etnos e civiltà identità etniche e valori democratici carlos tulio altan

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A seguito della trasformazione delle società contemporanee, i dibat- titi su giustizia sociale ed economica, su democrazia e coesistenza di diversi gruppi etnici sono divenuti tanto concreti quanto urgenti. La serie "Società" mette a fuoco problemi relativi alle scienze sociali grazie a una prospettiva allargata che comprende economia, polito- logia, antropologia culturale e urbanistica. “Campi del sape- re/Società” intende fotografare i fenomeni più rilevanti del mondo contemporaneo e proporre modelli in grado di preparare il futuro. Carlo Tullio-Altan è professore emerito di Antropologia culturale all’Università di Trieste. Ha pubblicato: Lo spirito religioso del mondo primitivo (Il Saggiatore, 1960), Antropologia funzionale (Bompiani, 1967), Valori, classi sociali e scelte politiche (assieme ad Alberto Mar- radi, Bompiani, 1976), Manuale di antropologia culturale (Bompiani, 1971), Modi di produzione e lotta di classe in Italia (assieme a Rober- to Cartocci, Mondadori-Isedi, 1979), Antropologia. Storia e problemi (Feltrinelli, 1983; seconda edizione ampliata 1985), La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi (Feltrinelli, 1986), Populismo e trasformismo. Sag- gio sulle ideologie politiche italiane (Feltrinelli, 1989), Soggetto, simbo- lo e valore. Per un’ermeneutica antropologica (Feltrinelli, 1992).

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Questo saggio riguarda il problema relativo alla qualità specifica del principio di identità etnica e suggerisce alcune inedite chiavi di lettura dei tragici eventi che caratterizzano questa fase della nostra storia. Il discorso muove dal chiarimento del problema della definizione univoca dell'esperienza simbolica come distinta da quella razionale. Questo principio simbolico unificante è descritto come una configurazione di elementi, trasmutanti in valori: nella memoria storica del gruppo, come epos; nell'insieme delle sue norme di convivenza, come ethos; nella stirpe di cui i singoli si sentono parte, come genos; nel territorio in cui il gruppo vive, come topos. L'insieme di questi elementi è lo strumento per indagare più a fondo la storia umana: l'ethnos.

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A seguito della trasformazione delle società contemporanee, i dibat­titi su giustizia sociale ed economica, su democrazia e coesistenza di diversi gruppi etnici sono divenuti tanto concreti quanto urgenti. La serie "Società" mette a fuoco problemi relativi alle scienze sociali grazie a una prospettiva allargata che comprende economia, polito­logia, antropologia culturale e urbanistica. “Campi del sape- re/Società” intende fotografare i fenomeni più rilevanti del mondo contemporaneo e proporre modelli in grado di preparare il futuro.

Carlo Tullio-Altan è professore emerito di Antropologia culturale all’Università di Trieste. Ha pubblicato: Lo spirito religioso del mondo primitivo (Il Saggiatore, 1960), Antropologia funzionale (Bompiani, 1967), Valori, classi sociali e scelte politiche (assieme ad Alberto Mar­radi, Bompiani, 1976), Manuale di antropologia culturale (Bompiani, 1971), Modi di produzione e lotta di classe in Italia (assieme a Rober­to Cartocci, Mondadori-Isedi, 1979), Antropologia. Storia e problemi (Feltrinelli, 1983; seconda edizione ampliata 1985), La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi (Feltrinelli, 1986), Populismo e trasformismo. Sag­gio sulle ideologie politiche italiane (Feltrinelli, 1989), Soggetto, simbo­lo e valore. Per un’ermeneutica antropologica (Feltrinelli, 1992).

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Carlo Tullio-Altan Ethnos e civiltàIdentità etniche e valori democratici

UNIVERSITÀ' CA' FOSCARI DI VENEZIADIPLOMA UNIVERSITARIO IN SERVIZIO SOCIALE

F.ta Briati-Dorsoduro, 2530 30123 VENEZIA

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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Campi del sapere” ottobre 1995ISBN 88-07-10193-9

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1. Introduzione al dibattito sull'identità etnica

1. PremessaNon vi è forse un argomento del dibattito contemporaneo, più controverso di quello sul rapporto fra il principio di nazio­nalità, così legato alle esperienze del passato, e l’esigenza di un nuovo ordine sovranazionale che ponga fine alle stragi e ai genocidi che affliggono oggi, più che mai, le società nel mon­do. Un ordine ancor tutto da inventare. E al tempo stesso non vi è problematica nella quale i criteri razionali per poterla ade­guatamente affrontare, in termini di definizioni e di teorie am­piamente condivise, siano così scarsi e troppo spesso sover­chiati da atteggiamenti emotivi e irrazionali. La conseguenza ne è che gli esperti impegnati in questo genere di ricerche si sono lasciati sistematicamente sorprendere, in questi ultimi anni, da eventi che non avevano affatto previsto, come il crollo subitaneo di assetti sociali e forme statuali che sembravano dover sfidare i secoli, e come, al contrario, il riemergere pre­potente di forme etniche di aggregazione sociale, che pareva­

no oramai del tutto spente e storicamente superate.Il fenomeno che sta al centro di questa vicenda, di cui tan­to si parla e così poco si conosce, è appunto il principio dell’identità etnica. Non sono mancati in questi ultimi anni i tentativi per mettere a fuoco questo concetto, nei vari indirizzi delle scienze umane: sociologia, psicologia, antropologia cul­turale, scienza della politica, tentativi che si rifanno a referenti oggettivi, come la razza, il popolo, il territorio, la lingua, la cultura, la stirpe; o soggettivi, come stati di coscienza inconsa­pevolmente vissuti, o consapevolm ente rappresentati, vuoi nella forma del mito, vuoi in term ini di pensiero razionale. L’identità etnica è stata di volta in volta intesa come un attri­7

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buto primordiale permanente e indelebile, o come un prodotto storicamente condizionato e culturalmente codificato.A mio avviso un notevole arricchimento di questa discus­sione a molteplici voci, spesso assai discordanti fra di loro, e non esente da forti condizionamenti politico-ideologici, è ve­nuto dagli studi di Anthony D. Sm ith (Sm ith 1984, 1992, 1991), il quale ha messo bene in evidenza un fatto, e cioè che se sono multiformi le versioni storiche delle identità etniche nel mondo e nei secoli, nessuna può prescindere, per costituir­si, da un nucleo simbolico fondamentale, che le dia senso e va­lore. Tuttavia dopo aver ben chiarito questo punto, in nessun luogo della sua vasta opera di ricognizione critica egli ci offre un approfondimento della qualità specifica e dei contenuti e articolazioni di questo nucleo simbolico fondamentale, che ci perm etta di usarlo quale strum ento euristico soddisfacente nella ricostruzione storiografica dei processi che lo riguarda­no. E a questo punto mi sono chiesto se un tale approfondi­mento non fosse possibile, e necessario, per portare avanti il suo discorso.

2. L ’indirizzo della presente ricercaGià da tempo, mi ero impegnato nello studio sulle origini e le carenze dello spirito pubblico della società italiana, sui fon­damenti epistemologici delle ideologie politiche che hanno ca­ratterizzato la storia nazionale e sul loro carattere simbolico, da cui l’esigenza pregiudiziale di chiarire il significato da dare all'esperienza simbolica medesima, in quanto qualitativamen­te distinta da quella razionale, studio che ha portato alla pub­blicazione di un saggio su questo specifico argomento (Tullio- Altan 1992). In questo saggio affrontavo, in modo sintetico, il tema della formazione dell’ethnos, come una delle figure prin­cipali del patrimonio simbolico della cultura umana.Questo mio studio mira q u in d i, in primo luogo, a esplicita­re adeguatamente ciò che costituisce la qualità simbolica del-1 ’ethnos, e a formulare un ideal-tipo del quale verificare l’ope­ratività attraverso un sintetico excursus storico sulle forme che l’identità etnica è venuta assumendo nel corso dei tempi nei diversi paesi. In altri termini questa indagine si propone di fornire uno strumento di conoscenza che, almeno in parte, sia in grado di colmare un accertato vuoto di sapere in questo set­tore.Da tutto ciò deriva la struttura di questo volume. In una prim a parte del quale si riprende a grandi linee il discorso sul­

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la specificità dell’esperienza simbolica, per comprendere più a fondo la qualità di quel valore che chiamiamo ethnos, o iden­tità etnica. In una seconda parte si tenta di delineare - nei li­miti consentiti dall’economia del volume stesso - quale sia sta­to lo svolgimento diacronico della sua incidenza nel succeder­si delle forme storiche di aggregazione dei gruppi sociali, dai tem pi antichi alle società contemporanee, nelle diverse aree geografiche, e una terza parte illustra quali ne siano le attuali manifestazioni, in relazione allo stato dei rapporti intem azio­nali, e in ragione di un possibile e auspicabile suo futuro svi­luppo in senso universalistico ed ecumenico, che trascenda i limiti del tendenziale etnocentrismo nel quale fin qui l’identità etnica si è espressa nel mondo.In questa sintesi che è più un suggerimento di ricerca che il risultato di un'indagine storico-critica compiuta, la quale ri­chiederebbe ben altra mole di lavoro, si è tenuta presente, per evitare il rischio di ripercorrere strade che hanno ormai con­dotto a risultati storicam ente datati, la lezione della scuola francese delle Annales.È facile infatti cedere alla fascinazione dell’idealismo lette­rario quando si parla di etnia o di nazione, con toni inevitabil­mente celebrativi ed encomiastici, in quanto quel principio è effettivamente parte integrante del patrimonio culturale di un gruppo sociale emotivamente vissuto come valore positivo dai sudditi o dai cittadini che lo compongono.Ma la cultura non è tutto, in una storica formazione socia­le, bensì solo la componente di un insieme di dimensioni che, nel quadro di un dato ecosistema, si articola, come ci ha inse­gnato Fernand Braudel, nel senso dell’economia, delle forze sociali, delle istituzioni politiche, insieme di cui la cultura par­tecipa in modo interattivo, e cioè al tempo stesso determinan­te e determinato. E così il patrimonio simbolico, che fa parte della cultura di un popolo, appare condizionato storicamente dalle vicende dell’insiem e così come le condiziona, è una realtà concreta storica e non metafisica, e va concepito pertan­to nel quadro dinamico di una forma storica, che è quella di una data società organizzata come una struttura che è al tem­po stesso una congiuntura.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Petrosino (1991), sulla tipologia delle principali teorie contempo­ranee in tema di identità etnica, pp. 11-14; sulla distinzione fra teo­9

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rie oggettivistiche, soggettivistiche, primordialiste e funzionaliste, pp. 38-39;Sciolla (1983), sugli aspetti sociologici della problematica etnica (dimensione locativa, selettiva, integrativa), approccio funzionalista, di interazionismo simbolico e fenomenologia sociale, pp. 7 e sgg., antologia di testi di autori delle varie tendenze (Parsons, Turner, Holzner, Pizzomo, Touraine, F. Berger, P. Berger, Kellner, Luckmann, Luhmann);Hroch (1985), sull’apporto delle personalità dei militanti impe­gnati nei processi dei revival etnici, pp. 3-30;Epstein (1983), sulle diverse prospettive: sociologica (Durkheim, Toennies, Weber), pp. 21-25, psicologica, pp. 27-28, culturologica, p. 167, politologica, pp. 172-173, e psicologico-sociale, pp. 181 e sgg., sulla necessità di approfondire gli strumenti di ricerca, pp. 21 e sgg., 168 e sgg., 195 e sgg., 198-201;Jacobson Widding (1983), sulla dimensione psicologica, con rife­rimento agli studi di E.H. Erikson, pp. 13-14, 17, 47 e sgg.;Pizzomo in Sciolla (1983), sul significato centrale della dimensio­ne universalistica dei valori quale fondamento delFidentità etnica, pp. 147-148;Rusconi (1993), sul profilo dell'identità come mito politico ed evento mitopoietico, pp. 80-81;Glazer e Moynihan (1976), sulla necessità di perfezionare gli stru­menti conoscitivi in tema di identità etnica, pp. 2 e sgg.;Smith (1991), sull’identità nazionale oggi: “Of all the collective identities in which human beings share today, national identity is perhaps the most fundamental and inclusive. Not only has nationalism, the ideological movement, penetrated every comer of the globe; the world is divided, first and foremost, into ‘nation-states’ - states cla­ming to be nations - and national identity everywhere underpins the recurrent drive for popular sovereignty and democracy, as well as the esclusive tyranny that it sometimes breeds. Other types of collec­tive identity - class, gender, race, religion - may overlap or combine with national identity but they rarely succeed in undermining its hold, though they may influence in direction. Governments and sta­tes may muzzle the expression of national aspirations for a time, but it is likely to be a costly and ultimately fruitless expedient. For the forces that sustain national allegiances have proved, and are likely to prove, stronger than any countervailing trends” (p. 143).

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2. La specificità dell’esperienza simbolica e il m ondo dei valori

1. La mitopoiesiChe cos e un simbolo? Non vi è nulla di meno scontato di

una risposta a questa domanda. Ogni studioso di questo pro­blema vi risponde infatti in modo diverso a seconda che egli sia uno psicologo dell’età evolutiva o del profondo, un lettera­to o un esperto di linguistica, un filosofo, un fisico matemati­co o un cultore di retorica, un antropologo o uno studioso di storia delle religioni, un politologo interessato alle ideologie o un epistemologo, o un filosofo della scienza. Ognuno ne ha in­fatti un’idea diversa, strettamente condizionata dalla prospet­tiva della sua disciplina e dai relativi problemi che tratta, co­sicché i tentativi di dialogo interdisciplinare irrimediabilmen­te finiscono in una biblica confusione delle lingue e del pen­siero. In modo particolare poi quando l’argomento in discus­sione sia il mondo dei valori nel quale a buon diritto rientra il simbolo dell’identità etnica.

I valori infatti, proprio per l’assenza di una teoria sufficien­tem ente condivisa in campo scientifico, e della conseguente loro inspiegabilità, sono confinati nella dimensione degli affet­ti, delle emozioni, dei sentimenti e relegati per questo in quel generico contenitore di problemi mal posti e insoluti, che vie­ne chiamato l’irrazionale (Tullio-Altan 1992, pp. 129-136), li­mitando il discorso su di essi a generiche e soggettive descri­zioni, più o meno letterariamente suggestive, o facendone l’og­getto di empatiche, mistiche adesioni.In questo saggio si tenterà invece di dare al simbolo un si­gnificato univoco e definito sulla base di alcune scelte teoriche chiaramente esplicitate, e per questo pare assai conveniente

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rpartire dall’im portante contributo su questo tem a dato da Clifford Geertz:

Sulla parola “simbolo” è posto un carico così gravoso che la no­stra prima mossa consiste nel decidere con una certa esattezza che cosa vogliamo intendere con essa. Non è un compito facile perché "simbolo” come “cultura”, è stato usato riferendosi a una grande va­rietà di cose, spesso a parecchie insieme e contemporaneamente.Da certuni è usato per ogni cosa che significhi per qualcuno qualcos’altro: le nuvole scure sono i precursori simbolici di una pioggia imminente. Da altri è usato solo per segni esplicitamente convenzionali di questo o di quel tipo: una bandiera rossa è simbolo di pericolo, una bianca di resa.Per altri ancora è limitato a qualcosa che esprime in modo indi­retto e figurato ciò che non si può esprimere in modo diretto e lette­rale, così che vi sono simboli nella poesia ma non nella scienza, e lo­gica simbolica è una denominazione errata. Altri ancora tuttavia, lo usano per ogni oggetto, atto, avvenimento, qualità o rapporto che serve da veicolo per un concetto - il concetto è il “significato” del simbolo e questo è il punto di vista che seguirò qui. (Geertz 1987, p. 143)Mi trovo pienamente d’accordo con quanto scrive Geertz in questo testo, salvo per quanto riguarda la conclusione, che il “concetto” sìa il significato del "simbolo”, conclusione che va rovesciata, se si vuole imboccare la strada giusta per una sua operativa definizione come esperienza specifica, distinta ma non opposta a quella definita razionale. A mio avviso infatti solo segnalando una radicale differenza fra concetto e simbolo si può arrivare a mettere a fuoco la specificità e l'autonomia epistemologica di quest’ultimo, come ho sostenuto e argomen­tato ampiamente altrove (Tullio-Altan 1992), e rispondere così positivamente all’esigenza che Geertz stesso giustamente ci in­dica in questa sua successiva affermazione:Solo quando disporremo di un’analisi teorica dell’azione simboli­ca paragonabile per raffinatezza a quella che abbiamo ora per l'azio­ne sociale e psicologica, saremo in grado di affrontare validamente quegli aspetti della vita sociale e psicologica in cui la religione (o l’arte, la scienza, o l'ideologia) svolge un ruolo determinante. {Ibidem, pp. 184-185)Se il simbolo, secondo la tesi qui sostenuta, è un non-con- cetto, per definirlo in positivo è necessario esplicitare in via pregiudiziale che cosa s’intenda sotto il termine di concetto, e dato che tale argomento costituisce la spina dorsale della filo­sofia teoretica nella sua versione greca ed europea, è necessa­rio precisare a quale delle molteplici soluzioni proposte in

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questa tradizione si faccia riferim ento più diretto in questa nostra ricerca, riferim ento che nel caso nostro è dato dallo "strumentalismo” di John Dewey.È chiaro che non possiamo fornire in questo contesto se non una sintesi estrema della posizione deweiana, pur senza trascurarne i punti essenziali al nostro caso. L'atto del cono­scere si realizza per il filosofo americano attraverso l’uso - e da qui il termine di strumentalismo - di un modello di cono­scenza, di un’idea, che è appunto il concetto, grazie al quale noi riusciamo a individuare nella nostra concreta situazione di vita, un elemento, un dato, a noi favorevole ai fini della no­stra sopravvivenza, un aspetto di essa cioè che sia per noi utile in questo senso, e al quale noi attribuiamo così lo statuto di oggetto conosciuto da noi, che in quello stesso atto, chiamato da Dewey “transazione”, ne diventiamo i soggetti conoscenti (Dewey e Bentley 1949).Il concetto, in questo significato, costituisce lo strumento principe del conoscere razionale, realizzato cioè in arm onia con le procedure del pensiero, quali l’epistemologia e la logica ce le rappresentano, e sta a fondamento della visione raziona­le, scientificamente controllata e verificabile della realtà. At­traverso una tale operazione prende consistenza quella rap­presentazione del mondo che Ernesto de Martino suggestiva­mente definiva col termine di “domesticità utilizzabile”, quale campo propizio delle azioni umane guidate dalla ragione e fi­nalizzate all’utile individuale e collettivo (de Martino 1977).Ma l’esperienza um ana non si limita e conclude nella di­mensione di questa razionale possibilità di utilizzare il mondo ai fini della sopravvivenza biologica della nostra specie, e in­clude altri modi dell'esperienza quali l’esperienza estetica, eti­ca e religiosa che trascendono il momento dell’utile strumen­talizzazione, per proporsi come un fine a sé. Quale statuto epi­stemologico, quale fondamento possiamo attribuire a simili esperienze che sono meta-utili, e che si traducono peraltro in realtà che ce ne danno una concreta, storica e significativa te­stimonianza? Sono esse tutte il frutto di un ente misterioso quale l’infinito irrazionale?Orbene la nostra proposta consiste nel sostenere che tali manifestazioni che trascendono la pura utilità razionale han­no la loro radice nell’esperienza simbolica, e se non possono dirsi in senso stretto razionali, non per questo sono irraziona­li, e cioè in contrasto con le leggi della razionalità scientifica, perché si situano in una dimensione diversa e autonoma che è quella del mondo dei valori e non delle conoscenze.Questo mondo tuttavia non è quello metafisico delle idee13

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platoniche. I valori non si danno come entità ontologicamente dotate di un’intrinseca qualità, ineffabile e m isteriosa, una magia di fascinazione che ne manifesti virtù che sono inson­dabili dalla ragione concettuale, ma sono un prodotto umano che si perfeziona in un processo di mitopoiesi, di cui è possi­bile enunciare in termini razionali i momenti di costituzione. Tale processo, che rappresenta un atto creativo può essere così rappresentato:a) la mitopoiesi ha inizio in un atto che de Martino ha defi­nito col term ine di destorificazione, che ha chiam ato détour mitico-religioso, atto attraverso il quale si decontestualizza un particolare elemento della realtà concreta, sottraendolo così al pericolo della contingenza col situarlo idealmente in una di­mensione metastorica.Ciò che può venire destorificato può essere un aspetto della realtà naturale, così come un prodotto dell’operare umano, un evento della storia, così come una singola persona o un grup­po di persone, un’istituzione, una parola o un intero testo, così come un progetto ideale di azione nel suo complesso, un siste­ma di idee (la dea Ragione!), fino a uno stato d’animo specifi­co (di rimorso, di odio, di amore ecc.);b) la realtà così destorificata viene poi, per usare un termi­ne desunto dal pensiero di Hans Georg Gadamer, "trasmutata in form a” (la Verwandlung ins Gebilde del filosofo tedesco), che noi possiamo tradurre anche con trasfigurazione in un ar­chetipo, in un'immagine esemplare;c) e da ultimo il processo di costituzione del simbolo si per­feziona e conclude attraverso l’identificazione da parte dei sog­getti um ani con tale immagine, che viene così a essere imme­diatam ente vissuta (erlebt) quale parte costitutiva della loro stessa vita ed è capace, in questo modo, di darvi un senso e un valore che altrimenti non avrebbe.I momenti del processo costitutivo deH’esperienza simboli­ca, che son quelli della destorificazione, della trasfigurazione in un'immagine archetipica, e d e l la identificazione del soggetto con essa, sono distinti qui solo per un’esigenza didascalica, perché in realtà essi coesistono in un’unica operazione: la mi­topoiesi o creazione di un simbolo datore di valore.

2. Il vissuto soggettivo e le forme storiche oggettive dell’esperien­za simbolicaDal processo di mitopoiesi prendono corpo esperienze che hanno una loro specifica valenza, tanto a livello del vissuto

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soggettivo quanto nella veste oggettiva di concrete e specifiche forme simboliche: la “foresta dei simboli”, come la chiama Victor Turner (Tumer 1986).Senza entrare in dettagli che in questo saggio non potreb­bero trovare spazio e che ho trattato altrove (Tullio-Altan 1992, pp. 75-167), ricordo solo che su queste basi teoriche è possibi­le chiarire in modo persuasivo la distinzione fondamentale fra l’atto del conoscere, proprio dell’esperienza razionale, e quello del credere che è invece proprio di quella simbolica; è possibile mettere a fuoco la natura simbolica del rito la cui funzione è quella di creare stati d’animo, di contro a quella della pratica economica razionale, produttrice di beni utili; ed è possibile dare una spiegazione al proliferare di simboli, che trasfigurano ogni più vario aspetto della realtà naturale, sociale e culturale e attraverso i quali la "domesticità utilizzabile” si arricchisce della dimensione del valore.A livello del vissuto soggettivo, in sostanza, se noi con il concetto possiamo dare valore d ’uso alle cose, con i simboli noi diamo valore a noi stessi come soggetti, un senso positivo alla nostra vita, in nome del quale possiamo anche offrirla in sacrificio. Ci è lecito dire, in un certo senso, che se noi posse­diam o dei concetti per conoscere, noi siamo posseduti dai simboli per agire positivamente nella realtà, e affermarci co­me esseri morali.La storia della civiltà ci dim ostra l’esistenza, sempre e in ogni luogo, di tre grandi forme dell’esperire simbolico: quello estetico, quello etico e quello religioso, che la filosofia occi­dentale ha definito come le superiori forme dello spirito. Nei termini del discorso che stiamo qui conducendo, che mette al proprio centro il rapporto fra il soggetto e il simbolo possiamo quindi dire che:a) se il soggetto si identifica con un’immagine per le sue qualità simboliche di perfezione formale, definite in base ai codici estetici propri della sua epoca, e cioè in base allo stile o m aniera della società in cui vive, e che ha interiorizzato nel processo di inculturazione, oppure in base a uno stile nuovo di cui, solo o assieme ad altri, il soggetto è l’inventore geniale, in tal caso egli realizza un’esperienza estetica, come pura frui­zione o come attiva creazione di un’opera d ’arte;b) se il soggetto si identifica con una norm a consacrata co­me assoluta della tradizione sociale e culturale in cui si è for­mato e vive, quale imperativo categorico da rispettare fino al supremo sacrificio di sé, e non in base a un calcolo di oppor­tunità (il kantiano imperativo ipotetico), oppure si identifica con una norma nuova, elevata a simbolo di rinnovamento dei15

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codici di vita morale, il soggetto realizza un'esperienza etica di conservazione o di rivoluzione;c) se il soggetto si identifica con un’im m agine in cui si esprime la visione interiore del sacro, come principio di ordi­ne e di armonia del mondo sociale e cosmico, quale gli sugge­risce la tradizione religiosa cui appartiene, oppure quale una nuova rivelazione profetica rinnovatrice gli dischiude, egli rea­lizza l’esperienza simbolica del divino.Da queste considerazioni possono desumersi una serie di conseguenze:a) la molteplicità dei contenuti e la polisemia dei prodotti simbolici.Quelle che si sono delineate possono essere intese, in un certo senso, come forme a priori dell’esperienza simbolica, che danno luogo al loro interno a una grande varietà di pro­dotti concreti che si fanno oggetto di discipline specifiche, estetiche, etico-politiche, teologiche, in ragione dei diversi problemi che sollecitano e dei relativi approcci di ricerca.Un'altra osservazione va fatta, ed è che solo raram ente i prodotti concreti della cultura simbolica si presentano come manifestazione pura di una data forma a priori, perché essi comportano il più delle volte il combinato concorso di più va­lenze simboliche.Gli esempi ne sono numerosi, come l’epos che combina in sé valenze etiche ed estetiche, l’etica religiosa che fonde l’ele­mento morale e quello teologico, così come l’arte sacra che as­socia la forma a priori della bellezza e quella dell’esperienza del sacro. Da questo concorso di valori i documenti traggono sempre una maggiore potenzialità di suggestione.b) Un’altra caratteristica è data dalla storicità dei prodotti simbolici. Essi si riempiono di contenuti che variano nel corso del tempo, mutano e si trasformano; i simboli infatti nascono

da un’operazione di destorificazione che presuppone l’esisten­za storica di un elemento trasfigurabile, soggetto alle vicende della storia. Se il simbolo trascende la realtà, non può annul­larla, in quanto la reca in sé trasfigurata, e se tale realtà viene meno nella storia, anche il simbolo vanisce e si perde.Un simbolo si mantiene e vive nel tempo solo fino a quan­do è vissuto come tale dai contemporanei. E da simbolo vivo si converte in simbolo morto, quando ne rimanga solo la trac­cia ormai vuota di senso, come Cari Gustav Jung osservava, in proposito (Jung 1984). I simboli sopravvivono cioè solo fino a quando siano oggetto di fede e di credenza, e non ridotti a pu­ri strum enti di pratica rituale, usurati dall’abitudine di una meccanica ripetizione.16

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L'immagine della corona vive nella fantasia simbolica dei sudditi di un m onarca come un simbolo sacro, solo fino a quando si associa saldamente all’idea di un’effettiva investitu­ra divina, e si riduce a una pura indicazione araldica quando questa concezione sacrale della monarchia cede il posto a una interpretazione laica, o all’istituto repubblicano.L’intrinseca storicità dei simboli si rivela anche nella trasfi­gurazione simbolica del fenomeno della conservazione o di quello del rinnovamento come atteggiamenti storici di fatto.La simbologia etico-politica si sviluppa in stretto rapporto con le condizioni di esistenza storica di una certa società inte­sa come un equilibrio di forze economiche, sociali, politiche e culturali, come una struttura-congiuntura di più o meno lunga durata, soggetta a mutam enti impercettibili o catastrofici. Due sono le istanze che operano in tali delicati equilibri, quella del­la loro conservazione, onde garantiscano la sicurezza dei sin­goli, che è un bisogno primario e fondamentale degli uomini, così come quella del mutam ento, in ragione del m utare dei problemi emergenti, all'interno delle società o nell’area nella quale sono collocati, assieme ad altre società.Le istanze alla conservazione e del mutamento, hanno sto­ricam ente prodotto immagini simboliche che ne esprimono l’essenza fondamentale, nei miti che ne esaltano la tradizioneo la rivoluzione.Questa bipolarità di valori simbolici non interessa solo le strutture politiche delle società umane, ma anche quelle istitu­zioni che, come le chiese e le organizzazioni sacerdotali in ge­nere, permettono di vivere collettivamente l’esperienza del sa­cro come fede e come pratiche rituali comuni. L’elemento sa­cerdotale, quale tutore istituzionale della tradizione consacra­ta, e affidatario delle pratiche rituali che hanno la funzione di “metterla in scena”, si accompagna, nelle religioni universali, all’esercizio intimo dell’esperienza mistica, e alla creatività in­novatrice della profetica. In quest’ultima viene rivelata una vi­sione nuova del sacro, come risposta alle esigenze dei tempi, e come prodotto di una vera e propria fantasia etica rivoluzio­naria, di cui i grandi esempi della storia sono la rivelazione del Buddha, di Cristo e di Maometto.Questi esempi illustrano quale sia la connaturata am bi­guità della produzione simbolica nel suo rapporto con la sto­ria, intesa come dialettica fra tradizione e rivoluzione, e cioè fra equilibri consolidati e progetti della loro ininterrotta rine­goziazione. La nascita, l’affermazione e la morte delle ideolo­gie, che sono forme tipiche della simbologia etico-politica, si inseriscono in questa tram a di fondo, che ne è un'efficace chiave critica di lettura e di interpretazione.17

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In questo senso i simboli non debbono essere pensati esclu­sivamente come sovrastrutture di legittimazione del passato, ma come forze simboliche decodificabili storicamente quali elementi di rassicurazione, nel nome della tradizione, o come fertili matrici di programmi per il futuro.Alla radice di questa duplice modalità dei simboli sta una duplice modalità della condizione umana nella quale, a diffe­renza di quella animale, sono presenti due bisogni spesso in conflitto fra di loro: il bisogno di sicurezza che è operante in tutto il mondo animale, quello umano compreso, e il bisogno di libertà, che è proprio solo del secondo, e che si fa tanto maggiormente sentire quanto storicamente più definiti e netti si delineano nell'orizzonte culturale degli uomini i valori uni­versali, e si eleva il livello delle aspirazioni collettive che ne vengono sollecitate. Questo è un fatto che dovremo tener sem­pre presente, quando affronteremo l’argomento del rapporto fra formulazione simbolica dell'identità etnica e corso degli eventi storici (Tullio-Altan 1989, pp. 205-263).

