsi prendere dal panico, se devi

dare una risposta immediata cerchi di dare quella che in quel momento ti

sembra la più giusta. Se si può rimandare la risposta, ovvero se essa non è

urgente, prendi tempo per documentarti e consultarti con le altre figure

professionali. Abbiamo anche necessariamnete creato dei rapporti con il

territorio, per cui tante problematiche le andiamo a verificare a confrontare

con il territorio. Ad esempio se ho un dubbio in merito al tempo necessario

per il rinnovo di una carrozzina, mi informo dalla collega dell’Asl.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

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R.Anche qui è molto importante l’esperienza, le emozioni vanno anche un

pò controllate, in quanto altrimenti sarebbe difficile instaurare poi una

relazione d’aiuto. Non vanno soppresse ma controllate.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Si il confornto con i propri colleghi è centrale, anche per interrogare

criticamente l’operato quotidianamente. Per quanto riguarda il rapporto con

l’utenza noi svolgiamo un duplice lavoro: ci occupiamo di segretariato

sociale, e curiamo il lavoro dei progetti (nella quale individuiamo degli

obiettivi di breve, medio e lungo termine) insieme agli educatori. Il

confronto è importante per avere una valutazione globale.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Sia momenti di riunioni d’equipe, di confronto, sia momenti di confronti

quotidiani informali.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Si, assolutamente.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Si perchè se non c’è riflessione non c’è ricerca e viceversa. Sono molto

collegate le due cose tra di loro.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Si, questi momenti coincidono con momenti di confronto con le colleghe.

Ci informiamo spesso sull’andamento del nostro lavoro, su come stiamo

lavorando. Questi momenti non sono strutturati e accompagnati da

procedure specifiche di valutazione e scaturiscono da un’esigenza personale.

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Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Si, ho fatto la specialistica per questo motivo, e accetto di buon grado la

questione dei crediti formativi. Questo però non deve rendere riduttivo il

fine dei corsi di formazione/aggiornamento. Alla fine dei corsi c’è una sorta

di scheda autovalutativa che oltre a servire a me, per comprendere meglio

quanto il corso mi abbia lasciato, crea dei momenti di riflessione sulla

professione e di scambio di valutazioni reciproche fra colleghe.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto-

formativo?

R.Rileggendo le relazioni sociali si capisce come si è valutato inizialmente il

paziente e questo permette di rilevare eventuali errori di valutazione che si

sono potuti fare. Le relazioni vanno aggiornate costantemente e in esse è

possibile ripercorrere gli stadi di evoluzione di una situazione, esse devono

essere in continuo itinere per tutta la durata del trattamento.

(VI Intervista Assistente Sociale Specialista Centro per disabili mentali)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Penso proprio di si, perchè questa aiuta l’operatore ad interrogare il

proprio operato, ad averne maggiore consapevolezza, è questo è molto

importante soprattutto nel nostro lavoro, in quanto ci relazioniamo con

persone portatori di una pluralità di interessi e problemi, appartenenti ad una

società in continuo cambiamento. Per cui essere riflessivi ti aiuta a vedere

anche eventuali errori che possono riguardare non solo la valutazione che si

fa di un problema o la definizione della soluzione ma anche pratiche

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lavorative proprie del contesto in cui si lavora e quindi a metterle in

discussione.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Sicuramente un impatto costruttivo in quanto essere riflessivi significa

essere aperti a migliorarsi, e questo significa assumere che il lavoro

dell’assitente sociale non è statico ma si costruisce giorno per giorno.

L’essere riflessivi comporta anche introdurre cambiamenti e questo è più

difficile a livello organizzativo, in quanto esiste una gerarchia di ruoli,

esistono pratiche burocratiche difficili da modificare e molto dipende dal

riconoscimento che si conferisce al ruolo dell’assistente sociale.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Noi operiamo attraverso il cartaceo, siamo pieni di procedure che

scandiscono il nostro lavoro. Queste permettono di creare una rete interna di

comunicazione che collega tutti i livelli “della piramide”, e permettono di

gestire meglio il lavoro. Per cui questo favorisce una lettura globale del

problema operata da più figure professionali insieme al direttore della

struttura.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Di sicuro l’esperienza occupa un posto prioritario, in quanto ti permette di

gestire meglio alcune situazioni. Ad esempio se in passato ho riscontrato

casi simili in via generale so come comportarmi. Riesco più facilmente a

fare una diagnosi, anche se ogni caso è unico in quanto subentrano diversi e

tanti fattori come il contesto familiare del paziente o quello comunitario. Le

teorie sono importanti in quanto orientano il comportamento, nel caso

dell’assistente sociale importanti sono i principi, il codice deontologico e di

sicuro tutta la normativa di riferimento. Per cui devono necessariamnete

camminare insieme.

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Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Di sicuro il confronto con gli altri colleghi o con chi ha più esperienza è

fondamentale per agire in queste situazioni. Inoltre non bisogna arrestarsi di

fronte all’imprevisto in quanto questo può diventare un’occasione di

apprendimento, qualora diventa oggetto di riflessione collettiva.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Importante e decostruirle ma non lasciarsi guidare esclusivamente da

queste.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Assolutamente il confronto è importante, sia per avere una visione globale

in merito ai casi/problematiche che si presentano ma, anche in merito alle

pratiche lavorative e all’organizzazione in generale. Il confronto ti permette

di non rimanere intrappolato nelle procedure burocratiche e ti permette di

migliorarle.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Ci sono delle riunioni previste quotidianamente con il direttore in merito

alle diverse problematiche riscontrate e dei momenti di consultazione tra

colleghi sui diversi casi.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Si, perchè sono funzionali alla sua esistenza, in quanto è una struttura

privata e di conseguenza deve essere aperta necessariamente alle

innovazioni e ai cambiamenti, i quali devono essere introdotti per mantenere

un’elevata qualità nell’erogazione delle prestazioni.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

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R.È una relazione essenziale perchè sono estremanente interdipendenti, in

quanto la riflessività è propedeutica alla ricerca, e quest’ultima ti “apre gli

occhi” alla realtà.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Nello specifico no. Dal confronto con i colleghi è possibile operare una

valutazione sul proprio lavoro e dal confronto con il direttore.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Sono necessari sia per accrescere competenze e conoscenze e sia perchè ti

rendono più consapevole del lavoro che svolgi. Ci sono delle griglie di

valutazione e autovalutazione alla fine dei corsi di aggiornamento che ti

permettono di verificare quanto si ha appreso e possono diventare anche

momento di confronto con altri colleghi in merito ai temi trattati.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.E’ importantissimo, perchè ti aiuta a ripercorrere nel tempo i cambiamneti

avvenuti in merito al singolo caso, e ti aiuta a comprendere gli schemi

mentali/interpretativi che metto in atto nella descrizione della

situazione/problema, e a rilevare di conseguenza degli errori laddove ci

sono.

