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Eterogeneità delle coalizioni e alternanza. Leggere il caso italiano con la teoria dei veto players. Francesco Zucchini ([email protected]) Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche Abstract L’intento di questo contributo è innanzitutto quello di rileggere le caratteristiche del sistema politico della prima repubblica (e la celebre interpretazione “sartoriana” di quel sistema) alla luce di alcuni contributi emersi nella letteratura di politica comparata quando quel sistema politico era al crepuscolo o già morto. Lo sfondo teorico prescelto è quello della rational choice con una particolare (ma non esclusiva) attenzione alla teoria dei veto players. Una buona reinterpretazione del sistema politico della prima repubblica è quella i cui elementi costitutivi aiutano ad interpretare anche il funzionamento del nuovo sistema. Pertanto il secondo naturale obiettivo è quello di associare la rilettura del passato ad una interpretazione del sistema politico emerso dalla metà degli anni ‘90. Poiché un ‘interpretazione complessiva di tutti gli aspetti di un sistema politico è al momento un’impresa superiore alle mie forze, mi concentrerò sull’arena legislativa, un terreno di ricerca con il quale spero di avere una certa dimestichezza. Versione assolutamente preliminare e provvisoria Per favore non citare senza il permesso dell’autore. Paper preparato per il convegno annuale SISP 2012 ROMA 13 settembre.-15 settembre 2012 Sezione Sistema Politico Italiano Panel 4.3 Vecchie e nuove interpretazioni del sistema politico italiano Chair: Luca Lanzalaco; Discussant: Luca Verzichelli

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Eterogeneità delle coalizioni e alternanza.

Leggere il caso italiano con la teoria dei veto players.

Francesco Zucchini ([email protected])

Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche

Abstract

L’intento di questo contributo è innanzitutto quello di rileggere le caratteristiche del

sistema politico della prima repubblica (e la celebre interpretazione “sartoriana” di

quel sistema) alla luce di alcuni contributi emersi nella letteratura di politica

comparata quando quel sistema politico era al crepuscolo o già morto. Lo sfondo

teorico prescelto è quello della rational choice con una particolare (ma non esclusiva)

attenzione alla teoria dei veto players. Una buona reinterpretazione del sistema

politico della prima repubblica è quella i cui elementi costitutivi aiutano ad

interpretare anche il funzionamento del nuovo sistema. Pertanto il secondo naturale

obiettivo è quello di associare la rilettura del passato ad una interpretazione del

sistema politico emerso dalla metà degli anni ‘90. Poiché un ‘interpretazione

complessiva di tutti gli aspetti di un sistema politico è al momento un’impresa

superiore alle mie forze, mi concentrerò sull’arena legislativa, un terreno di ricerca con

il quale spero di avere una certa dimestichezza.

Versione assolutamente preliminare e provvisoria

Per favore non citare senza il permesso dell’autore.

Paper preparato per il convegno annuale SISP 2012 ROMA 13 settembre.-15 settembre 2012

Sezione Sistema Politico Italiano

Panel 4.3 Vecchie e nuove interpretazioni del sistema politico italiano Chair: Luca Lanzalaco;

Discussant: Luca Verzichelli

Eterogeneità delle coalizioni e alternanza.

Leggere il caso italiano con la teoria dei veto players.

Francesco Zucchini ([email protected])

Introduzione

Le istituzioni possono essere paragonati ai fiumi. Come lo spazio che incanala le acque di un fiume

è modellato dalle acque medesime, così le istituzioni politiche vengono plasmate e riplasmate da

quelle stesse preferenze politiche che esse quotidianamente filtrano, aggregano e trasformano in

decisioni. L’alveo nel quale scorrono i fiumi è piegato, ristretto o espanso, più spesso dallo

scorrere sempre uguale delle acque, talvolta violentemente dai nubifragi autunnali che seguono le

secche estive, dalle frane e dai terremoti. Le correnti improvvisamente gonfie di acqua e detriti

che rompono gli argini a volte tornano nel letto originario, a volte ne scavano uno nuovo.

Così, a loro volta, le preferenze politiche dei cittadini mutano in contenuto e varietà e in genere

gradualmente. Per lo più erodono lentamente gli argini istituzionali all’interno dei quali sono

destinate a diventare decisioni collettive (o se preferite collettivizzate) ma talvolta travolgono

quegli stessi argini e ne creano di significativamente nuovi. Non importa se a causa di un

cataclisma o per effetto cumulato di variazioni quasi impercettibili, o, più spesso, per entrambi i

fenomeni, a un certo punto le mappe, geografiche o concettuali , con le quali eravamo soliti

rappresentare i tracciati dei fiumi o il profilo di un sistema politico iniziano a discostarsi dalla

osservazione empirica.

Le mappe concettuali che hanno guidato l’interpretazione complessiva del sistema politico italiano

sono invecchiate a partire dagli anni 90. I termini pluralismo polarizzato, consociativismo, governo

di partito sembrano evocare una stagione lontana. Non che queste stesse mappe non avessero

con il tempo perso un po’ di precisione: nessuna cartolina resiste alle trasformazioni del panorama

che vuole rappresentare. Eppure ancora all’epoca del pentapartito agonizzante i tratti

fondamentali che avevano caratterizzato quelle interpretazioni erano ben visibili . Poi,

improvvisamente, la combinazione fra i mutamenti graduali cumulatisi nell’ultima fase della prima

repubblica e l’esondazione seguita allo scandalo di Mani Pulite ha modellato un paesaggio nuovo ,

di primo acchito indecifrabile. Alcuni tratti fondamentali del passato panorama erano scomparsi.

Quel che era rimasto impresso nelle mappe e che sembra ancora oggi corrispondere

all’osservazione empirica, ad uno sguardo più attento, mostra differenze poco appariscenti ma

spesso sostanziali rispetto alle antiche descrizioni. Come l’alveo di un fiume rimasto ben visibile là

dove le cartine prevedono stia ma la cui portata di acqua si è considerevolmente ridotta fino a

quasi esaurirsi. Eppure la descrizione accurata degli argini dovrebbe mostrare dove è più probabile

che l’acqua tracimi o si ritiri , dove è più probabile si assesti il nuovo letto del fiume. Una buona

rappresentazione dell’esistente incorpora tracce del futuro. Se quelle antiche mappe faticano a

decifrare i nuovi territori forse è perché non le sappiamo leggere con attenzione, forse perché

anche per il passato non erano così complete e illuminanti quanto abbiamo creduto. O forse, e

questa è l’opzione preferita dallo scrivente, un po’ (ma non troppo) per entrambi i motivi.

L’intento di questo contributo è innanzitutto quello di rileggere le caratteristiche del sistema

politico della prima repubblica (e la celebre interpretazione “sartoriana” di quel sistema) alla luce

di alcuni contributi emersi nella letteratura di politica comparata internazionale quando quel

sistema politico era al crepuscolo o già morto. E’ profonda convinzione di chi scrive che la

comprensione di uno specifico sistema politico non possa prescindere da quanto viene scoperto o

ipotizzato nella letteratura internazionale di politica comparata. Ogni paese è eccezionale , è un

caso a se, ma gli elementi ultimi che combinandosi producono la sua eccezionalità sono comuni a

ciascun paese, come gli atomi sono comuni alle infinite forme che prende la materia. Lo sfondo

teorico prescelto è quello della rational choice con una particolare (ma non esclusiva) attenzione

alla teoria dei veto players. Poiché un ‘interpretazione complessiva di tutti gli aspetti di un sistema

politico è al momento un’impresa superiore alle mie forze, mi concentrerò sull’arena legislativa,

un terreno di ricerca con il quale spero di avere una certa dimestichezza. Una buona

reinterpretazione del sistema politico della prima repubblica è quella i cui elementi costitutivi

aiutano ad interpretare anche il funzionamento del nuovo sistema. Pertanto il secondo naturale

obiettivo è quello di associare la rilettura del passato ad una interpretazione del sistema politico

emerso dalla metà degli anni ‘90. Teorie che valessero solo per un sistema politico sarebbero

infatti cattive teorie. Teorie poco teoriche.

Teoria dei Veto Players e prima repubblica.