NOTA BIBLIOGRAFICA

Tullio-Altan (1992), con bibliografia;Tullio Altan (1988), (1989), (1991 a), (1991 b), studi preparatori; De Martino (1977), Gadamer (1988), Dewey e Bentley (1949), Geertz (1987), Morin (1989), Todorov (1984), Turner (1976), fonti principali.

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3. L 'identità etnica come tipo ideale

1. Il mythomoteur di Anthony D. Smith e i suoi limitiA questo punto siamo in grado di riprendere in considera­zione la proposta di Smith sulla funzione centrale di quella configurazione simbolica, che egli ha definito col termine di mythomoteur, nella determinazione del principio di identità etnica e delle sue forme storiche, con qualche elemento in più per svilupparne le capacità euristiche. Così ne scrive il nostro Autore:Anche se i fattori “oggettivi” quali la dimensione della popolazio­ne, le risorse economiche, i sistemi di comunicazione e la centraliz­zazione burocratica giocano ovviamente un ruolo importante nella creazione deU’ambiente delle nazioni (o, più spesso, degli stati, che poi aiutano a forgiare le nazioni), essi ci dicono poco sulle qualità e il carattere distintivo della comunità nazionale emergente. Per que­sto noi dobbiamo rivolgerci a fattori più "soggettivi”: non le dimen­sioni più effimere della volontà, degli atteggiamenti, e anche dei sen­timenti collettivi, che compongono il tessuto quotidiano della co­scienza etnica, ma gli attributi più permanenti della memoria, del valore, del mito e del simbolismo. Infatti questi sono aspetti spesso documentati e immortalati nelle arti, nei linguaggi, nelle scienze e nelle leggi della comunità che, sebbene siano soggetti a uno sviluppo più lento, lasciano la loro impronta nelle percezioni delle generazio­ni e plasmano le strutture e l’atmosfera della comunità attraverso le distintive tradizioni che essi depositano. Solo un approccio più “sim­bolico” basato su un confronto storico degli elementi costitutivi du­revoli delle comunità etniche e delle nazioni può aiutarci a costruire un quadro generale delle relazioni storiche e sociologiche tra queste comunità e nazioni. (Smith 1992, p. 31)Nasce perciò il bisogno di un tipo di analisi che metta in eviden­

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za le differenze e le somiglianze tra le unità e i sentimenti culturali collettivi di epoche precedenti, che chiamerò etnie. Di cruciale im­portanza per tale analisi sono i concetti di “forma" "identità”, “mi­to”, "simbolo” e codici di “comunicazione”. (Smith 1992, p. 51)Smith non definisce peraltro se non molto genericamente come si dovrebbe articolare lo strumento conoscitivo cui allu­de che dovrebbe permettere una tale analisi com parata di for­me diverse nel tempo e nello spazio. Di volta in volta lo defini­sce "complesso mito-simbolico”, costituito da quello che egli chiama un quartetto fatto di “miti, memorie, valori e simboli” (Sm ith 1992, pp. 54-55). M entre in u n saggio successivo (Smith 1991, pp. 20-21) egli elenca sei attributi che ritiene ne­cessari alla realizzazione di quella che egli chiama una comu­nità etnica consapevole di sé come tale (a differenza di quelle forme embrionali e inconsapevoli che egli chiama, per distin­guerle dalle precedenti, col nome di categorie etniche, e che sarebbero: un nome proprio collettivo, il mito di una comune genealogia, delle memorie storiche condivise, uno o più ele­menti caratterizzanti che fanno parte di una cultura comune, l’associazione con uno specifico territorio natio, un sentimen­to di solidarietà da parte di settori significativi della società).Il difetto di questo elenco consiste nel fatto che associa ele­menti fra di loro eterogenei: linguistici, come il nome; simbo­lici, come il mito della stirpe; storici, come gli eventi ricordati in comune; naturali, come il territorio; psicologici come il sen­so di solidarietà. Salvo per il mito della stirpe, che è il frutto della trasfigurazione simbolica del fenomeno naturale della generazione biologica, gli altri elementi citati consistono di realtà fattuali e non simboliche. Per entrare in un complesso mitico simbolico omogeneo, un tipo ideale operativo e non un casuale assemblaggio di elementi eterogenei, le componenti di un tal complesso debbono tutte risultare dalla trasfigurazione simbolica delle realtà cui si riferiscono, ricondotte così al loro minim o com un denom inatore, che è quello dell’esperienza simbolica che in essi si esprime e ne fa dei valori. Non un elenco di dati della realtà, m a un coordinato assieme di sim­boli di valore può dare forma al mythomoteur di Anthony D. Smith, come tipo ideale operativo.A nostro avviso solo con un tipo ideale così costruito come paradigma è reso possibile un "confronto storico degli elemen­ti costitutivi durevoli delle comunità etniche e delle nazioni” (Smith 1992, p. 31).Ed è quanto ci si propone di fare nei paragrafi seguenti.

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2. L ’ethnos come tipo idealeDall'analisi delle monografie etnografiche e dai documenti che riguardano le civiltà antiche e quelle moderne e la loro storia, è possibile rilevare l’esistenza di alcuni temi, ovunque e sempre presenti, che sono essenziali alla costruzione del tipo ideale deìl’ethnos, inteso come complesso simbolico, vissuto dai vari popoli come costitutivo della loro identità e come principio di aggregazione sociale. Essi sono:a) l’epos, come trasfigurazione simbolica della m em oria storica in quanto celebrazione del comune passato;b) Yethos, come sacralizzazione dell’insieme di norme e di istituzioni, tanto di origine religiosa quanto civile, sulla base dei cui im perativi si costituisce e si regola la socialità del gruppo;c) il logos, attraverso il quale si realizza la comunicazione

sociale;d) il genos, come trasfigurazione simbolica dei rapporti di parentela e dei lignaggi, nonché di quello dinastico, attraverso il quale si trasmette di generazione in generazione il potere;e) il topos, come immagine simbolica della madre-patria, e del territorio vissuto come valore in quanto matrice della stir­pe e dei prodotti della natura, e come fonte di suggestione estetica e affettiva.Le prime tre componenti risultano datila trasfigurazione di elementi culturali, e le due seguenti di elementi naturali.Tutte queste form e sim boliche hanno alla loro origine realtà concrete, socio-culturali e naturali, che non compaiono nelì’ethnos in quanto tali, bensì come loro trasfigurazione in simboli e valori che, singolarmente e unitamente presi, fungo­no da principi datori di senso e al tempo stesso sono promoto­ri di aggregazione, in quanto i singoli vi si identificano e vi si riconoscono in una partecipazione che li accomuna.Questa è la struttura del tipo ideale al quale faremo costan­temente riferimento nella analisi storica delle identità etniche, nelle loro versioni diversificate nel corso della storia e nella lo­ro collocazione geografica. Ciò che vedremo cambiare in que­ste due dimensioni, temporale e spaziale, non è la struttura d 'insiem e del modello ethnos, m a i contenuti delle singole componenti, in relazione al m utare degli equilibri storici dei quali Yethnos è uno dei fattori culturali più significativi, ma non il solo.Passiamo ora a considerare con qualche maggiore attenzio­ne il significato specifico di ognuna delle componenti simboli­che dell’ethnos come tipo ideale.21

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Sull’eposSmith ne definisce bene la qualità specifica:I principi base, che sostengono il senso di appartenenza al grup­po e della sua unicità e che collegano generazioni successive dei suoi membri, costituiscono un punto fondamentale nel distinguere un raggruppamento etnico da altri tipi di raggruppamenti sociali. Que­sti principi base vanno ricercati nella storia propria del gruppo e so­prattutto nei suoi miti sulle origini e sulla liberazione del gruppo. Più questi miti sulla formazione del gruppo e sulla sua liberazione sono singolari e noti, maggiori sono le possibilità per il gruppo etni­co di sopravvivere e resistere; viceversa, più ambigui e meno cono­sciuti i suoi miti, meno vivido il suo senso di unicità e maggiori le probabilità della sua scomparsa. (Smith 1984, p. 112)Vi è uno stretto legame fra la disciplina che chiamiamo sto­ria o storiografìa, squisitamente razionale nella sua intenzione conoscitiva, e l’epos, che ne è la trasfigurazione simbolica nel­la forma del mito. I Greci ponevano sotto il segno della musa Clio la storia come operazione culturale specifica, Clio dal ver­bo klein, esaltare, celebrare; e solo con Erodoto si cominciò a parlare di historia dal verbo historein, indagare, ricercare e ri­ferire.II mito, in questo caso, ha preceduto nella veste di mitolo­gia la pratica razionale di cui esso è la trasfigurazione. Ma la storia come scienza non ha peraltro mai cessato di essere in buona parte, anche nei tempi più moderni, influenzata dal mi­to quando attraverso questa pratica scientifica si è inteso ser­vire una certa causa, come è accaduto per la storiografia na- zionalitaria alla Michelet, e di tanti altri, nel corso del xix se­colo, per non parlare dello scempio che se n e fatto nel XX con la "storiografia” delle dittature.Le forme di epos le più significative e autentiche sono repe­ribili nella letteratura etnografica e storica, nella veste di miti delle origini, dell'età dell’oro e di quelle che ne seguirono, delle gesta degli eroi fondatori, inventori delle tecniche e nutritori

del loro popolo. Nelle versioni classiche esse compaiono sotto modalità raffinate poetico-letterarie, di cui l’epos della Grecia an tica è la p iù a lta delle testim onianze , m a non la sola. Nell’età moderna l’evento centrale dell’epos è sovente dato dal­la conquista della libertà e indipendenza del popolo ad opera dei suoi eroi, guerrieri e politici.Lo stesso termine di mito attiene in modo particolare alla sfera dell’epos, in quanto esso denota un racconto storico reso metastorico e legato, al tempo stesso, alla dimensione del poe­tico, del religioso e del politico, in forza del noto principio del­22

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la polisemia dei simboli come prodotti storici delle culture umane.Ma la funzione centrale del mito come epos - nel contesto di cui trattiam o - è quella di costituire la sacralizzazione della memoria storica di un gruppo sociale che vi si riconosce e al tempo stesso si celebra, rivelando la nobiltà delle proprie ori­gini.Il testo della Bibbia è uno dei documenti più completi, ric­chi e suggestivi di questo tipo, in cui il destino di un popolo, quello ebraico che discende da Abramo, è fondato sopra una ragione divina, un patto di Alleanza con Dio, universale e uni­co, che regge le sorti del mondo, e lo ha prescelto fra tutti gli altri popoli della terra come il prediletto.Le fasi del racconto si pongono spesso al di fuori del tem­po, in un tempo senza tempo, come Yalcherà degli australiani Arunta, il “tempo delle m adri”, da cui tutto nasce e in cui tutto si conclude, l’origine e la fine senza fine.L’epos in età contemporanea pone, come vedremo, seri pro­blemi per quelle nazioni la cui storia recente registra in modo non facilmente ignorabile eventi inaccettabili, sulla base dei principi dell ’ethos universalistico che si è venuto definendo e consolidando nel mondo. Da cui il prodursi di collettivi processi di rimozione dalla coscienza di quei momenti di radicale nega­tività, e i tentativi di quello che è stato chiamato "revisionismo” storiografico per restaurare una tradizione gravemente compro­messa nella sua celebrativa funzione di esaltazione etnica.Smith ha elencato una serie di miti delle origini presenti nelle società etnografiche, in quelle antiche e nelle società mo­derne:

Tipicamente, troviamo una serie di motivi o elementi in ogni mi­tologia nazionale o in ogni mito delle origini e della discendenza et­nica.Questi includono:1) un mito delle origini nel tempo; cioè, quando la comunità è « . »nata ;2) un mito delle origini nello spazio; cioè, dove la comunità è “nata”;3) un mito degli antenati; cioè, chi ci ha generato e come discen­diamo da lui o lei;4) un mito di migrazione; cioè, dove andammo;5) un mito di liberazione; cioè, come fummo liberati;6) un mito dell’età dell’oro; cioè, come diventammo grandi ed eroici;7) un mito di decadenza; cioè, come decademmo e fummo con­quistati/esiliati;

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8) un mito di rinascita; cioè, come ci sarà restituita la nostra pre­cedente gloria. (Smith 1992, p. 392)Sull 'ethosIl tem a dell’ethos include una vasta serie di fenomeni cultu­rali simbolicamente trasfigurati, che riguardano i rapporti so­ciali di un gruppo. Non solo le norme vere e proprie che stabi­liscono ciò che sia bene e ciò che sia male, giusto o ingiusto, sotto la forma di precetti o di tabù, norme che, interiorizzate nel processo di inculturazione, assumono il valore di imperati­vi categorici, ma anche i comportamenti che ne derivano, i co­stumi, e le istituzioni che vengono create per garantirne l’os­servanza attraverso il controllo sociale, nonché l’insieme delle credenze religiose che stanno a garanzia del contesto etnico (religioni etniche), e di quelle di ispirazione universalistica, le­gate all’esistenza di istituzioni sacerdotali nella forma di chie­se vere e proprie.Nella nostra tradizione occidentale, come vedremo, il pen­siero razionale sarà fortemente impegnato nella problematica dei diritti e dei doveri e nella definizione dei fondamenti ulti­mi degli imperativi e dei valori, proponendo spesso soluzioni nuove e incompatibili con le millenarie tradizioni del passato. La dialettica fra valori etnici e valori universalistici apre una serie di gravi contraddizioni, che cercheremo a suo luogo di mettere a fuoco.Le com ponenti dell’epos e àeìì’ethos sono le due colonne portanti del tipo ideale di cui stiamo tracciando i lineamenti, perché se esse fanno difetto, le altre non bastano a colmare il vuoto d ’identità che esse lasciano nel complesso mitico simbo­lico dell’identità etnica.Nella seconda parte di questo saggio vedremo quali proble­mi si siano aperti nel corso della storia, in seguito al progressi­vo afferm arsi delle religioni universalistiche, in potenziale contraddizione con l’implicito etnocentrismo del principio di identità etnica. E all’inverso come dalla combinazione fra prin­cipio etnico e fede religiosa, abbiano preso corpo inedite for­me di fondamentalismo e integralismo politico religioso, con un potenziale in certi casi veramente esplosivo.Su questo punto non è opportuno ora dire di più, dato che saremmo costretti ad anticipare un discorso che richiede, per essere fatto, ulteriori approfondimenti. È tuttavia chiaro che esiste uno stretto nesso fra identità etnica e religione, anche e soprattutto nell’antichità, per l’intervento attivo del clero, co­me ha bene illustrato Smith.

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In terzo luogo, la religione organizzata fornisce la maggior parte delle persone e dei canali di comunicazione necessari al fine della diffusione dei miti e dei simboli etnici. I sacerdoti e gli scribi non so­lo comunicano, registrano e trasmettono queste leggende e creden­ze, ma sono anche i principali custodi e veicoli del simbolismo che può collegare le élites feudali o imperiali alle masse contadine o ai produttori di cibo e alle loro Piccole Tradizioni. I sacerdoti possono essere organizzati in vari modi secondo i bisogni delle popolazioni che servono, ma gli effetti possono essere simili. Così troviamo casi in cui il clero è molto centralizzato e gerarchizzato, come nell’Impe­ro bizantino; gerarchie più decentralizzate tra le comunità armene sparpagliate nel Medio Oriente e altrove; e, infine, tribunali e una so­cializzazione religiosa comunitaria del tutto su basi locali nel caso della diaspora ebraica. Tuttavia tutti e tre riuscirono a unire le tradi­zioni e i riti locali, a disseminare comuni simboli, feste, cerimonie, miti di eroi e santi insieme a uno stile di vita e a un codice di leggi religiose ben definite. In questo modo essi preservarono e intensifi­carono i sentimenti e gli ideali comuni che circolavano nella comu­nità, adattando una più ampia dottrina ed etica religiosa ai bisogni e agli interessi specifici di una popolazione culturalmente distinta e storicamente autocosciente. Attraverso la loro comune educazione e i loro ideali comuni i sacerdoti sono in grado di sintetizzare e di reinterpretare i riti e le leggende peculiari di popolazioni contadine locali e di incorporarle in un canone standard. Inoltre, erano essi a capeggiare il volgo nel tentativo di riaffermare identità di una comu­nità, designata da un proprio nome, con la sua patria e i suoi dei, e a guidare le preghiere volte ad ottenere intercessione e prosperità nelle celebrazioni annuali come la festa del Nuovo Anno a Babilonia, o la festa delle Panatenee che si svolgeva ogni quattro anni. Questi gran­di avvenimenti servivano a inculcare la Grande Tradizione nella mente di una plebe rurale immigrata che andava in pellegrinaggio al tempio, come gli Ebrei a Pasqua o per il Nuovo Anno. (Smith 1992, pp. 93-94)E ancoraIl ruolo peculiare dei fattori religiosi è ancor più nettamente evi­denziato dal destino delle comunità in diaspora che hanno perduto sia la loro patria che la loro autonomia. In molti modi, questa dupli­ce perdita condiziona la loro sorte successiva e la percezione di sé come “popolo da rimettere al proprio posto”. Ma poiché la restaura­zione è sempre posticipata, qualcosa deve sostituire la perdita, e questo qualcosa è una fede di salvezza peculiarmente ardente, cir­condata da una panoplia di leggi e rituali volti a mantenere questa fede tra le numerose, piccole e tormentate comunità di una diaspo­ra. La religione in questo caso gioca un ruolo duplice, al tempo stes­so conservativo in riferimento all’etnia residente, e innovativamente adattivo, al fine di soddisfare una varietà di mutevoli condizioni, conservando nel contempo la sua promessa centrale. (Smith 1992, pp. 244-245)

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Ciò illustra la nostra tesi principale; vale a dire, che le tradizioni religiose e l’esistenza di un clero e di riti distintivi hanno avuto un ruolo decisivo al fine di mantenere l’identità etnica. Pur non negan­do l'importanza vuoi della localizzazione vuoi dell’autonomia, è chiaro che i sacerdoti sono più importanti dei sistemi politici e delle patrie al fine di salvaguardare l’identità etnica e assicurare la soprav­vivenza etnica per secoli. E il complesso dei "fattori religiosi” che ha la massima probabilità di mantenere il senso di individualità e di co­munità delle etnie nelle epoche premodeme. (Smith 1992, p. 225)Sul logosLe testimonianze storiche dello stretto legame fra lingua ed ethnos sono molto antiche. Nel testo biblico si legge: “E Yahvè disse: Ecco sono un sol popolo e una sola lingua è comune a tutti loro. Questo è l'inizio loro ad agire. Ora non sarà preclu­so ad essi nulla di quello che hanno divisato di fare” (Genesi11, 6), da cui la decisione di Yahvè di confondere i diversi lin­guaggi per difendersi da una così pericolosa concorrenza, creando fra gli uomini delle paralizzanti divisioni interne.Il peso specifico della lingua nel complesso dell ’ethnos va­ria da popolo a popolo, a seconda del peso che ognuno di essi dà ai valori della produzione poetico-letteraria come momento dell’epos.E così si comprende l’im portanza data in Grecia alla lin­

gua nazionale come discrim inante fra gli Elleni e gli stranieri complessivamente definiti “barbari”, da barbaròs, balbettante, e cioè incapace di usare la lingua greca. Mentre in tempi mo­derni la Francia offre un analogo esempio della centralità del­la lingua nel complesso dell’epos nazionale, che spiega la ben nota politica culturale francese nei confronti dei paesi ex co­loniali e in genere nell'esaltazione della “francofonia” come strum ento principe di diffusione della cultura francese nel mondo.

La lingua assume una qualità simbolica particolare quando si lega a una determinata religione, della quale diventa lingua ufficiale, anche quando abbia cessato di essere parlata nei paesi d'origine, come il latino per la religione cristiana occi­dentale, il sanscrito per l’induismo, l'ebraico per la diaspora, e l'arabo nelle nazioni islamiche, molte delle quali parlano altre lingue nella vita quotidiana.Il tem a della lingua madre è poi diventato uno dei motivi

principali di mobilitazione dei movimenti nazionalitari euro­pei del XIX secolo, e si è reso di grande attualità in quelli del revival etnico nel mondo contemporaneo.

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S u lgenosIl genos è il simbolo fondamentale delle società a livello et­nografico, che certamente rispecchiano i modelli di aggrega­

zione più antichi della storia degli uomini, come innumeri te­stimonianze presenti nei racconti mitici sul passato dell’um a­nità ci dicono. Ciò che nel genos si trasfigura in simbolo, e va­lore fondante di questi gruppi sociali, è l’insieme delle norme che regolano i rapporti di discendenza sui quali si fondano le famiglie, i lignaggi, e l’insieme dei rapporti di parentela che ne discendono, i clan, le tribù, con i loro specifici ordinamenti, riti, celebrazioni e festività in onore dei defunti, tutto a partire dal fondamentale tabù dell'incesto.Questo insieme di realtà sociali, che hanno una loro impli­cita razionalità che consiste nel fatto che essi rendono possibi­le la convivenza di una gran parte dei gruppi sociali, soprattut­to del passato, sono oggetto di una trasfigurazione simbolica che attribuisce loro un valore assoluto nelle comunità etniche, valore che si attenua e circoscrive entro ambiti più lim itati nelle società complesse dell'età moderna.Il genos ha regolato per millenni le società umane, come momento centrale dell ’ethnos, e si è mantenuto attivo nella le­gittimazione delle dinastie regnanti, e nelle strutture dinasti­che delle famiglie dell’aristocrazia feudale, come in tutte le funzioni sociali, politiche, onorifiche attribuite per ascrizione, e cioè per nascita e non per merito. Ma nel progressivo tra­sform arsi delle società tradizionali in società dem ocratiche basate su istanze etiche universalistiche, il genos è venuto per­dendo molto del suo antico primato simbolico, pur non ces­sando di valere nei nuovi contesti, in forme nuove, ben lonta­ne dal suo antico e genuino significato storico.

Il genos infatti, deprivato della sua legittimazione storica, si è fatto oggi da valore un disvalore, come simbolo fittizio e strumento di potere, dando vita a ideologie che sono state, e sono ancora, matrici di fenomeni atroci di intolleranza e di razzismo, portato all’estremo del genocidio.

Sul toposL’istinto territoriale, di possesso e di controllo di un deter­minato spazio da utilizzare per la vita, escludendone altri ani­mali della stessa specie o di una diversa, esiste in molti anim a­li, è avvertito anche dall’uomo, e si è fatto più incisivo col cre­

scere della densità demografica della specie umana. Trasfigu­rato simbolicamente, questo istinto è diventato un valore, uno27

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dei più fortemente sentiti, in ragione della radicalità dei biso­gni di sopravvivenza cui l’habitat dà soddisfazione con le sue risorse naturali. Il culto della "terra madre” è uno dei più anti­chi e diffusi della storia.Si tratta di uno dei valori più vicini ai fenomeni naturali nei loro riflessi sul sociale e dei più suggestivi, come motivo ispiratore di immagini poetiche e di ideologie politiche. Nelle società etnografiche il topos recita un ruolo fondamentale nel­la creazione delle festività rituali, celebrative del gruppo socia­le e della sua identità.Il luogo in cui tali festività si celebrano è vissuto come sa­cro e considerato spesso come il centro del mondo, e in questa sua centralità si afferma un principio fondamentale di garan­zia dell'ordine e del senso di sicurezza che ne deriva per i componenti del gruppo sociale. Lo spazio del lavoro quotidia­no e della vita consueta si propone come spazio profano, di fronte a quello sacro destinato ai riti, che alimentano il senso corale della partecipazione unitaria.Queste esperienze mitiche non sono esclusive delle società etnografiche ma si perpetuano, in forme nuove e di più ampie dimensioni e proporzioni, anche nelle grandi strutture istitu­zionali in cui si sono organizzate le società umane nel corso dei millenni. La Cina fino a tempi recentissimi si rappresenta­va come il centro del mondo, cui tutti gli altri popoli erano na­turalmente tributari subordinati, come fu detto alla corte del sovrano del Celeste Im pero agli am basciatori di Giorgio in d’Inghilterra, alla fine del xviii secolo.Il suolo della Palestina, come territorio assegnato da Yahvè al popolo ebraico non è rimasto solo un dato mitico della tra­dizione biblica, ma si è fatto l’elemento motore del Sionismo che ha portato alla costituzione dello stato di Israele dopo ol­tre tre millenni, con tutte le conseguenze che ne sono derivate.Le grandi religioni possiedono anch’esse luoghi a cui attri­buire il valore di centri sacri nei quali i credenti possono met­tersi direttamente in contatto con il divino nell’esperienza mi­stica, come nelle città sacre di Gerusalemme, della Mecca, di Roma, e nei tempi recenti a Lourdes, Fatima, Yesna.Nel xix secolo i movimenti nazionalitari, e poi quelli nazio­nalisti, hanno fatto del territorio natio uno degli elementi cen­trali delle loro ideologie. Il "sacro suolo della Patria” ha forni­to un movente simbolico di prim a grandezza, un patrimonio da rendere indipendente da sovranità straniere se ancora “ir­redento”, e degno di ogni sacrificio. Come “spazio vitale”, esso divenne così uno dei topoi più tipici della visione romantica tedesca del Volk che rientrerà poi come momento centrale, as­sieme al genos, nell’ideologia del Terzo Reich.28

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Il peso specifico di ognuna delle componenti dell ’ethnos nel multiforme insieme delle forme storiche dell’identità etnica, varia dall’una all’altra e nel corso del tempo, in conseguenza del m utare di condizione dell’equilibrio storico, che ogni so­cietà strutturalmente rappresenta. E tale varietà di combina­zioni, ognuna delle quali peculiare per ogni società, costituisce la sua irripetibile originalità e al tempo stesso la sua chiave di lettura, la sua cifra interpretativa.Ma anche all’intem o di ogni etnia o nazione il livello della partecipazione dei singoli e delle classi e raggruppamenti so­ciali o regionali, al comune patrimonio simbolico non è mai del tutto omogeneo e uniforme. In linea di massima la storia dei popoli ci dice che i temi dell’epos, dell’epos e del logos sol­lecitano una più intensa partecipazione al gruppo da parte delle élites, per aristocrazia o per intelletto e cultura, mentre più vivi e sentiti sono il genos, inteso come sacralizzazione del­la famiglia, della parentela e della comunità di villaggio, e il topos come terra madre e fonte di vita, da parte del tradiziona­le mondo contadino storicamente subalterno, là dove esso an­cora esiste, e si manifesta nelle tradizionali forme della cultu­ra popolare.