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(VII Intervista Assistente Sociale Comunità Terapeutica)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Molto, soprattutto nello svolgimento del lavoro pratico quotidiano

all’interno della comunità, già dall’approccio relazionale con l’utente perchè

ovviamente si deve essere riflessivi, capaci di saper interagire in maniera

sana, responsabile, non devi lasciare spazio a situazioni che rimandano alla

tua vita personale, quindi si deve essere efficaci ed efficienti.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Un impatto sempre molto forte, anche perchè il contesto organizzativo in

cui opero funziona in maniera sinergica, di conseguenza nulla avviene a

caso, tutto è sanzionato anche a livello normativo, anche i contatti con i

colleghi, lo svolgimento dei compiti e le mansioni devono essere così come

devono essere. C’è una modulistica abbastanza copiosa, che non impedisce

momenti di riflessione e non mi rende neanche meccanica nel lavoro

semmai lo facilita, in quanto sono un metodo di riferimento, perchè si ha

ben chiaro il lavoro che si deve andare a fare e come deve essere espletato il

tutto, e questo facilita la gestione del lavoro quotidiano.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Intanto nella relazione in genere, poi ovviamente nel colloquio e nel

setting-clinico, dove per setting si intende non solo il colloquio individuale

ma anche quello di gruppo. Un’altra metodologia può essere il counseling

con il confronto con l’utente, anche questo è un buon approccio dalla quale

poter sviluppare riflessività.

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Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Io penso che l’esperienza sia basilare, forse più della teoria, perchè con

l’esperienza acquisisci delle metodologie che difficilmente leggi sui libri di

testo, non perchè non siano riportate, ma perchè nel momento in cui le studi

non si ha quella predisposizione mentale e relazionale emotiva che invece

acquisisci con l’esperienza diretta sul campo. La teoria ti guida, è un punto

di riferimento, la pratica e l’esperienza ti permette di farlo il lavoro.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.La prima cosa è non perdere la calma, bisogna essere riflessivi,

puntualizzare la situazione, per quello che può servire valutarla per poi

riportarla a terzi, per avere una maggiore obiettività che difficilmente si può

avere relazionandosi con una situazione di disagio.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Molto importante è rileggerle affinchè non primeggino nella lettura di un

disagio.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Il confronto qua è pane quotidiano, non solo nella gestione del lavoro con

l’utente, ma anche tra colleghi tanto che oltre ad una riunione organizzativa

settimanale, costruiamo un lavoro di supervisione, c’è un referente

terapeutico che ci fa supervisione dei compiti.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Usufruiamo di questo spazio settimanale di confronto: la riunione

organizzativa, e la riunione detta terapeutica. Nella prima riunione trattiamo

i problemi di gestione del lavoro, dalla situazione amministrativa a quella

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manutentiva e poi ovviamente a quello che è il lavoro con l’utente. Nella

riunione terapeutica trattiamo proprio quello che l’operatore vive a livello

emotivo nel contesto e nell’interazione con gli altri, colleghi e utenti.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Si e sono la riunione settimanale organizzativa e quella terapeutica.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Penso sia basilare questa relazione, perchè le persone sono una sorta di

spugna, per cui abbiamo sempre bisogno di imparare, di confrontarci

sempre e di essere sempre dinamici.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Si. Questi momenti coincidono con la riunione terapeutica e

organizzativa. Nella prima siamo accompagnati dalla presenza di un

supervisore esterno, quindi completamente avulso dalla realtà sia interna e

sia esterna della comunità. Gli esiti di questi incontri fungono da importanti

punti di riferimento, perchè i punti deboli diventano punti di forza, in quanto

si acquisice consapevolezza di quello che sono i tuoi limiti o di quello su cui

devi andare ancora a lavorare.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Nel mio lavoro è indispensabile fare questo. Questo è un campo di

addestramento dove c’è sempre da imparare e metterti in gioco. Comunque

intanto hai una metodologia di riferimento che ti permette di fare il tuo

lavoro in maniera esemplare e, poi tutti i moduli interni sono dei criteri

qualità a cui noi abbiamo aderito.

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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Rivedere e rileggere quello che hai fatto, ad esempio il coordinamento di

due settimane prima, ti mette sempre in una condizione di avere chiaro chi

sei e dove stai andando, soprattutto in una professione come la nostra in cui

sei sempre sotto torchio.

(VIII Intervista Assitente Sociale équipe socio-educativa)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Si è importante perchè il nostro lavoro è in continua evoluzione ed esige

una costante opera di riflessione che serve appunto per responsabilizzarti e

migliorarti.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Un impatto importante in quanto ti rende consapevole del fatto che

l’aggiornamento deve essere continuo, così come anche il confronto con i

colleghi ti aiuta a leggere meglio le situazioni che ti si presentano,

comunque l’esperienza ti aiuta poi a sviluppare queste capacità, all’inizio è

sempre dura.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Di sicuro il confronto con le colleghe, discutiamo a lungo sui vari casi,

questa équipe fa parte del’Asl n° 4 e settimanalmente ci sono delle riunioni

con la direttrice. Lei ci aiuta dandoci delle direttive su come svolgere il

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lavoro e valuta il nostro operato. Inoltre io personalmente mi confronto