Due fenomeni hanno caratterizzato più di ogni altro il sistema politico della prima repubblica:

l’assenza di un’ effettiva alternanza di governo1 e, soprattutto nell’arena legislativa, un elevato

livello di convergenza fra le forze politiche che sostenevano il governo e quelle di opposizione. Un

livello di convergenza a prima vista sorprendente sia considerando la distanza ideologica fra partiti

nell’arena elettorale, sia confrontando l’Italia con altre democrazie parlamentari. L’assenza di

alternanza, tanto nell’interpretazione di Sartori (1976) quanto in quella ben più preoccupata di

Galli (Galli 1966, 1973), era l’esito della polarizzazione del sistema di partito. Le scelte di politica

internazionale del principale partito di opposizione, la sua natura per lungo tempo ambiguamente

rivoluzionaria (o se preferite antisistema) non solo impediva la realizzazione dell’alternanza ma

generava in quello stesso partito l’aspettativa che quest’ultima, l’alternanza, non avrebbe potuto

aver luogo se non in un futuro indefinito e lontano. L’assenza di alternanza rendeva tanto i partiti

al governo ed in primis la Democrazia Cristiana, quanto l’opposizione, politicamente irresponsabili.

I primi non dovevano rendere conto delle loro scelte politiche e dei comportamenti pubblici dei

propri esponenti ad un elettorato già sufficientemente convinto (e spaventato) dalla prospettiva di

una vittoria delle sinistre. Queste ultime (e dagli anni 60 in poi il solo PCI) potevano largheggiare in

promesse che mai si sarebbero trovate nella posizione di poter e dover mantenere. La spiegazione

del cosiddetto consociativismo, ossia del notevole grado di consenso con il quale erano prese gran 1 Per una definizione di alternanza e per diverse possibili operazionalizzazione del concetto rimando a (Zucchini 2011)

parte delle decisioni legislative, almeno per chi seguiva la lezione di Sartori (Di Palma 1978), era

conseguenza, paradossale solo in apparenza, della polarizzazione, ovvero della ragguardevole

distanza ideologica che separava i partiti in parlamento, ed in particolare il partito di maggioranza

relativa e il principale partito di opposizione. Per questa linea interpretativa, impossibilitati ad

accordarsi sulle regole e su politiche fondamentali e spinti da un sistema di incentivi elettorali ( il

sistema elettorale con voto di preferenza) e parlamentari ( il sistema delle commissioni)

fortemente particolaristici, i rappresentanti dei partiti di opposizione e di quelli di governo finivano

per accordarsi su una miriade di microprovvedimenti e politiche distributive dalle quali ricavavano,

ciascuno presso i settori elettorali di riferimento, il consolidamento del proprio consenso

personale e il mantenimento di quello più generale a favore del partito.

Senza dubbio l’accordo in assemblea Costituente, nato in un clima di estrema incertezza sui

rapporti di forza elettorale dei vari attori, pervaso dal cosiddetto “complesso del tiranno”

(Lanzalaco 2005), aveva generato un assetto (soprattutto con riferimento all’arena legislativa)

molto policentrico. La vittoria elettorale non premiava i vincitori che formavano e sostenevano il

governo di un forte potere di agenda legislativo. Gli sconfitti potevano sfruttare non pochi

strumenti regolamentari per esercitare con successo un certo potere di interdizione e ritardo. Il

loro beneplacito facilitava il processo decisionale almeno quanto la loro ostilità lo ostacolava.

E tuttavia la combinazione fra polarizzazione ideologica del sistema di partito, dispersione dei

centri di potere nell’arena legislativa (con scarso potere di agenda del governo) e incentivi

“particolaristici” non spiega la sopravvivenza e la crescita di pratiche consensuali all’interno del

parlamento. La polarizzazione del sistema di partito poteva rendere difficile o impossibile

l’accordo fra tutte le principali forze politiche in parlamento ma molto di quanto influenzava

concretamente i processi decisionali non necessitava dell’accordo di tutti o quasi tutti. L’iniziale

dispersione dei centri di potere all’interno dell’arena legislativa – si pensi al ruolo delle

commissioni- e la distribuzione particolarmente generosa di poteri di interdizione alle minoranze

potevano in astratto essere corrette, almeno in tutti quei casi in cui il cambiamento non richiedeva

maggioranze qualificate lontane da quelle necessarie alla sopravvivenza di un governo o

procedure tortuose e complesse e dall’esito incerto come quelle richieste per la revisione della

Costituzione. La maggioranza governativa avrebbe potuto col tempo procedere allo

smantellamento sistematico di tutte quelle prassi e regole, alcune delle quali ereditate dai

parlamenti postunitari, che avvantaggiavano inizialmente i singoli parlamentari e l’opposizione.

Avrebbe potuto assegnare direttamente al Governo un ruolo effettivo nella direzione dei lavori

legislativi. Avrebbe potuto dotare il governo di regole di chiusura del dibattito sulla propria

iniziativa e forme di protezione contro gli emendamenti. Così facendo, liberatasi dalla necessità di

patteggiare con i “perdenti”, questa stessa maggioranza si sarebbe comunque garantita politiche

meno condizionate dalle preferenze ed interessi di quest’ultimi, e nella spartizione avrebbe potuto

appropriarsi di una fetta di benefici più ampia per i settori dell’elettorato ad essa più vicina. Perché

tutto questo non accadde?

L’esistenza di particolari procedure, come per esempio la famigerata sede legislativa, non

determina i comportamenti. Una regola non solo può essere cambiata ma spesso è scelta o

ignorata all’interno di un menu che contiene altre regole dal tenore e significato anche molto

diverso (Caretti 2001). Anche senza immaginare una modifica dei regolamenti parlamentari, non

bisogna dimenticare che la stessa costituzione dava in certe circostanze al governo la potestà di

legiferare. Non solo attraverso i decreti legge, che da metà degli anni ’70 conosceranno un

ininterrotto anche se ambiguo successo, ma anche e soprattutto tramite le deleghe legislative

contenute nelle leggi ordinarie. Eppure questo strumento fino all’inizio degli anni ’90 sarà

utilizzato assai poco. La quasi totalità della letteratura sull’argomento descrive con dovizia di

dettagli e a volte con definizioni immaginifiche e brillanti (Morisi 1992, Vassallo 2001) la

produzione ed il processo legislativo come conseguenza dell’ assetto istituzionale (e qualcuno

avrebbe aggiunto culturale2) della prima repubblica. Le descrizioni sono talmente efficaci e fedeli

all’osservazione empirica da apparire esaustive e da far apparire inutile qualsiasi ulteriore

indagine. Nascondono, tuttavia, che anche le istituzioni (come i percorsi dei fiumi) mutano. Nel

linguaggio dell’istituzionalismo rational si direbbe che è prevalsa la descrizione del processo e del

prodotto legislativo come equilibri indotti dalla struttura (Institutional Equilibria), ed è rimasta

poco esplorata la questione ben più fondamentale degli equilibri istituzionali (Equilibrium

Institutions): che cosa rendeva quell’assetto istituzionale e quelle prassi decisionali, con particolare

riferimento all’arena legislativa, un equilibrio degno di essere preservato quasi intatto per più di

quarant’anni ?