3. ConclusioneNelle pagine precedenti abbiamo proposto un tipo ideale di cui si sente l’esigenza, come si osserva da più parti, per una migliore e più incisiva interpretazione dei fenomeni storici. Esso non ha una funzione m eram ente descrittiva, m a stru ­mentale, ai fini di una conoscenza più approfondita e articola­ta delle formazioni storico-sociali nella loro dimensione etni­ca. In pratica esso m ira a indirizzare l’attenzione del ricercato­re verso quei documenti che gli possano servire per una più soddisfacente ricostruzione storica di una realtà sociale com­plessa, nei suoi equilibri e nelle sue dinamiche, non solo per quanto riguarda la sua consistenza strutturale, ma anche per quanto attiene allo “spirito", il suo ethnos, identificandosi con il quale i singoli se ne fanno autenticamente partecipi.A questo punto conviene ricordare i vari passaggi attraver­so i quali si è pervenuti alla sua definizione operativa. L’assun­to di partenza sta nell’accettazione del principio della multidi­mensionalità di ogni formazione storico-sociale, dalla comu­nità alla società, per cui esse risultano dall’attiva compresenza di una situazione ecologica, di una determinata pratica econo­mica di produzione per la sopravvivenza, di un insieme di for­ze socialmente attive, di un sistema di controllo del potere po­

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litico in senso ampio, e di un patrimonio culturale. Questo se­condo la valida prospettiva della scuola delle Annales. Da qui si è partiti per specificare che il patrimonio culturale di cui si parla presenta due facce: quella del sapere concettuale, razio­nale, e quella dei fenomeni di mitopoiesi da cui nascono i pro­dotti simbolici della cultura, che concorrono entrambi a quali­ficare le operazioni umane in campo sociale. Data la carenza di studi sul momento dell’esperienza simbolica nella sua spe­cificità, si è fatta una proposta su questo tema, individuando tre grandi sfere in cui l’esperienza sim bolica si manifesta: quella poetica, quella etica e quella mistico-religiosa. Muoven­do da una tale prospettiva si sono messi in luce gli elementi simbolici costitutivi doA’ethnos, come integrazione dell’epos, de\\’ethos, del logos, del genos e del topos.La partecipazione a tale realtà, come a un valore simbolico autenticamente vissuto, fornisce ai singoli membri di un grup­po sociale quell’insieme di motivazioni per le quali questi si sentono spontaneam ente indotti ad assolvere nell’interesse della collettività quei compiti tanto istituzionali quanto indivi­duali, che loro spettano in base alla loro collocazione specifica nel corpo sociale, ricavandone il sentim ento gratificante di aver compiuto il proprio dovere. Grazie all 'ethnos vissuto co­me valore, avviene la coincidenza degli interessi personali e degli imperativi sociali. Questo sentimento di appartenenza, e dei diritti e doveri che ne conseguono, può essere definito una “religione civile”, e cioè il modo di vivere intensamente un le­game (religio da religare) di socialità attiva.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Glazer e Moynihan (1976), sullo stato del dibattito, pp. 29-31;Hall (1979), sulle microvariabili costitutive dell’identità etnica co­me dati di fatto oggettivi (cultura, economia, etnicità, geografia, sto­ria, lingua, strutture di dominio, religione) pp. xvi-xvn;Smith (1992), sulla centralità del momento simbolico nell’identità etnica e sui fattori oggettivi e soggettivi delì’ethnos, p. 31, sul mytho­moteur, pp. 51-55, sulle categorie e sulle comunità etniche, p. 102, sulla configurazione dell’etnia, pp. 103-106;Smith (1991), sulla tipologia del mythomoteur, pp. 133-135, 154;Smith (1984), sulla definizione complessiva di etnia, pp. 111-114;Smith (1984), sull’epos, p. 112, e Smith (1992), pp. 392-414;Smith (1984), su ethos e religione, pp. 113-116, e Smith (1992), pp. 90-94, 244-245, 255-265;Smith (1992), sulla lingua, pp. 76-84;Smith (1992), sul territorio, pp. 77-79;30

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Smith (1992), sul dibattito fra primordialisti, perennisti, e gli stori­cisti in tema di identità etnica, pp. 48-49, 65-66, 84-85, 192-193, 223;Epstein (1983), sul carattere affettivo dell’esperienza etnica, pp. 9, 15, sulla indefinizione del concetto di identità etnica come strumen­to euristico, pp. 24-25, sulla cultura pubblica e la cultura intima co­me esperienza di natura etnica, pp. 198-200, sui primordialisti e cir- costanzialisti, pp. 200-201, sulla critica dei tentativi di fondare l’identità etnica su basi razionali: interesse di classe (Cohen), o gene­ricamente razionali (Glazer e Moynihan), pp. 171-172, sulla questio­ne dei confini, p. 175.Smith (1992), sul problema etnico nazionale:Le etnie e le nazioni non sono entità fisse e immutabili, “là fuori” (nemmeno i nazionalisti lo pensano); ma non sono neppure processi e atteggiamenti completamente malleabili e fluidi, alla mercé di ogni forza esterna.Interpretarle come maschere e veicoli di forze sociali “reali” op­pure come la superficie culturale di strutture anatomiche sottostan­ti, significa non cogliere il ruolo indipendente e il potere creativo delle identità etniche e delle divisioni etniche. Soprattutto, tutti gli strumentalisti di qualsiasi tendenza trascurano l’influenza potente del mito e della storia sullo spirito e sull’agire dell’uomo. Questo continua ad essere vero nel mondo moderno, altrettanto che nelle ere precedenti. Non solo gli ambienti sociali delle generazioni mo­derne sono plasmati da quelli creati dalle generazioni dei loro prede­cessori, ma il bisogno diffuso di appartenere a una "comunità di sto­ria e destino”, che ci garantirà dall’oblio e che in un’età secolare as­sume forme più manifestamente nazionali ed etniche, diventa un po­tente fattore determinante della vita politica e sociale moderna. Po­tente, ma spesso imprevedibile ed esplosivo. Da qui il bisogno di prendere sul serio le radici etniche del nazionalismo moderno e di dare la dovuta importanza a quei miti, memorie e simboli che posso­no infiammare le popolazioni e mobilitarle all’assalto dell’equilibrio precario delle forze che tengono uniti i sistemi regionali degli stati.Ne segue quindi che né il convincimento parmenideo nella immu­tabilità e fissità delle cose, né la fede eraclitea nel flusso eterno pos­sono rendere giustizia alla varietà e alla complessità dei fenomeni et­nici nonché alla ricorrenza e persistenza dei legami e dei sentimenti etnici. Noi approcciamo al meglio questi ultimi attraverso una pro­spettiva “simbolica”, una prospettiva che va alla ricerca di indizi del­la natura e del ruolo dell’etnicità nei “complessi mito-simbolici”, e nei valori e nelle memorie ad essi associate, che uniscono e dividono le popolazioni, e che orientano i loro atteggiamenti e sentimenti. Fis­sando l'attenzione principalmente sulle grandi dimensioni e la “fal­sariga” della religione, dei costumi del linguaggio e delle istituzioni, corriamo il rischio di considerare l’etnicità come qualcosa di pri­mordiale e fisso. Concentrandoci solo sugli atteggiamenti, i senti­menti e i movimenti politici di specifiche etnie o frammenti etnici, d’altro canto corriamo il rischio di essere così imprigionati nel flusso e riflusso quotidiano dei fenomeni etnici da considerarli “strumenti”

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o “contrassegni di confine” totalmente dipendenti da altre forze eco­nomiche e sociali. Ma evitando queste alternative e prestando atten­zione al complesso dei miti, simboli, memorie e valori che sono tra­smessi alle generazioni dalle collettività, e che le definiscono di fron­te a se stesse e agli outsider, noi possiamo considerare l’etnia muta­bile e al contempo durevole, e l’etnicità fluttuante e allo stesso tem­po ricorrente nella storia. L’etnicità e le etnie non sono più attributi puramente storici dell’umanità; ma non sono neppure strumenti di altre forze o meccanismi di confine di culture altrimenti fluide. Lo studio dell’etnicità attraverso i miti, i simboli, le memorie e i valori etnici, ci consente di cogliere il carattere dinamico ed espressivo dell’identità etnica, nonché la sua influenza a lungo termine sulle faccende umane, consentendoci al contempo di ammettere la mute­volezza dei suoi contenuti e dei suoi significati (pp. 431-432).

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4. Uethnos nella storia

1. L ’ethnos nel mondo anticoUethnos costituisce quell’elemento della cultura di un grup­po sociale nel quale si manifesta la sua identità in chiave di vissuto simbolico, come valore centrale condiviso e aggregan­te. Non ci proporremo qui di farne la storia, che sarebbe nien­te di meno che la storia stessa della civiltà universale, ma di saggiare l’operatività del tipo ideale, così formulato, per me­glio comprendere, di tale storia, alcuni momenti particolar­mente significativi per il nostro discorso.L’assenza di fonti scritte circoscrive il panorama accessibi­le alla nostra indagine a partire dalla fine del iv millennio a.C.,i fatti precedenti essendo testimoniati solo dai reperti archeo­logici di cultura materiale, che ci offrono una prospettiva trop­po lim itata per quanto riguarda il campo della cultura nel suo complesso, tanto simbolico, quanto razionale. Questo vuoto può essere colmato solo facendo uso di documenti che non provengono direttam ente dalle società preletterate dell’anti­chità, ma sono stati ottenuti da ricerche contemporanee con­dotte su etnie rimaste per secoli, o millenni, isolate dal mondo storico al quale apparteniamo, e che presumiamo essersi m an­tenute tali e quali le più antiche e ormai inconoscibili. Opera­zione in ogni caso rischiosa, che legittima solo ipotesi, più o meno probabili, sui loro modi di vita.Esistono tuttavia nel patrimonio di documenti scritti delle civiltà antiche, quali quella egizia e mesopotamica, testi che si rifanno alla memoria storica del loro lontano passato, trasfi­gurata in mito. Da tali miti possiamo ricavare alcuni elementi storicamente utilizzabili, che mettono in luce la ragione di ta­lune grandi scelte della civiltà.

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Questi fenomeni riguardano l’invenzione dell’agricoltura attorno al v ii millennio, che mise fine al regime di caccia e raccolta che aveva garantito, per almeno un milione di anni, la sopravvivenza della specie umana, e la pratica della guerra, che dalle semplici e limitate forme della razzia fra gruppi so­ciali ristretti, si sviluppò in parallelo con l’aumento della pro­duzione dei mezzi di sussistenza, il perfezionarsi della tecno­logia bellica e della specifica professionalità militare, tanto da farsi, attorno al ni millennio, uno dei principali motori degli eventi storici.Lo sviluppo delle società umane in conseguenza della cre­scita economica e dell’attività politico-militare, e della ricadu­ta dei loro effetti sulle strutture delle società e degli insedia­menti urbani e rurali, ci mette di fronte, già in epoca protosto­rica, alle città-stato, e successivamente alle grandi formazioni imperiali di carattere multietnico, risultanti dalla sottomissio­ne violenta delle microetnie locali da parte di minoranze ag­gressive.

E questo avvenne assieme al contem poraneo processo di istituzionalizzazione e organizzazione delle pratiche simboli­che e rituali, da parte di élites sacerdotali, spesso direttamente impegnate nella gestione del potere politico.L’aumento degli scambi mise a contatto più stretto, per un reciproco interesse economico, paesi che erano rimasti in pas­sato lontani e inaccessibili fra di loro, aprì a nuove esperienze codesti paesi una volta chiusi in se stessi, e indusse talune so­cietà a specializzarsi nell’attività mercantile al punto dall'es­serne totalmente trasformate, e questo in particolare per quel­le di esse che, come i Fenici e i Siriani, e poi i Greci, si affac­ciavano sulle sponde del Mediterraneo orientale. Tutto ciò tra­sformò profondamente l'universo simbolico delle antiche et­nie, dedite esclusivamente alla coltivazione della terra, e la lo­ro struttura sociale basata fondamentalmente sul genos e sul topos.La struttura delle caste che si sovrappose a quella dei li­gnaggi ed ebbe come protagonisti i sacerdoti, i militari, e i com mercianti-produttori, caratterizzò buona parte delle so­cietà antiche, e in modo particolare la società indiana dove venne elevata a principio sacrale. Ma il patrimonio simbolico costitutivo delle identità etniche dei nuovi stati non si affermò invece negli strati contadini subalterni, che le minoranze ari­stocratiche delle tre caste dom inavano, e che ne rim asero esclusi e confinati nelle loro antiche tradizioni. Questo duali­smo si affermò sempre di più con il consolidarsi dei grandi si­stemi imperiali nati dalle guerre di conquista, e diede luogo al34

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fenomeno della coesistenza, in un ’unica realtà statuale, di un’identità etnica aristocratica, con i suoi tipici valori, il suo epos, il suo ethos e il suo logos, e di una miriade di microetnie, che tu tt’oggi sopravvivono in maggior numero in Asia, in Afri­ca, e in una certa misura anche in America Latina, nonostante i genocidi e la deculturazione del periodo coloniale, ancora vincolate al loro genos e topos.Le grandi formazioni imperiali dell’antichità ebbero una duplice origine, in quanto le une nacquero spontaneamente come sviluppo, non privo di conflitti e divisioni, di un nucleo originario e originale come l’Egitto e la Cina, e altre invece dalle contingenti iniziative di conquista militare da parte di al­tri popoli, per lo più costituiti da nomadi pastori, che formaro­no la nuova aristocrazia dominante, come i Sumeri, gli Akkadi in Mesopotamia, gli Ariani in India, e le popolazioni camitiche in Africa centrale e orientale. A queste forme si aggiunsero poi gli imperi fondati dall'azione politico-militare di condottieri appartenenti a società storiche in espansione, i Persiani, i Gre­ci di Alessandro Magno e i Romani.Dei grandi imperi del passato, a generazione spontanea, so­pravvive, dopo più di quattromila anni, solo la Cina, l'Egitto essendo entrato nell’orbita di Alessandro prim a e di Roma poi.Entram bi questi paesi produssero al loro interno un princi­pio di identità etnica di straordinario potenziale, da cui la loro capacità di assimilazione e acculturazione dei popoli invasori, come gli Hyksos in Egitto, e le ondate di Mongoli in Cina. Da­ta la ricchezza di fonti scritte, il loro ethnos specifico può esse­re ricostruito nei dettagli. Meno facile è invece definire in ter­mini storiografici precisi l’esistenza o meno di una forte iden­tità etnica nel caso degli imperi mediorientali, risultanti dallo scontro militare fra popoli culturalmente già caratterizzati, e viventi in un territorio afflitto nel corso dei millenni da una fe­roce conflittualità interetnica. Se è possibile, grazie anche in questo caso alla ricchezza delle fonti, delineare un profilo det­tagliato della civiltà babilonese nella sua peculiarità, non è possibile, nel marasm a della storia di quelle regioni, accertare quanto la coesione dell’impero babilonese dipendesse dal do­minio militare dello stato, oppure dall'adesione a un modello di aggregazione di qualità simbolica, data la varietà e la belli­cosità delle etnie in concorrenza fra di loro per il controllo del territorio e delle sue risorse.Per quanto riguarda la conquista persiana, greca e romana, una cosa è certa ed è che si trattò di operazioni geopolitiche di strategia imperiale, che poco avevano a che fare con i processi nei quali si viene a formare un’identità etnica, che sono sem­35

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pre processi di lunga durata e non frutto di scelte militari e politiche contingenti.

2. Le rivoluzioni culturali del i millennio a.C.Nel i millennio a.C. si verificarono due radicali rivoluzioni nell’ambito della cultura razionale e in quella simbolica, nel mondo del pensiero e in quello dei valori religiosi, che incisero profondamente sul principio dell’identità etnica, e continuano a farlo dopo tremila anni.Gli uom ini, p roprio perché tali, hanno sem pre usato il principio della razionalità nei loro comportamenti pratici, e si distinguono dagli altri esseri viventi appunto per questo. Ma in modo per così dire implicito, attraverso la loro industriosità efficace, e senza riflettere criticamente sui fondamenti di que­sta loro esperienza. Per cui produssero tecnologie, anche raffi­nate, come l’agricoltura, opera delle donne, e perfino concetti astratti in forma applicata al loro lavoro intelligente, ma in modo radicalmente pragmatico. Egizi e Babilonesi conosceva­no il calcolo, applicato all’edilizia, all’agrimensura, alla conta­bilità commerciale, allo studio dei moti celesti, per stabilire le rotte sui mari così come per praticare i riti della mantica, indi­stintamente, e sapevano di medicina e di chirurgia curando con erbe medicinali e con riti simbolici. Ma non sapevano nul­la di scienza, come sistema di regole per stabilire la distinzio­ne del vero dal falso e per progettare a priori validi sistemi di intervento sulla natura e sulla società, da produrre secondo concetti inediti, per il semplice motivo che, pur mettendoli in atto, non conoscevano il senso specifico dei concetti, così co­me la loro esistenza. Si può dire che il genere umano pensasse pur senza sapere di pensare, e come pensava. I valori della co­noscenza e quelli della credenza, i simboli e i concetti, si confondevano fra di loro indistinti, da cui la forma mitologica del loro patrimonio culturale, in cui la metafora prevaleva sul concetto, poeti e filosofi erano spesso una cosa sola, come fu il caso di Senofane in Grecia.Il pensiero sul pensiero, la sua presa di coscienza autocriti­ca ebbe le sue origini storiche in Grecia, a partire dal vii seco­lo a.C. con la scuola che oggi si chiama presocratica, che si de­dicò alla ricerca sulle aitiai, i principi originari di tutto, ricer­ca che si concluse con la scoperta del concetto grazie alla qua­le nacque, con Socrate, una nuova forma di pensiero, che po­ne se stesso come oggetto da conoscere, nei processi e nei mo­di che gli sono propri, un pensiero che si pensa, e che si espri­

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me appunto nei concetti, come modelli di conoscenza, come idee. Il conoscere e il credere da quel momento presero le di­stanze l’uno dall'altro, e si collocarono nei rispettivi distinti autonomi domini, razionale e simbolico, e la confusione di tali domini porta ancor oggi a ciò che chiamiamo l’irrazionale. Ip- pocrate criticava per questo Esculapio.Il v secolo a.C. e le conquiste che si verificarono allora in Grecia in tutti i campi del sapere, del vivere civile, del poetare, resta una data cruciale nella storia degli uomini e non poteva non avere influenze profonde sullo stesso simbolo dell ’ethnos, e sulle forme sociali che si produssero nel corso dei secoli co­me conseguenza di tale rivoluzione culturale. Non solo la poe­tica, ma la politica e l’etica stessa presero forma di scienze fi­losofiche, influendo sulla qualità del nuovo ethos, costitutivo dell ’ethnos ellenico, caratterizzandolo in forme inedite. Così come la fisica quale scienza della natura, originariamente in­tesa come ente mitico, la physis, prese forma grazie ad Aristo­tele e permise nei secoli che seguirono quegli interventi nelle tecniche di produzione del sociale, che cam biarono, e non sempre in meglio purtroppo, la faccia del mondo.Platone formulò nella Repubblica le prime categorie di ana­lisi dei sistemi politico-sociali, ricavate dall’osservazione di quelle forme concrete che si erano formate per moto sponta­neo e non programmato, sulla base delle ancestrali strutture della parentela e i loro sviluppi nel corso del tempo: la m onar­chia, l’oligarchia, la tirannide, e finalmente la democrazia, co­sì come l’immagine ideale di un governo perfetto che sarà og­getto di rinnovate e molteplici discussioni nel pensiero politi­co dell’età moderna.Qual è il significato di questa rivoluzione le cui conseguen­ze si protrassero nelle epoche successive, con alterne vicende, e che ebbe effetti concreti e immediati solo nelle città greche, le cui élites sociali ne furono influenzate, a differenza della grande massa della società contadina, e di quei paesi dell’Orien­te che non ne rimasero toccati?Essa dimostrò, a coloro che erano capaci di intenderlo, che ciò che fino allora era accaduto in modo irriflesso e sponta­neo, sotto il peso del contingente e della necessità, poteva ve­nire criticamente progettato secondo un fine, secondo valori. In tal modo ciò che era stato fino quel tempo lasciato al caso o riferito alla volontà divina poteva essere - almeno in linea di principio - sottoposto al controllo del nous, della ragione. Questo introduceva nell ’ethos ellenico un germe potente di nuovi sviluppi in ogni campo della vita sociale, e apriva la strada, lunga e difficile, del trascendimento dell’ethnos mede­

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simo verso obiettivi universali, nell’interesse di tutti indistinta­mente gli uomini.In Oriente solo in un grande paese si produsse qualcosa di simile, almeno sul piano della vita pubblica, e proprio in quel­lo stesso periodo: la Cina. Fin da tempi remoti esisteva nella società cinese una rigida regolamentazione dei comportamen­ti sociali, il minuziosissimo codice li, da cui il movimento cul­turale detto dei “legalisti” puntigliosi cultori della legge (Libro del Cerimoniale). Ma fu una personalità originale, Confucio, vissuto fra il 551 e il 479 a.C., che portò a un alto livello di ra­zionalizzazione queste premesse antiche, attraverso la forma­zione di una categoria di funzionari accuratamente selezionati e preparati ad assolvere i loro compiti istituzionali non solo nell’interesse del sovrano e dei suoi feudatari, ma dell’intera collettività. In questo non vi era nulla di particolarmente nuo­vo in rapporto ai fondamenti simbolici àeìYethos cinese, per cui tutto il sociale era fatto dipendere dal “decreto del cielo” (tiengming), cui lo stesso imperatore doveva sottostare. Ma si introduceva nell’organizzazione dello stato un intrinseco prin­cipio di razionalità funzionale che spiega in buona parte la lunghissima durata dell’impero cinese, nonostante le sue tra­vagliate vicende. Tuttavia si trattava, diversamente da quanto stava m aturando in prospettiva nella civiltà europea originata in Grecia, di un ordine tutto volto all'interno, assolutamente etnocentrico, e per nulla orientato verso prospettive di auto­trasformazione e di apertura verso l’esterno, con assai scarsa influenza quindi sul futuro corso della storia nel resto del mon­do, fino a tempi recentissimi, come avremo modo di vedere.Un simile sviluppo è invece strettamente legato alla rivolu­zione culturale del v secolo a.C. nella Grecia antica.A parte la Cina che coltivò una sua originale forma di prag­matismo, in campo economico e della pubblica am m inistra­zione, la cultura filosofica delle società dell’Oriente, e soprat­tutto indiana, si indirizzò assai più verso l’interpretazione dei fenomeni della vita psichica in relazione all’esperienza simbo­lica, che non a quelli della pratica sociale e politica, in uno stretto e costante contatto con le esperienze mistiche della vita religiosa.Ed è questo il motivo per cui l’altra grande rivoluzione, che si colloca anch’essa fra il i millennio a.C. e il i millennio d.C. e che ebbe à oggetto l’esperienza religiosa, si produsse in Oriente.Abbiamo accennato allo stretto legame fra l’esperienza reli­giosa e i rapporti sociali fondati sulla trasfigurazione simboli­ca dei rapporti di parentela. Le religioni che precedettero nel38

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tempo quelle di tipo universalistico, e quelle rilevate a livello etnografico oggi, si manifestano in gran parte attraverso festi­vità e celebrazioni rituali al centro delle quali sta l'esaltazione delle origini nobilissime del genos, il culto dei morti, e l’esigen­za di propiziare mediante pratiche simboliche, definite comu­nemente magiche, il favore della natura intesa come trasfigu­razione simbolica del suolo e degli animali e vegetali che su di esso vivono: il topos. Queste forme religiose sono generica­mente definite, seguendo Tylor, animistiche, e sono alle origini delle svariatissime possibili versioni del politeismo, chiamate di volta in volta dagli studiosi coi termini di animatismo (Mar- rett), di totemismo (Durkheim), di kratofanie e di jerofanie (dalla scuola della fenomenologia delle religioni), e che hanno dato luogo alle codificazioni mitiche delle grandi tradizioni classiche dell’Oriente, Medio Oriente ed Europa greco-roma­na, nelle quali cam biano i nomi delle divinità, m a sono gli stessi gli elementi trasfigurati in form a divina. Tutte queste forme gravitano attorno ai principi fondamentali del genos e del topos, e potrebbero definirsi globalmente come religioni etniche, in questo limitato senso. I sacerdoti, dall'uomo di me­dicina fino alle figure dei brahm ani e dei pontefici romani, compaiono come i gestori di questo universo simbolico e dei relativi rituali, sacrifici, cerimonie e festività.Nel corso del i millennio a.C. anche nel campo delle espe­rienze religiose, in più luoghi e senza diretto contatto fra di lo­ro, si produsse - in varie forme e con diverse modalità - un di­stacco dall'antica tradizione religiosa, per dare spazio a una forma di religione ispirata da singoli personaggi storici, e da essi profeticamente rivelata, nella quale erano proposti valori non più associati strettam ente all ’ethnos ancestrale, bensì orientati in una prospettiva universalistica, che riguardava l’insieme dell’um anità e non più una singola stirpe.Come tendenza questo motivo universalistico non era del tutto cosa nuova. A opera del faraone Amenofi iv (1377-1358), che si era dato il nome di Ekhnaton “l’amato da Aton”, era sta­ta elevata a culto di stato la venerazione di un unico dio in for­ma di disco solare: Aton. Questo motivo simbolico non era più legato alla trasfigurazione dei temi tradizionali, bensì a un unico principio di giustizia e di ordine universale. La presenza di un principio di questo tipo è stata rilevata a livello etnogra­fico da padre W. Schmidt che ne aveva tratto una teoria sul “monoteismo originario” di derivazione biblica del tutto arbi­traria e antistorica. Ma l’argomento è stato poi ripreso e svi­luppato dal nostro Raffaele Pettazzoni attraverso una ricerca sulle grandi religioni storiche, dalla quale era giunto a conclu­39

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dere che l’immagine di una divinità unica celeste, associata all’esperienza intima di un principio universale d’ordine etico cosmico, compariva in diverse religioni, non contigue fra di loro. Era presente in Egitto ben prim a di Amenofi con l’imma­gine del dio Ra, cui si legava il simbolo di Ma’et, parola di giu­stizia; in Mesopotamia come Anu, padre di Ea, dio della sag­gezza; nella religione indoeuropea, con Dyaos Pitar, associato a Varuna, dio della giustizia, che sarà poi per i Greci Zeus, as­sociato a Dike, dea della giustizia; nella religione ebraica esso appare nel mito di Yahvè che consegna le tavole delle leggi a Mosè sul Sinai; in Cina compare come dio del cielo ti, fonte del decreto di giustizia tienming, in Persia come Ahura Mazda, la cui volontà di giustizia si personifica in Asha.Tutte queste immagini divine stanno sullo sfondo dell’olim- po di queste religioni, senza una specifica destinazione funzio­nale, da cui la definizione di dei otiosi, che è stata loro data dagli specialisti, in quanto inoperanti nel contesto del politei­smo funzionale delle religioni etniche; essi infatti impersona­vano un motivo etico cosmico di valore universale: la risposta simbolica positiva all’esigenza di ordine e armonia del mondo vissuta come immagine divina e unica, con la quale tutti pos­sono identificarsi, e garantire così la propria presenza.Q uesti p reced en ti possono fa r com prendere com e, in un’era nella quale avvenivano profonde trasformazioni stori­che e grandi connessi turbamenti nello spirito delle genti, que­sta esigenza assumesse una inedita pregnanza così da ispirare, in diverse parti del mondo, la predicazione di una religione nuova, non più vincolata strettam ente ai motivi tradizionali delle religioni etniche del passato, e alla gerarchia dei loro sa­cerdoti, bensì a un’istanza universale di ordine e di pace. A Yahvè Sabaot, il dio ebraico degli eserciti, veniva proposta l’al­ternativa di un dio dell’amore, della carità e della pace.La predicazione di Zarathustra nell’Avesta; quella del Bud­dha, col suo messaggio universale sulle quattro dolorose e co­muni verità sulla vita, che induce alla tolleranza e alla pace; la profetica ebraica preludio della rivelazione del Cristo, che staccava nettamente il proprio messaggio, la “buona novella”, da quei filoni dell’ebraism o ancora legati al prim ato etnico dell'unico popolo eletto da Dio; e nel nuovo millennio, la pre­dicazione di Maometto, appassionato sostenitore di un unico dio, la cui fede deve essere diffusa in tutti i popoli, anche con l’uso della sacra violenza, sono versioni assai diverse fra di lo­ro, tutte peraltro sostanzialmente orientate verso una nuova concezione metaetnica della fede religiosa.Questo è un fenomeno storico di straordinaria importanza,40

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in quanto di contro alle religioni etniche di conservazione del­la tradizione ancestrale m ostra il contrapporsi di una serie di proposte innovatrici che vengono affermando, nei diversi con­testi storici, e con connotazioni assai lontane fra di loro, una unica istanza universalistica, destinata a incidere profonda­mente suìYethos delle società nelle quali si sono prodotte. Da un lato l’istanza universalizzante della ragione, dall’altro l’omologa istanza profetico-religiosa che trascende l’etnocen­trismo originario, sembrano concorrere, in un difficile e trava­gliato dialogo, a un unico fine. Ma questo ovviamente nella di­mensione di una lunga, lunghissima durata.