spesso con una collega psicologa che fa parte di un’altro ente nel momento

in cui il problema riguarda un minore della stessa giurisdizione, per cui ci

sono anche questi confronti “informali”.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R. L’esperienza occupa un posto primario, in quanto ti aiuta a destreggiarti

meglio nelle situazioni, nel rapporto con gli utenti, con i colleghi e anche a

muoverti nel territorio. Le teorie fungono da guida, da punto di riferimento

ma poi è grazie all’asperienza che acquisisci praticità.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Attraverso il confronto con i colleghi e la dottoressa dell’ASL. Ma in

primis rifletto tantissimo in quanto mi relaziono principalmente con i

bambini è questo è un compito molto delicato che richiede sicuramente

sensibilità ma anche molta responsabilità.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Di sicuro subentrano ma poi è molto importante analizzarle e farle

divenire oggetto di confronto con i colleghi.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.È centrale, perchè il confronto ti permette di capire meglio la storia, il

contesto socio-familiare in cui è inserito l’utente. Inoltre il nostro lavoro non

viene fatto in solitudine, creare una rete è importante per avere tutte le

informazioni necessarie per dare risposte efficaci. Il confronto soprattutto

tra colleghe appartenenti ad enti diversi di sicuro ti permette di paragonare

le pratiche lavorative e organizzative specifiche dei due contesti.

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Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Si le riunioni settimanali con la dottoressa dell’ASL e momenti informali

tra colleghe, anche appartenenti ad altre strutture. Oggetto dei confronti

sono, con la dottoressa, i diversi compiti svolti, eventuali chiarimenti in

merito a difficoltà incontrate o errori fatti, quindi in generale l’impostazione

del lavoro e la valutazione di esso. Con le colleghe discutiamo sui casi.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Si.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Una relazione importante in quanto, la riflessione attiva il confronto e la

ricerca, in quanto ci relazioniamo con realtà eterogenee e mutevoli.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Non abbiamo delle schede di autovalutazione. Abbiamo dei reporter che

dovranno essere poi valutati insieme alla dottoressa durante gli incontri

all’ASL. La valutazione professionale si attua negli incontri con la

dottoressa, nel momento in cui ci vengono date delle indicazioni e direttive

su come è stato svolto il compito e su come dovranno essere svolti i

prossimi.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Si è essenziale come dicevo prima, soprattutto nel nostro lavoro. Io non

seguo corsi di aggiornamento da anni in quanto non siamo rese partecipi.

L’approfondimento su alcune tematiche scaturisce solo da un’esigenza

personale. Per cui mi argomento e mi aggiorno personalmente.

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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Aiuta tantissimo in quanto ti permette di riflettere sul problema di

rivalutarlo, di comprenderlo meglio. Inoltre può diventare uno strumento di

confronto con altre colleghe che sicuramente aiuta a smontare alcune

convinzioni o interpretazioni, e a corregere errori.

(IX Intervista Assistente Sociale Progettista)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.La capacità di fare attraverso una riflessione continua è fondamentale. La

competenza riflessiva diventa fondamento professionale nel momento in cui

permette l’essere razionali sulle proprie decisioni: agire consapevolmente e

senza ritualità. Nel corso di una “passeggiata sul territorio” da “studiare”, ad

esempio, diventa fondamentale per raggruppare gli appunti e i pensieri

necessari all’analisi territoriale e definire le problematiche riscontrate

realmente confrontandole con le richieste manifestate, spesso irreali o

sottovalutate, da chi assegna l’analisi stessa.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Operando come libero professionista in diversi settori posso trovare due

diverse risposte: potrebbe trovare un impatto positivo e di “crescita” rispetto

alle realtà territoriali consolidate sul territorio quali gli enti pubblici, ma

spesso, questi cadono anche consapevolmente in un vortice di ripetitività

delle situazioni e non sono aperti a percorsi di cambiamento, la palese

difficoltà di confronto con colleghi “anziani” porta spesso a non poter

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“riflettere” sulle azioni compiute. La metodologia di azione in questi casi

porta ad avere un ruolo di interfaccia “bifronte” da un lato illudendo l’ente

appaltatore e i colleghi di agire nella routine senza “perdere tempo”,

sfruttando magari i ritardi della loro burocrazia; dall’altro assumendo un

“atteggiamento riflessivo” e certamente più professionale nei confronti

dell’utenza. Nelle realtà del terzo settore “nuove”, facenti parte del privato

sociale l’atteggiamento è direttamente e certamente più professionale e si

cerca di agire trattando l’apprendimento riflessivo come contributo

all’analisi e alla conoscenza pratica delle situazioni come già detto.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Spesso preferisco mettere in atto la riflessione e le pratiche riflessive

condotte con i colleghi, non disdegno però una riflessione individuale

condotta introspettivamente - in maniera retrospettiva – ripensando sempre a

qualcosa.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza? Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Nella nostra professione si parte sempre dall’incertezza e da difficoltà

interpretative. Per la definizione del problema e la progettazione

dell’intervento è certamente necessaria l’esperienza associata però alla

capacità di guardare “oltre”, all’empatia e, perché no, all’intuito piuttosto

che alle teorie. Spesso mi ritrovo a confrontarmi con colleghi con molti più

anni di esperienza di me che si ritrovano, probabilmente per i meccanismi di

routine già citati, ad agire quasi inconsapevolmente. Nei casi più difficili è

fondamentale il confronto tra “vecchie” e “nuove” scuole, per l’evidente

stanchezza dei primi e la vivacità dei secondi. Questo per raggiungere un

opportuno equilibrio nell’analisi e nella progettazione dell’intervento di

aiuto, riconducibile al fare concreto e ad un agire pensato e condiviso per

l’acquisizione di capacità atte a sviluppare l’empowerment dell’utenza.