La teoria dei veto players ed in generale la letteratura sul law making suggeriscono una risposta

molto semplice e precisa. La prima repubblica fu l’effetto congiunto dell’assenza di alternanza (e

dell’aspettativa di alternanza) e dell’eterogeneità nelle preferenze di policy delle compagini

governative. A prima vista sembra una risposta non molto diversa da quella fornita da Sartori. In

realtà l’approccio dei veto players è superiore in precisione analitica per tre ragioni. In primo

luogo, se interessano le decisioni e la capacità decisionale di una democrazia parlamentare,

occorre interrogarsi esplicitamente sulle caratteristiche dell’”agente” preposto in questa forma di

governo a promuovere decisioni legislative e prendere decisioni amministrative: il governo. Il suo

formato non è desumibile se non con molta imperfezione dal formato del sistema di partito. Ad un

sistema multipartitico può infatti corrispondere un governo di maggioranza monocolore. In

secondo luogo, l’eterogeneità della compagine governativa e assenza di alternanza hanno ciascuna

un impatto autonomo sul funzionamento del sistema politico e non esistono ragioni all’interno

della teoria perché debbano essere entrambe sempre compresenti. Questo consente di avanzare

ipotesi su che cosa succede quando solo una delle due caratteristiche viene meno. Al contrario,

nel pluralismo polarizzato l’assenza di alternanza (effetto della polarizzazione) e la

frammentazione partitica (parlamentare) sono intimamente legate e la teoria non prevede che

solo una delle due caratteristiche sopravviva. Infine, e forse è la differenza più importante, usando

la teoria dei veto players si può ricostruire la dinamica attraverso cui si consolida un insieme di

regole e di prassi a partire da una certa situazione iniziale. Al contrario, il modello del pluralismo

polarizzato è senza passato. Come nel modello di competizione spaziale di Hotelling-Downs dal

quale ha origine, quel che conta è il numero dei partiti concorrenti e la distribuzione delle

preferenze fra gli elettori. Non c’è nessun riferimento a chi sia al governo alla vigilia delle elezioni,

né tanto meno in quale area dello spazio di policy si trovino le politiche in atto prima che il nuovo

parlamento si riunisca. L’adozione esplicita della teoria dei veto players per indagare i processi

decisionali in un singolo caso studio richiede al contrario di immaginare dove sia collocato 2 Vedi Pizzorno ( 1994)

inizialmente lo status quo delle politiche. Questo modo di procedere è un omaggio tutt’altro che

formale all’importanza del percorso (path dependency). Uno stesso sistema politico non solo

produce decisioni molto diverse a seconda di dove si trovino collocate le politiche ancora in atto al

momento della sua formazione ma, poiché le decisioni diventano il nuovo status quo, a cambiare

in modo cruciale può essere l’interazione governo-opposizione e la stabilizzazione dell’assetto

istituzionale.

Eterogeneità dei governi e assenza di alternanza.

Come è noto, per la teoria dei veto players (Tsebelis 2002) in una democrazia parlamentare

un’elevata eterogeneità delle preferenze di policy degli attori governativi corrisponde in media ad

una maggiore probabilità che le politiche in atto non vengano cambiate o vengano cambiate solo

marginalmente. Che a questa probabilità corrisponda effettivamente in un particolare frangente (e

per un determinato settore di policy) la conservazione dello status quo dipenderà da dove lo

status quo stesso è collocato rispetto alle preferenze degli attori governativi. Se lo status quo è

prossimo ad almeno un attore governativo, il cambiamento sarà molto difficile. Se collocato

all’interno del Pareto set (Unanimity core) degli attori governativi, il cambiamento sarà impossibile

o solo incrementale. Lo status quo è in gran parte eredità di decisioni dei passati governi e quindi

la posizione dello status quo a sua volta dipende dalla presenza o meno di alternanza. L’attenzione

al governo e ai partiti che ne fanno parte e/o lo sostengono dipende nella teoria dei veto players

dal ruolo che si riconosce all’esecutivo nella forma di governo parlamentare come principale

agenda setter. L’esecutivo è il principale promotore dell’iniziativa legislativa e per il tramite del

rapporto di fiducia che lo lega al parlamento è in grado in tutte le democrazie parlamentari di

proteggere meglio di qualsiasi altro attore politico la propria iniziativa legislativa in parlamento.

Questo potere di agenda è più o meno grande a seconda delle regole costituzionali e parlamentari

specifiche di ciascun sistema politico. L’eterogeneità delle compagini governative è anche decisiva

per spiegare la stabilità dei governi. Contrariamente sia alla letteratura tradizionale sia a quella

formalizzata degli anni ’90 (Tsebelis 2002; Laver and Schofield 1990; Warwick 1994)) per la teoria

non è infatti la polarizzazione e frammentazione del sistema dei partiti in generale a creare

instabilità ma è proprio l’eterogeneità nelle preferenze di policy della compagine governativa.

Come vedremo, anche l’assenza di alternanza gioca un ruolo importante sull’instabilità

governativa, nel caso italiano forse anche più rilevante.

L’eterogeneità delle preferenze di policy dei governi della prima repubblica era ampia, ben più

ampia di quanto le coalizioni multipartitiche a sostegno del governo raccontassero. Come ben

sappiamo la posizione occupata dalla Democrazia Cristiana su un ipotetico spazio di policy

multidimensionale non equivaleva certo ad un unico punto, ma piuttosto, in ragione della sua

divisione in correnti, ad un’area di considerevole ampiezza. Inoltre, fin dai primi governi successivi

alle elezioni del ’48, De Gasperi scelse di coinvolgere tutti i piccoli partiti laici dentro l’area

governativa, in parte proprio per bilanciare il peso delle correnti democristiane a lui ostili (Galli

2000). Con la lentissima ma quasi ininterrotta erosione elettorale della Democrazia Cristiana il

progressivo allargamento della compagine governativa divenne una necessità, fino ad includere

all’epoca del pentapartito alla destra della DC il Partito Liberale e alla sua sinistra il Partito

Socialista. Nei termini della teoria dei veto players possiamo affermare, senza tema di smentita,

che il Pareto Set del governo era già ampio nella fase iniziale della prima repubblica e che sarebbe

divenuto di un’ampiezza eccezionale nella sua fase terminale. Nella Fig.1, come esempio di

rappresentazione in uno spazio multidimensionale delle posizioni dei partiti ,sono identificate sulla

base di una survey di esperti condotta nel 1987 (Laver & Hunt 1992) le posizioni dei partiti di

governo della prima repubblica lungo la dimensione economica (meno tasse meno servizi pubblici

versus più tasse più servizi pubblici ) e quella legata ai diritti civili. I Pareto set dei diversi governi

sono le aree bicolori.

Fig.1

Che cosa comporta una simile ampiezza ? A parità di altre condizioni, come detto, dovrebbe

comportare una notevole stabilità delle politiche. Tuttavia, nei primi anni di vita di un sistema

politico non è sempre vero. Lo status quo legislativo è infatti in questo caso in gran parte eredità

del precedente regime non democratico. Pensate ad un paese parzialmente distrutto, appena

uscito dalla guerra, che ha vissuto una transizione violenta da un regime autoritario ad uno

democratico e i cui principali partiti, tutti oppositori del precedente regime, hanno da poco

stipulato un patto costituzionale. Non deve sorprendere che in queste circostanze un certo

mutamento delle politiche fosse possibile e che in non pochi settori di policy le proposte del

partito di maggioranza relativa apparissero anche agli occhi dell’opposizione un miglioramento

dello status quo. Perché avremmo dovuto aspettarci una forte contrapposizione in parlamento? Vi

era forse un’eredità di policy di stampo socialista che i governi centristi degli anni ’50 fossero

ansiosi di smantellare ? Vi erano semmai case, strade e autostrade da costruire e ricostruire, posti

di lavoro da creare (Morisi 1992) e l’intervento dello Stato non era certo malvisto dalla Democrazia

Cristiana di Fanfani. La domanda cruciale da farsi è, come abbiamo già accennato nel precedente

paragrafo, un’altra. Perché i vincitori alle elezioni non dotarono, intervenendo in primis sui

regolamenti parlamentari, il governo di un forte potere di agenda ? Che il partito comunista ed il

partito socialista fossero contrari era più che comprensibile, ma perché anche le forze governative

non spinsero in questa direzione ? La risposta è nascosta nella stessa formulazione della domanda.