3. L'impero di Roma e la scienza del dirittoGli imperi multietnici che si erano nel frattempo costituiti per motivi geopolitici di carattere essenzialmente militare, in­teressavano il fronte sud del continente asiatico, dall’Egitto al­la Cina, i due paesi etnicamente omogenei di lunga tradizione, di cui si è detto. Nella zona intermedia si situava il subconti­nente indiano, a struttura etnica duale, composta dallo strato originario dei Munda e Dravida, popolazione autoctona di cui ben poco si conosce, e dalla minoranza degli invasori indoeu­ropei portatori della grande cultura loro propria, fondata sul sistema sacralizzato delle caste, e organizzato in monarchie regionali, dominante una miriade di microetnie articolate sul­la base di comunità di villaggio. Questo insieme, salvo per il breve periodo dell'impero buddhista di Asoka (272-231 a.C.), non rappresentò mai una vera e propria unità politica, e fu travagliato da una serie di incursioni di tribù provenienti dall’Asia centrale, fino a quelle arabe del 711 d.C.Il territorio a ovest del subcontinente indiano fu invece tea­tro di una serie ininterrotta di guerre fra popolazioni che gra­vitavano su quella zona, l’attuale Medio Oriente, dando vita a una successione di formazioni di tipo multietnico imperiale a partire dall’impero di Sargon di Akkad (2350-2300 a.C.), segui­to dall’impero babilonese, da quello assiro, persiano, e final­mente greco-alessandrino, con la costante presenza attiva di quello egizio, nella zona della Siria antica, mentre le coste era­no dom inate dai Fenici e dagli Achei (Pulestin). Al tem po dell’invasione greca (Alessandro Magno, 336-323 a.C.) e suc­cessivamente, durante il predominio greco e poi romano, que­sta regione divenne uno straordinario e creativo melting pot, a causa del forte dinamismo interetnico, dell’intenso scambio di m ercato con i paesi dell’Estremo Oriente, della presenza di

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studiosi greci o di formazione greca, che facevano capo alla nuova città di Alessandria (fondata in Egitto in onore del con­dottiero imperatore nel 332 a.C.)- Quella zona si fece cioè un centro mondiale di vita intellettuale, che contribuì decisamen­te a diffondere nelle immense zone dei domini greci prima e romani poi, i frutti della rivoluzione culturale inaugurata da Atene nel v secolo a.C.Ma da questo formidabile contributo culturale, matrice di nuove credenze religiose e di nuove concezioni filosofiche e scientifiche, assai meno derivò sul piano dell’organizzazione istituzionale e razionale della società, in termini di teoria dello stato, e della scienza del diritto più in generale. Questo fu il compito principale assegnato dalla storia all'impero di Roma, su cui conviene parlare ora, per il contributo che ne venne in rapporto al problema dell’identità etnica nel nuovo contesto storico.La tradizione epica rom ana manca di miti cosmogonici e teogonici - come osserva Sabbatucci (Sabbatucci 1975), alla cui opera mi riferisco per questo tem a - e nasce col mito della fondazione di Roma da parte di Romolo, fatto questo di gran­de significato.Si è parlato dell’incapacità m itopoietica dei rom ani o di una intenzionale eliminazione di questa particolare tematica della mitologia religiosa; si è detto della trasformazione dei miti in riti - senza sapere bene che cosa siano gli uni e gli al­tri, e quale sia il senso specifico degli uni in rapporto agli al­tri -; si dice anche di una “demitizzazione culturale” dei miti attraverso l’eliminazione della loro valenza poetico-letteraria, e la loro traduzione in mere pratiche rituali.Possiamo avanzare un’ipotesi alternativa a queste interpre­tazioni, dopo quanto si è detto su quel particolare simbolo complesso che è 1 'ethnos. Il mito di fondazione di Roma è il nucleo centrale del suo epos, come memoria storica celebrati­va della società che lo ha prodotto, celebrativa non tanto di eventi legati alla genesi della stirpe e delle connesse vicende, fondati sul genos, quanto di un evento storico di carattere squisitamente razionale: la fondazione di un sistema di princi­pi istituzionali, la civitas, con le sue leggi, e cioè basato sopra un ethos già permeato di razionalità funzionale. Non per nulla l’insegna pubblica di tale istituzione fondamentale fu s p q r , se- natus populusque romanus, società civile e istituzioni politi­che, potremmo dire, usando la terminologia moderna. Questa realtà fu l’oggetto storico concreto, che venne trasfigurato in mito, il mito di una realtà di carattere societario e non comu­nitario, elevata a simbolo e quindi a valore, quale nucleo cen-42

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traie dell’identità etnica romana, ispirata da un ethos tenden­zialmente universalistico. Un evento che stabiliva una rottura netta con il passato gentilizio delle tribù italiche che, aggre­gandosi all'insegna del nuovo simbolo-valore, diedero vita a una realtà del tutto nuova in relazione agli equilibri storici del passato tribale e comunitario.Questo passaggio non ebbe luogo ovviamente né all’im- prow iso né in seguito a un proposito programmato, ma attra­verso una graduale trasformazione di lungo periodo, sotto l’in­flusso culturale della Magna Grecia, nella quale i principi della razionalità nello stabilimento dei rapporti sociali e nella defi­nizione della loro normativa si erano già diffusi e affermati. Per lungo tem po la tradizione gentilizia quiritaria convisse con le tendenze nuove, in talune forme della vita sociale e del­le norme del diritto consuetudinario tradizionale, basato sul primato della proprietà fondiaria gentilizia.La nuova sostanza dell’ep o s ispirato ai principi della razio­nalità universalistica si definì a Roma come jus, come diritto fondato sopra una logica autonom a in rapporto al costume tradizionale agnatizio, definito dalla sacralizzazione del genos. Ed entrò a caratterizzare un nuovo ethnos, che costituisce il contributo di Roma alla storia delle identità etniche facenti parte della tradizione che si chiamerà poi greco-romana o, in tempi recenti, occidentale.Questa forma universalistica del diritto romano diede un senso nuovo sia ai singoli, che si fecero così portatori di una personalità non solo biologica, legata al costume comunitario in forma passiva, ma anche giuridica, si fecero cioè cittadini titolari non solo di doveri, ma anche di precisi diritti. Mentre la comunità agnatizia venne relegata nelle campagne, lontane dai centri cittadini, nei pagi, in cui si mantenne per secoli, coni vecchi culti e le vecchie costumanze tradizionali, come in tante altre parti del mondo. E la nuova società urbana arrivò a concepirsi come bene comune, patrimonio di tutti i cittadini, come res publica, cui tutti sono cointeressati tanto nel ricavar­ne vantaggi quanto nel prestare i dovuti servizi, fino all’estre­mo sacrificio: dulce et decorum est pro patria mori.La cultura romana, erede di quella greca, ne ha sviluppato le implicite valenze universalistiche in direzione dello stato e della sua concezione moderna, fondata cioè sul prim ato del diritto, inteso non solo come scienza, giurisprudenza, ma come valore etico qualificante, distinto dalle sue forme quiritarie.Sabbatucci, al quale, come dicevo, mi sono ispirato in que­sta lettura del fenomeno storico romano e della sua peculia­rità, ha indicato nei pontefici, redattori degli Annales, gli attori

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più avvertiti di questa trasformazione, che si concluse nella configurazione storica che ha preso il nome di Impero rom a­no. Questi operatori, ai quali era dem andata tanto la funzione di cronisti, quanto quella di magistrati e di cultori della ritua­lità, attraverso la quale lo jus, nel suo significato di valore su­premo, si traduceva in atti sociali, hanno gradatamente guida­to il passaggio dal costume agnatizio, adottato per tradizione, alla giurisprudenza concepita come applicazione razionale delle leggi generali alle diverse fattispecie concrete.Lo jus, simbolicamente trasfigurato in supremo valore so­ciale, e incarnato nelle istituzioni e nelle sue complesse stru t­ture di stato imperiale multietnico, divenne così una realtà sa­cra le oggetto di culto , rivolto aH’im m agine tra s f ig u ra ta dell'Imperatore. Ma non nel senso del despota orientale, o del tiranno, espressione arcaica e intollerante di una stirpe guer­riera, bensì all'insegna del rispetto per le altrui tradizioni, in senso sovranazionale.Ne ha scritto ottimamente il Sabbatucci (Sabbatucci 1975).Ma se si considera concretamente il "nazionalismo romano” così come lo ha considerato Dumézil, quale espressione di una tendenza "romanizzante” anziché "cosmologizzante”, ecco che ci troviamo di fronte ad un fatto sorprendente: questa tendenza si rivela proprio nel superamento dell’idea di natio che dovrebbe essere alla base di ogni nazionalismo.Anche per questo fatto ci riferiremmo a quell’orientamento gene­rale che abbiamo definito attualistico: il disconoscimento dei valori di nascita (idea di natio) va di pari passo con il riconoscimento dei valori di quella "attualità” che era la res publica. La res publica era "attualità” in quanto non coesistente con la Città, intesa come agglo­merato urbano. Ed era un’“attualità” che superava l’idea di natio conil superamento della comunità gentilizia, questa sì coesistente alla Città, in quanto si riconosceva nei patres discendenti dai fondatori di Roma.Vediamo così che il concreto “nazionalismo romano” finisce per condurre alla meno nazionale delle soluzioni. Conduce allo stato in­teretnico, in senso moderno, nel quale ogni natio (e non i singoli in­dividui) potè diventare romana per il solo fatto di trovarsi entro i confini dell'Impero.Succede che noi non ci meravigliamo mai abbastanza di quel "nazionalismo” sui generis che fu il romano, ma lo confondiamo con un astratto concetto di nazionalismo che attribuiamo, quasi come un elemento naturale, ad ogni popolo. E, invece, ci meravigliamo troppo dei suoi effetti: la “forza" e la "grandezza” di Roma - quasi che in una lotta per l’egemonia tutte le città antiche (né soltanto italiche) siano partite alla pari con Roma, e Roma abbia finito col vincere.Ciò poteva accadere perché l'idea di cosmo e di res publica coin­cidevano perfettamente: non c’era differenza, dunque, tra interno ed

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esterno. La differenza vera era tra romano e non-romano, sia all’in­terno che all’esterno delle mura urbane. La differenza vera, in altre parole, una volta ammessa la coincidenza del cosmo con la res publi­ca, veniva ad essere tra cosmico (romano) e caotico (non romano) dovunque fosse. (Sabbatucci 1975, pp. 101-102)In questo principio, tendenzialmente universalistico, anche gli appartenenti a etnie diverse trovano il modo - integrandosi nella realtà romana, e facendo proprio il suo modo di essere culturale - di acquisire lo statuto personale di cittadini roma­ni, tali non per il genos ma per Yethos - sia pure con la vistosa limitativa eccezione della condizione servile.L’edificazione dell’"ordine repubblicano”, che è poi il cosmo di cui stiamo parlando, ha preteso: sul piano sociale, la rinuncia al “gentilizio”; sul piano religioso, la rinuncia al “cosmogonico”. Ha preteso, cioè, la demitizzazione come negazione di miti gentilizi e di miti cosmogonici.Ha poi realizzato un “nazionalismo” che non muove da un ordi­ne dato, o da un cosmo miticamente fondato, e nel quale gentes e na- tiones sarebbero ordinate per nascita (“generare" e "nascere” sono etimologicamente contenuti nei concetti di gentes e nationes, i quali termini poi risalgono ad una medesima radice: g(e)n-). Ma, anzi, ha preteso di fondare esso stesso un ordine, facendo diventare romano ciò che era nato non-romano, così come, all'interno, aveva fatto di­ventare “patrizio” ciò che era nato “plebeo”. (Sabbatucci 1975, p. 103)La religione romana presenta una caratteristica peculiare, da un lato essa è pragmaticamente legata alle opere quotidia­ne, e questo soprattutto nei pagi, ed è quindi vicina alle forme simboliche, strum entali e funzionali, del politeismo proprio delle religioni agrarie in genere; dall’altro si pone come sacra­lizzazione del diritto e delle istituzioni dello stato imperiale; m entre è decisam ente lon tana dal m om ento m istico delle grandi religioni rivelate della stessa epoca. Così che, fino all’entrata sulla scena dell’ebraismo e del cristianesimo, l’ansia di una religiosità più intima e personale, forte nelle élites urba­ne, cercherà una risposta nell’adozione di culti misterici me­diorientali quale quello di Mitra e di Iside, assai frequentati dall’aristocrazia di Roma imperiale.Quali le differenze fra Roma e la Grecia? Così ne scrive Sabbatucci:Possiamo qualificare come anti-genetica anche la rivoluzione culturale greca? Senza dubbio sì, o almeno proprio su questa qualifi­cazione è impostata la fase attuale della mia ricerca. Donde nasce che, a partire da una comune finalità antigenetica, diventa possibile individuare tanto il prodotto storico romano quanto il prodotto sto­

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rico greco, mediante la differenziazione delle rispettive soluzioni. In Grecia il rifiuto del “dato”, inteso come la condizione umana, ha prodotto misticismo, e inteso come condizione politica, ha prodotto democrazia. In Roma condizione umana e condizione politica si identificano: gli “inaccettabili” iura gentium che sanzionano una di­suguaglianza politico-sociale sono anche iura hominum, ossia sono quegli stessi “diritti di sangue” che sanzionano la disuguaglianza razziale; il rifiuto di questi iura porterà Roma a conseguenze univer­salistiche sconosciute alla Grecia, o limitate, in Grecia, al campo d’azione mistico; mentre, d’altro canto, Roma non produrrà altro “misticismo” che non sia l’assoluta dedizione alla res publica, intesa, di per sé, quasi "transumanante” (in termini giuridici: lo ius civile prende il posto dello ius humanum). (Sabbatucci 1975, p. 89)L’apporto universalistico della Grecia alla cultura cui ap­parteniamo fu la premessa di quello romano. La differenzia­zione, più che nei principi, sta nella loro applicazione al diver­so contesto di problemi che Roma si trovò ad affrontare, e allo sviluppo normativo e istituzionale che ne derivò. Il modello imperiale romano che restò, almeno di nome, storicamente at­tivo (il termine di Kaiser e di Czar derivano da Caesar), nei se­coli successivi alla caduta di Rom a im periale, rispondeva all’esigenza di gestire un territorio che comprendeva, nell’età della sua massima espansione, la totalità dei paesi che si affac­ciavano sulle sponde del Mediterraneo, abitati da una molte­plicità di etnie, alcune delle quali nettamente caratterizzate da millenni di storia originale, e questo basandosi non solo sulla forza delle armi ma anche sulla capacità politica, am m inistra­tiva ed economica, che richiedeva una legislazione adeguata, e diversa da quella degli insediamenti greci della fase preceden­te, autonomi o quasi dal centro ideale del potere, anche du­

rante l’effimero impero di Alessandro Magno. Da cui lo svilup­po del diritto e in particolare di quello pubblico.Sul piano dei rapporti stabili nel tempo con le presenze et­niche così differenziate e numerose sottoposte al suo dominio, più che a una politica di assimilazione culturale radicale, di vera e propria deculturazione, Roma ricorse al compromesso del dominio indiretto, lasciando in carica i poteri tradizionali sotto controllo romano, e rispettando comunque, anche in ca­so di dominio diretto tram ite funzionari provinciali, il princi­pio della tolleranza religiosa, segnato dall’am m issione nel Pantheon di Roma dei simboli destinati al culto di tutte le di­vinità adorate dai paesi sottomessi. Con un solo vincolo: che venisse riconosciuto il carattere divino supremo della figura dell’Imperatore. La tipologia di questa gestione andava da un processo di assimilazione senza forzature, come nel caso della

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Gallia, della Spagna e della Bretagna, all’alleanza con i paesi subordinati, alla riscossione di tributi da quelli controllati ma autonomi.La peculiarità della civiltà giuridica rom ana spiega il per­ché l’impero di Roma potè costituirsi e assolvere per un lungo periodo di tempo alla sua funzione storica, in forza di un ethos tendenzialmente universalistico, nelle zone in cui il suo poten­ziale militare lo rendeva possibile. Al di là di questi confini, e nelle zone non inserite in altre strutture di tipo imperiale, esi­steva a partire dai paesi renani non rom anizzati fino agli estremi confini orientali del continente euroasiatico, una mi­riade di etnie del tutto immuni dagli influssi della romanità, basate sul primato assoluto del genos, come le tribù mongole, slave, ugro-finniche, e germaniche. E fu questo coacervo di popoli estremamente aggressivi a segnare la fine dell’impero. Nell’anno 394-395, alla morte di Teodosio, che aveva fatto del­la religione cristiana la religione di stato, dopo che l’imperato­re Costantino nel 313 ne aveva ammesso il culto con l’editto di tolleranza, L’impero romano si divise in due parti sotto gli im­peratori Arcadio in Oriente e Onorio in Occidente con capitale a Ravenna. Nel 476 l’impero rom ano di Occidente cadeva a opera del barbaro Odoacre.La caduta dell’impero, che lasciò in Europa un vuoto incol­mabile, ebbe come uno dei suoi fattori determinanti la pres­sione delle etnie che Roma non aveva mai potuto porre sotto controllo, sui suoi confini centro-orientali. E questo in un du­plice senso: in conseguenza degli attacchi diretti, e in conse­guenza dell’indebolimento progressivo del suo sistema di dife­sa militare, in buona parte dovuto al fatto che l'impero, esauri­te le fonti demografiche originarie latine delle sue legioni, ave­va dovuto ricorrere in sempre maggiore m isura a mercenari provenienti dalle tribù germaniche, anche nei superiori ranghi del comando e, dato il peso crescente dell’ambiente militare nella vita politica, dove l’elezione degli imperatori era caduta sotto il controllo dell’esercito, l’intera compagine dello stato ne era rimasta influenzata, e la sua originaria componente la­tina compromessa nella sua egemonia millenaria. Questo fat­to, oltre alle conseguenze della sfida culturale posta dalla reli­gione cristiana che minava alle radici il nucleo simbolico fon­dante della struttura imperiale, la sacralità dell’Impero nella figura dell’Imperatore, oltre alla crisi demografica ed econo­mica, e del grandioso sistema di com unicazioni per m are e per terra, provocò una vera e propria catastrofe, e cioè la tota­le dissoluzione di quel complesso, articolato e potente equili­brio storico multietnico, che era stato l’impero romano, grazie47

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soprattutto alla sua specifica cultura, e al suo ethos in modo particolare.Possiamo chiederci se questo equilibrio storico-istituziona­le, economico, socio-politico e culturale, estremamente com­plesso, che fu l’impero di Roma, sia compatibile con il model­lo ideal-tipico dell’identità etnica che ci siamo proposti di ap­plicare in questo studio. Possiamo in altre parole parlare legit­timamente di un’identità etnica romana, vissuta in modo rela­tivamente omogeneo da coloro che si dichiaravano cives roma­ni, a qualunque etnia appartenessero? Lo si può fare se si pen­sa al nucleo latino originario di questo processo storico. Ma a partire dal momento in cui il sistema di potere romano si este­se a tal punto da farsi una realtà multietnica, tenuta assieme quasi solo da valori razionali, giuridici e politico-istituzionali, e dal potenziale militare al loro servizio, con l’inevitabile sacri­ficio dei valori simbolici quiritari del genos e del topos, allora si apre per noi un problema assai più generale: può esistere una forma storica di aggregazione sociale in totale assenza di tali valori simbolici primari, affidandosi unicamente alla forza della ragione come valore di riferimento fondamentale?

È questo un quesito al quale si cercherà di dare una rispo­sta alla conclusione di questo saggio, quando affronteremo il tema del conflitto contemporaneo fra tradizioni etniche e pro­getti universalistici di coesione sociale a livello mondiale.

4. Le origini delle nuove identità etniche in Europa: la società feudaleLa situazione aperta dalla caduta dell’impero romano e il totale annientamento degli equilibri sui quali riposava - in tu t­ti i campi della vita: economico, sociale, politico e culturale - offrono un’occasione assai favorevole per studiare il processo di costituzione di una nuova serie di identità etniche sulle ro­vine del passato. Due ne sono i motivi, l’azzeramento quasi completo della situazione precedente e la disponibilità di do­cumenti scritti conservati soprattutto a opera degli ordini mo­nastici formatisi in quel periodo.Questo riguarda ovviamente solo i territori europei facenti parte un tempo dell’impero di Occidente, perché quello d’Orien- te sopravvisse dal punto di vista delle istituzioni, con molte vi­cissitudini, ma senza una rottura completa di continuità, co­me accadde a quello d’Occidente, fino al 1453. Ed ebbe quindi una storia molto diversa, che ha segnato in altro modo il pro­cesso di formazione e le caratteristiche di fondo delle nuove

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n azionalità che si form eranno nei B alcani e nei te rrito ri dell’Est europeo.Nell’Europa occidentale venne così a form arsi un nuovo tessuto sociale con caratteristiche di maggiore omogeneità, in rapporto a ciò che accadde nei territori dell’impero di Bisan­zio, anche a causa dell’influenza islamica che vi si fece forte­mente sentire. L'agente principale di questo processo, dal qua­le prese forma la società feudale nell’Europa centro-occidenta­le, fu la Chiesa cattolica romana.La Chiesa di Roma infatti recitò una parte decisiva nella fa­se di dissoluzione dell’impero, sia per ciò che s’è detto circa la sua sfida vittoriosa contro i simboli culturali fondanti della tradizione romana, sia per il suo contributo a un accrescersi della conflittualità sul piano ideologico che essa venne solleci­tando, che ebbe riflessi importanti su quello politico; si pensi solo all’eresia ariana. Ma d ’altro canto la Chiesa assolse a un compito decisivo anche nella fase di ricostruzione dei nuovi equilibri sociali e politico-economici europei, sul piano della cultura e dei nuovi valori etico-sociali; sull ’ethos che caratte­rizzerà l’età feudale.La Chiesa infatti, nel generale marasma, seguito al crollo della civiltà romana, rimase l'unica depositaria del latino co­me lingua scritta, essendo le tribù germaniche illetterate - è noto che lo stesso Carlo Magno era analfabeta -, e con questo potè assolvere a una duplice funzione, quella di conservare at­traverso gli ordini monastici gli unici documenti scritti esi­stenti allora in Europa occidentale sulla cultura classica e la sua storia, e al tempo stesso potè prestare attraverso i suoi chierici una insostituibile funzione di documentazione notari­le e di trasmissione di notizie e disposizioni di governo, al ser­vizio dei nuovi organi del potere politico esercitato dalle tribù germaniche occupanti l’area europea occidentale.Ma l’operazione veramente fondamentale sul piano della cultura simbolica religiosa omogeneizzante fu l’evangelizza­zione di massa del mondo germanico, prim a dedito a culti re­ligiosi politeistico-funzionali di tipo agrario, e di celebrazione dei valori etnico-tribali, caratteristici di quel tipo di credenze religiose. La Chiesa introdusse invece elementi universalistici, che si sarebbero presto resi evidenti nella nuova etica della so­cietà feudale.Sul piano dei valori del diritto il contributo dei chierici cri­stiani si fece sentire nei tentativi di mediazione fra la tradizio­ne ancestrale del costume germanico personalistico tribale, del tutto priva di categorie giurisprudenziali di significato ge­nerale, e il diritto che fu il vanto principale della cultura clas­

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sica romana. L'Editto di Rotari, del 643, ne costituisce la più illustre delle testimonianze.Qual era la fisionomia culturale delle tribù germaniche, co­sì come la possiamo ricostruire dagli scritti di Tacito, Posido- nio, Plinio; quale la loro identità etnica, quando invasero l’Eu­ropa romana?Le tribù che popolavano quell'immensa zona del continen­te euroasiatco cui abbiamo accennato, situata a settentrione di quella fascia di paesi che si affaccia sull’Oceano Indiano fi­no al Pacifico, sede delle più antiche civiltà del mondo, aveva­no una struttura abbastanza simile fra di loro, nonostante la specializzazione in agricoltori stanziali e pastori nomadi, e si collocavano a un livello poco più che neolitico in quanto già conoscevano l’uso dei metalli.La base era data dai lignaggi e dai legami che si costitui­scono su base parentale, sul genos quindi, come elemento cen­trale strutturale e simbolico. Al vertice delle tribù stavano i ca­pi militari, destinati a guidare le azioni di guerra, in cui le tribù erano costantem ente impegnate, soprattutto a partire dal 230-200 a.C. e poi dal 375 al 568 d.C., in conseguenza delle trasformazioni climatiche che avevano imposto l’emigrazione dei popoli d’Oriente investiti dalla crisi alimentare, indirizzan­doli verso terreni più fertili, già abitati, con la conseguente ne­cessità di ricacciare con le armi verso occidente coloro che li occupavano in precedenza. Da questo una costante turbolenza e una serie di successive ondate migratorie verso l’Europa cen­trale.La guerra entrò quindi, come valore fondamentale, nell’epos e nell’ethos di quelle tribù. Fatto dal quale derivò il prestigio sociale assoluto dei guerrieri e dei loro capi, che si affidavano, nel caso di conflitti di più ampie dimensioni, a un com andan­te supremo pro tempore quale guida comune delle alleanze sti­pulate fra le singole tribù. Tale funzione poteva assumere col tempo un carattere permanente di sovranità sopra le aggrega­zioni intertribali. Questa era in genere la forma che presenta­vano i singoli popoli invasori.La loro religione si ispirava alla sacralizzazione delle strut­ture di parentela e dei lignaggi, le Sippen o le farae, composte di liberi guerrieri e di semiliberi, di contro ai membri dei po­poli sottomessi e agli schiavi.Questi popoli, una volta in Europa, costituirono una serie di regni: i Visigoti in Spagna, i Burgundi in Svizzera, i Franchi in Francia, gli Ostrogoti, e successivamente i Longobardi, in Italia.Nel corso dei secoli, dal v all’vni, venne prendendo forma

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un tipo di reggimento del potere politico m ilitare e sociale particolare, basato sopra un atto di affidamento (commendatio) della tutela e difesa propria, e dei propri beni, dalla minaccia di potenziali nemici, a un miles, un capo militare, un cavalie­re, contro l’onere del suo mantenimento, che gli permettesse di dedicarsi totalm ente a questo suo compito e all’esercizio della giurisdizione civile e penale nel territorio abitato dai suoi vassalli. Questo istituto prese il nome di feudo, e caratte­rizzò per lungo tempo la struttura sociale e politica dei nuovi regni europei nati dalla fusione fra la base autoctona e le ari­stocrazie militari germaniche. Il rapporto feudale non era ba­sato sopra principi generali del diritto, come nella tradizione rom ana l’insieme dei rapporti sociali, ma sopra un legame squisitamente personale, fra vassalli e signore feudale, di reci­proca fedeltà, simbolicamente sanzionato da un rito religioso.Questo diretto rapporto signore-sudditi si inseriva in un più vasto e articolato sistema che si era venuto creando in età caro­lingia per il quale, a sua volta, il titolare di un feudo lo riceveva come investitura dal titolare di una più ampia signoria feudale, con le stesse modalità di reciproco impegno di difesa e di fe­deltà, in una gerarchia di gradi, che si concludeva nella figura dell’Imperatore, fonte originaria e ultima del potere sovrano.Naturalmente questo è un tipo ideale ricavato per astrazio­ne da un sistema di concreti ed effettivi rapporti, che potevano presentare peculiari diversità a seconda delle circostanze e dei luoghi, ma che riassume efficacemente quanto di comune vi era fra tali versioni.Le forme più vicine a questo tipo ideale del feudo sono quelle che si produssero nei territori abitati da popoli di lin­gua tedesca dell’Europa centrale, e si estesero alla Francia, all’Inghilterra, e ai paesi del Nordeuropa nei quali il rapporto feudale si istituì fra un’aristocrazia guerriera e una base popo­lare fra di loro culturalmente affini, in quanto appartenenti a una cultura comune che era quella degli antichi popoli germa­nici. Mentre nel caso della Spagna il sistema feudale in fieri venne fin dai prim i tem pi segnato in un modo particolare dall'influenza della guerra di conquista araba e della successi­va guerra di riconquista, che caratterizzò all’origine la storia della Spagna feudale e con riflessi su quella moderna. E così accadde per l’Italia, in cui, come vedremo in dettaglio, troppo stratificata e differenziata da tradizioni millenarie distinte e peculiari era la base sociale, per adeguarsi facilmente a un modello ricavato da un'esperienza tanto diversa come quella dei popoli germanici, in cui erano ancora assai vivi i valori del genos e delle lealtà tribali e guerriere, tradizione alla quale, co­

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me vedremo, si rifarà la moderna ideologia voelkìsch tedesca del xix e xx secolo.Il valore germanico più significativo della socialità feudale fu quello della fidelitas del vassus (franco) o del gasindio (lon­gobardo) nei rapporti con il loro signore, la cui immagine si pone al centro dell’universo di tale specifica socialità. E anche in questo caso tale dato non va dimenticato, per il recupero ideologico che se ne ebbe, in chiave di “invenzione della tradi­zione” nella società contemporanea, con il Fuehrerprìnzip-L’influenza della religione cattolica in questo panoram a storico si manifestò tanto neH’arricchire, come si è accennato, l’ethos feudale di valori etici di ispirazione cristiana di carità e di amore per il prossimo e non solo per i propri consanguinei, quanto nel fornire un modello di sacralizzazione religiosa dell’istituto monarchico, ispirato all’ultim a fase della storia imperiale di Roma, di alleanza stretta fra il potere imperiale e quello religioso cristiano. E infatti da questo incontro nacque il Sacro Romano Impero, come istituzione politico-militare che, attraverso l’investitura di Carlo Magno a imperatore da parte di Leone in nell’anno 800, assunse una validazione sa­crale, legame che si rinsaldò nel corso del tempo con Ottone i (936-973) nonostante i conflitti sulla pratica delle investiture che divisero spesso in modo aspro le due supreme autorità del tempo.