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Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Nei contesti con i quali mi confronto l’incertezza la fa da padrona. Essa è

una opportunità di crescita personale e professionale. Un esempio che potrei

citare è certamente il contesto che si presenta nei casi di ritardo di

pagamenti da parte di enti pubblici laddove si opera in progetti con doppia

finalità quali il servizio di assistenza domiciliare ad opera di donne in

difficoltà, disoccupate di lunga data, ragazze madri, etc: spesso gli enti

rinviano i soldi con risposte piuttosto fantasiose e il tentativo che devo

compiere con i colleghi è di dare certezze, spesso fittizie, alle insistenti

richieste di operatrici realmente bisognose, intervenendo in seguito con i

solleciti nei confronti degli enti appaltatori.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.A mio parere il contesto deve essere poco emozionale per comprendere

con lucidità la metodologia più adatta all’intervento.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? E’

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Come già avrai evinto dalle mie precedenti risposte è fondamentale più

che centrale il confronto permette un continuo confronto e messa in

discussione dell’operato.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Come sai, io mi occupo prevalentemente di progettazione. Ti cito ad

esempio i brain storming che facciamo quando si cerca una idea progettuale

“innovativa” in risposta ad un bando, non è raro che l’idea iniziale venga

stravolta e si passi a tutt’altro campo di intervento. In questo periodo stiamo

lavorando ad una idea, inizialmente dovevamo intervenire sull’integrazione

tra disabili attraverso un progetto con interventi che prevedessero lo sport

come amalgamante, ieri abbiamo deciso dopo una accesa discussione di

intervenire utilizzando un progetto riguardante l’arte. Il confronto come

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avrai capito avviene su ogni fase progettuale: dalla ideazione alla

rendicontazione e chiusura del progetto. La metodologia utilizzata

comprende le classiche riunioni face to face, per motivi logistici spesso

siamo in conference calling e non disdegnamo ovviamente i nuovi canali di

comunicazione. La giovane età dei gruppi di lavoro fortunatamente permette

anche questo. E non abbiamo alcun vincolo organizzativo: sia una pizza o

una riunione formale riusciamo armoniosamente a discutere delle nostre

idee.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Fortunatamente lavoro in un contesto dinamico dove ognuno di noi ha il

proprio bagaglio di esperienze e di idee. Lo scontro, sempre amichevole, ci

ha sempre portato alle migliori decisioni, ad oggi stiamo crescendo insieme

in un progetto comune ed unico di lavoro nei confronti della comunità. Le

conoscenze individuali sono sempre depositate in un patrimonio comune.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.L’atteggiamento riflessivo porta sicuramente ad una riproduzione di

alcuni interventi, spesso gli interventi e le metodologie sembrano simili,

tuttavia lo “stile” personale/professionale, il marchio di fabbrica se

vogliamo utilizzare un termine economico – parliamo di privato sociale, non

è nulla di più di un ridimensionamento o miglioramento nei confronti di un

intervento.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.La valutazione è spesso “obbligata” nei nostri/miei crono programmi. Il

privato impone standard di qualità elevati nei confronti dell’utenza e degli

enti appaltatori: per essere competitivi sul mercato e perché il confronto con

il servizio pubblico è costante.

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Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R. E’ fondamentale per vedere e ri-ponderare gli interventi e le metodologie

utilizzate in passato.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Spesso però mi affido alla memoria e l’introspezione mi permette di

consultare anche le “sensazioni” e “percezioni” difficilmente identificabili

in una sterile relazione.

(X Intervista Loredana Nigri, Assistente sociale esperto -Responsabile

Area Integrazione Sociosanitaria/Servizio sociale professionale ASP di

Cosenza. - Docente a contratto Facoltà Scienze Politiche, Corso di

Laurea Scienze del Servizio Sociale UNICAL)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Sia nel lavoro clinico, nonchè, relazione d’aiuto, che in quello

promozionale, organizzativo.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.I contesti lavorativi della pubblica amministrazione sono per loro natura

diffidenti e restii ad ogni cambiamento. Tendono inoltre ad attivare una

condotta di lieve o forte resistenza verso atteggiamenti professionali non

riconducibili all’ordinarietà e a tutto ciò che percepiscono come

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consuetudinario. Nel mio caso vengo spesso definita, come se ciò fosse una

colpa, come teorica.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Leggo e interpreto ciò che mi si presenta giornalmente in un’ottica

sistemico relazionale, in cui io, l’Azienda in cui lavoro, e le persone, nel

mio caso colleghe/i anche di differente professionalità, che si rivolgono al

servizio di cui sono responsabile, come parti del sistema.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.L’esperienza ci aiuta a contenere l’inevitabile compromissione emotiva,

ma non la evita e forse è meglio così, perché una certa vulnerabilità e

fragilità, paradossalmente rende la Relazione d’aiuto più forte. Metodo e

tecniche del processo d’aiuto incardinano e traducono scientificamente una

realtà, singola e plurale, altrimenti incomprensibile se si usano categorie

interpretative personali, stereotipi, luoghi comuni,buon senso etc.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Mi fermo e penso.Funziona sempre o quasi sempre.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Ancora troppo per fortuna.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Rimane centrale il confronto e va favorito il più spesso possibile. Non

vanno eccessivamente enfatizzate le differenze che emergono. Sono solo un

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modo altro di “leggere e vivere “ una situazione problematica dell’utente e

una condizione lavorativa dell’assistente sociale.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Occasioni formative e progettuali, lavori di gruppo. Condivisione delle

scelte e priorità da affrontare e delle azioni di sistema da attivare.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Non li favorisce, ma non li contrasta. L’amministrazione pubblica confida

nella “naturale demotivazione” e svilimento della “meglio gioventù

professionale”. E questo purtroppo avviene. Sempre.Quasi sempre.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.L’uno discende ed è costitutivo dell’altro.L’atteggiamento riflessivo è lo

stesso “modus ponens” del ricercatore.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Purtroppo ancora no. La valutazione è fraintesa e scambiata per una mera

elencazione di attività, senza che si possa entrare nel merito dell’efficacia e

dell’appropriatezza delle prestazioni a cura delle assistenti sociali.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Si .Mi fanno stare meglio e mi caricano di energia e creatività.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Ne penso tutto il bene possibile.Ma scrivere è il tallone d’Achille della

professione sociale.Purtroppo registro questa negligenza anche nelle giovani

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assistenti sociali, troppo vocate ad un aiuto spesso più simile ad uno slancio

volontaristico che ad una metodologia professionale.