L’espressione “forze governative” allude immediatamente ad una pluralità di posizioni. Il

rafforzamento del governo avrebbe significato il rafforzamento di quelle posizioni meglio

rappresentate nell’esecutivo a scapito di quelle minoritarie, che sostenevano il governo ma che

traevano dalle regole e prassi parlamentari risorse indispensabili per contrastare , bilanciare e

correggere i progetti di legge dell’esecutivo o di una parte di esso. E si badi che le forze

governative di cui parlo non erano necessariamente solo gli alleati della DC ma anche le correnti

interne al partito di maggioranza relativa. Queste forze furono sempre, a maggior ragione dopo il

fallimento della cosiddetta legge truffa, sufficienti a condizionare la sopravvivenza degli esecutivi e

quindi sempre veto players. Ricerche recenti mostrano che anche in contesti politici diversi da

quello italiano della prima repubblica in un governo di coalizione ciascun partito membro della

coalizione cerca di usare l’arena parlamentare per limitare i costi di “agenzia” connessi agli

incarichi ministeriali conferiti a esponenti dei partiti alleati (Strøm, K., Müller, W.C. and Smith

2010, Martin & Vanberg 2004, 2005, 2011; Pedrazzani & Zucchini 2012). Questi ultimi potrebbero

infatti, se le possibilità di intervento del parlamento fossero ridimensionate, provocare mutamenti

di politica poco graditi agli alleati. Questa possibilità di ricorso all’arena parlamentare sarà più

importante tanto più eterogenea sarà la coalizione. Nel caso italiano sembra pertanto molto

plausibile che il permanere di un parlamento forte fosse in gran parte il riflesso della

frammentazione ed eterogeneità della coalizione governativa. Fu questa la condizione politica

fondamentale che consentì la conservazione di un parlamento ad un tempo centrale e

policentrico, non la polarizzazione del sistema di partito.

Nei settori di policy in cui lo status quo è sufficientemente lontano dalle preferenze di tutti gli

attori che sostengono il governo, gli attori più deboli e marginali dell’arena governativa possono

accettare che altri più forti guidino il processo decisionale e selezionino gli esiti di policy purché

questi esiti siano considerevolmente migliori dello status quo per tutto il governo e la sua

maggioranza parlamentare (e spesso per la stessa opposizione). Nei settori ove al contrario lo

status quo è prossimo alle politiche preferite da almeno un attore governativo, la delega di un

potere di agenda al governo per questo attore comporta molti rischi o, se preferite, un eccessivo

costo di agenzia. Chi è nella condizione di esercitare effettivamente tale potere potrebbe condurre

ad un esito finale peggiore dello status quo per l’attore governativo in questione, per il quale lo

status quo iniziale era tutto sommato soddisfacente. Pertanto, se il governo poteva in determinate

circostanze promuovere efficacemente la propria iniziativa legislativa e proteggerla a sufficienza

dagli emendamenti del parlamento, la sua stessa natura eterogenea impediva (e come vedremo

impedisce) che queste circostanze si tramutassero in regole.

L’assenza di alternanza è l’altro ingrediente fondamentale che aiuta a comprendere il

funzionamento del sistema politico italiano e il prodotto e processo legislativo durante la prima

repubblica. Incide sulla posizione dello status quo, sul potere di agenda del governo e la

compattezza della coalizione che lo sostiene.

L’assenza di alternanza influisce sul posizionamento dello status quo nello spazio di policy in due

modi. Innanzitutto, se lo status quo in molti settori di policy è in gran parte l’esito di precedenti

processi legislativi, allora è probabile che si trovi molto prossimo al Pareto set degli attori

governativi quando non addirittura intrappolato dentro il suo perimetro. Pertanto i mutamenti di

policy significativi con il tempo si diradano, lasciando il passo a cambiamenti incrementali. Sarà

sempre più difficile che le forze governative, le cui preferenze di policy variano poco nel tempo e

difficilmente variano per tutte nella stessa misura e direzione, trovino i margini di accordo per

ulteriori cambiamenti. Quando questo accade è perché si presentano alla ribalta nuovi problemi

mai prima trattati o perché l’effetto di precedenti politiche ha condotto lo status quo

inopinatamente lontano dal Pareto set degli attori governativi.

In secondo luogo, senza alternanza è improbabile che nei vari settori di policy lo status quo sia

prossimo alle posizioni della principale forza di opposizione, dal momento che quest’ultima non è

mai stata al governo (almeno da sola), a meno che la stessa opposizione non difenda, contro le

forze governative, politiche ereditate dal passato regime non democratico. Circostanza,

quest’ultima, improbabile nel caso italiano. Pertanto, come già scritto, il mutamento dello status

quo quando reso possibile dall’accordo di tutte le forze sostenitrici il governo nel caso italiano non

comportava il più delle volte una forte e sincera ostilità da parte delle forze di opposizione di

sinistra perché è probabile che tale mutamento andasse nella direzione da loro stesse auspicata.

In altri termini, i cambiamenti di policy quando erano possibili non erano in genere controversi e

se non erano possibili non lo erano per il veto di una forza governativa prima ancora che per

l’ostilità dell’opposizione. Poiché il mutamento legislativo aveva luogo spesso con il consenso

dell’opposizione, un osservatore esterno poteva essere tratto in inganno e ritenere che quando il

mutamento non aveva luogo questo avvenisse perché l’orientamento negativo dell’opposizione in

parlamento era sufficiente a impedirlo. E quindi attribuire erroneamente non all’eterogeneità

delle preferenze di policy nel governo ma alla polarizzazione del sistema di partito in generale la

stabilità delle politiche ( e quella delle istituzioni).

In mancanza di alternanza, il potere di agenda dei governi era destinato a rimanere e, per certi

versi, a diventare ancora più debole (Zucchini 2010, 2011) . Come abbiamo appena scritto

l’assenza di alternanza comportava pochi mutamenti di policy davvero controversi, ovvero pochi

progetti di legge governativi importanti che vedessero su fronti davvero contrapposti governo e

opposizione. Questa circostanza ostacolava indirettamente il rafforzamento del governo nell’arena

legislativa, ossia un rafforzamento del suo potere di agenda. Procedure parlamentari e pratiche

che concedono molte opportunità ai singoli parlamentari e alle minoranze, come era nel caso

italiano, per ritardare e trasformare l’iniziativa legislativa del governo comportano costi decisionali

molto elevati per il governo stesso e l’insieme delle forze che lo sostengono, a patto che

l’opposizione abbia interesse a cogliere tali opportunità. Perché questo accada occorre che

l’opposizione giudichi il mutamento dello status quo impresso dal governo come una minaccia

importante ai propri interessi e valori e agli interessi e valori dell’elettorato che rappresenta. Se

questo accade e se lo status quo che il governo intende cambiare è sufficientemente sgradito a

tutte le forze politiche che lo sostengono, diventa allora conveniente per la maggioranza che

sostiene il governo scegliere (cambiando le prassi) o creare (cambiando le istituzioni) procedure

che limitino la portata delle tattiche dilatorie dell’opposizione e rendano più spedita e sicura

l’approvazione della propria iniziativa e di quella del governo. La distanza ideologica fra

maggioranza e opposizione non è pertanto sufficiente a generare un rafforzamento del governo.

Occorre anche che i mutamenti legislativi proposti segnino una divisione profonda fra

maggioranza governativa e opposizione senza allo stesso tempo che questa divisione attraversi la

maggioranza stessa. Il posizionamento dello status quo nella maggior parte dei settori di policy

alla nascita della prima repubblica e l’assenza di alternanza rendevano improbabile che questo

accadesse in Italia. I mutamenti dello status quo promossi dal governo ( con l’ovvia eccezione della

politica estera sulla cui base si fondava l’assenza stessa di alternanza ) erano criticati a sinistra per

lo più perché “insufficienti”, non perché ostili.

L’assenza prolungata di alternanza, e l’assenza di qualsiasi aspettativa di alternanza, infine,

modificano profondamente il funzionamento della democrazia parlamentare. La distinzione

essenziale fra una democrazia parlamentare ed una presidenziale consiste nel legame di fiducia

(implicito o esplicito) che lega in quest’ultima la sopravvivenza del governo al sostegno di una

maggioranza parlamentare. Se ipotizziamo, com’è sostanzialmente in tutte le democrazie

parlamentari, che i governi sono i principali (sebbene non esclusivi ) promotori delle leggi, questo

legame conferisce ai governi un certo potere di agenda. Se il governo perde il sostegno di una

maggioranza parlamentare, i membri di questa stessa maggioranza corrono il rischio di non potersi

appoggiare ad un governo per promuovere la propria iniziativa legislativa o impedire quella altrui.