A questo punto possiamo chiederci se a proposito della so­cietà feudale si possa pensare a un tipo ideale comune in ter­mini di ethnos, e cioè di identità etnica. A questo proposito va ricordato che se è vero che vi fu una grande affinità di tradi­zione fra i popoli germanici e in particolare fra i Franchi, i Longobardi, i Normanni, i Goti, i Sassoni, gli Svevi ecc., delle differenze fra questi popoli esistevano, così come esistevano, e in modo assai più radicale, delle profonde differenze fra di es­si e le popolazioni latine o latinizzate della Francia, Spagna e Inghilterra, per non parlare, come vedremo, dell’Italia.Tuttavia un certo numero di elementi comuni alle varie edi­zioni feudali delle nuove monarchie, effettivamente vi erano. Anche se non bastano da soli a definire un distinto preciso modello etnico di identificazione, per il fatto che queste mo­narchie esprimevano, più che un equilibrio stabile e consoli­dato, una fase del processo genetico in corso delle fu ture realtà statuali. Una fase di passaggio cioè fra etnie tribali e so­cietà nazionali.Per quanto riguarda il patrimonio epico, i temi principali ne vennero fomiti dagli eventi dello scontro fra Arabi e Cri­stiani, nella narrativa cavalleresca che ha al suo centro la figu­

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ra del paladino Orlando in Francia, del Cid Cam peador in Spagna, e dalle guerre fra Brettoni e Anglosassoni che hanno ispirato il mito dei cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù, cui si collega anche la tematica del Graal, che tanto favore in­contrerà nel recupero ideologico che ne verrà fatto nel xix se­colo in Germania.Sul piano delì’ethos ciò che caratterizzò questo periodo, ol­tre al reciproco principio di fedeltà feudale fra signori e suddi­ti e alla sacralizzazione religiosa dell’istituto monarchico, fu un atteggiamento di solidarietà nei confronti degli umili e in­difesi, cui faceva riscontro invece il coraggio militare contro gli avversari, in un globale complesso di valori che si riassume nella morale cavalleresca.Quanto al logos, di contro alla varietà dei linguaggi delle di­verse etnie, e delle varianti della tradizione rom anza, fa ri­scontro la sacralizzazione della lingua latina come lingùa uni­versale della Chiesa, monopolio in tutta Europa delle persone letterate e colte, laiche ed ecclesiastiche.Il principio del genos si m antenne vivo soprattutto come principio della legittimazione delle dinastie regnanti e dei tito­lari dei feudi, assai più che come valore legato al principio et­nico della stirpe, che verrà riesumato ben più tardi a legittima­zione di ipotetici prim ati nazionalisti.Il territorio i cui confini politici erano spesso fluttuanti, non solo in seguito ai conflitti militari, ma anche in base alle vicende familiari dei titolari dei feudi e dei loro rapporti di successione e di matrimonio, ha un rilievo mitico minore di quello che otterrà nella fase dell’espansionismo delle naziona­lità moderne; e assunse un valore simbolico particolare so­prattutto in quanto legato alle vicende delle lotte religiose per la liberazione dei luoghi santi delle religioni rivelate, araba e cristiana: la Terra Santa delle crociate.Tuttavia non bisogna pensare che questi principi di identi­ficazione etnica fossero globalmente e omogeneamente condi­visi. In proposito si possono delineare alcune situazioni più o meno differenziate.Il territorio della Francia si distingueva in quello settentrio­nale di matrice franca, più vicino al tipo ideale classico feuda­le, all’insegna della dinastia carolingia, di contro a quello me­ridionale provenzale, in cui erano forti i residui tradizionali gallo-romani, anche sul piano linguistico (lingua d’oïl e lingua d’oc). Il territorio inglese, in cui il successivo prodursi di inva­sioni delle tribù celtiche prima, e successivamente, dopo l’oc­cupazione romana, di quelle scandinave, sassoni e normanne in guerra fra loro, e la sua insularità, diedero luogo a una feu­53

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dalità nella quale i sovrani dovettero fare ben presto i conti con un alto grado di indipendenza delle dinastie e signorie ba­ronali locali sul piano del diritto e del potere (Magna Charta Libertatum 1215). Il territorio germanico a sua volta si diffe­renziò molto nettamente nella zona renana occidentale, ex ro­mana, attraversata, a partire da una certa data, sempre più in­tensamente dal flusso di scambi fra il Mediterraneo e il Mare del Nord, che ne fece uno dei centri più attivi dello sviluppo economico che caratterizzò la seconda fase del Medio Evo in Europa, e una zona aperta a intense dinamiche culturali; e la zona orientale a struttura dualistica nella quale l’etnia germa­nica si era imposta come aristocrazia dom inante sopra una base etnicam ente slava di contadini, aristocrazia profonda­mente militare e organizzata in ordini cavallereschi, come i Cavalieri Teutonici, con sede in Prussia; mentre la Germania meridionale, etnicamente omogenea, presentò forse un model­lo di maggiore compattezza e di più decisa caratterizzazione feudale; e da ultimo i territori marittimi e di terraferma invasi dai guerrieri Normanni, dall’Inghilterra, alla Francia alla Sici­lia, in cui questi si imposero come aristocrazie dominanti so­pra società, come in Sicilia, con tradizioni etniche totalmente estranee alle loro, creando situazioni specifiche ben lontane dal modello feudale originale.

Questa incompleta e sommaria panoramica di forme diffe­renziate è accennata qui solo per dare un’idea della maggioreo minore distanza culturale fra aristocrazie e masse popolari con tad ine , che segnò in m isu ra d iversa l’iso lam en to di quest’ultime dalle classi feudali dominanti, con conseguenze molto profonde in alcuni paesi, come l’Italia.Resta ora da precisare, relativam ente all’età feudale, un punto importante, che riguarda la storia delle città in questo periodo. Come si è detto esse erano praticamente scomparse, in Europa, con la caduta di Roma, in quanto ne era venuta meno la funzione che avevano avuto nel sistema imperiale, mentre non erano ancora comparse in quelle regioni europee che non ne avevano fatto parte. Nei primi secoli del n millen­nio si vennero ricreando le condizioni del loro risorgere, in ra­gione del lento ma progressivo sviluppo dell’economia e degli scambi che ne derivarono; e questo sullo sfondo della realtà delle campagne, rimaste strettamente legate alle loro tradizio­ni e al dom inio feudale dei secoli precedenti. Una nuova realtà, quella cittadina, venne così nel n e nel in secolo delli m illennio a sovrapporsi, senza integrarsi, al contesto del passato.

C’è da chiedersi quale fosse il tipo di società e di cultura54

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rche si produsse all'intemo di queste isole urbane nel quadro generale, e quali i rapporti con il sistema di dominio feudale nel quale operarono, in ragione della loro diversità dalle pre­messe a partire dalle quali quest’ultimo si era costituito.Senza poter entrare nel dettaglio storico di questa situazio­ne, eminentemente conflittuale, si osserva che le città si scon­trarono sul piano politico e su quello degli interessi economici con i signori feudali e i loro vassalli, e con i signori territoriali che dominavano porzioni più vaste e definite di territorio, che includevano i benefici feudali dei primi, mentre al loro inter­no, le città, parallelamente allo sviluppo di un nuovo modo di produzione e di scambio, davano vita a nuove categorie socia­li, in armonia con le nuove funzioni attivate dalla modernizza­zione dell’economia. Queste inedite categorie - che gli storici definiscono con il term ine di ceti, Staende, per distinguerle dalle classi della società capitalistica m oderna - ebbero in quell’epoca una parte centrale nella gestione della vita sociale cittadina.La società di ceti delle nuove città, in quanto non era titola­re di alcun potere politico derivante da una fonte feudale tra­dizionale, gestiva gli interessi collettivi di gruppi corporativi m aturati dalla nuova situazione urbana, essendosi assicurata uno spazio di autonomia di fatto, che poteva essere anche ri­conosciuta sul piano feudale, come im m unità, franchigia o privilegio. E questo al fine ultimo di garantirsi ordine e pace sulla base di un principio comune: la Genossenschaft, fellow­ship, compagnonnage, communis, espresso nelle diverse lingue europee (Poggi 1978, pp. 65-68).Le città quindi vivevano in una situazione di compromesso, in quanto non era messo in discussione da parte loro l’intero sistem a feudale di dom inio nella sua s tru ttu ra gerarchica complessiva, ma solo si ricercava uno spazio autonomo di re­lativa indipendenza al suo interno. Questo con l’eccezione dell’Italia, nella quale la debolezza e frammentarietà del siste­ma di dominio feudale offriva uno spazio maggiore all’autono­mia politica delle unità cittadine. All’interno delle società di ceti si vennero così costituendo nel tempo organi di gestione istituzionalizzata del potere, che aggregavano i diversi gruppi corporativi e ne componevano i conflitti, offrendo sul piano esterno una rappresentanza comune nei confronti dei detento­ri del dominio feudale (Ibidem, p. 74).Questo genere di compromesso, che non minacciava l’inte­ro quadro della società strutturata su basi feudali, offriva tu t­tavia attraverso l’esperienza cittadina una sede nella quale si vennero elaborando soluzioni istituzionali che si qualificavano

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per una crescente caratterizzazione razional-funzionale, di contro alla natura spontanea e fortemente simbolica dell'ordi­ne feudale tradizionale. Con questo si apriva una via ai succes­sivi sviluppi, che avrebbero portato alla formazione degli stati assoluti dell’età moderna. E in questa prospettiva è più facile com prendere la ragione fondam entale della collaborazione che si istituì fra le città e le monarchie feudali che aspiravano ad assumere la forma di stati nazionali (Ibidem, pp. 79-82).

5. L ’Islam e le prime origini del fondamentalismoAlla metà del i millennio d.C. fece la sua com parsa sulla scena del mondo un nuovo soggetto storico, l’Islam, una realtà nella quale fede e politica si combinano in modo inedito.Il fenomeno si produsse ad opera di Maometto, l’ultimo nel tempo dei grandi profeti delle religioni rivelate, in Arabia, in un contesto sociale agricolo-mercantile, ricco a quell’epoca di risorse economiche e di rapporti con i paesi vicini e lontani tramite il commercio carovaniero, in un ambito di credenze re­ligiose di tipo etnico tribale, con nuclei ebraici e cristiani, con i quali la religione predicata da Maometto aveva in comune la divinità monoteistica e il patriarca Abramo, per cui eran detti “popoli del libro”, avendo in comune anche il testo biblico.L’avventura ideale e politica di Maometto fu drammatica e breve: dopo una gioventù di carovaniere, nel 612 ebbe le sue prime manifestazioni mistiche e profetiche e iniziò la sua pre­dicazione che venne raccolta nel testo del Corano. Nel 622 fuggì dalla Mecca a Medina, T'Egira”, e diede pieno sviluppo alla sua azione politica. Ritornato alla Mecca nel 630, vi morì due anni dopo, avendo posto le basi militari e politiche di quel­la che sarebbe diventata la maggiore potenza militare e reli­giosa del tempo in concorrenza diretta col mondo cristiano.Il principio centrale ed esclusivo del monoteismo islamico è rappresentato dalla fede in un dio unico, artefice della storia tram ite i profeti, e legislatore. Questo principio, la umma, è ciò che unisce i fedeli in un unico corpo e li caratterizza sia sul piano religioso sia su quello politico-sociale. Per usare la terminologia di questo saggio, esso esaurisce compiutamente la funzione e il valore d Æ ethos, che definisce il carattere del gruppo sterminato di fedeli che l’Islam costituisce anche oggi nel mondo. La umma è un valore universalistico e decisamen­te metaetnico, per cui l’insieme delle società islamiche, che si estende nella fascia subtropicale dall’Atlantico al Pacifico, è rappresentata da molti popoli, che hanno conservato e svilup­

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pato fisionomie peculiari nelle varie forme della cultura, delle arti, e delle scienze. Ma sono uniti da qualcosa di più di una semplice credenza religiosa, perché la umma è al tempo stesso legge morale comune e vincolo politico, solidarietà internazio­nale, alleanza spontanea in guerra e fede religiosa. Il tem a del­la guerra, rivolta a estendere oltre ogni confine etnico la um ­ma come esperienza religiosa e come giustificazione del domi­nio politico, è un tema centrale: “guerra santa” (jihad) .La storia dell’Islam accom pagna di pari passo la storia dell’Europa cattolica e ortodossa, che senza di essa non po­trebbe essere pienamente conosciuta. Essa infatti ne rappre­senta il contro-canto, l’altra faccia di una medaglia, fin dalle sue origini, dai primi scontri nell’vm secolo con Bisanzio a est a quelli contro le signorie feudali della Spagna e della Francia carolingia a ovest, estendendosi con il dominio turco ai Balca­ni e alle regioni danubiane, e perpetuandosi nelle nuove con­dizioni storiche moderne in altre vaste zone del continente eu­roasiatico e in Africa.

Il conflitto arabo-cristiano nel M editerraneo condizionò strettam ente le sorti dello sviluppo economico europeo nel Medio Evo, e le vicende italiane in particolare, i problemi reli­giosi intrecciandosi strettam ente con quelli economici nella sequenza di spedizioni militari per la riconquista della Terra Santa, le sei crociate che ebbero luogo dal 1096 al 1270.Ma i rapporti fra Europa cristiana e mondo arabo non eb­bero solo questo aspetto conflittuale, se si pensa al contributo p rezioso della civiltà a raba al recupero storico cu lturale dell’Europa cristiana, grazie all’eredità della cultura ellenistica che gli Arabi reintrodussero in Europa, assieme alle loro origi­nali creazioni nel campo delle scienze matematiche e filosofi- che (Avicenna 980-1036 e Averroè 1126-1198), e al contributo nel campo della mistica religiosa (al-Gazzali 1058-1111), del­l’etnologia (Ibn Batuta 1304-1378 e Ibn Khaldun 1332-1406).Il problema se si possa parlare o meno di un’identità etnica araba come fenomeno autonomo e comparabile ad altri, meri­ta un discorso a parte, data la sua estrema complessità. Si può osservare peraltro che l’Islam non costituì mai un unicum poli­tico di tipo imperiale multietnico, perché il legame che lo ten­ne, e lo tiene assieme, non è mai stato esclusivamente né fon­damentalmente di carattere politico istituzionale o economico, bensì squisitamente simbolico, la umma. Mai come nel caso dell’Islam risulta così evidente la tremenda forza coesiva e mo­tivante, e il carattere di fenomeno di lunga durata, di un princi­pio simbolico di aggregazione sociale.

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In questo saggio ci limitiamo a questo breve cenno, perchéil percorso che abbiamo scelto per trattare il problema del­l’identità etnica e del passaggio dalle forme antiche, essenzial­mente caratterizzate dal momento del genos, a quelle moderne attuali, nelle quali i momenti universalistici delì’ethos si sono venuti affermando, è quello dell’esperienza storica europea. Mentre la storia dell’Islam si sviluppa in modo autonomo e al­ternativo a quella dell’Europa occidentale, proponendo oggi fra questi due mondi un conflitto di modelli di valore, che non si possono né considerare come tappe di un processo di tipo evoluzionistico, né trattare in base al semplicistico criterio del relativismo culturale.Piuttosto bisogna tener ben presente un fatto, e cioè che passa una grande differenza fra forme storiche quali l’Impero di Roma o il Sacro Romano Impero, per non dire delle forme imperiali m ultietniche della lontana antichità e dell’Europa moderna, e la specifica forma islamica di aggregazione di po­poli. Le prime rappresentano al più il risultato di una trasfigu­razione simbolica sacralizzante di preesistenti istituzioni so­vrane prodottesi in vari modi, dalla quale non esula quasi mai una certa misura di utilizzazione politica del sacro. Nel caso dell’Islam il potere sovrano emana invece direttamente dalla parola divina, la umma, che ha carattere primario e fondante, in quanto da essa sgorga il potere politico come dalla sua fon­te genuina. L’istituzione politica sovrana consiste della stessa volontà di Dio, e gli unici legittimati a interpretarla e promuo­verla sono i profeti da lui ispirati. Da questo la funzione cen­trale nella vita politica islamica della loro voce, che è voce di Dio.Nel corso della storia dell’Islam il coinvolgimento delle va­rie edizioni del potere statuale, legato soprattutto alle capacità militari dei capi, coinvolti in conflitti complessi, ha portato a una certa attenuazione di questo principio fondamentale. E questo fenomeno si accentuò con il passaggio dal primato ara­bo a quello turco-ottomano, fino a giungere, gradualmente e attraverso una crisi lunga e profonda, all’inizio di questo seco­lo, alla laicizzazione del potere politico dello stato ottomano. Ma l’attuale revivalismo islamico in chiave di ciò che viene og­gi chiamato fondamentalismo politico-religioso, e i suoi espo­nenti, tutti legati intimamente con il filone integralista tradi­zionale islamico, sono una precisa testimonianza che questo filone è più vivo che mai.

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6. La costruzione degli stati assoluti e la creazione di nuovi valo­ri sociali dal xv al xvm secoloA questo punto due eventi vanno messi in particolare evi­denza, nella linea del nostro discorso, la costruzione degli stati assoluti in una parte dei paesi europei, e la creazione di nuovi valori nel pensiero sociale. Entram bi questi eventi dipesero dal fenomeno storico del recupero e revitalizzazione della tra­dizione classica greca e romana.Quest’opera che aH’origine dobbiamo essenzialmente alla chiesa di Roma, ebbe inizio con l'istituzione degli ordini mo­nastici, il primo dei quali fu creato da Benedetto da Norcia nel 549 a Montecassino e al quale fece seguito una serie di istitu­zioni analoghe in Francia e nei paesi germanici. In questi mo­nasteri vennero raccolti e conservati quei documenti, ancora reperibili, néi quali erano contenute le residue testimonianze della grande cultura antica, e che vennero ricopiati e studiati dagli abati e dagli studiosi laici in grado di decifrarli. Da que­sti docum enti e dai com m entari arabi fu reso accessibile all’Europa feudale il pensiero filosofico greco nella versione aristotelica, ad opera di Tommaso d’Aquino (1221-1274), e successivamente platonica, ad opera degli umanisti.Il fiorire contemporaneo della vita cittadina nell’Italia cen- tro-settentrionale rese necessaria una riconsiderazione dei principi del diritto romano, al fine di stilare le costituzioni delle rinate città, con le loro complesse necessità di gestione. E a questo fine sorsero le prime università, come quella di Bo­logna dove si distinse il giurista Im erio alla fine dell'xi secolo, alle quali si dovette il recupero e l’applicazione dei principi del diritto classico adattandoli alle esigenze dei tempi nuovi.Tra il xiii e il xv secolo fiorì così quel grandioso movimento di creatività culturale che prese il nome di Umanesimo il qua­le, dall'Italia, si diffuse nei paesi europei occidentali, e che, ispirandosi alla tradizione classica presa come modello supre­mo, interessò l’intero corpo del patrimonio culturale poetico- letterario, filosofico, artistico e scientifico. Questo sviluppo fu reso possibile dal progressivo accrescersi delle risorse rese di­sponibili dalla rivoluzione economica che aveva avuto inizio anch’essa in Italia, con l’attività delle repubbliche marinare, e delle città dell’entroterra centro-settentrionale, e che da lì si era estesa fino ai paesi del Nordeuropa, seguendo la principale arteria di comunicazione degli scambi commerciali europei di quel periodo, nei paesi situati lungo il corso del Reno.Le sedi più rilevanti di queste attività culturali furono a quel tempo le corti signorili italiane e i loro principi mecenati,

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e le famiglie rese ricche e illustri per le loro attività economi- co-commerciali e finanziarie. Le necessità urbanistiche e le esigenze del culto diedero un incentivo eccezionale allo svilup­po dell’architettura e delle arti figurative, mai più realizzatosi in Europa in tale misura, nei secoli che seguirono. Nel quadro di questi eventi straordinari si verificò un profondo m utam en­to nel modo di concepire il processo di istituzionalizzazione della vita associata, quasi totalm ente spontaneo e irriflesso nella prima età medievale, fino al momento nel quale - come si è detto - riprese vigore ed efficacia la riflessione giuridica legata al problema degli statuti cittadini. Da quel momento, e con un andamento crescente, il principio della razionalità fun­zionale venne sempre di più affermandosi in questo campo, introducendo, accanto ai moti spontanei del sociale, elementi di razionalità critica e progettuale. Ed è in forza di questa ten­denza, e delle particolari vicende delle diverse monarchie feu­dali, che prese corpo, in modo più o meno vivace, il processo di formazione degli stati assoluti.Già nelle monarchie feudali il problema della raccolta dei fondi per sopperire alle spese del sovrano - soprattutto in oc­casione delle numerose guerre che caratterizzarono questa fa­se dei rapporti interetnico-feudali - aveva posto dei seri pro­blemi di esazione e di amministrazione dei tributi, cui i mo­narchi facevano fronte servendosi dei membri di corte delegati a tal fine, nella veste di funzionari. Ma questo espediente non era più sufficiente per una adeguata soluzione istituzionale del problema. Una complessa e radicale riforma dello stato era or­mai necessaria, per uscire da questi limiti, che si erano fatti ormai strutturali e paralizzanti per la politica dei sovrani.E da questo prese le mosse un corso di pensiero che aveva al proprio centro questo problema: il problema dello stato, la prima forma della scienza della politica in senso moderno.Si è detto nelle pagine precedenti come nella tarda epoca feudale le città europee, rinate dopo l’eclissi seguita alla cadu­ta dell’Impero, ebbero il carattere di laboratori di una nuova socialità nella quale l’elemento della razionalità progettuale aveva uno spazio maggiore, dando vita a una serie di istituzio­ni concepite e volute a questo fine. L’estendersi delle dimen­sioni territoriali dei sistemi di dominio, nei quali si collocava­no le città dei ceti, impose una maggiore e più razionale arti- colazione delle loro strutture originarie, che trasse ispirazione e alimento dai processi interni delle città, i cui interessi in lar­ga misura collimavano con quelli del potere centrale, in oppo­sizione con quelli dei signori feudali. Le nuove formazioni di dominio territoriale infatti si trovarono ben presto impegnate60

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in un aspro conflitto fra di loro per la supremazia in Europa, che richiedeva una loro più efficiente attrezzatura non solo militare, ma complessiva, che ne accrescesse la potenza politi­ca per la difesa e l’offesa. E questo mentre le singole città ri­chiedevano, per garantire le loro sorti sul piano economico e sociale, e svilupparne le potenzialità di fronte ai rischi della concorrenza, un maggiore appoggio da parte degli stati in via di form azione, da cui lo sviluppo della politica economica mercantilistica dei nuovi principati territoriali.Prese così forma lo stato assoluto che venne a sostituire le forme precedenti di carattere feudale, riducendole di numero, e accrescendone le dimensioni attraverso la loro aggregazione in formazioni più vaste: la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, la Prussia, l’Austria.La figura del principe assunse di conseguenza una profon­da trasformazione in relazione al passato basato sul sistema feudale:

i principi, mentre da un lato si imponevano progressivamente cia­scuno come fonte di diritto (“quod principi placuit legis habet vigo- rem"), con o senza riferimento al diritto romano, dall’altro non si consideravano essi stessi vincolati dal diritto. È in effetti uno dei si­gnificati originari del termine stesso “assolutismo” che il principe è in quanto tale legibus solutus: la legge, in quanto prodotto del suo potere sovrano, non può impegnarlo né limitare quel potere.Il principe dunque trova nel diritto uno strumento flessibile, mo­dificabile a piacimento nella sua portata e nel suo contenuto, trami­te il quale esprimere e sanzionare il proprio volere. Di conseguenza,il potere stesso del principe cessa d’essere ciò che era nello Stände­staat, cioè un insieme di prerogative e diritti distinti, e diviene qual­cosa di più unitario e più astratto, più potenziale per così dire. In quanto tale, il potere del principe prende a staccarsi concettualmen­te dalla persona fisica del principe; ovvero, per dirla diversamente, sussume entro di sé e in un certo senso subordina a sé lo stesso prin­cipe, emanando tramite quello la propria energia. È questo uno dei significati della corte di Luigi xiv, in cui la figura del re veniva esal­tata fino ad assumere proporzioni sovraumane, e se ne diffondeva una luce d’intensità ultraterrena (“le roi soleil”), divenendo in tal modo il simbolo di un'entità, un progetto, un potere assai maggiori del re medesimo. (Poggi 1978, p. 112)Questo processo storico si verificò in parallelo con lo svi­luppo di un processo di pensiero critico, la scienza della politi­ca, che si traduceva in una precisa realtà istituzionale consa­pevolmente teorizzata e posta in essere, per la quale si venne costituendo un corpo di funzionari dello stato, scelti con crite­ri di competenza e disciplinati da regole precise nell’esercizio