(XI Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Ospedale Civile)

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Certamente, perchè non si può agire senza riflettere su quanto si fa. È

questo in tutte le situazioni, perchè abbiamo un’utenza variegata, e

relazionarsi con problemi e situazioni complesse richiede necessariamente la

riflessività.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Normalmente anche nei rapporti tra colleghi è importante, perchè molto

spesso insieme valutiamo e riflettiamo sui problemi che si presentano e su

quanto ci succede nel rapporto con l’utenza e sulle conseguenze.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Il lavoro, l’operatività è diventata routinaria. Non ci sono pratiche

specifiche, svolgiamo il lavoro come ci si presenta giornalmente. In ogni

situazione che incontriamo attiviamo momenti di riflessione.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R. Le teorie ormai penso che le abbiamo superate da tempo, almeno noi che

lavoriamo da tanti anni e l’esperienza a farci da scuola.

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Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R. Noi spesse volte siamo portate a trovare soluzioni a problemi che

sembrano insolubili ma, comunque cerchiamo sempre di trovarle attraverso

confronti con colleghi e collaborazioni con l’esterno e con il territorio.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R. Penso che le emozioni non debbano incidere nel nostro lavoro, e queste

devono essere sempre oggetto di confronto.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R. Noi abbiamo sempre avuto la buona abitudine di confrontarci e

chiramente è utile questo confronto, in quanto permette di mettere in

discussione i propri modelli operativi utilizzati. Noi non lavoriamo in

compartimenti stagni.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R. Non abbiamo dei momenti specifici dedicati al confronto. Però, di solito

a fine giornata, affrontiamo le diverse problematiche e ci confrontiamo su

quanto successo nella giornata o su casi in corso.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R. In questo periodo non tanto perchè siamo ridotti in organico, siamo

costretti a turni, quindi i momenti di confronto alla fine sono ridotti, in

quanto immerse nelle urgenze quotidiane. Inizialmente c’erano dei giorni

fissi in cui erano previsti momenti formali di confronto, adesso è un pò più

difficile realizzarli.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

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R. Si penso che sia un rapporto interdipendente.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R. Non avviene la valutazione professionale, non c’è una valutazione

dall’alto e nemmeno esterna, operata da un supervisore. Non abbiamo un

referente. La valutazione professionale è piuttosto data dal confronto tra di

noi.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Qualche volta abbiamo partecipato a corsi di aggiornamento, attualmente

no per problemi di organico, che ci porta a fare più turni durante la

settimana. Non possiamo lasciare scoperto il lavoro. In genere partecipiamo

ai corsi promossi dall’università, dall’ordine. La nostra azienda non si

occupa molto della nostra formazione. L’azienda sanitaria, qualche volta, ci

coinvolge. Sono anni che non partecipiamo a corsi di aggiornamento. La

necessità della formazione continua io la vedo sempre.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R. Diciamo di sì, anche se anche questa è diventata routinaria.

(XII Intervista Assistente Sociale Servizi Sociali Comune)

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Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Si, perchè si deve essere riflessivi in tutte le cose, specialmente quando si

tratta di essere determinanti rispetto a persone, nonchè gli utenti che noi

aiutiamo.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R. Sicuramente sul mio operato ha un buon impatto, perchè riflettere

significa accorgersi di possibili errori che si fanno, in quanto non siamo

infallibili. Poi invece per quanto riguarda nell’organizzazione, non ha

nessun impatto perchè non esiste.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R. Nel colloquio sicuramente, io comunque ritengo che le pratiche riflessive

siano messe in atto in tutto, in quanto ad esempio io faccio dei feedback

sulla situazione, ed è in quel momento che rifletto. Anche nella

comparazione di situazioni e sensazioni che potrebbero essere simili rifletto.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R. Io credo che siano importanti entrambi, certamente l’esperienza può

farla da padrona, perchè la teoria resta teoria. Anche se dobbiamo avere

delle conoscenze che ci guidano. E’ l’esperienza che però ci fa acquisire

quella capacità di discernere meglio un problema, perchè poi la realtà è

molto diversa.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R. Questa è una domanda complessa, perchè spesso noi ci troviamo ad

operare in condizioni di incertezza. Ma io credo che l’incertezza di come

agire non sia dovuta al fatto che non ci siano procedure specifiche o

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normative di riferimento, ma piuttosto sia dovuto al fatto che, dopo

trent’anni di questo lavoro, ho appreso che il benessere della persona non

importa a nessuno, non interessa ai politici, e forse neanche a noi che

facciamo questo lavoro. C’è pochissima tutela delle persone in genere, c’è

una continua delega di responsabilità. Non ho tante incertezze sul “come”

ma sul “se posso”, sulle risorse, su come poter fare per quella persona e

tutelarla. Le incertezze sono sul sistema.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R. E’ indubbio che ancora mi emoziono, dopo trent’anni di lavoro. Nel

nostro lavoro si deve lavorare anche con il cuore, di sicuro non bisogna

privilegiarlo. Io, dunque, lavoro su me stessa, perchè comunque devi essere

razionale, perchè poi si finisce per diventare cinici.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R. Per me è importante confrontarsi con gli altri. Ad esempio, alcune volte

anche le osservazioni dei tirocinanti mi hanno fatto riflettere su alcune cose,

però, nella mia esperienza non esiste il confronto perchè subentrano le

invidie, gelosie, competizioni e tutto ciò è indicatore di ignoranza e di

arretratezza e soprattutto questo si riflette e non aiuta nel nostro lavoro.

Tanti anni fa feci una proprosta, nel nostro ufficio, dicendo che avevavmo

bisogno di una supervisione, ma si sono opposte tutte, perchè non si è

accettato il fatto che una figura esterna e per di più una nostra collega,

assistente sociale, potesse aiutarci e, comunque subentra anche il fatto che si

ha paura poi di essere giudicate sul proprio operato. Questo significa che

oltre ad essere ingoranti non si da tanta importanza al lavoro che si svolge.