Il governo successivo, in particolare se alla crisi di governo seguono nuove elezioni politiche, può

essere infatti espressione di una maggioranza diversa. L’esistenza della fiducia trasforma

potenzialmente qualsiasi votazione di un provvedimento in discussione in parlamento in un voto

non solo sul contenuto di tale provvedimento ma anche sulla natura partitica e l’identità

programmatica del governo , ossia del principale agenda setter dell’arena legislativa (Diermeier

and Feddersen 1998). Ciascun singolo parlamentare della maggioranza è pertanto chiamato a

valutare rispetto alle proprie preferenze e valori non solo i benefici ed i costi delle politiche

oggetto di votazione ma anche il costo legato alla probabilità di essere membro dell’opposizione

alla votazione successiva. Per il parlamentare che pur sostenendo il governo considera una sua

proposta un peggioramento dello status quo l’alternativa alla mancata approvazione di tale

proposta non è pertanto la conservazione dello status quo legislativo ma la prospettiva di un

cambiamento di tale status quo molto peggiore, dal suo punto di vista, di quello proposto dal

governo. L’esistenza del legame fiduciario fra governo e parlamento rende pertanto, a parità di

altre condizioni, i gruppi parlamentari e le coalizioni più unite nelle forme di governo parlamentari

che in quelle presidenziali. E la possibilità che una sconfitta del governo conduca direttamente o

indirettamente all’alternanza rafforza la posizione del governo nel processo decisionale. In una

democrazia parlamentare come quella italiana della prima repubblica che non conosceva

l’aspettativa dell’alternanza, l’impatto del legame di fiducia fra parlamento e governo si

indebolisce (Curini & Zucchini 2012). Le conseguenze di una crisi di governo sono molto meno

drammatiche per i parlamentari dei partiti governativi e le crisi di governo molto più frequenti. Gli

stessi partiti possono riproporre dopo una rincontrattazione del programma e della distribuzione

dei dicasteri governi ideologicamente molto simili a quelli appena dissolti. I governi stessi possono

essere espressione provvisoria di una fase di contrattazione fra i partiti. E la compattezza dei

gruppi parlamentari che sostengono il governo è molto più debole.

Perché tante leggi(ne)

Nelle righe precedenti abbiamo sostenuto che l’eterogeneità delle coalizioni governative e assenza

di alternanza con il passare del tempo hanno ostacolato sempre più il mutamento delle politiche e

reso stabile un assetto istituzionale nato policentrico. Come si conciliano allora la presunta scarsità

di mutamenti significativi delle politiche con il gran numero di leggi (e soprattutto leggine)

approvate molto spesso in commissione (e quindi consensualmente) in ciascuna legislatura (Cotta

& Verzichelli 2012, De Micheli & Verzichelli 2004, Zucchini 1997) ?

La ricerca comparata ha mostrato come ad un elevato numero di partiti al governo corrisponda

non solo scarso potere di agenda del governo, ma anche un’elevata produzione legislativa e poche

leggi davvero importanti (e quindi scarso mutamento di policy) (Tsebelis 2002, Doering 1995). A

queste correlazioni tuttavia non corrisponde un unico possibile nesso causale. L’eterogeneità delle

compagini governative può essere collegata ad un’intensa legiferazione in due modi, non

necessariamente alternativi. Da un lato, l’eterogeneità delle compagini governative induce ad un

ricorso abnorme allo strumento legislativo, dall’altro, accresce le chance di approvazione di norme

non controverse, in genere di micro provvedimenti di carattere distributivo. Vediamo come.

L’uso generalizzato della legge per governare è legato a quanto prima sostenuto a proposito del

costo di agenzia intrinseco ai governi di coalizione. L’eterogeneità delle preferenze di policy in

questi governi è all’origine del ricorso all’arena parlamentare da parte dei partiti al governo per

modificare i progetti di legge del governo stesso. Così facendo un partito cercherebbe di

correggere l’iniziativa legislativa di un ministro appartenente ad un partito alleato. Gli

emendamenti presentati in commissione ed in aula ridurrebbero il rischio che l’esito di policy

finale vada troppo a vantaggio del partito del ministro proponente e troppo poco (o per nulla) a

vantaggio degli altri partiti al governo. Questo meccanismo di prevenzione del costo di agenzia

legato alla distribuzione fra forze politiche diverse dei dicasteri ministeriali è efficace se il ministro

in questione è costretto dagli alleati al governo ad agire tramite l’iniziativa legislativa e non tramite

un provvedimento amministrativo. L’uso frequente dello strumento legislativo è quindi esso

stesso, coeteris paribus, un effetto dell’eterogeneità di preferenze politiche nel governo. Anche in

questo caso la collocazione dello status quo ( e quindi l’assenza di alternanza) gioca un ruolo

importante. Quanto più lo status quo è vicino al Pareto set del governo, tanto più l’azione

amministrativa di un singolo ministro comporta il rischio di un peggioramento dello status quo per

almeno un alleato al governo (il cosidetto ministerial drift) . Una parte di quanto nel sistema

politico italiano ha prendeva la via della legge altrove, là dove l’eterogeneità dei governi è

inferiore e c’è alternanza, è provvedimento amministrativo di un ministero. Naturalmente, data la

gerarchia delle norme di uno stato di diritto, l’effetto di una legislazione imponente è destinato a

durare più a lungo dei fattori che l’hanno consentita. Per cancellare il contenuto di una legge serve

infatti un’altra legge.

L’accumularsi di una gran quantità di leggine è l’altra faccia dell’assenza di mutamenti importanti e

controversi. In qualsiasi sistema politico non tutte le leggi sono riconducibili alle posizione dei

partiti sui grandi temi generali nazionali che caratterizzano le piattaforme elettorali. Esiste sempre

una varietà pressoché infinita di provvedimenti la cui portata, singolarmente presi, è molto

inferiore, il cui bacino di beneficiari è molto più circoscritto, il cui merito è più credibile venga

attribuito al singolo parlamentare. La possibilità che queste iniziative si facciano strada

nell’affollato calendario dei lavori legislativi dipende dalla difficoltà con la quale i partiti della

coalizione governativa riescono a procedere sulle politiche generali, dall’organizzazione dell’arena

legislativa e dall’estensione del consenso che questi provvedimenti riescono a raccogliere. La

considerevole eterogeneità ideologica della compagine governativa e l’assenza di alternanza ,

rendendo più difficile l’approvazione di politiche generali nazionali, lasciava tempo sufficiente

perché i parlamenti della prima repubblica, favoriti dalla procedura decentrata di approvazione

nelle commissioni, approvassero un gran numero di questi provvedimenti. Non a caso questi

provvedimenti venivano e vengono approvati con maggiore frequenza nella seconda parte della

legislatura, quando i pochi mutamenti legislativi possibili e importanti promossi dal governo hanno

già avuto luogo. Si trattava in larga misura di erogazioni di spesa che avvantaggiavano categorie e

territori comuni agli elettorati dei diversi partiti o provvedimenti omnibus che assemblavano

interessi diversi. La definizione dei beneficiari era talvolta talmente trasversale che opporsi

all’approvazione di tali provvedimenti avrebbe gettato nel discredito i parlamentari che ci

avessero provato. Spulciando gli archivi delle leggi approvate ancora all’inizio degli anni ’80 si fa

fatica a tenere il conto dei provvedimenti a favore dell’associazione ciechi italiani o quelli a favore

di vigili del fuoco, carabinieri, guardie forestali, a favore dei territori toccati da straordinari e

puntualissimi eventi atmosferici, a favore di marchi e aree di produzione di vini, salami e formaggi.

Alcuni provvedimenti avevano infine come beneficiari diretti gli stessi partiti politici. Basti pensare

alle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, alla moltiplicazione delle province ma anche alle

parti della riforma sanitaria del ’78 che ampliavano a dismisura le opportunità di impiego di

personale politico.

Trattare queste leggi come assenza di mutamento significativo dello status quo è per certi versi

improprio. La somma di questi provvedimenti avrebbe avuto nel tempo effetti rilevanti sul debito

pubblico, basta pensare alla crescita delle province e degli uffici giudiziari. Il mutamento avvenne

ma non rispetto a posizioni programmatiche dei partiti, avvenne ma senza vinti e vincitori visibili.