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delle loro funzioni, stabilite dalle norme del nuovo diritto pub­blico.È ormai pacifico il riconoscimento che il fondatore di que­sta scienza, ben diversa da quella classificatoria e form ale dell’antichità, perché fondata su basi concretamente empiri­che, fu il nostro Machiavelli, il “segretario fiorentino” (1469- 1527), l’autore de II Principe, cui fecero seguito, ognuno ispi­randosi ai problemi concreti delle loro monarchie, e con un taglio che corrispondeva alle loro peculiarità, Jacques Bodin (1530-1596) in Francia, Thomas Hobbes (1588-1679), con il suo celebre saggio II Leviatano, in Inghilterra, e Jacques Bos- suet (1627-1704), ancora in Francia. E fu in quest'ultimo pae­se che si realizzò forse l’esempio più tipico per quel tempo di stato assoluto: il regno di Luigi xiv, “le roi soleil”. Artefici della realizzazione di questo program m a, Colbert (1610-1683), il Confucio francese, creatore della struttura amministrativa del­la burocrazia professionale di stato, e i due cardinali, grandi politici, Richelieu e Mazarino; m entre M ontesquieu (1683- 1755) nello Spirito delle leggi, del 1748, delineava la struttura storicamente ottimale di uno stato che possa evitare la dege­nerazione nel despotismo, attraverso l’equilibrio dei poteri.Sullo sfondo culturale di questo sviluppo storico pratico­teorico sta ovviamente la moderna rivoluzione scientifico-filo­sofica che da Bacone (1567-1626), Galilei (1564-1642), Keple­ro (1571-1630), Cartesio (1596-1650), Newton (1642-1727), Locke (1632-1704) ha posto le basi del pensiero razionale mo­derno. Mentre la pratica economica, attraverso la fisiocrazia di F. Quesnay (1694-1774), e la riflessione geniale di Adam Smith (1723-1790) sui fondamenti antropologici del compor­tamento economico, indagava sulle leggi che lo governano.Mentre dal concorso di questi diversi approcci e dottrine si metteva in chiaro un coerente aggiornabile strumento di ricer­ca e di pratica nella produzione del sociale (A. Touraine), sul piano delle forze sociali si definiva, nella sua identità e nuova centralità, quella classe intermedia fra monarchia-aristocrazia e mondo contadino, la borghesia, cui sarebbe poi stato attri­buito il merito principale se non esclusivo di questo sviluppo complesso, di cui in realtà non fu che una delle manifestazioni più significative, e non certo, come ente sociale, la causa prima.Se tutto questo avvenne nella dimensione della razionalità funzionale e della sua storica e crescente influenza nel sociale, un movimento altrettanto incisivo e condizionante, da un pun­to di vista storico, si venne realizzando allora nel mondo sim­bolico dei valori, come reazione ai rischi legati all’esistenza degli stati assoluti come un fine in sé.62

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In età feudale il tema dei valori sociali fu patrimonio quasi esclusivo, nella civiltà europea ma non solo in quella, delle re­ligioni rivelate, che li riferivano a una dimensione divina tra­scendente come alla loro fonte suprema. A partire dal xv seco­lo l'eteronomia della morale si venne gradualmente tem peran­do e poi in larghi settori sociali si venne a essa sostituendo un principio morale autonomo fondato sopra una concezione po­sitiva della natura umana, capace di promuovere, per sua inti­m a forza, valori morali di convivenza e di collaborazione so­ciale. Alla concezione sostanzialmente negativa della natura umana, che ritroviamo in Machiavelli e in Guicciardini - ma vedremo più avanti da quali condizioni sociali peculiari essa venne motivata -, si sostituì la visione illuministica dell’uma- nità come intrinseca positiva matrice di valori, concezione che avrebbe portato alla formulazione del mito del “buon selvag­gio” ispirato al pensiero di Rousseau, come essere originaria­mente puro, e poi corrotto dalla civiltà.Questi nuovi valori che riprendevano in una prospettiva laica quelli della filosofia cristiana relativi al significato della persona um ana in quanto creata da Dio a sua immagine e so­m iglianza, intrinsecam ente libera e responsabile nelle sue scelte, che in quel periodo venne riafferm ata da Erasm o da Rotterdam (1467-1536), in polemica con Lutero, rappresenta­no una reazione creativa al rischio dell’affermarsi di una nuo­va versione di despotismo liberticida fondato sulla "ragion di stato”, che era implicito nel modello dello stato assoluto raffi­gurato come Leviatano.L’esaltazione del valore della libertà dei singoli, che va sal­vaguardata come valore primario, in quanto inerente alla "na­tura” umana, si propose come correttivo dell’assolutismo sta­tuale. Alle esigenze di ordine, disciplina, efficienza garantite dallo stato, si debbono a questo punto aggiungere quella di ga­ranzia delle libertà dei cittadini, assieme alla potestà di impor­re doveri e di farli rispettare nell’interesse della collettività or­ganizzata nello stato.I valori della società feudale, fondati sopra il rapporto per­sonalizzato di benevolenza fra suddito e signore, e la reciproca lealtà che li lega, si perpetuano in una forma nuova di recipro­ca lealtà fra cittadini e istituzioni. Sul piano impersonale delle regole, alla fedeltà feudale si sostituisce la fedeltà democrati­ca, sancita da un contratto sociale che dev’essere rispettato da entrambe le parti.Un incentivo al crearsi di una socialità più intensa e parte­cipata venne a quel tempo dall’etica protestante, nella versione che ne diede Calvino (1509-1564), con la sua particolare teoria

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della grazia divina che poteva esplicare la sua funzione salvifi­ca solo in una società il cui ordine fosse saldamente garantito, il che impegnava i cittadini a dare in questo senso il loro con­tribu to affinché ciò si realizzasse. M entre Tommaso Moro (1476-1535) immaginava un progetto di società perfetta che prese il nome dal titolo della sua opera più famosa: Utopia, che rimase nella storia come modello ideale di tùtte le successive ideologie politiche pre-moderne.Ma la formulazione più coerente dei valori di libertà e di tolleranza la dobbiamo a quel filone di pensiero che prese il nome di giusnaturalismo, che ebbe come principali esponenti:

Ugo Van Groot (Grozio) (1583-1645), fondatore del diritto pubblico basato sul principio delle leggi di natura e sopra un contratto fra stato sovrano e cittadini, che vi si ispira, nel ri­spetto dei valori della libertà e della tolleranza; e Samuele Pu- fendorf (1632-1694), che definiva le basi di un diritto naturale in dim ensione internazionale: De Jure naturae et gentium (1672).Questo insieme di contributi culturali, che rappresenta la base dottrinale dei valori della democrazia moderna, costitui­sce una discriminante decisiva nel definire, come vedremo, la qualità diversa delle versioni delle identità etniche europee, per quanto riguarda il loro ethos, e la loro collocazione centra­le o marginale nel quadro europeo dei sistemi democratici, più o meno compiuti.Il movimento di idee del giusnaturalismo culminò nel xvin secolo neH'Illuminismo dell ’Enciclopedia, che segnò il divorzio netto fra Fede e Ragione sul piano della cultura, della società e della politica.Fu questa l’età di Voltaire (1694-1778), di Rousseau (1712- 1778), di Lessing (1729-1781), e finalm ente di Kant (1724- 1804), nella quale si definirono compiutamente i valori della libertà spirituale e civile, della tolleranza, del libero esercizio dei propri diritti e del doveroso assolvimento dei propri doveri di solidarietà e di giustizia sociale, valori sui quali si fondano le società democratiche occidentali. Alla fedeltà alle persone, tipico valore feudale, si sostituiva la fedeltà ai principi e alle li­bere istituzioni, alla carità si affiancò la solidarietà e la colla­borazione sociale, alla pietà per gli umili e gli oppressi, l’impe­gno concreto a che essi abbiano a scomparire in una società più giusta. Questo è essenzialmente il legato che ci viene dalla rivoluzione culturale del xv-xvin secolo in Europa occidentale.Le conquiste decisive di questo periodo di storia europea in tema di identità etniche, furono quindi soprattutto queste due:lo stato assoluto come organizzazione razionale e il nuovo

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orizzonte di valori che la sua presenza sollecitava. La storia dei secoli successivi m ostra quanto necessario fosse il coesi­stere di queste due realtà, che dissociate avrebbero prodotto dei mostri della ragione: la sacralizzazione dello stato come assoluto simbolo di valore avrebbe portato allo statalismo esa­sperato delle dittature liberticide, la dogmatica identificazione con utopie svincolate dalle condizioni concrete di ogni possi­bile realizzazione, ma nonostante questo perseguite con l’eser­cizio della pura violenza, avrebbe portato alle allucinazioni ideologiche che hanno caratterizzato la storia del xx secolo.

7. Dall’etnia alla nazioneIl processo convergente di costruzione dello stato moderno e dei corrispondenti valori sociali giunse a maturazione fra ilxvii e il xviii secolo, e si concluse con due eventi rivoluzionari. Nel xvii ebbe luogo la rivoluzione inglese suscitata dallo scon­tro fra i residui del vecchio regime feudale, rappresentati dalla monarchia cattolica degli Stuart, e il parlam ento espressione dei tempi nuovi, e delle nuove forze sociali. Essa si svolse in due momenti, con la guerra civile del 1642-1648 che si conclu­se con la decapitazione di Carlo i, e l’instaurazione tem pora­nea della repubblica guidata da Oliver Cromwell, e con la glo­riosa rivoluzione del 1688, che segnò la definitiva vittoria del sistema parlam entare in una nuova monarchia costituzionale, con la chiamata al trono di Guglielmo ili d’Orange. Con questo prendeva forma un nuovo tipo di stato democratico parlamen­tare, all’insegna dei valori sociali frutto delle esperienze dei due secoli precedenti.La seconda rivoluzione, più gravida di conseguenze in Eu­ropa, scoppiò cent’anni dopo la prima, nel 1789, come conclu­sione, anche in Francia, dello scontro fra la m onarchia e le nuove forze sociali, formatesi culturalm ente e politicamente all’insegna dell’Illuminismo. La produzione simbolica che pro­mosse e accompagnò il corso degli eventi rivoluzionari france­si fu assai più ricca di quella inglese, e si propose come model­lo cui si rifecero i tentativi rivoluzionari del xix secolo, e quelli realizzati della prima metà del xx. Il materiale simbolico e di conoscenze sociali e politiche che si produsse in quella fase dram m atica della storia francese si diffuse, in seguito alle guerre napoleoniche e alle loro vicende, in tutta Europa, dalla Spagna all’Italia, ai paesi germ anici e scandinavi, fino alla Russia, generando ovunque movimenti di rinnovamento radi­cale, che si ispiravano all’esempio francese e ai valori che vi si

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erano espressi, e che divennero patrimonio comune delle élites giovani e colte di quei paesi. È da questa matrice che si definì il nuovo modello ideale di identità etnica, che viene chiamato nazione, per distinguerlo dalle forme etniche del passato. Nel nuova continente americano, i nuovi valori di socialità erano stati importati fin dal 1620, con i Padri Pellegrini della May­flower, e nel nuovo territorio originalmente e solidamente svi­luppati e istituzionalizzati.Come per tutte le forme della cultura e dei valori sociali non si deve mai dimenticare che si tratta sempre di fenomeni di lunga durata, anche se nella fase della resa dei conti, gli eventi possono precipitare e incalzarsi tum ultuosi, in certi momenti e in certi luoghi. Ma la diffusione dei portati di que­sti momenti cruciali non è subitanea, bensì lenta e disomoge­nea. E così accadde anche per gli esiti delle grandi rivoluzioni. Innanzitutto le masse contadine si schierarono, come in Van- dea, sul fronte del passato, legate ai tradizionali simboli delle istituzioni ecclesiastiche e delle monarchie che vi si erano as­sociate con antichi vincoli di reciproco vantaggio. Le aristo­crazie, salvo casi singoli, rimasero pur esse orientate verso la conservazione dei privilegi atavici della loro classe sociale. E fu quindi la borghesia, diversamente presente nei singoli paesi in relazione con il loro grado di sviluppo economico, a fornire gli intellettuali organici al nuovo ordine sociale in via di costi­tuzione. E non solo nelle città, m a anche nelle cam pagne. Questo fece sì che anche il nuovo credo nazionalitario, nella sua versione aggiornata, non si distribuisse in Europa in modo omogeneo, così come non omogeneo era stato il loro passato.In tal modo la disponibilità ad accogliere ampiam ente e diffusamente i principi della democrazia parlamentare libera­le moderna, tanto da fame un attivo patrimonio comune, non fu eguale in tutti i p ae s i, anche per quelli che a un certo punto accettarono le istituzioni della dem ocrazia formale sotto il profilo della tecnica elettorale. Quello che Renan definì un “plebiscito di tu tti i giorni” , che il nostro Chabod chiama: “quella volontà che vede solo dei cittadini’ uguali in diritti, i quali, con il loro volere liberamente espresso, creano di conti­nuo lo stato-nazione-patria” (Chabod 1992, p. 178), in molti paesi è ancor oggi più un ideale da raggiungere che un obietti­vo raggiunto. Il suddito non diventa facilmente un cittadino. Ma di questo avremo il modo di parlare ancora a proposito dell'Europa contemporanea.Resta il fatto che il retaggio della rivoluzione francese acce­se forti passioni simboliche in determ inate élites di diversi paesi europei che non avevano ancora ottenuto l’indipendenza66

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politica e, se l'avevano ottenuta, come la Polonia, l’avevano poi anche perduta.Da cui i tentativi di queste élites intellettuali di attribuire antiche patenti di nobiltà alla propria terra natale, con la pro­duzione di un epos più o meno fittizio, che si adeguasse al li­vello delle loro aspirazioni nazionalitarie.Così ne ha scritto Anthony Smith:In generale, quindi, possiamo dire che gli intellettuali storicisti, dediti a riscoprire o a ricostituire un passato etnico, non si facevano alcuno scrupolo di costringere le ultimissime tecniche o metodi scientifici al servizio di una avventura spudoratamente romantica. Essi hanno usato la “scienza” per sistematizzare e “autenticare" le metafore poetiche della vita collettiva, e per costruire immagini e mitologie di un passato drammatico e fonte di ispirazione.Un dramma storico che ci dia le nostre identità e valori deve fare due cose: definire l’entità o l’unità di cui narra il dramma e dirigere l’entità o l’unità verso un fine visionario. Da un lato, esso deve dare alla comunità una storia e una metafìsica, localizzandola nel tempo e nello spazio tra le altre comunità della terra, dall’altro deve genera­re un’etica e un progetto per il futuro. Il dramma che svela deve spingerci ad agire collettivamente per il conseguimento dei fini della comunità. Esso deve contenere un “messaggio” di rinascita attraver­so l’azione morale, ma al contempo darci coraggio e consolarci per la nostra sorte tra le nazioni [...]Ritornando ai principi “fondamentali”, purificandoci dalle scòrie di un presente che non è fonte di ispirazione e che è ambiguo, attra­verso un ritorno al passato glorioso e al suo eroismo, noi possiamo sbarazzarci della nostra mediocrità ed entrare in possesso del "vero” destino della nostra comunità. L’identificazione con un passato idea­lizzato ci aiuta a trascendere un presente sfigurato e indégno, e con­ferisce alle nostre vite individuali un più ampio significato in una co­munione che sopravviverà alla morte e disperderà il senso di futilità. (Smith 1992, pp. 373-374)Se cerchiamo di individuare i criteri specifici che gli intellettuali hanno usato nel modellare le loro riscoperte o le loro ricostruzioni del passato nazionale scopriamo che particolari intenti sono ricor­renti. Il primo è una sorta di "naturalismo". Il passato che essi cerca­vano di svelare doveva essere tanto organico e naturale quanto con­cepibile, e le nostre storie dovevano essere interpretate come se fos­sero estensioni del mondo naturale in cui le comunità obbedivano a tipi di "leggi” simili a quelle che governavano il mondo naturale. In altre parole, le società erano soggette alle stesse leggi di nascita, cre­scita, fioritura e decadimento - e rinnovamento - al pari delle piante e degli alberi, ed erano nutrite da elementi analoghi. La mancanza di uno qualsiasi di questi nutrimenti significava decadimento, ed era compito degli educatori nazionalisti rifornirli di nuovo [...]Il romance, il mistero, il dramma - questa è la materia prima di

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ogni dramma di salvezza nazionalista. E importante perché ci inse­gna a capire “chi siamo”, ci comunica il senso di essere un anello in una catena che si distende di generazione in generazione per legarci ai nostri antenati e ai nostri discendenti. È inoltre importante per­ché ci insegna a capire “dove siamo" e “chi dobbiamo essere" se vo­gliamo “ritrovare noi stessi”. Attraverso l’atmosfera e il dramma di epoche passate della vita della comunità, che ci vengono in questo modo restituite, noi riviviamo “le vite e i tempi dei nostri antenati e ci facciamo partecipi di una comunità di destino”. (Smith 1992, p. 367)Questa operazione di “invenzione della tradizione” vede in prima fila gli intellettuali di lingua germanica.E difatti la prima manifestazione* del movimento di rivalu­tazione del patrimonio tradizionale europeo di antica origine germanica si ebbe in Svizzera nei primi decenni del x v i i i seco­lo ad opera di Jakob Bodmer, quando la critica illuministica aveva già iniziato il suo utopistico tentativo di demolizione to­tale del passato. A questo tipo di critica che vedeva nelle tradi­zioni popolari solo negatività ed errore, una serie di tentativi andati a vuoto di risolvere razionalmente problemi umani, un insiem e di superstizioni e di nefaste sopravvivenze, Jakob Bodmer oppose la celebrazione delle espressioni genuine e non sofisticate dell’anim a popolare svizzera e soprattutto di quella delle popolazioni contadine, con le loro forme di vita comunitaria. Questa libera civiltà locale, già esaltata da Mu­rait e Haller, fu proposta come modello per la formazione di una solida coscienza nazionale tedesca. Per Bodmer infatti il mondo tedesco comprendeva tutte le stirpi germaniche, allora divise in diverse entità politiche. Il proposito politico-culturale di Bodmer venne da lui perseguito anche e soprattutto attra­verso la scoperta dei canti del Parsifal, Minnesang e Nibelun­ghi, nei quali egli, con Justus Moser, tedesco della Westfalia, vide la testimonianza di un'anim a poetica tedesca che, per la sua autonomia creativa e la sua forza, poteva mettersi alla pa­ri con i grandi testi poetici della tradizione greca, rom ana e italiana, con la poesia di Omero, di Virgilio e di Dante. E con questo Bodmer voleva dare fondamento all’istanza di autono­mia e indipendenza culturale dei popoli germanici nei con­fronti della tradizione rom ana in Europa.Se Bodmer lavorò in Svizzera, che forma il cuore della zo­na alpina mitteleuropea, custode più gelosa di tradizioni anti­

* Da qui a p. 72 riporto le pp. 14-23 della mia introduzione al vo­lume La sagra degli ossessi, Sansoni, Firenze 1972.68

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diissime, non solo pre-romane, ma con ogni probabilità pre­germaniche, M acpherson tentò la m edesim a operazione in Scozia, paese anch’esso legato a tradizioni antiche, e, come le zone alpine centrali d’Europa, per certi versi posto ai margini della nuova Europa industriale che stava preparandosi a na­scere. Macpherson pubblicò infatti in inglese, nel 1765, una raccolta di poemi popolari scozzesi, che egli sostenne aver ri­cavato da antichi manoscritti redatti dal secolo xii al secolo xvi, ma che non volle mai mostrare ai critici, poemi che attri­buì a un bardo di nome Ossian. Il valore scientifico di questi documenti è certamente discutibile, la figura di Ossian del tu t­to leggendaria, ma il successo che ebbe questa pubblicazione ci offre la precisa testimonianza che l’esigenza di recuperare nel tesoro delle tradizioni locali un fondamento genuino della propria nazionalità era avvertita profondamente in molte po­polazioni europee. Il desiderio di svincolarsi, almeno in parte, dalle influenze culturali latino-italiche si mostrava netto e pre­ciso, e cercava soddisfazione in una ricerca, dalla quale dove­va nascere la scienza delle tradizioni popolari.Ma più che altrove, questo movimento fu avvertito nei pae­si di lingua tedesca, col formarsi e consolidarsi del movimento romantico, e più che in ogni altro paese esso ebbe in Germa­nia una forte coloritura politica. Il processo di rivalutazione del passato germanico si può dire abbia ricevuto dalla cocente sconfitta subita a Jena nel 1806 dalle armi prussiane una spin­ta così energica, da poterne fissare le vere origini in quella da­ta. Questa campagna culturale ebbe inizio, come si è detto, sul piano filologico-letterario, con le ricerche sopra le tradizioni della poesia popolare antica, già iniziate da Bodmer e Moser. A queste ricerche diedero contributi preziosi Ludwig Achim von Arnim e Clemens Brentano, e proprio von Arnim, nella dissertazione conclusiva del primo dei volumi dell’opera Des Knaben Wunderhorn (1806-1808), in trodusse il term ine di Volkskunde, alla lettera “scienza del popolo”, che è il sinonimo tedesco di “folklore” e di tradizioni popolari. La nuova scienza prendeva così sempre maggiore forma e consistenza. È infatti importante che, a un certo momento del suo sviluppo, una ri­cerca si dia un nome suo proprio, perché questo sottolinea il momento della raggiunta consapevolezza della sua autonomia come scienza. Il suo atto di battesimo segna il suo ingresso uf­ficiale nell’arena non sempre pacifica delle discipline organiz­zate. In questo modo la scienza delle tradizioni popolari na­sceva e nasceva con un compito particolare: quello di esaltare il principio del Volk, del “popolo”, quale protagonista della sua storia e m isura ultim a di ogni valore. Questo, per lo meno, nella cultura germanica.69

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In queste condizioni è chiaro che doveva stabilirsi un’al­leanza di fondo fra movimento romantico e scienza delle tra ­dizioni popolari in G erm ania. Quest’alleanza si realizzò e operò su due piani. Il movimento romantico tedesco, come ri­valutazione del patrimonio culturale germanico arcaico, si po­se in netta antitesi con l'Illuminismo francese, che aveva do­minato il panoram a culturale tedesco francesizzando vasti set­tori dei paese, soprattutto nelle zone renane. Era questo una presa di distanza che contribuiva alla conquista di una nuova identità per il popolo tedesco. Ma l’azione del movimento ro­mantico non fu puram ente negativa, di opposizione e distac­co, non definiva cioè l’animo tedesco solo per via di negazio­ne, ma si propose di sviluppare una corrente creativa di valori tale da dare un contenuto positivo allo spirito germanico, una concretezza, un senso che andava molto al di là della pura protesta, della pura differenziazione per negazione. Il patri­monio arcaico della cultura germanica veniva quindi assunto da un lato come protesta, come scandalo, nei confronti della prospettiva razionale illuministica che aborriva dalle manife­stazioni emotive e irrazionali, che sono proprie delle forme della cultura contadina, e dall’altro veniva valorizzato come fonte d ’ispirazione per una nuova poetica autenticamente ger­manica, che non doveva avere solo un significato letterario, ma nettam ente politico.Da questo duplice significato conferito dal Romanticismo al passato tradizionale tedesco, quello di protesta e quello di ger­me creativo, questa vita tradizionale doveva acquisire una grande forza polemica e dinamica, nel mentre subiva un pro­cesso di sacralizzazione mitologica. Ed è a questo punto che l’ambiguità di fondo dell’operazione culturale descritta comin­cia a delinearsi nettamente. E infatti, se da un lato la valoriz­zazione dell’elemento popolare poteva preparare un allarga­mento della base della nuova società, nata dalla rivoluzione francese, che aveva sancito il primato sociale della borghesia, dall’altro poteva fornire in gran copia armi e strumenti cultu­rali per una polemica antiprogressiva, volta a esaltare, assieme ai valori originari, anche le strutture feudali nelle quali questi avevano trovato la loro tipica forma sociale.Il tem a letterario venne ripreso dai Grimm nella Deutsche Mythologie, che riproponeva i temi mitici dell’Edda e dei Nibe­lunghi. Ma in questo studio, come in quelli precedenti che vi si connettono, appare un altro aspetto dell’opera dei Grimm, che più direttamente si avvicina ai propositi politico-culturali pro­pri della matrice storica del moto romantico e dello studio del­le tradizioni popolari. La tesi dei Grimm a questo proposito è70

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infatti che la poesia popolare nasca dall'anima collettiva di un popolo, dotata di un valore sacrale. Per questo motivo la poe­sia popolare è, per i Grimm, anonima e indipendente da sin­goli poeti di professione, perché essa è l’immediata espressio­ne delle qualità essenziali di un popolo, nelle quali si manife­sta il suo pregio segreto, la sua coesione originaria, in quanto il popolo non è aggregato di individualità, ma insorgere unita­rio di una forma autonom a e distinta. È facile comprendere come quest’immagine carismatica, quest’entità mistica, si pre­sti a ogni possibile manipolazione e utilizzazione sul piano dell’azione di propaganda politico-culturale, svincolata com’es­sa è da ogni riferimento razionale, da ogni possibilità di speri­mentazione e di critica. I canti e le tradizioni popolari sono così elevati al rango di m anifestazioni sovrum ane, divine, espressioni del mito inteso nel suo significato religioso. La for­ma originaria di questa poesia è l’epopea, che esprime le aspi­razioni della collettività ed esalta le gesta degli eroi, come pa­radigmi mitici del comportamento collettivo. Il genio della na­zione e della stirpe si fa il protagonista della storia, assumen­do la forma hegeliana di un’incarnazione dello Spirito Obietti­vo, nella veste storica dell ’Herrenvolk, il “popolo signore", elet­to dall'Idea a rappresentarla legittimamente nella sua vicenda concreta e temporale.Il trapasso dal livello poetico-letterario e scientifico a quel­lo storico-politico si attuò nei fratelli Grimm attraverso l’iden­tificazione dell’epopea, che cela in sé questi sovrumani valori, con la storia stessa. Il mito si fa storia e la storia si fa così mi­to, un mito congeniale alle esigenze di sviluppo e di unità della nazione tedesca. Gli eventi poetici dell ’epos acquistano pertan­to, oltre alla loro verità ideale e trascendente, una certezza concreta e fattuale. Il genio del popolo assum e allora per i Grimm, sulla scena del mondo, un ruolo che non è circoscritto alla sfera della letteratura , m a si svolge e si articola nelle realtà della vita quotidiana. Questo porta con sé il fatto che es­so si determini nelle mete concrete della politica, nei disegni elaborati dalle cancellerie, perché la vita ideale dell’anima po­polare si traduca in operazioni destinate a incidere sulla storia presente degli uomini e delle nazioni. Questa concezione ven­ne respinta da von Amim e da Schlegel, mentre Marx aveva parole sferzanti per giudicare l'opera di coloro che cercavano nel passato tedesco un fondamento autentico per la creazione di una nuova libera nazione tedesca. “Ci sono, per contro, de­gli entusiasti ingenui, teutoni di sangue e liberali solo per ri­flessione, che cercano la nostra storia della libertà al di là del­la nostra storia, nelle foreste vergini teutoniche. Ma se la no­71

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stra storia della libertà può trovarsi solo nelle selve, in che co­sa mai si differenzia dalla storia della libertà di un cinghiale? E del resto è noto che l’eco riporta dalla selva ciò che si è gri­dato verso di lei. Lasciamo dunque in pace le foreste vergini teutoniche!” (Critica della filosofia del diritto di Hegel). Ma il germe elaborato dai fratelli Grimm, sui modelli di Bodmer e Moser, era stato gettato sopra un terreno fertile e sensibile a queste suggestioni, il grido era stato lanciato verso una selva che ne rimandava l’eco moltiplicata da innumerevoli risposte, così che questo germe non era destinato a inaridire, nonostan­te l’opposizione di quegli spiriti germanici più illuminati, che sapevano meglio scorgere nelle tradizioni popolari tedesche ciò che vi era in esse di positivo, da ciò che vi era di negativo, legato a concezioni anacronistiche e del tutto inattuali nella nuova storia europea.Nell’opera dei frate lli G rim m abbiam o un docum ento esemplare del significato ambivalente che lo studio delle tradi­zioni popolari può assumere, significato positivo o negativo a seconda dell’animo con il quale esso viene condotto. Se noi guardiamo alle tracce del nostro passato, come esse sopravvi­vono in forme ormai fattesi rozze ed elementari, con l’intento di conservarne con rigore filologico la preziosa testimonianza, che ci permette successive elaborazioni critiche e approfondi­menti, o per realizzare direttamente queste interpretazioni, in tal caso noi facciamo indubbiamente opera positiva. Conosce­re i fondamenti antichi della nostra cultura significa renderci meglio padroni delle nostre motivazioni, motivazioni che sono spesso latenti e ignote a noi stessi, perché ci pervengono da un lontano passato, assimilate e interiorizzate dall’ambiente cul­turale nel quale esse si conservano. Questi fondamenti, infatti, si mantengono nei modi di dire e nelle caratteristiche struttu­re della lingua, nei proverbi, in quei rudim enti di rituali arcai­ci che sopravvivono, trasfigurati, nelle cerim onie moderne, nelle festività popolari tradizionali, nelle favole, nelle supersti­zioni, in quelle abitudini che si sono fatte automatiche, tanto che noi stessi ne ignoriamo completamente il senso e lo scopo. Ma attraverso queste mille diverse vie il nostro passato ci pe­netra, mentre ne siamo inconsapevoli, e si deposita al fondo del nostro io, come uno strato inconscio, ma carico di germi vitali. Il prendere coscienza delle componenti di questa base nascosta della nostra personalità è cosa essenziale, perché noi possiamo procedere così a una verifica critica del loro senso attuale, conservando quanto ancora si addice alle esigenze dei tempi e scartando il resto, tutto quanto si è fatto anacronisti­co, inattuale e disadatto a m otivare le nostre azioni in un72

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mondo così profondamente mutato. In quest’opera di pulizia interiore, che ricorda quella di chi, dopo decenni, sgombra la soffitta della vecchia casa dall’inutile ciarpame, ma nel farlo si trova di fronte a oggetti rari e preziosi, che valorizza e con­serva, la scienza delle tradizioni popolari è strum ento indi­spensabile.Molto diverso è il caso, invece, quando noi guardiamo alle testimonianze del nostro passato con un animo che non è in­telligentemente e amorosamente critico, m a con il proposito delirante di trovarvi le tracce sicure di una origine divina della nostra stirpe, intesa come u n ’anim a popolare m iticam ente consistente e dalla quale deriviamo, per diritto di razza, un complesso di privilegi che ci debbono esaltare di fronte e al di sopra di ogni altro popolo.Lo studio delle tradizioni popolari, come si è detto, trovò in Europa un terreno favorevole di sviluppo in funzione del pro­cesso storico di formazione delle nazionalità indipendenti che si veniva attuando nel secolo scorso. Esso progredì quindi in modo più intenso presso quei paesi che più degli altri richie­devano delle patenti culturali di antica data per giustificare storicamente il loro diritto a una autonoma identità nazionale. Questa esigenza spiega perché questo studio fiorì in particolar modo in Germania e in Russia, paesi nei quali solo di recente e particolarm ente in funzione anti-francese, questa autoco­scienza nazionale si era venuta formando, e in altri paesi di lingua slava nella penisola balcanica. Kirsa Danilov, fra il 1804 e il 1818, venne raccogliendo le testimonianze della ricca poe­sia popolare che apparve in Russia a partire dal xii secolo, fra le quali il celebre canto di Igor. Ma l’ispirazione di protesta che animava molti di questi prodotti dell’arte popolare russa rese impossibile la pubblicazione integrale dei risultati delle ricerche di Danilov e di coloro che ne proseguirono l’opera, perché la severa censura zarista vi si oppose. Anche i cechi, i polacchi, i serbo-croati diedero grande peso allo studio delle loro tradizioni e per motivi analoghi.