Molte di noi non volevano fare le assistenti sociali, ma capitò il periodo

giusto, i diplomini e molte intrapresero questa strada, per cui se uno fa

questo lavoro per fare un lavoro, le conseguenza sono queste e tante cose

non interessano. Io al contrario credo nella supervisione e nella sua utilità,

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perchè nella maggior parte delle volte siamo prese dalle urgenze da altre

cose e alcune di queste ci sfuggono.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R. Non ci sono momenti di confronto.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.No. Questo servizio sociale è rimasto sempre allo stesso livello.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R. Penso sia un rapporto propedeutico, interdipendente.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R. Abbiamo delle schede di valutazione, ma sono appiattite, sono tutte

uguali.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

Si, io ho bisogno di imparare continuamente, anche dopo trent’anni che

opero, ma, penso che i corsi, i seminari non servino a nulla, in quanto non ti

aiutano poi a gestire la quotidianità e la realtà. Inoltre ritengo che chi fa i

seminari debba operare in questo campo, altrimenti sarebbe uno che parla di

un qualcosa che ignora, a lui estraneo. Una volta che noi portiamo le nostre

esperienze, anche negative, in merito ad esempio all’organizzazione di cui

siamo membri, si dovrebbe poi, attivare una rete, che ci permetta di

migliorare le cose e le esperienze negative che riportiamo. Che ci vado a

fare se quello che poi espongo e recepiscono rimane lì, lettera morta.

L’unica cosa positiva e che si attiva un momento in cui si scambiano le

diverse esperienze. Il corso di formazione deve dare, ma deve anche aiutare

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chi vi partecipa a poter affrontare le problematiche riscontrate per migliorare

il servizio e l’operato. Io tutto ciò non l’ho mai riscontrato.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R. E’ importantissimo rileggere e leggere, documentarsi continuamente, per

migliorarti e per prendere maggiore consapevolezza, perchè spesso si opera

in maniera frenetica, e questo fa si che molti aspetti siano tralasciati o che

molte azioni poi siano fatte in modo automatico.

(XIII Intervista Assistente Sociale Centro di Salute Mentale )

Rilfessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Penso che la riflessività debba accompagnare ogni fase del lavoro,

soprattutto nella fase iniziale è molto importante, in quanto è in essa che si

deve definire il problema, e quindi vi è una raccolta di dati, informazioni

necessaria per costruire un’anamnesi attenta. Essere riflessivi ti aiuta a

prendere in causa più aspetti, e soprattutto ti aiuta a rilevare dei punti che

magari ti sono poco chiari.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R. Un impatto positivo in quanto ti aiuta a capire meglio cosa stai facendo,

dove e se stai sbagliando, quindi ti aiuta anche ad attivare momenti di

confronto con altre figure professionali, appartenenti all’ente ma anche

esterni. L’impatto a livello organizzativo risiede nel fatto che la riflessività

attiva momenti di confronto e quindi di lettura condivisa di una situazione.

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Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R. Di sicuro la relazione sociale è molro importante, in quanto diventa uno

strumento che ti permette di ripercorrere la storia dell’utente, eventuali

relazioni con altri strutture, nel caso fosse stato ricoverato in una struttura

privata e le relazioni con altri professionisti. Il nostro è un lavoro di rete, ed

è funzionale all’altro. Anche nei colloqui clinici e attraverso i test

psicodiagnostici.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R. Io opero da molti anni, e devo dire che l’esperienza è centrale, in quanto

ti permette di acquisire maggiore scaltrezza nel modo di relazionarti con

l’utente, nel modo di rapportarti ai familiari e anche con le colleghe sia

dell’ente che non. Le teorie sono altrettanto importanti in quanto noi

abbiamo un codice deontologico da rispettare e ti guidano.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R. Diciamo che il lavoro nel CSM è scandito da moduli e pratiche da

osservare, perchè si è a contatto con persone che hanno storie di vita e

familiari particolari. Per cui è molto importante avere non solo sensibilità

ma anche autocontrollo e razionalità, perchè si ha una grande responsabilità.

Quando un problema non è chiaro mi attivo per ricavare tutte le

informazioni possibili anche attraverso il confronto con altre colleghe.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Quelle di sicuro sono presenti ma cerco di rivederle sempre e trarne la

parte positiva per aiutare gli utenti.

Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

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R. E’ centrale. All’interno i ruoli sono ben definiti, per cui una lettura non

solo dal punto di vista mio ma anche psicologico e medico, mi aiutano

moltissimo a vedere il caso a 360°. Molto importante è anche la rete che si

promuove con gli altri servizi. In quanto la maggior parte del nostro lavoro è

appunto caratterizzato dalle relazioni con i colleghi delle altre strutture e

quindi con il territorio.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R. Ci sono degli incontri quotidianamente tra colleghi e una riunione

organizzata settimanalmente sui casi.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R. Si, in quanto sono necessari soprattutto in questo campo.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R. Penso che l’uno sia funzionale all’altro.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R. Non ci sono dei moduli specifici. I momenti di valutazione si hanno

durante le riunioni sui casi.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R. Si, anche se è il tempo che ha volte manca. Comunque ritengo che siano

momenti dalla quale poi attivare riflessione sul proprio operato al fine di

migliorarlo.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

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R. Per me è fondamentale, anche perchè siamo immerse da registri cartacei

e procedure. Essa ti aiuta a ripercorrere non solo il caso che affronti ma

anche eventuali errori.