Tuttavia, soprattutto con il passare delle legislature, il numero di queste leggi stima molto per

eccesso l’entità di tale mutamento. Le leggi non sono approvate solo per mutare lo status quo ma

anche per preservarlo e molte delle leggi che da un anno all’altro, da una legislatura all’altra,

insistevano a beneficiare le stesse categorie, gli stessi interessi, le stesse corporazioni, non

facevano che rinnovare benefici in scadenza, conservare flussi di spesa, rispettare una promessa

fino ad allora sempre mantenuta. Non approvarle avrebbe significato un mutamento legislativo

davvero significativo. Approvarle conservava un’eredità consolidatasi nel tempo.

La seconda repubblica

Il sistema politico che ho cercato di tratteggiare usando il linguaggio della teoria dei veto players,

come è stato recentemente e autorevolmente ricordato, era coerente (Lanzalaco 2012).

Eterogeneità delle compagini governative ed assenza di alternanza si rafforzavano a vicenda nel

rendere stabili le politiche e stabili gli assetti istituzionali. Era anche un sistema destinato a

durare? Secondo l’interpretazione del sistema partitico italiano come un pluralismo polarizzato,

avrebbe dovuto accentuarsi la divisione interna in correnti della Democrazia Cristiana (Sartori

1974) e i partiti alleati avrebbero dovuto spostarsi progressivamente verso le ali estreme dello

spettro ideologico. In altre parole avremmo dovuto osservare una ulteriore polarizzazione con un

dissolvimento del centro, preludio al collasso del sistema politico. Un collasso ebbe luogo, dopo

poco meno di 50 anni dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra, ma la tendenza

centrifuga prevista dal modello non si avvertì fino a quasi la fine della prima repubblica. Al

contrario il Partito Comunista era su posizioni ben più moderate di quelle degli anni’50 e ancor di

più lo era il Partito Socialista, divenuto il principale alleato della Democrazia Cristiana. Il declino

elettorale di quest’ultima era stato lentissimo e la divisione in correnti era sempre stata un suo

tratto caratterizzante. Forse, il sistema, come alcuni commentatori iniziarono a supporre da metà

degli anni ’70 ( Farneti 1993) aveva iniziato a depolarizzarsi. In tal caso, tuttavia, per la teoria

sartoriana non avrebbe dovuto neppure collassare. Il modello che tanto bene e a lungo aveva

descritto il sistema politico italiano aveva previsto una fine diversa o nelle sue varianti più recenti

non prevedeva alcuna fine, ed era muto di fronte alla nuova repubblica. Il quadro interpretativo

della teoria dei veto players al contrario del modello del pluralismo polarizzato non prevede

alcuna autodissoluzione del sistema politico3. Nella nostra interpretazione eterogeneità delle

compagini governative e alternanza sono variabili distinte e separate. Perché un sistema politico

cambi è sufficiente che una di esse cambi e l’origine del cambiamento non è necessariamente

endogena. Gli eventi a cavallo della fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 orientano in effetti la

ricerca del principale fattore destabilizzante della prima Repubblica fuori dei confini patri. La prima

repubblica crollò molto banalmente perché venne meno uno dei due suoi elementi costitutivi:

l’assenza di una aspettativa di alternanza. E l’alternanza divenne possibile con il dissolversi

dell’assetto internazionale che l’aveva impedita. Nell’evoluzione dei rapporti fra le forze politiche

italiane, gli eventi nella scena internazionale, in particolare quelli che riguardavano il blocco

sovietico, avevano esercitato un’influenza considerevole lungo tutta la storia della prima

repubblica. I fatti di Ungheria nel ’56 facilitarono il completo distacco del Partito Socialista

dall’alleanza con il PCI consentendo da lì a pochi anni la nascita del centro sinistra; la primavera di

Praga pose le premesse per un lento distacco del Partito Comunista Italiano da Mosca. Il crollo del

muro di Berlino e le profonde trasformazioni che colpirono la struttura del potere in Unione

Sovietica posero lo stesso partito di fronte ad una scelta drammatica: conservare nel proprio nome

l’eredità simbolica di quella che appariva da tempo, anche ad una parte consistente della sua

dirigenza, un’esperienza fallimentare o cambiare per sopravvivere. Il cambiamento testimoniò che

un’epoca si era conclusa. Il sistema di partito andò destrutturandosi. Veniva meno un cleavage che

3 La teoria prevede infatti che molti veto players (o meglio un Pareto set di ampie dimensioni) aumentino il rischio di

crisi del sistema politico ( con transizioni a regimi non democratici ) solo nel caso di democrazie presidenziali.

aveva occultato altre dimensioni del conflitto e in forza del quale partiti e correnti lontani su

importanti dimensioni di policy erano stati costretti a cooperare per sostenere un governo. Ad

essere limitata nei propri comportamenti non era stata solo l’élite politica ma anche lo stesso

elettorato. Una parte di quest’ultimo, scomparsa la paura del comunismo, poteva esprimere la

scontentezza e l’avversione per le scelte o non scelte operate in svariati decenni da una classe

politica di governo compromessa in sempre più frequenti casi di corruzione. Bastava che qualche

abile imprenditore politico, un eresteta (Riker 1982), raccogliesse questi umori, desse loro una

forma, fornisse una spiegazione dei torti subiti, veri o presunti, ristrutturasse il campo di battaglia,

se necessario dando un nome nuovo ai nemici di sempre. In forme e modi e con effetti molto

diversi fu quanto fecero i promotori dei referendum elettorali e il leader della Lega Nord. Come

suggeriscono Cotta e Isernia (1996 ), citando Tocqueville, la classe politica di governo fu alla fine

travolta perché divenuta inutile e poiché inutile fu anche scoperta corrotta. Alle elezioni del 1992

non solo il principale partito di opposizione si divide in due tronconi, il più grande dei quali non si

richiama più al comunismo, ma la DC cessa di essere il primo partito in molte circoscrizioni del

Nord Italia a favore della Lega Nord. La destrutturazione produce inevitabilmente una

frammentazione partitica dalla quale il sistema politico italiano non sarà più in grado di

riprendersi4. Il nuovo sistema politico che emerge faticosamente fra la 12° e la 13° legislatura non

è altrettanto coerente del precedente. Ha avuto luogo l’alternanza ed è molto ragionevole

aspettarsi che il fenomeno si ripeta ( e infatti si ripeterà), ma le coalizioni di governo sono molto

eterogenee. L’Italia sperimenta l’alternanza nella frammentazione, un ossimoro che cambia il

processo e prodotto legislativo. Vediamo come.

Il baricentro delle due coalizioni in competizione non corrisponde più a quello dei governi di

pentapartito dell’ultima fase della prima repubblica. Quindi per la teoria dei veto players si aprono

maggiori opportunità di mutamento dello status quo. Non è più vero che la stragrande

maggioranza dei mutamenti di policy possibili siano da considerare auspicabili (per quanto

insufficienti) anche dal principale partito di opposizione. Detto altrimenti, il mutamento delle

politiche diventa controverso perché a mutare possono essere provvedimenti voluti dal

precedente governo ora divenuto opposizione. Nella Fig.2 sono rappresentati i Pareto Set dei

governi di centro-sinistra e di centro-destra fra il 1996 ed il 2006 in uno spazio di policy analogo a

quello utilizzato per la prima repubblica (vedi. Fig.1), attraverso dati ottenuti da una survey di

esperti più recente ( Benoit & Laver 2006).

4 Quanti infatti attribuiscono prevalentemente al Mattarellum la frammentazione del sistema partitico italiano della

seconda repubblica dovrebbero ricordarsi anche che alle elezioni per la Camera dei deputati dell’ultima legislatura della prima repubblica (1992) il numero di partiti effettivi è pari a 6,62 contro appena 4,61 della legislatura precedente.

Fig.2

Poiché, però, le coalizioni (ed in particolare quella di centrosinistra) sono eterogenee, l’entità del

mutamento effettivo è inferiore a quello promesso dalle singole componenti (in particolare quelle

più estreme ). Questo ovviamente crea le premesse per l’instabilità dei governi. E tuttavia l’

aspettativa di alternanza è sufficiente a innalzare la durata media degli esecutivi della seconda

repubblica rispetto a quelli della prima5. Le crisi di governo ora “costano” di più, sebbene

continuino ad essere molto più frequenti che in Germania o in Gran Bretagna.