In che senso si può parlare di un passaggio da etnia a na­zione, relativamente a queste vicende? Non si tra tta solo di una differenza come quella rilevata da Smith fra comunità et­nica e categoria etnica, sia in termini di completezza che di autocoscienza, ma di qualcosa di più, legato alla storia della società europea del xix secolo. Innanzi tutto va ricordato che un’etnia è da considerare come un prodotto non programma­to, di natura spontanea, frutto di un processo di lunga durata, consapevole di sé assai più sul piano della partecipazione sim­73

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bolica che non della coscienza critica, e con una struttura isti­tuzionale embrionale e raram ente dotata di indipendenza po­litica, che si distingue dalle altre per talune peculiarità oggetti­ve. L’identità nazionale, in rapporto a un'etnia, appare dotata di una piena e talvolta prepotente m isura di autocoscienza, non solo del suo esistere come ricordo del passato, ma come progetto per il futuro, come destino, al quale si ispirano le sue azioni politiche, che m ira in primo luogo, qualora non labbia ancora conseguita, alla sua piena indipendenza e autonomia politica, in quanto stato sovrano, se non addirittura al primato fra le altre nazioni concorrenti in una data area del mondo. Condizioni queste che m aturarono in Europa per molti gruppi etnici come conseguenza delle rivoluzioni culturali e politiche del xviii secolo.

8. Caratteri generali delle identità nazionali nel x ix secolo in EuropaÈ opportuno ora riassumere, per tratti generali, ciò che ri­corre con maggiore frequenza nelle diverse versioni delle iden­tità etniche nazionali nell’Europa dell’Ottocento, servendoci del tipo ideale che abbiamo formulato come strumento di la­voro.I contenuti dell’epos nazionale si distinguono in questa fase soprattutto per il loro carattere più o meno storicamente fon­dato. Le grandi nazioni pilota hanno già una storia che ben si presta a una trasfigurazione simbolica basata su fatti realmen­te accaduti; di contro le nazioni che aspirano alla conquista dell’indipendenza e a una nuova dignità nazionale, sono indot­te a ricorrere in misura maggiore all'invenzione mitica della tradizione, per la minore disponibilità di storici eventi-valore. Il tem a della gloria militare resta comunque in tutti i casi un tem a estremamente sentito e testimoniato: nomi di capi mili­tari, di battaglie e di vittorie, sono a questo fine celebrati nei testi letterari e nei monumenti. Ma accanto a questo tema si fa sempre maggiore spazio quello costituito dai contributi della nazione al progresso della civiltà nelle arti e nelle scienze.Sul terreno dell’ep o s si confrontano due tendenze, l'una che è maggiormente legata al processo di costituzione degli stati assoluti e alla logica intrinsecam ente autoritaria cui si ispirano, con i valori della coesione e della disciplina militare e civile, dello spirito di servizio, dell’ordine e dell’obbedienza, della collaborazione e della solidarietà. E l’altra tendenza esprime invece una maggiore sensibilità per i valori universali­

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stici, derivati dalla tradizione del pensiero liberale e democra­tico cui si erano ispirate le rivoluzioni del xvii e xviii secolo. I movimenti conservatori e quelli rivoluzionari, nel loro duro confronto nel corso dei secoli xix e xx, si alimentano da que­ste due correnti di pensiero morale.Il tem a della lingua acquista un nuovo significato e un nuo­vo valore come indicatore della specificità nazionale, soprat­tutto nelle nazioni avviate verso la conquista dell'indipenden­za, e per la parte recitata dai letterati nei movimenti di libera­zione nazionale. La poesia e la lette ra tu ra m ilitanti hanno avuto in questo periodo una funzione primaria, e i poeti na­zionali hanno spesso sostituito nell’immaginario collettivo le figure carismatiche dei capitani vittoriosi. Ma la lingua, come valore etnico, acquista un peso crescente anche nelle nazioni pilota, come in Francia, quale elemento essenziale della pro­duzione poetico-letteraria, intesa come vanto nazionale. L’esal­tazione della francofonia è anche oggi molto vivace.Quanto al momento del genos, confinato nella sua realtà concreta nei settori subalterni del mondo contadino, è stato ri- vitalizzato come tema politico-letterario nell'esaltazione della civiltà rurale e di villaggio, come più genuina matrice della pianta-nazione, da parte dei paesi che erano rimasti ai margi­ni dello sviluppo economico sociale dell'Europa occidentale, ad opera dei loro intellettuali organici. Nell'ultima parte del secolo il genos venne fatto oggetto di una trasfigurazione ideo­logica - attraverso l’uso improprio della teoria biologica posi­tivista della razza in campo storico-sociale - ed elevato a valo­re centrale dell’ethnos, in armonia con le tendenze nazionali­ste e imperialiste del tempo, delle quali parleremo brevemente a suo luogo.Il topos, il territorio, acquistò anch’esso un nuovo valore nella coscienza nazionale, per un complesso di ragioni. In pri­mo luogo per l’asprezza dei conflitti suscitati dall’istanza di re­denzione dei territori rivendicati dalle nazioni emergenti, co­m e parte integrante della madre patria, e per quelli promossi dai tradizionali problemi di confine fra le grandi potenze del tempo. E in secondo luogo per le risorse economiche o strate­giche che rendevano appetibili determinati territori.In questa luce anche i paesi oltremare e popolati da etnie dalla storia assolutamente estranea a quella europea vennero inclusi nello "spazio vitale” dei paesi colonialisti europei.Per riassumere il senso di questo panoram a generale si può osservare che la discriminante più significativa fra le diverse versioni delle identità nazionali si situa a livello dell’ethos, e cioè fra il modello liberal-democratico-giusnaturalistico e illu­75

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ministico, e il modello dello stato assolutizzato come valore primario. Il primo dei due modelli prevale in quelle nazioni nelle quali si sono originariamente formulati i valori universa­listici sociali: l’Inghilterra, la Francia settentrionale, gli attuali paesi del Benelux, la Germania renana, i paesi scandinavi e, fuori d’Europa, gli Stati Uniti. Esso è meno sentito nei paesi nei quali la cultura dem ocratica è penetrata in seguito alle guerre napoleoniche: la Germania centrale, la Prussia, i terri­tori dell'Impero d’Austria, con l’eccezione della Boemia-Mora- via, più vicina al modello democratico per la sua storia parti­colare, nei quali il modello autoritario ha maggiori radici sto­riche. Esso ha prevalso sistematicamente in Russia nel corso della sua storia così travagliata, a partire da Ivan il Terribile, associato a un sentimento di appartenenza etnica di straordi­naria forza suggestiva. Mentre le nazionalità europee incluse nell’impero russo, con eccezione della Polonia anch’essa per la sua storia particolare, e nell'impero ottomano, presentano ca­ratteristiche specifiche per la loro estraneità tanto al moto di formazione degli stati assoluti, quanto, e ancor più, al proces­so di formazione dei valori universalistici moderni. Per ognu­no di quei paesi andrebbe fatto un studio specifico e particola­re dei loro processi etnici formativi.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Smith (1992), sulle etnie nella preistoria e nelle civiltà antiche, pp. 108 e sgg.;Smith (1984), sul fenomeno storico della guerra, pp. 126-132, 167-168, 187;Smith (1992), pp. 192-193;Smith (1984), sullmflusso delle religioni sull’identità etnica, pp. 257-261;Sabbatucci (1975), sullo stato e sul diritto, sull’assenza di miti co­smologici a Roma, pp. 18 e sgg., sulla specificità della religione ro­mana, pp. 68-69, 206-207;Rostovzev (1953), sugli aspetti sociali ed economici della società romana, pp. 13 e sgg., sul latifondo e la guerra civile, pp. 329 e sgg.;Bloch (1959), sulle origini del rapporto feudale, pp. 221 e sgg., su feudi e benefici, pp. 250 e sgg., 631 e sgg.;Pirenne (1956), sul disfacimento della società romana e sul feuda­lesimo, pp. 57, 349, 394, sulla morale feudale, pp. 399 e sgg.;Le Goff (1969), sulla fedeltà feudale, p. 74, sulla cultura monasti­ca, p. 154;Puech (1991), sulla religione islamica;Bausani (1987), sulla storia e sulla religione degli arabi in Europa;76

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Sabine (1993), sulle dottrine dello stato nazionale, pp. 253-475;Smith (1992), sullo stato etnico e sullo stato territoriale, pp. 279- 287, Smith (1991), pp. 14, 69, 80-81, 123;Smith (1984), sulle nazioni etniche e sulle nazioni civiche, p. 126, Smith (1992), pp. 306-326, 367-391, Smith (1991), pp. 40-43;Smith (1992), sul passaggio dall’etnia alla nazione, pp. 348-355;Petrosino (1991), sulla teoria di A. Sm ith su etnia e nazione, pp. 77-87, Rusconi (1993), pp. 29-31;Gellner (1992), sulla componente razionale delle nazioni moder­ne, pp- 24, 85, 158-159, 161;Pizzorno in Sciolla (1983), sulla legittimità e sulla legalità nelle nazioni moderne, pp. 148-149;Smith (1992), sul problema delle lealtà multiple, pp. 212-213; Chabod (1992), sulla sacralizzazione della nazione, pp. 61, 177-179, 187-188.Diaz (1986), suH'Illuminismo e la rivoluzione.

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5. L’età dei nazionalismi e delle ideologie

1. Dalla coscienza nazionalitarìa alla ideologia nazionalistaLa coscienza nazionale, come modello, prese forma in età romantica all’insegna del valore universalistico della libertà e dei diritti dei singoli e dei popoli, e dei doveri dei singoli nei confronti della nazione, e della nazione nei confronti dell’umanità, un’intensa religiosità laica nella quale si riassumeva tanto la tradizione morale del cristianesimo riform ato quanto quella della rivoluzione liberale. Sotto questo profilo, la visione che ne ebbe Giuseppe Mazzini (1805-1872) può considerarsi esem­plare e lo fu concretamente per molti paesi europei, in parti­colare per le élites intellettuali dell’Est, in Boemia, in Polonia, in Russia.Possiamo chiamare questo momento alto della storia del pensiero politico col termine di coscienza nazionalitarìa per distinguerlo dalla forma che il principio di nazionalità assunse nella seconda metà del secolo xix e nella prima del xx, che fu l’età dei nazionalismi. Questa, che a noi appare oggi come una degenerazione dell’ideale originario, derivò dal concorso di fattori diversi, che andavano dall’aspirazione al prim ato m on­diale militare, economico e politico, al controllo dei territori coloniali e dei mari, che caratterizzò l’età cosiddetta dell’impe- rialismo. In posizione d’avanguardia l’Inghilterra, che mirava col suo nuovo impero al dominio dei mari e dei paesi coloniz­zati dell’Africa, dell’Asia e dell’Oceania, in concorrenza con l’altrettanto giovane impero degli Hohenzollem, mentre quello antico degli zar tendeva a espandersi in Oriente e verso i Bal­cani e il Mar Nero, fronte sul quale si scontrava con l’impero asburgico in difensiva, mentre la Francia ardeva dal desiderio di sanare l’onta di Sedan, bruciante lesione dell’epos nazionale

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gallico, e l’impero ottomano, il “grande malato” d’Europa, su­biva le ultime conseguenze di un lungo costante processo di degrado. Da questo la politica di potenza e l’incremento e gara degli armamenti, legata ai grandi interessi intemazionali del­l’industria e dell’alta finanza.In queste circostanze fra i due modelli concorrenti, quello dello stato assoluto e i suoi valori di efficienza e di ordine so­ciale da un lato, e quello universalistico delle libertà individua­li e collettive e della pace fra i popoli dall’altro, fu il primo, che aveva trovato nell’impero guglielmino la sua forma più defini­ta, ad avere la prevalenza. La libertà e la rappresentatività de­mocratica vennero così sacrificate, non solo in Germania, à fa­vore della funzionalità statuale, permeata di istanze intrinse­camente aggressive.A supporto di questo indirizzo tendenziale agivano le con­temporanee correnti del pensiero scientifico e filosofico, ispi­rate da un malinteso darwinismo, esportato fuori del suo legit­tim o cam po di applicazione, e da u n rozzo m aterialism o scientista, teso a delegittimare ì migliori apporti dell’idealismo storicistico della prima metà del secolo.Le vicende che si produssero in relazione a questo stato di fatto sono così ampiamente note che non hanno bisogno di es­sere qui ricordate, se non per sottolineare che esse condusse­ro, in modo praticamente inevitabile, alla prim a guerra m on­diale, che sconvolse alle radici gli equilibri storici preesistenti. Voglio solo riportare qui, per dare un esempio degli estremi cui arrivò il fanatismo nazionalistico nella campagna interven­tista in Italia, un testo di un nostro illustre letterato:Sotto il titolo "Amiamo la guerra!” Papini, uno dei due leader de “La Voce”, scriveva nell’autunno del 1914: "Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stan­no pagando la decima delle anime per ripulitura della terra. Ci vole­va alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tie- pidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella in- naffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto: e una rossa svinatura

E er le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i eschi di settembre [...] Siamo troppi. La guerra è un’operazione malthusiana. Ce un di troppo di qua e un di troppo di là che si pre­mono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto parché si re­spiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di tomo un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che man­giavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita [...] La guerra, infine gio­va all’agricoltura e alla modernità. I campi rendono per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa del concio [...] Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai fin che dura [...] dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi [...]” (Luperini 1981, pp. 30-32).

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Questo testo ci dà esattamente la m isura del distacco quali­tativo fra la coscienza nazionale originale, espressa dal Mazzi­ni, e il nazionalismo del primo Novecento.

2. L ’età delle ideologieIl nazionalismo, che esasperava in senso particolaristico ed etnocentrico, assolutizzandolo, il principio di identità nazio­nale, identificando riduttivamente stato e nazione, fu solo una delle forme assunte nel xix e xx secolo dall’immaginario ideo­logico, perché altre se ne produssero in contemporanea e in

concorrenza con essa.Nel passato le uniche forme di lealtà simbolica, alternative a quelle etniche, erano state quelle pretese dalle grandi religio­ni rivelate, e dalla proliferazione delle sette che ne erano deri­vate. Ma dall’età delllllum inism o in poi se ne produssero di nuove e diverse, che sollecitarono atteggiamenti di adesione dogmatica, di credenza fideistica non più fondata su principi trascendenti, bensì immanenti alla storia.Le radici lontane e indirette di queste forme si possono in­dividuare già nei fenomeni del millenarismo del xvi secolo, e nei movimenti contadini che ne vennero sollecitati, che si pro­ponevano la restaurazione di una biblica condizione di paradi­siaca giustizia sociale come revolution cioè come ritorno a uno stato di perfezione originaria, e che vennero soffocati nel sangue dal processo di formazione in atto degli stati assoluti. Un esempio di teorizzazione dottrinale di questa istanza di perfezione sociale fece la sua comparsa tanto con l’Utopia di Tommaso Moro quanto con la Città del sole di Tommaso Cam­panella, senza trovare un seguito concreto sul piano politico­sociale.Ma nel xvm secolo, il secolo dei lumi e della ragione, si produsse una situazione paradossale: la trasfigurazione sim­bolica, e cioè la trasmutazione in mito, dello stesso processo dell’esperienza razionale, definito in termini di conoscenza. La conoscenza razionale si fece un mito: il mito della dea ragio­ne, cui si deve una fede cieca e cui deve essere, coerentemente, dedicato un culto vero e proprio, con i suoi specifici rituali. Credenza e conoscenza si fondono in uno, senza distinzione alcuna, ragione e fede diventano una sola cosa.In questa prospettiva allucinata, tutto ciò che può avere una sua concreta valenza storica, in funzione delle condizioni concrete in cui si produce, come per esempio un programma di trasformazione sociale, che miri a sanare le contraddizioni80

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di un’epoca di profondi mutamenti, non si propone come un oggetto di concreta valutazione critica, in rapporto alla pecu­liarità dei tempi, ma come oggetto di una fede cieca e totale: l’utopia si fa automaticamente realtà senza passare attraverso il filtro critico della ragione in senso proprio. E con questo si accende nei convertiti quella che lo storico americano Billing- ton (Billington 1986) ha efficacemente chiamato il “fuoco nel­la mente”, che ha caratterizzato in modo tipico la condizione di spirito dei Giacobini durante la rivoluzione francese, m atri­ce, sotto questo profilo, di tutte le successive forme di proget­tualità rivoluzionaria eversiva nel corso del xix e del xx secolo. Dal popolo di Dio del cristianesimo si passò così al Popolo- Dio, fonte di ogni verità e di ogni valore, indistinti fra di loro.Questo fenomeno centrale della vita politica europea per quasi due secoli, la scissione fra il momento della razionalità della programmazione critica dell’azione riformatrice, e quello della fanatica adesione all’utopia fatta di simbolica astrazione e di distruttiva violenza, diventa più chiaro se si tiene presente quel bruciante "fuoco nella mente”, che non è sfuggito anche all’osservazione di Hannah Arendt (Arendt 1983) e che ha ca­ratterizzato una delle due anime della “sinistra” storica, quella eversiva e terroristica di contro a quella concretamente politi­ca e riformista.Ne è derivato quel filone, anarco-terroristico, che si è ripre­sentato costantemente in aspra e inconciliata polemica con la sua controparte "storico-scientifica”. La prim a fase del sociali­smo utopistico dei Saint-Simon, Blanc, Fourier, si concluse con la comparsa del testo base di fondazione del materialismo storico di Marx ed Engels, il Manifesto dei comunisti del 1847, nel quale sono compresenti entrambe queste dimensioni, tan­to quella critico-scientifica che mette a fuoco nella sua concre­tezza la condizione sociale del momento e le ragioni delle con­traddizioni che vi si manifestano, con estrema penetrazione e lucidità, quanto la profezia m itica dell’aw erarsi inevitabile, nel futuro, della perfetta società dei comunisti. Questa com­presenza di razionalità critica e di passione simbolica, che at­traversa tutta l’opera di Marx da quel testo fino alla Critica del programma di Gotha del 1875, ha fatto da un lato la fortuna politica dell’opera di Marx, come strumento di mobilitazione di milioni di lavoratori nel mondo, e dall’altro ne ha segnato i limiti. Ma non è qui il caso di approfondire questo tema, bensì solo di segnalare che la comparsa dell’ideologia comunista in­ternazionalista non poteva non interferire con la problematica delle identità nazionali europee del xix e del xx secolo. Esso creava infatti una potente lealtà alternativa al principio etnico

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stesso, soprattutto nella sua versione nazionalistica. Non sen­za giungere peraltro, nell’ultima fase dell’esperienza sovietica dello stalinismo, a un’ibrida fusione di principi di per sé in­compatibili.Da questo ibrido innesto di temi simbolici è derivato il fe­nomeno dei nuovi populismi, caratterizzati dalla partecipazio­ne (nominale) diretta in luogo dell’esercizio dei diritti e dei do­veri politici regolati dalle leggi e dal sistema rappresentativo, dall’intervento autoritario dello stato populista, in luogo del ri­spetto delle garanzie costituzionali democratiche, e la reintro­duzione, più o meno esplicita, di elementi di discriminazione genetica in contrasto con i diritti civili di cittadinanza (Tullio- Altan 1989, pp. 40-52, 107-118).

3. La prima guerra mondiale e la crisi degli equilibri imperiali in EuropaLa prima guerra mondiale, auspicata ed esaltata dalla follia nazionalista risultante della bruta politica di potenza delle na­zioni europee a cavallo del secolo, fra le sue conseguenze ebbe quella di mettere in crisi profonda, fino alla loro disintegrazio­ne, quei sistemi di equilibrio di tipo imperiale grazie ai quali in buona parte si reggeva la balance o f power della belle Epoque.Fra questi il più drasticamente colpito fu l’impero asburgi­co erede del Sacro Romano Impero fino al 1801, e poi impero d’Austria, che grazie aH’imperatrice Maria Teresa e a suo figlio Giuseppe li aveva grandemente fruito dell’influenza dell’Illu­minismo, ai fini di un profondo rinnovamento organizzativo dello stato, nello spirito del processo di costruzione degli stati assoluti europei. La sua struttura multietnica tuttavia impone­va dei limiti severi a una soluzione di tipo statuale unitario sul modello autoritario prussiano, dato l’alto livello di aspirazioni indipendentiste delle sue componenti nazionali italiana, boe­ma e morava, slovacca, galiziano-polacca, ungherese, e slava del Sud, con le appendici balcaniche. La soluzione era stata trovata in una politica ispirata a ir“eudemonismo di derivazio­ne illuministica ed al garantismo costituzionalistico ottocente­sco [idea che fa] dello Stato solo uno strumento destinato alla massimizzazione dell’utilità dei singoli e dell’insieme” (Negrel- li 1994, pp. 35-36).I vincoli simbolici, sostitutivi di quello etnico identitario, erano rappresentati da quello dinastico, nella figura istituzio­nale carismatica dell’Imperatore, effettivamente vissuto come un valore aggregativo forte anche a livello popolare, e dalla

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Chiesa cattolica, legata alla Corona nella tradizionale alleanza controriformistica fra Trono e Altare, ma con una netta distin­zione di sfere. Gli elementi di razionalità politica, a supporto dell’equilibrio imperiale, consistevano soprattutto in un orga­nismo amministrativo statuale ispirato a criteri di legalità e di efficienza, e da un atteggiamento tollerante di accettazione delle diversità nazionali, entro il lim ite della fondam entale lealtà nei confronti dell'Impero.Questo costrutto storico-politico, il cui ricordo si colora di una vena di nostalgia, soprattutto di fronte agli esiti funesti del suo venir meno, non resistette alla tragedia della guerra dei nazionalismi, e aprì con la sua scomparsa assai più proble­mi di quanto non ne avesse mai posti durante la sua esistenza.L’impero ottomano che si era esteso all’Europa sud-orien- tale affermandosi contro l’etnia slava dei Serbi nel 1389 con la battaglia di Kossovo, si era espanso fino sotto le m ura di Vien­na alla fine del Seicento, ma entrò, a partire da quel periodo, in una fase di riflusso che interessò progressivamente l’intero sistem a turco-ottom ano. E la sua scom parsa dallo scenario europeo ebbe riflessi ridotti, salvo ovviamente nella zona bal­canica, nel quadro della politica complessiva delle nazionalità in Europa.Ben altri problemi si aprirono con la crisi dell’impero russo degli zar, che si estendeva dall'Europa centrale al Pacifico, su sterminati territori abitati da centinaia di etnie diverse con di­verse religioni e linguaggi. Governare una tale realtà poneva, e pone, dei problemi radicalmente differenti da quelli di tutti gli altri stati d’Europa. Lo zar Pietro il Grande (1689-1725) aveva intrapreso un processo di riforma dello stato ispirandosi alle teorie deH’Illum inism o, così come, dopo di lui, Caterina il (1762-1796), ma solo per quanto riguarda l'aspetto della ge­stione assoluta del potere con mezzi razionalmente adeguati allo scopo: in sostanza per gli aspetti r e la t iv i a l la stru ttura dell’amministrazione, allo stimolo della produzione economi­ca, alla formazione del personale civile e militare, alle tecnolo­gie belliche e alla strategia moderna in guerra, valendosi per questo del contributo di esperti soprattutto tedeschi. In so­stanza, per gli aspetti relativi al processo di costruzione di uno stato assoluto del tempo; e non certo per favorire la maturazio­ne politico-culturale del paese all’insegna dei valori universali­stici propri della moderna cultura politica e morale europea.Date le potenziali risorse del paese il tentativo era stato, nonostante le enormi difficoltà poste dalle dimensioni del ter­ritorio e la sua eterogeneità etnica, un successo, m a stretta- mente legato con una concezione dispotica del potere politico.83

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La servitù della gleba venne abolita sulla carta solo nel 1861 dallo zar Alessandro n. E da quel momento il paese venne agi­tato da un movimento di ispirazione ideologica populista dap­prim a relativamente moderato, dei sostenitori del principio “terra e libertà” a favore dei contadini e poi decisamente terro­ristico eversivo (nihilisti), all’insegna del motto "libertà e po­polo". Movimenti di ristrette élites, capaci tuttavia di incidere sull’opinione pubblica e la sicurezza civile.Ma nonostante queste carenze gravi all'interno, le difficoltà crescenti in politica estera e i fallimenti in campo militare in Estremo Oriente, l’equilibrio dell’impero russo si reggeva, an­che e soprattutto, per un elemento culturale specifico: il forte senso di identità etnica della componente russa, assolutamen­te dominante nell’equilibrio imperiale, identità etnica non li­mitata alle sole aristocrazie ma estesa anche alle masse conta­dine, unite nel culto dello zar, inteso come “piccolo padre”, e della "grande m adre” Russia come territorio natio, ed erede diretta e principale della tradizione ortodossa della chiesa di Bisanzio. Una ricchissima letteratura nel corso dell’Ottocento, e molte testimonianze di cronaca di vita locale, nonché di do­cumenti etnografici comprovano la profondità di questo senti­m ento nazionale che prese la form a politico-culturale del "panslavismo” come versione russa del nazionalismo europeo. Gli eventi della storia attuale sono una verifica assai persuasi­va di quanto sia grande la forza di questa configurazione sim­bolica.L’impatto della realtà tradizionale dell'impero russo con le correnti moderne del pensiero politico liberale democratico e socialista europeo, nel corso del secolo scorso, non poteva che essere difficile e contrastato, data la grande distanza nelle pro­spettive di valore esistenti fra quei movimenti e la realtà con­solidata nei secoli di un potere istituzionale privo di meccani­smi di autotrasformazione democratica.Questa distanza spiega anche la peculiarità dei movimenti politici di opposizione alla tradizione dispotica del potere zari­sta, che assunsero la forma del terrorismo anarchico, prim a che in Russia si affermasse la socialdemocrazia in versione le­ninista. Questi movimenti presentano analogie non casuali con quelli che fecero la loro comparsa nel secolo scorso nei paesi europei rimasti al margine degli sviluppi più recenti del pensiero e della pratica politica democratica, come l’Italia, la Spagna e i Balcani, nei quali la parte recitata dall’anarchismo terroristico trovò ampio spazio, prima dell’affermarsi delle so­cialdemocrazie in chiave riformista.L’esito della prim a guerra mondiale, per quanto riguarda la

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Russia, s’inserisce direttam ente nella storia contem poranea delle ideologie totalitarie, di cui diremo più avanti. Queste in­fatti trovarono una fertile m atrice nella situazione anomica che si venne creando in Europa in conseguenza del venir me­no degli equilibri imperiali asburgico, russo e ottomano, e dal­la situazione peculiare della Germania, situazione che pose fi­ne all’equilibrio delle potenze, nell’Europa degli anni venti di questo secolo.