(XIV Intervista Assistente Sociale Specialista Consultorio Familiare)

Rilfessività e sapere pratico

• Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Sicuramente la riflessività nella nostra professione è un atteggiamento

importante e utile al fine di agire in maniera opportuna sia nel lavoro con

l’utente, che nel lavoro di équipe. Tuttavia spesso ci troviamo a dover agire

in contesti burocratici, organizzativi che difficilmente lasciano del tempo a

disposizione per l’attività riflessiva, nel senso che nei servizi spesso si è

portati più allo svolgimento meccanico delle mansioni piuttosto che al

ragionamento e alla riflessione sulle nostre azioni e sensazioni, del resto

siamo spesso invischiate in organizzazioni prettamente burocratizzate.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.L’impatto di un atteggiamento riflessivo non può che avere dei risvolti

positivi, attraverso di esso riusciamo a comprendere spesso gli errori che

commettiamo nello svolgimento del nostro lavoro, sia esse di back office o

di front office, inoltre ci rende consapevoli dei sentimenti e delle sensazioni

che possiamo provare nello svolgimento delle attività giornaliere e

straordinarie, così da poterli correggere, e da poter migliorare le nostre

prestazioni professionali e lavorative.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

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R.Nel nostro servizio non sono previsti precisi strumenti e metodi

“riflessivi”, bensì questo, nel mio caso, si traduce in un’attività individuale

che raramente riesco ad intraprendere con altri colleghi soprattutto se questi

hanno un’altra formazione professionale, mi riferisco ad esempio a figure

come quella dei medici e degli psicologi.

Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza?Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Sicuramente la teoria può ricoprire un ruolo molto importante per chi si

trova a dover operare in una situazione di “noviziato”, tuttavia per chi fa

questo lavoro da tanto tempo la forza trainante è sicuramente l’esperienza

pratica. Infatti, chi ha sulle spalle un po’ di anni di servizio è stato ormai da

tempo disincantato dalla realtà. Nel periodo in cui frequentavo l’università

la teoria faceva sembrare tutto molto più semplice e lineare, quando poi mi

sono trovata nella realtà dei servizi mi sono resa conto che spesso chi si

occupa di “teoria” perde il contatto con la realtà mitizzandola molto spesso.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Da questo punto di vista individuerei un paradosso, infatti, nell’attività

pratica quotidiana gli imprevisti sono quasi all’ordine del giorno, divenendo,

paradossalmente appunto, la normalità. In questo senso l’attività riflessiva

viene messa in atto spontaneamente, l’imprevisto infatti generando

incertezza innesca inevitabilmente un meccanismo riflessivo sulla situazione

che ci si propina.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Ritengo che le emozioni non debbano guidare la nostra attività

professionale, tuttavia non possiamo fare a meno di provare delle emozioni,

l’importante in questo caso è non lasciarsi guidare da queste ma dominarle

in modo tale da impedire un eccessivo coinvolgimento che potrebbe portare

al fallimento dell’intervento d’aiuto.

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Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Il confronto con gli altri è sicuramente una parte importante di qualsiasi

attività professionale e non solo, “discutere” con gli altri ci mette a

conoscenza di altri punti di vista, di altre sensazioni, spesso non ci fa sentire

soli nel dover affrontare situazioni critiche, ma è importante che sia

l’organizzazione a garantire dei momenti di confronto reciproco. Nella mia

esperienza spesso non è stato così, e i momenti di confronto consistono in

realtà in momenti valutativi da parte della direzione del servizio.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.I momenti di “valutazione”, come ho detto precedentemente, ad opera

della direzione avvengono per lo più a fine giornata, è in questo momento

che il lavoro da me svolto durante la giornata viene esaminato e valutato.

Sempre in questo contesto, nel caso in cui siano presenti imperfezioni o

errori ci si “confronta”, anche se è una parola un po’ grossa, il confronto è in

realtà una bocciatura o una nota di merito da parte della direzione, ma ripeto

non sono previsti dei momenti veri e propri di confronto tra colleghi.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Ritengo che l’organizzazione non favorisca questi momenti perché

percepisce la professionalità dell’assistente sociale più finalizzata

all’adempimento di mansioni burocratiche piuttosto che vederla come parte

integrante di un corpo specialistico di intervento psico-sociale.

Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.Penso che il rapporto sia interdipendente. Non ci può essere l’una senza

l’altra.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

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R.Ripeto la valutazione professionale avviene giornalmente, non sono

ovviamente pratiche codificate, ma consistono piuttosto in attività

consuetudinarie, da cui non scaturisce la realizzazione di griglie valutative

vere e proprie, il tutto rimane cioè in un ambito di colloquialità, e quindi

attraverso attività verbale, non codificata, appunto. Personalmente utilizzo

questi momenti al fine di comprendere i miei errori e migliorare la mia

attività lavorativa, ma ripeto purtroppo mi sento confinata in un contesto

fortemente burocratizzato.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Quando posso cerco sempre di dedicare il mio tempo alla riflessione, e

alla formazione, ritengo che il concetto di formazione continua sia di

centrale importanza nello svolgimento del nostro lavoro, ma questo concetto

deve essere assolutamente inserito in un contesto organizzativo disposto

all’innovazione, e al miglioramento delle proprie prestazioni, nel senso che

la volontà positiva insita nei processi di formazione continua debba tradursi

in volontà personale e professionale ed organizzativa.

Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Ritengo che questa funzioni ai fini dell’autoformazione solo nel momento

in cui contenga dei buoni canoni metodologici, nel senso che se la

documentazione professionale che ho prodotto è qualitativamente positiva

allora costituisce strumento di auto-formazione, in caso contrario rischierò

di consolidare e cementificare i miei errori.

(XV Intervista Assistente Sociale Specialista Servizi Sociali Comune)

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Riflessività e sapere pratico

Ultimamente si insiste molto sulla necessità di essere riflessivi sul

proprio fare. Reputa che la competenza riflessiva qualifichi la

professionalità dell’assistente sociale?

R.Riflettere aiuta a crescere come persone e come professionisti. Nel caso

dell'assistente sociale è indispensabile una competenza riflessiva, per

tutelare le persone e non offrire un intervento approssimativo e ripetitivo. Il

rivedere il proprio “fare” è essenziale per non perdere la bussola o farsi

prendere dalla foga di dare risposte a prescindere da chi si ha di fronte. Per

riflettere ci vuole del tempo, la competenza nella riflessione consente di

trovare di volta in volta la strategia migliore di intervento.

Che impatto può avere l’atteggiamento riflessivo sul suo operare e nel

contesto organizzativo di cui fa parte?

R.Un atteggiamento riflessivo fa la differenza. Nel lavoro del singolo

professionista consente di maturare professionalmente, con il conseguente

vantaggio di rispondere in maniera sempre più precisa e puntuale alle

necessità dell'utenza. A livello organizzativo consente invece di strutturare il

lavoro con maggiore efficienza, aumentando la produttività

dell'organizzazione stessa.