Un cambiamento controverso delle politiche in atto genera importanti resistenze da parte degli

sconfitti alle elezioni. Varie forme di ostruzionismo e tattiche dilatorie vengono esperite

platealmente , ora da una parte ora dall’altra, a seconda di chi in quel momento è al governo e

5 La durata media dei governi della prima repubblica era 315 giorni, quella della seconda 678.

all’opposizione6. La maggiore conflittualità è generata dall’alternanza (e non dalla polarizzazione in

sé). Non è la distanza fra le forze politiche ma la posizione relativa dello status quo ad essere

cambiata rispetto per esempio al secondo dopoguerra. Certamente la personalità e gli interessi di

breve periodo del leader della coalizione di centro destra fanno la loro parte ma la novità più

interessante e duratura è l’esistenza di una contesa molto più frequente e importante di prima su

quale direzione debba prendere il mutamento. La nuova conflittualità rende poco probabile

l’approvazione di leggi in sede legislativa (Fig. 3), in particolare se di origine governativa.

(Fig.3). Proporzione leggi approvate in sede legislativa sul totale delle leggi (escluse ratifiche

trattati) per tipo di iniziativa; proporzione leggi di conversione decreti legge sul totale leggi di

origine governativa

L’esecutivo non può sfuggire al collo di bottiglia delle votazioni in aula e i costi decisionali

dell’arena legislativa lievitano grandemente. Sembrerebbero crearsi le condizioni ideali per un

rafforzamento del governo nell’arena legislativa ( Gianniti & Lupo 2004) ma l’eterogeneità delle

coalizioni di governo impedisce che questo rafforzamento rimanga scritto nei regolamenti

parlamentari. I partiti al governo più deboli nel consiglio dei ministri non sono disposti a rinunciare

a priori e per sempre a proseguire la contrattazione con gli alleati nelle aule parlamentari, in

particolare se possono avvalersi dell’appoggio della presidenza di una delle due Camere. In tutte le

legislature della seconda repubblica almeno una delle due camere (quasi sempre la Camera dei

Deputati) è infatti appannaggio di un partito minore della coalizione, diverso da quello della 6 Vedi a questo proposito una testimonianza significativa del cambiamento rispetto alla prima repubblica:

http://archiviostorico.corriere.it/2002/luglio/31/Andreotti_ostruzionismo_come_rivoluzione_non_co_0_0207312081.shtml

0,00%

10,00%

20,00%

30,00%

40,00%

50,00%

60,00%

70,00%

80,00%

8° 9° 10° 11° 12° 13° 14° 15°

Perc. Sede legislativa leggi "parlamentari" Perc. Sede legislativa leggi governative

Perc. conv.decreti legge su leggi governo

presidenza del consiglio. E sarebbe proprio compito della presidenza della Camera, contro gli

interessi della propria parte politica e a danno delle considerevoli prerogative della sua carica nella

gestione del processo legislativo promuovere nella giunta del regolamento eventuali modifiche ai

regolamenti che rafforzino davvero la posizione del governo.

Fig. 4 – Deleghe al governo (1963-2011)

* Deleghe che implementano direttive europee o trattati internazionali o che richiedono solo la redazione di testi unici sono state

escluse dal conteggio. Fonti : X-XIV Legislatura, Vassallo (2001) and aggiornamento personale; IV-IX pulizia e rielaborazione di dati

provenienti da “Banche Dati Giuridiche”, InfoUtet and Juris Data online, Giuffrè editore.

Il rafforzamento del governo avviene pertanto quasi esclusivamente nel quadro delle regole

esistenti, modificando e forzando alcune prassi e usando con maggiore intensità procedure fino ad

allora poco utilizzate (Gianniti & Lupo 2004 ; Zucchini 2010) . E’ un rafforzamento tramite

espedienti, deciso di volta in volta dalle forze politiche in quel momento al governo. Diminuisce il

numero delle leggi approvate in Parlamento (comprese in valore assoluto anche quelle del

governo, tab.1) ma è dubbio, nonostante i tentativi di delegificazione, che a questa diminuzione

corrisponda un equivalente uso di provvedimenti di rango amministrativo, come ci aspetteremmo

se le compagini governative fossero compatte. Le leggi infatti sono diminuite ma sono in media più

0

10

20

30

40

50

60

70

de

legh

e

years

Deleghe

estese e lunghe di prima e tramite le deleghe legislative (vedi più avanti) gemmano decreti

legislativi, altri provvedimenti con lo stesso rango delle leggi (tab.2).

Tab. 1 Leggi

LEG.

Num. Leggi (escluse ratifiche internazionali)

Leggi al giorno (escluse ratifiche internazionali)

Leggi di origine governativa (escluse ratifiche internazionali)

Numero parole di una legge al giorno (escluse ratifiche trattati internazionali)

Media di parole per legge (escluse ratifiche trattati internazionali)

Media di parole per legge di origine governativa

Media di parole di origine parlamentare

8 916 0,626968 647 N.D. N.D N.D N.D

9 773 0,540938 545 N.D N.D N.D N.D

10 1052 0,608092 595 937,71 1913,54 2237,15 1568,92

11 290 0,407876 175 709,92 2058,47 2958,09 1534,99

12 186 0,250336 152 608,88 2539,81 3047,29 1228,09

13 627 0,355495 435 845,74 2580,55 3209,70 1522,27

14 463 0,271081 324 707,25 2784,02 3838,84 1603,04

15 71 0,098611 58 N.D N.D N.D N.D

Tab.2 Decreti legislativi

LEG

N.decreti legislativi

N.decreti legislativi al giorno

N.parole decreto legislativo al giorno

N. medio di parole per decreto legislativo

10 146 0,08 255,51 3074,836

11 116 0,16 755,49 4702,259

12 51 0,07 431,31 6385,039

13 455 0,25 994,97 4036,73

14 320 0,18 939,86 5272,041

E’ evidente che l’ingigantimento delle leggi ( e la diminuzione del loro numero) è innanzitutto una

risposta all’ingorgo legislativo dell’aula. Il passaggio di un lungo convoglio con molti vagoni è la

risposta alla chiusura delle tante stazioni, le commissioni, dove prima passavano molti treni con

pochi vagoni. Al governo non viene concessa la facoltà di redigere il calendario dei lavori dell’aula,

non può come accade altrove, accorciare i tempi di discussione dei propri progetti di legge,

fronteggia commissioni parlamentari formalmente forti, non può proteggersi dagli emendamenti

presentati né è l’unico attore che possa presentare l’ultimo emendamento. Il parlamento tuttavia

approva molte deleghe al governo a legiferare (Fig.4) , la fiducia su maxiemendamenti presentati

dal Governo e completamente sostitutivi dei progetti di legge in discussione mescola vantaggi

della ghigliottina inglese a quelli del vote bloquée transalpino, il profluvio di decreti legge detta

l’agenda di “fatto” dei lavori parlamentari. Inoltre, nonostante la trasmigrazione di massa da un

gruppo parlamentare all’altro verificatasi in particolare nella 13° legislatura, almeno fintanto che i

parlamentari aderiscono ad un gruppo votano più conformemente al gruppo di appartenenza di

quanto facessero in passato , in particolare se il gruppo è rappresentato nella compagine

governativa (Curini & Zucchini 2012).

Sviluppi probabili

Il sistema politico della seconda repubblica basato sulla combinazione di un’elevata eterogeneità

dei governi e alternanza potrebbe non sopravvivere a lungo e non sembra che sia l’eterogeneità

dei governi la caratteristica destinata a scomparire.

Le regole per durare devono rispondere agli interessi della maggioranza di forze politiche che è

nelle condizioni di cambiarle. In una democrazia parlamentare questa maggioranza può essere più

ampia di quella che sostiene il governo ma non può essere diversa. Ossia anche e forse più che in

qualsiasi altro ambito di policy le politiche istituzionali non possono essere approvate contro il

volere di un veto player, di un partito che è parte della compagine governativa, pena la caduta

stessa del governo. Questo banale principio vale tanto per i regolamenti e le prassi parlamentari,

ai quali abbiamo accennato nel precedente paragrafo, quanto per le regole elettorali.

Le regole elettorali hanno tuttavia una primazia perché interagendo con (e plasmando ) la

distribuzione delle preferenze dell’elettorato influenzano l’eterogeneità delle compagini

governative. Questa a sua volta stabilisce i margini di variazione possibili di tutte quelle norme per

il cui cambiamento è sufficiente la maggioranza dei seggi in parlamento, incluse le stesse regole

elettorali. Pertanto regole elettorali poco riduttive (molto proporzionali) non solo accrescono

l’eterogeneità dei governi ma rischiano di renderla permanente. Questo è quanto accaduto con

l’ultima riforma del sistema elettorale.

Le regole elettorali approvate nel 1993, da un parlamento comunque meno frammentato di quelli

successivi e vincolato dall’esito dei referendum non soddisfacevano gli interessi di una

maggioranza governativa del 2005, composta tutta di partiti estranei all’approvazione di quelle

regole o perché allora ancora inesistenti o perché contrari. Lo “status quo” poteva pertanto essere

modificato con un vantaggio elettorale per tutti partiti al governo. Naturalmente al vantaggio

elettorale può corrispondere la difficoltà successiva a governare ma perché questa

preoccupazione entri nelle considerazioni dei partiti al governo occorre che almeno il principale fra

questi, quello su cui potrebbe ricadere in futuro la responsabilità di guidare la compagine

governativa, abbia un orizzonte temporale sufficientemente lungo. La principale forza politica

governativa di allora (Forza Italia) aveva lo stesso breve orizzonte temporale del proprio leader e

quindi l’intento principale della nuova legge fu quello di evitare la sconfitta elettorale o,

comunque, di minimizzarne gli effetti. Come è noto, l’intento fu brillantemente realizzato,

inserendo tuttavia nuovi formidabili incentivi alla frammentazione partitica ( elettorale e

parlamentare), esiziali per la sopravvivenza del governo di centro sinistra ma, nel lungo periodo,

quel lungo periodo ignorato da Berlusconi, pericolosi anche per quello di centro destra. Qualsiasi

futuro tentativo di ridurre l’eterogeneità dei governi tramite una legge elettorale sarà molto

difficile che si realizzi. Le soglie implicite o esplicite alla rappresentanza di un nuovo sistema non

potrebbero penalizzare la più piccola formazione fra quelle indispensabili per raggiungere una

maggioranza di seggi per ciascuna delle coalizioni in competizione. In astratto un’alleanza di

governo fra i partiti più grandi alla vigilia delle elezioni, come per certi versi quella che sorregge

l’attuale governo, potrebbe sfornare una legge elettorale che ridimensioni fortemente il livello di

frammentazione raggiunto, ma perché questo avvenga occorrerebbe che questi stessi partiti

fossero (nei sondaggi elettorali prima ancora che in parlamento) di dimensioni ragguardevoli e con

un consenso elettorale sufficientemente solido da reggere l’inevitabile disaffezione di una parte

del loro elettorato non solo per le scelte impopolari del governo che sostengono ma anche per il

semplice fatto di cooperare.

Se è lecito nutrire dubbi sulla riduzione dell’eterogeneità dei governi è anche perché è la

prospettiva dell’alternanza ad essere a rischio. E non per l’impossibile ritorno di un grande partito

cattolico di centro, ma forse, ancora una volta, per una frattura legata all’arena internazionale.

Mentre scrivo, in un paese, la Grecia, il cui sistema elettorale proporzionale ha effetti assai più

maggioritari del nostro e i cui governi per quasi quarant’anni sono stati quasi tutti monocolore,

un’inedita alleanza fra socialisti e conservatori cerca di mantenere il paese dentro l’Eurozona

contro un’opposizione euroscettica (e in alcuni casi decisamente ostile all’Europa) di destra e di

sinistra. Lo stesso governo Monti è sostenuto da una maggioranza dai tratti simili a quelli greci ed

anche nel caso italiano cresce un fronte variegato favorevole al ritorno alla lira, contrario alla

politica economica richiesta dalla Banca Centrale e dai paesi del Centro e Nord Europa e ostile ad

una ulteriore cessione di sovranità alle istituzioni europee. Questo nuovo cleavage potrebbe

ricreare per qualche tempo (ma quanto tempo nessuno è in grado di prevederlo) alcune modalità

di funzionamento del sistema politico della prima repubblica, quando per così dire non era

l’Europa ma il comunismo e la divisione del mondo in due blocchi a impedire che si realizzasse (e si

pensasse) l’alternanza e a costringere forze altrove su fronti contrapposti a collaborare. Il blocco

pro Europa, inizialmente maggioritario, avrebbe una eterogeneità ideologica anche maggiore dei

governi della prima repubblica. Ad essere diversa sarebbe la posizione dello status quo. Come

abbiamo sostenuto nel corso di questo contributo, nonostante l’elevata polarizzazione nel sistema

politico italiano emerso nel secondo dopoguerra, la posizione dello status quo iniziale e l’assenza

di alternanza consentirono mutamenti legislativi non controversi. Al contrario i mutamenti

legislativi che i futuri governi riuscissero a promuovere troverebbero numerosi e strenui difensori

dello status quo in parlamento. Il rafforzamento “informale” del governo nell’arena legislativa, già

avvenuto negli ultimi quindici anni, verrebbe pertanto confermato e forse accresciuto senza, a

causa dell’eterogeneità delle compagine governative, una sua traduzione formale in nuove regole

ed istituzioni. Infine, in assenza di una prospettiva realistica di alternanza e in presenza di governi

eterogenei anche la modesta riduzione dell’instabilità governativa registrata durante gli anni

successivi alla nascita della seconda repubblica si affievolirebbe.

Prossimo terreno di indagine

La rappresentazione della prima e della seconda repubblica con il linguaggio della teoria dei veto

players che ho proposto in questo paper non è e non poteva essere completa. Lascia

inevitabilmente inesplorati caratteristiche e mutamenti che non riguardano le posizioni delle forze

politiche e dello status quo legislativo nello spazio politico. Uno di questi terreni di indagine mi

sembra in particolare più urgente e affascinante di altri. Per comprendere più compiutamente i

comportamenti dei partiti, la loro disponibilità all’accordo, la loro compattezza e forse il loro

stesso numero occorre comprendere per così dire la loro natura nel tempo. In termini meno

misteriosi occorre una teoria, non in contrasto con quella qui utilizzata, che spieghi in modo

parsimonioso e sistematico il mutamento degli orizzonti temporali delle organizzazioni partitiche e

l’effetto di questo mutamento sui processi decisionali. L’accorciamento di questi orizzonti è infatti

la conseguenza più importante della cosiddetta personalizzazione della politica . Nella maggior

parte dei partiti europei diversi assetti organizzativi si sono succeduti nel 20° secolo. Sebbene lo

sviluppo dei mezzi di comunicazione e la disponibilità di risorse finanziarie pubbliche abbiano

accentuato ovunque l’importanza dei leaders nazionali, questi partiti sono per lo più

organizzazioni intergenerazionali con un marchio (un brand) che si presume sia destinato a

sopravvivere alla sorte dei singoli dirigenti. Seconde file e generazioni più giovani di politici

ambiziosi restano in genere allineati dietro il marchio in attesa che il naturale ricambio

generazionale e le vicende politiche possano portare alcuni di loro alla grande ribalta politica

nazionale. E nello stesso tempo le scelte ed i comportamenti della leadership , per quanto più

autonome e libere di un tempo dai condizionamenti dei militanti, non compromettono ( senza

essere colpiti da un’implacabile ritorsione dell’organizzazione) il valore del marchio con scelte

avventate o comportamenti “predatori”. Nel caso italiano il collasso del sistema di partito sembra

aver trascinato con se in molti casi il partito come organizzazione. La sorta di patto implicito fra i

dirigenti ed eletti con diverse anzianità di carriera che ho appena descritto non è in molti casi

neppure immaginabile. Che conseguenze ha tutto questo sulla capacità decisionale del sistema

politico ? Perché è avvenuto ? In che rapporto sta con la frammentazione partitica ?

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