Nell’operatività attraverso quali strumenti e metodi mette in atto pratiche

riflessive?

R.Nella pratica professionale cerco di dedicare il tempo necessario ad una

buona analisi dei dati sociali raccolti. Quando non conosco bene un

argomento, cerco letture di approfondimento e se possibile il confronto con

colleghi più esperti.

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Nella definizione del “problema” e più in generale nella progettazione

dell’intervento di aiuto che posto occupa l’esperienza? Quanto aiutano le

procedure (teorie) standard nella definizione di esso?

R.Maggiore è l'esperienza professionale dell'assistente sociale, più è

obiettiva l'individuazione del problema, e migliore è la procedura di

intervento che si mette in pratica. Fare riferimento alle teorie consente di

affrontare il lavoro sociale non solo basandosi sul proprio buon senso, ma

favorisce un agire professionale consapevole. Le teorie aiutano ad

incanalare il proprio lavoro fornendo un inquadramento generale del

problema e garantendo uniformità ed uguaglianza nell'erogazione dei

servizi. All'atto pratico, poi, gli interventi sono sempre specifici ed

individualizzati.

Come agisce di fronte all’imprevisto, in un contesto di incertezza?

R.Personalmente cerco di vagliare le varie soluzioni di intervento,

prendendomi comunque del tempo per riflettere nonostante la possibile

urgenza. Se necessario chiedo una consulenza ai colleghi specializzati in

quel determinato settore di intervento.

Quanto pensa che incidono le sue emozioni per comprendere meglio una

situazione?

R.Emozioni e sentimenti fanno parte dell'assistente sociale e anche

dell'utente, l'importante è esserne consapevoli. E' bene riconoscere ciò che ci

crea fastidio, rabbia, tristezza ma anche gioia per poter agire più

consapevolmente. L'assistente sociale dovrebbe avere di base una

propensione all'aiuto verso i bisognosi che gli consenta di creare un rapporto

significativo con l'utente, basato in particolare su una forte capacità di

ascolto empatico. L'esperienza aiuta a gestire le emozioni per rendere la

capacità di comprendere i bisogni più oggettiva e meno legata all'emotività.

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Apprendimento organizzativo

Quanta importanza conferisce al confronto con i propri colleghi? è

centrale per interrogare criticamente le pratiche quotidiane?

R.Il confronto con i colleghi, secondo me, è essenziale. Dal confronto

sull'agire professionale si produce una crescita personale e professionale dei

soggetti coinvolti perché si possono condividere modi diversi di vedere lo

stesso problema/fenomeno e quindi apprendere nuovi strumenti e trovare

soluzioni innovative. Personalmente credo che il confronto costruttivo

fornisca nuovi spunti per riflettere sul proprio operato.

Quali sono le pratiche lavorative e organizzative attivate per il confronto

tra colleghi? Quali tematiche sono oggetto di confronto?

R.Nell'ambito distrettuale in cui lavoro ci si incontra in équipe, con il

proprio coordinatore o con colleghi di altri servizi. Affrontare problematiche

concrete derivate dal lavoro quotidiano, riflettere insieme sull'evoluzione dei

fenomeni in senso ampio o sulle politiche sociali giova alla crescita

personale e professionale dei “partecipanti”.

L’organizzazione favorisce questi momenti?

R.Qualsiasi organizzazione dovrebbe garantire questi momenti, formativi

e/o informativi, perché darebbero qualità all'organizzazione stessa.

Sarebbero utili da un lato per “raccogliere” il sapere professionale e

dall'altro per creare una squadra di operatori motivati e capaci di integrarsi

proficuamente.

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Che relazione sussiste fra atteggiamento riflessivo e habitus di ricerca

nello sviluppo della professionalità dell’assistente sociale?

R.La riflessività è, come già ampiamente detto, è importante per valutare e

migliorarsi. L'atteggiamento curioso dell'assistente sociale permette

l'accrescimento del proprio sapere teorico e pratico. La riflessione e le

attività di ricerca consentono all'assistente sociale di sviluppare una

conoscenza approfondita e consapevole dei fenomeni e dei bisogni che

incontra nel lavoro quotidiano, e quindi di innovare il proprio modo di agire

professionale creando un rapporto interattivo tra teoria e prassi.

Pratiche riflessive

Vi sono momenti deputati alla valutazione professionale? Come utilizza i

risultati di essa?

R.Personalmente cerco di ritagliarmi degli spazi per rivedere il mio agire

professionale, anche arricchendomi con nuovi spunti tratti ad esempio da

testi, riviste o suggerimenti di colleghi esperti. Secondo me anche l'essere

supervisori nei tirocini professionali degli studenti di servizio sociale aiuta a

rivedere il proprio modo di fare l'assistente sociale perché, per descrivere

all'altro ciò che si fa e perché lo si fa, si deve necessariamente fermarsi e

fotografare l'agito e anche le motivazioni/teorie che l'hanno fatto diventare

tale.

Lei ha necessità di dedicare tempo e lavoro ad attività di riflessione,

formazione e valutazione? Gli esiti di queste attività che ripercussioni

hanno?

R.Dedicare del tempo ad attività di riflessione, formazione e valutazione

non è solo una necessità personale, ma anche un dovere di ogni assistente

sociale. Sono attività che aiutano a modellare l'agire professionale, a

mantenere alta la qualità degli interventi, a perfezionare le competenze.

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Cosa pensa della documentazione professionale come strumento auto

formativo?

R.Se per documentazione professionale si intende il materiale prodotto

dall'assistente sociale durante il suo lavoro, es. cartella sociale, relazioni,

ecc..., allora penso che sia uno strumento auto-riflessivo perché è il prodotto

della formazione che l'operatore ha già acquisito. Invece se per

documentazione professionale consideriamo il materiale recuperato da libri,

riviste, siti internet o altre fonti che l'assistente sociale consulta, studia,

allora possiamo considerarla come una modalità di auto-formazione.

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