4. Le ideologie totalitarie del xx secolo. Alcuni problemi di termi­nologia e di metodoUn nuovo e inedito tipo di ideologia basato sopra l’imposi­zione violenta di program mi politici trasfigurati in forma di mito, fece la sua comparsa in Europa negli anni venti del no­stro secolo, che si sta conchiudendo in una condizione di grande disordine intemazionale. Si tratta in realtà di ideologie molto diverse fra di loro come vedremo, ma che hanno tutte in comune la caratteristica di fondere, in un connubio profon­damente irrazionale, fede e ragione. In luogo di creare consen­so critico attorno a proposte ragionate, questi costrutti simbo­lici sollecitano fenomeni collettivi di identificazione cieca di massa con i dogmi enunciati da personaggi carismatici, e so­stenuti da ferree organizzazioni di partito. Alla realtà si sosti­tuisce l’immagine che il potere, usando le risorse potenzial­mente illimitate dei moderni mezzi di comunicazione sociale, vuole che ne sia data. “Credere, obbedire, combattere.” Le tec­niche di manipolazione delle coscienze, in una società senza controlli istituzionali efficaci, da Gustave Le Bon in poi, han­no fatto passi da gigante. E in questa situazione si sono pro­dotti fenomeni come quello che Koestler ha chiamato con ter­mine suggestivo il “buio a mezzogiorno”, nel quale persone in­nocenti consapevoli di esserlo, si sono dichiarate colpevoli di delitti contro lo stato-partito, accettando la condanna a morte in nome di quel sistema di potere con il quale si erano total­mente identificate, che intendevano così servire fino all’estre­mo sacrificio, come accadde nelle purghe staliniane degli anni trenta. È questa, dal tempo della Santa Inquisizione, una delle più agghiaccianti testimonianze del “sonno della ragione”.Tali ideologie, che si sono concretate in forme statuali, in regimi, si distinguono comunemente in due tipi principali: il primo, internazionalista ambiguo, si propone come l’erede della tradizione marxista rielaborata in chiave leninista prima e stalinista poi; il secondo, fascista e nazionalsocialista, si pro­

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pone come la radicalizzazione esasperata del nazionalism o con aspirazioni imperiali.Di una di queste tre forme, della quale solo molto impro­priamente si può sostenere la natura autenticamente totalita­ria, perché il regime fascista ha costantemente condiviso il po­tere con la m onarch ia e con la Chiesa, accennerò ancora quando tratterò il tem a della fragile identità etnica italiana. Qui ne parlo solo per la parte recitata dal suo “inventore" Be­nito Mussolini, senza il quale non sarebbe pensabile che una tal forma ideologica si potesse creare e affermare nel nostro paese. Essa è infatti il prodotto riassuntivo della sua acciden­tata biografia personale. Nel regime infatti si ritrovano i ca­scami delle esperienze del Mussolini romagnolo di campagna e maestro di scuola, di matrice anarchica, assieme a quelle del Mussolini massimalista e giornalista polemista, dell’interventi­sta e diciannovista, del capobanda delle squadre armate e del politico, il cui innegabile fiuto derivava in larga m isura da una conoscenza spregiudicata dei vizi e delle debolezze morali del­la società italiana; esperienze tutte alle quali, al momento giu­sto nel 1923, seppe integrare quelle dei nazionalisti, che conta­vano alcune delle migliori teste pensanti, in termini di diritto e di teoria dello stato, grazie alle quali diede al suo regime per­sonale una adeguata struttura istituzionale. Il regime fascista è fatto di tutto questo insieme di esperienze abilmente adatta­te alle circostanze e utilizzate facendo uso di un notevole ta­lento retorico, in parte acquisito dall'esempio dannunziano, e di una misura di violenza fisica e morale certamente notevole m a minore di quella messa in atto dagli altri due protagonisti europei del totalitarismo liberticida, Stalin e Hitler.In sintesi il regime fascista non è nato, come il nazismo, dallo sviluppo coerente di un’idea paranoide del potere, fonda­ta sopra l’esaltazione mitica di alcuni dati etno-storici effetti­vamente presenti nella tradizione tedesca, né sopra un’utopia spietata nella sua disumana coerenza, che si sposava tuttavia bene con una centenaria tradizione di dispotismo e di espan­sionismo panslavo, come lo stalinismo. Il regime fascista, fino a quando non si identificò con quello nazista nella sua fase fi­nale, e nonostante i suoi agganci sociali e la connivenza degli interessi economici agrari e industriali che ottenne, rimase una realtà segnata profondam ente dalla personalità del suo "inventore”, inventore di una tradizione imperiale effettiva­mente inesistente, che visse solo nella scenografia piacentinia- na, come decorazione che mascherava una realtà ben diversa.

Che questo tentativo sia riuscito a ottenere un certo credito e abbia fornito un notevole contributo ai sistemi totalitari suoi86

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contemporanei, per quanto riguarda l’uso dei mezzi di propa­ganda e di organizzazione del consenso - si ricordino le ben note lezioni di Togliatti a Mosca sull’efficacia delle organizza­zioni giovanili, del dopolavoro, corporative, e altre - è un fat­to. Che le pratiche liberticide fasciste abbiano avuto imitatori tanto in Europa quanto in Sudamerica, è pure un fatto da non trascurare nel giudizio storico complessivo. Ma sul piano di un giudizio più articolato del fenomeno fascista italiano non mi sembra gli si possa accreditare o addebitare molto di più di questo, e non certamente una parte determinante nel prodursi delle altre due forme, di vero e proprio totalitarism o, tanto quella sovietica, che ha radici diverse e lontane, quanto quella nazista, d ie tro la quale stanno decenni di s toria europea dell’età dell’imperialismo, di guerre e di sconvolgimenti econo­mici europei e mondiali, di cui la Germania è stata una delle protagoniste. Il fascismo italiano è stato in realtà un fenome­no provinciale e in tale prospettiva va inquadrato. Mussolini, invece, a un certo momento della sua avventura personale, si propose di fare degli Italiani, che pur conosceva bene, un po­polo di guerrieri, conquistatori, il che, data la loro storia, co­me vedremo, era un’impresa disperata, e questo segnò fra l’al­tro la tragica fine sua e il disastro della nazione.La struttura dell’ideologia fascista, grazie agli apporti del pensiero nazionalista di Rocco, Federzoni e altri, e della ge­niale fantasia mitopoietica di Gabriele D’Annunzio, dopo l’ab­bandono delle primitive istanze anarchiche e repubblicane di Mussolini, si fonda sopra la sublimazione dello stato come te­ma centrale, e sulla figura carismatica del Capo che ne deter­m ina le sorti. Lo scenario nel quale vengono calati i protagoni­sti della nuova identità fascista, dal Duce ai gregari, è quello di una rom anità imperiale tu tta inventata, in quanto priva di ogni nesso storico effettivo con la società italiana contempora­nea, anim ata dalla vivace ritualità dannunziana, feconda di in­segne, scenografie, uniformi e motti, essenziali per la celebra­zione di un interrotto cerimoniale movimentista. Molto attive in questo quadro le avanguardie futuriste, i giovani cultori del­la "mistica fascista" e un vago populismo di sinistra coltivato negli ambienti universitari del Gut che si ispiravano a Bottai. Non pochi artisti anche di valore vi parteciparono consenzien­ti e gratificati (Tullio-Altan 1989, pp. 205- 264).

Se il fascismo fu un fenomeno tipicamente italiano, il na­zionalsocialismo fu un fenomeno squisitamente tedesco. Se il primo fu in gran parte il frutto di improvvisazione culturale, senza effettive radici nella storia, il secondo ne ebbe invece, e di molto profonde. Nell’ideologia nazista infatti confluirono87

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una serie di valori culturali m aturati nel corso dei secoli in ter­ra tedesca, più o meno rielaborati dalla letteratura romantica del xix secolo in Germania. Il valore guerriero della stirpe elet­ta, le cui caratteristiche rinviano alla tradizione delle Voelkerwan- derungen della preistoria dei teutoni, i valori di fedeltà e di lealtà personale nei confronti del “capo”, che si rifanno al­l’esperienza dei rapporti feudali e ai principi di solidarietà, or­dine, disciplina ed efficienza m aturati nel clima che fu quello della formazione dello stato assoluto, creato nella Germania orientale, nello spirito e sulle orme delle imprese dei Cavalieri Teutonici, dal re Federico n di Prussia. Tutto questo, che non fu il frutto di un’invenzione di Hitler, collocato sullo sfondo di un sentimento di appartenenza che si esprime nel termine in­traducibile di Heimat, definito dai valori del sangue (Blut) e della terra (Boden), valori che qualificano il Volk, il popolo.Molti studiosi moderni del fenomeno nazista, come Georg Mosse, ne fanno sostanzialmente risalire le matrici all’epoca romantica, e nel principio del Volk vedono il suo motivo ispira­tore, assumendo che esso sia qualcosa di autoevidente senza la necessità di una compiuta ricostruzione storica del suo proces­so di formazione nel corso dei secoli (Mosse 1964, pp. 28-29).E invece il Volk non è un’esclusiva invenzione dei rom anti­ci, ma è frutto di una lunga storia precedente, che risale al principio ancestrale del genos, nelle forme della Sippe o della Fara, il quale si è arricchito nel corso dei tempi di ulteriori si­gnificati, oltre a quello originario della trasfigurazione simbo­lica del lignaggio, per dar corpo a una specifica forma di eth­nos, in cui il genos si associa a un epos, a un ethos e a un topos particolari. Esso fra l’altro si è fatto particolarmente sentire in età feudale nella organizzazione sociale basata sul rapporto personalizzato della commendatio, che sancisce la reciproca fedeltà del suddito e del signore attorno alla quale si costitui­sce una Gemeinschaft, una comunità organica, ben lontana da quella che sarà poi la società moderna fondata sul neutrale e formale principio della legge. Una com unità di lingua, di ri­cordi di imprese comuni, di riti, cerimonie e costumi, e per la quale il territorio non è quello astratto della topografia, ma è al tempo stesso paesaggio, terra di lavoro, unità domestica di produzione per la sopravvivenza, e di culto degli antenati. I valori di una tale comunità sono i valori del Volk che preesiste­va alla poetica dei romantici, perché non era solo poesia, ma vita piena e significativa.Il passaggio successivo della vicenda storica tedesca del Volk, quello relativo alla costruzione degli stati assoluti nella loro razionalità funzionale, ad opera dei sovrani illuminati,

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non ha comportato la cancellazione del retaggio più antico del Volk negli strati popolari della società tedesca, soprattutto del­le campagne, ma non solamente.L’ideologia nazionalsocialista attinse a piene mani a questo fondo tradizionale, che ancora viveva di vita, non sempre pale­se e consapevole, nell’immaginario simbolico della cultura te­desca, traendone alcune immagini esemplari come quella del­la sacralità del capo, il Fuehrerprinzip, o come il principio del­la purezza della stirpe che, in omaggio alla filosofia scientista del tempo e relativo grossolano materialismo, venne definita in termini biologici e genetici, e venne elevata al rango di asse portante dell’intera configurazione ideologica nazionalsociali­sta; o come il principio dell'ordinamento sociale gerarchico, modellato su quello della casta militare, con i suoi corpi spe­ciali di militanti scelti per la loro fede cieca nei principi del­l’ideologia.Questo costrutto ideologico, frutto dell’opera di mistifica­zione e di una serie di recuperi adulterati di elementi tradizio­nali autentici, da parte di un avventuriero, lui stesso allucinato dalle sue fantasie, venne da Hitler combinato spregiudicata­mente con i grandi interessi economico-finanziari di una so­cietà, come quella tedesca del primo dopoguerra, travagliata dalla crisi psicologica derivante dalla sconfitta, dalla crisi eco­nom ica e dall’ingovernabilità politica, e resa così profonda­mente insicura, al punto da mettere in atto la più clamorosa “fuga dalla libertà” della storia contemporanea. Solo l’assoluta eccezionalità e gravità di una tale congiuntura, può spiegare il terribile momento di debolezza di un popolo di così alta ci­viltà come quello tedesco, la cui maggioranza elettorale portò al governo una forza politica che si basava ideologicamente sopra una visione della vita sociale e politica orientata verso il recupero anacronistico di valori feudali e di uno statalismo as­soluto deprivato della sua dimensione democratica, e caratte­rizzato da una nuova e paranoide concezione del genos ance­strale, tanto spuria quanto feroce da motivare un genocidio.Un caso assai diverso dai primi due, l’italiano e il tedesco, è quello della Russia, che si è concluso in questi ultimi anni con il crollo per implosione dell’impero sovietico. Come si è ricor­dato, il profilo etnico della Russia ha uno straordinario rilievo. Nessun altro paese d’Europa, forse, possiede come la Russia un’identità etnica così completa e ricca di forme nel suo epos, nei suoi costumi e istituzioni politiche, nella poesia del lin­guaggio, nella sua autenticità di vita com unitaria e familiare, e nel suo immenso territorio, vissuto come fonte di vita e di poetica immaginazione. Di questa realtà etnica Ivan il Grande,89

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Ivan il Terribile, Pietro il Grande e l’illuminata imperatrice Ca­terina il, avevano fatto uno stato assoluto autocratico sui gene­ris, che era venuto a contatto con la nascente democrazia eu­ropea solo nelle guerre contro Napoleone, tramite i suoi giova­ni ufficiali che, tornati in patria, avevano alimentato il movi­mento liberal-costituzionale dei decabristi. A questa esigua forza d’innovazione spietatamente soffocata dallo zar si con­trapponeva l’istanza tradizionalista dei panslavisti, e successi­vamente quella populista filocontadina dei sostenitori del mir e della obscina, la comunità di villaggio. Solo alla fine del xix secolo comparve in Russia il socialismo di ispirazione tedesca e marxista.La sconfitta m ilitare delle arm ate dello zar nella prim a guerra mondiale diede uno spazio insperato all’iniziativa del filone più estremo del socialismo operaio, quello bolscevico, in contrasto con i riformisti (menscevichi) rimasti minoritari. Lenin, il leader dell’ala maggioritaria dei bolscevichi, come è noto, si impadronì del potere nel corso delle due rivoluzioni del 1917: quella di febbraio guidata dai socialisti rivoluzionari di Kerenskij, eredi del populismo eversivo contadino, e quella di Ottobre condotta a termine contro i primi da Lenin, a capo dei soviet dei soldati, degli operai e dei contadini, che diede vi­ta all’Unione Sovietica.E a questo punto si realizzò l’incontro fra la Grande Madre Russia e il più internazionalista dei movimenti operai europei, incontro ovviamente traum atico data la distanza siderale che li separava. E dal quale derivò una sanguinosa guerra civile. Ma Lenin non si limitò a un’operazione militare, che grazie a Trockij risultò vittoriosa, perché si trovò posto di fronte a un problema che era stato quello stesso che gli zar avevano dovu­to affrontare nei secoli: il problema del governo di quell’im- m ensa com posita realtà um ana e territoriale che la Russia rappresentava e rappresenta. Quella Russia non si poteva cer­tamente governare con il sistema dei Consigli, i soviet, sistema ispirato dall’universalismo comunista. Per cui da quel momen­to iniziò il tentativo leninista di una sintesi fra le due realtà, in primo luogo attraverso l’immissione nella nuova struttura di potere di buona parte dell’apparato burocratico dello stato za­rista, per ristabilire l’ordine sociale, e poi, di fronte alla care­stia dovuta alla crisi politica e sociale delle campagne, con il tentativo di reintrodurre elementi di capitalismo rurale e com­merciale attraverso la Nuova Politica Economica. Ma questo tentativo venne interrotto dalla morte di Lenin nel 1924, e il suo successore Stalin mutò radicalmente rotta, ripristinando nella sostanza le condizioni di uno stato assoluto autocratico,90

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grazie agli strumenti di potere tradizionali della polizia segre­ta e alla soppressione radicale e violenta di ogni traccia di op­posizione, vera e presunta; a una azione massiccia di incultu- razione forzata dei principi fondamentali della nuova ideolo­gia; alla distruzione fisica dei residui proprietari di terre e alla selezione spietata, tramite processi pregiudicati, di quanti, in potenza, avrebbero potuto costituire una minaccia per l’auto­crate di nuovo tipo. Alla collettivizzazione delle campagne si aggiunse un tentativo intenso di industrializzazione forzata. Sul piano intemazionale, gradatamente, venne ripresa ed esa­sperata la politica espansionistica propria del panslavismo, so­prattutto sull’onda dei successi militari della seconda guerra mondiale. La Russia di Ivan il Terribile prese così la sua rivin­cita sull’ideologia pacifista internazionalista e universalistica del socialismo europeo. Ma questa scelta ebbe come esito fina­le il collasso dell’intero equilibrio storico costruito sulle basi dello stalinismo. La gara degli armamenti, messa in moto dal confronto fra Russia e mondo occidentale, costrinse l’Urss a distogliere da fini produttivi risorse economiche enormi, di­spendio non sopportabile, per un tem po indeterm inato, da un’econom ia statalizzata come quella sovietica, che portò a una insanabile crisi strutturale e alla conseguente sconfitta nei confronti delleconomia di mercato del resto del mondo. Una sconfitta economica che ha investito e disintegrato l’intero ap­parato del potere politico.La sorpresa maggiore, ma non per chi avesse preso in ade­guata considerazione i fenomeni di lunga durata, come quello dei valori identitari, è stata la ricom parsa sulla scena - più co­me relitti tuttavia, che come attive realtà - di tutti i personaggi della tradizione russa, aspiranti alla corona dei Romanov com­presi, e di tutte le insegne, i riti, le celebrazioni di un tempo.Nei fatti questo ritorno è ormai un ritorno illusorio perché la situazione è radicalmente m utata nelle sue premesse di fon­do, e il problema di sempre della Russia, quello della necessità di governo della sua sterminata realtà etnica e territoriale, si ripropone ora come si era proposto a Ivan il Terribile o a Le­nin. E per questo si può capire come, in assenza di una nuova classe dirigente effettivamente preparata ad affrontare questo problema di fondo, facciano la loro ricom parsa sulla scena i vecchi funzionari della nomenklatura, come i soli veri esperti ancora a disposizione in Russia oggi, dai quali non ci si può attendere più di quello che la loro formazione culturale com­porta, in tema di rinnovamento del paese.Tutti e tre questi eventi della storia moderna, nonostante le loro sostanziali diversità, rinviano a un problema comune, che

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si è posto in conseguenza del fallimento dei regimi che vi si erano ispirati: quello della integrazione di tali eventi negativi nell’epos nazionale dei rispettivi paesi, che per definizione de­ve avere invece un carattere positivo e celebrativo del passato nel quale essi si riconoscono, e dal quale derivano, assieme al­le altre componenti dell ’ethnos, la loro identità etnica e nazio­nale. Fatti come l’Olocausto o come l’Arcipelago Gulag non so­no assolutam ente collocabili in una prospettiva storica, con funzioni di esaltazione dei valori nazionali di un popolo, e non sono peraltro tali da poter essere puram ente e semplicemente rimossi e dim enticati dalla coscienza pubblica, se non altro perché essi sopravvivono nelle loro tragiche conseguenze, nel tempo.Il problema si pone però in modo diverso oggi nei tre paesi. In Italia il regime fascista non arrivò mai ai livelli di atrocità dell’esempio germanico e sovietico, e sul piano dei valori sim­bolici dell'epos nazionale, il paese ha com unque trovato un principio di riscatto nella resistenza antifascista e nella più at­tiva fra le guerre partigiane com battute in Europa contro il nazi-fascismo, anche se la partita con la negatività di questo passato italiano non può dirsi a tu tt’oggi pienamente chiusa. Nel caso dell’Urss la subitaneità dell’implosione del sistema, e la spaventosa crisi sociale ed economica che ne è derivata, de­terminano problemi impellenti di sopravvivenza, che sovrasta­no oggi ogni altro problema socio-culturale, che potrà aprirsi solo quando questa fase sarà stata superata: in sostanza il pro­blema di una riflessione autocritica sul proprio passato storico non è ancora maturo oggi in Russia.Alquanto diverso è il caso della Germania riunificata, per quanto riguarda il problema della sua identità nazionale, in rapporto al recente passato nazista e ai tragici eventi di cui si sostanzia. Il caso è diverso per i contributi di civiltà di cui la Germania ha arricchito nel xvin e nel xix secolo la storia d’Eu­ropa, come per la sua collocazione centrale, non solo geopoli­tica, nell’universo della realtà europea nel suo insieme.In Germania il problema posto dall’integrazione dell’Olo­causto nel suo passato storico, rim asto per decenni latente, anche in conseguenza delle vicende della guerra fredda, si è

fatto sentire con prepotenza negli ultimi tempi, sia per il venir meno di quest’ultima, sia per il fatto che, nel cinquantennio trascorso da quei fatti spaventosi, la messa in pratica a livello istituzionale e costituzionale della democrazia in Germania, il distacco temporale da quei momenti tragici della vita tedesca, e il progresso del pensiero critico in una società libera, hanno creato le condizioni perché il problema si facesse pienamente92

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maturo. Su di esso possediamo oggi un complesso di contri­buti, dei quali ci ha dato un quadro efficace Gian Enrico Ru­sconi (Rusconi 1987, pp. v i i - l x i i i ), al quale faccio qui riferi­mento assieme ad altri suoi scritti (Rusconi 1993).Nel rinviare alla lettura di quei testi, ne traggo qui solo una sintesi schematica in relazione all’economia di questo saggio. In sostanza le opzioni in cam po per Rusconi - quando si escludano le giustificazioni ideologiche basate su vere e pro­prie falsificazioni dei fatti - sono essenzialmente due: quella dello storico Ernst Nolte e quella del filosofo della politica Jür­gen H aberm as. Il prim o sostiene che una risposta valida all’esigenza di collocare adeguatamente la vicenda nazista nel passato storico della Germania consiste in una ricerca di ca­rattere analitico-conoscitivo condotta con rigore scientifico, che spieghi il nazismo e l’Olocausto nella loro complessità, senza per questo giustificarli sul piano etico, così da restaura­re una nuova e positiva forma di identità nazionale di caratte­re autocritico. Il secondo invece ritiene che la crisi di identità tedesca, dovuta alla presenza storica dell’Olocausto, come ostacolo a una sua “normalizzazione”, sia da accogliere come un'opportunità favorevole per dichiarare obsoleta e negativa ogni forma di identità nazionale, e per passare oltre, puntando verso un obiettivo di carattere universalistico.Il discorso tocca necessariamente una serie di temi connes­si, di grande rilevanza teorica ed etica, come quello del senso di colpa e della responsabilità collettiva o individuale relativa agli eventi della storia; dei rapporti fra il passato e le genera­zioni successive nel tempo, e del loro coinvolgimento o meno nelle conseguenze di tali eventi; dei rischi del relativismo sto­riografico, e della rimozione di ciò che può minare l’autostima di un popolo come principio di aggregazione e altro ancora. Ma per quanto attiene al problema specifico del recupero di un epos che sia veramente tale, nel caso tedesco, le due opzio­ni di Nolte e di Habermas in realtà non si escludono fra di lo­ro in quanto alternative, perché la prim a si sviluppa sul terre­no della ricerca razionale sulle realtà concrete, e la seconda sul terreno delle scelte etiche di carattere simbolico, e cioè sul piano dei valori. Ma sono entrambe parziali.E infatti la proposta di H aberm as, di superam ento del principio stesso di nazionalità, come concepito nell’Europa del xix e del xx secolo, ha una sua praticabilità solo tenendo conto delle concrete condizioni storiche in cui essa viene enunciata, che sono quelle dei paesi europei nel loro comples­so, e della politica europeistica, e, al limite, planetaria, senza tener conto delle quali essa resta una pura opzione morale.93

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Mentre la pretesa di Nolte di restaurare un valore simbolico, come quello dell'identità etnica e nazionale, con strumenti di tipo concettuale e scientifico, si mostra altrettanto insufficien­te, sul piano pratico, della prima, perché non può incidere di­rettam ente sul vissuto della coscienza etica di vaste masse so­ciali.Una soluzione del problema che abbia una sua praticabilità effettiva richiede una duplice operazione. Da un lato una pre­sa di coscienza razionale di come esso si sia prodotto e degli elementi concreti che lo hanno determinato (Nolte), così che esso venga messo storicamente a fuoco nella sua incontestabi­le realtà. E dall’altro una altrettanto concreta prassi politica che tragga da questa lezione della storia tutte le sue conse­guenze e ponga le basi di un futuro nel quale i valori della de­mocrazia trovino nei fatti una conferma e un ulteriore arric­chimento. Saranno questi fatti, nel loro intrinseco valore, a sa­nare, almeno in parte, gli orrori del passato intollerabile, che non va certamente né rimosso né dimenticato, ma ricordato costantemente, come incentivo a evitare le sempre possibili ri­cadute. In altri term ini il suo superamento non può esaurirsi a livello di stati d’animo, individuali o collettivi, di rimorso, ma concretarsi in com portam enti che siano oggetto possibile di positiva trasfigurazione simbolica in valore.Questo sintetico raffronto fra tre ben noti fenomeni storici sollecita qualche riflessione di metodo. Nel discorso comune tutti e tre vengono ricondotti sotto la definizione di dittature totalitarie, ma a un’analisi un po’ più approfondita essi pre­sentano delle peculiarità tali, per cui la sola cosa che si possa dire abbiano in comune è un dato negativo e cioè che in tutti tre i casi vennero soppresse, o non furono mai presenti, quelle garanzie di libertà civile e politica che costituiscono la sostan­za e la forma della democrazìa moderna. Troppo poco per rap­presentarci in modo adeguato la loro natura storica specifica, che non si esaurisce nella loro caratterizzazione politica e isti­tuzionale.Questo è solo uno dei casi in cui si manifesta l’esigenza, nello studio dei fenomeni storici, di por mente alla lezione del­la scuola delle Annales, quando, con Braudel, ci ricorda che la realtà della storia e delle sue manifestazioni è una realtà mul­tidimensionale, complessa e dialettica, e che per questo è ne­cessario non perdere mai di vista le sue dimensioni ecosiste­miche, economiche, sociali, politico-istituzionali e culturali, anche quando si studia un caso particolare in cui una di tali dimensioni abbia un valore prevalente sulle altre. Ora è certo

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che nei casi citati quella che predomina è la dimensione politi- co-istituzionale, ma è altrettanto vero che essa a sua volta è condizionata dalle altre, e in particolare da quella culturale data dalla distinta identità etnica come valore simbolico che opera in ognuno dei tre casi. Senza tener conto del peso che ì’ethnos ha avuto nella determinazione complessiva delle ditta­ture totalitarie del xx secolo, se ne intende ben poco. Più in generale va poi sempre ricordato che le realtà statuali e nazio­nali non costituiscono delle entità ontologiche, ma dei proces­si storici in corso, segnati da taluni tratti distintivi; sono degli equilibri di carattere struttural-congiunturale, più o meno de­finiti e dinamici.Questo ci induce a riflettere sopra un dibattito recente, in tem a di distinzione fra "nazioni civiche” e “nazioni etniche”, fra Gian Enrico Rusconi e Anthony Smith.Seguendo la proposta di H. Kohn, presentata in Idea o f Na­tionalism del 1967, Smith fa una distinzione fra la nazionalità civica territoriale, come quella in cui un popolo vive in un suo ben definito territorio, e si organizza in uno stato in cui si esprimono i valori di cittadinanza, come questa viene regolata da norme e istituti di legge; e nazionalità etnica, come quella in cui prevalgono, in luogo delle leggi, altre forme di lealtà co­me la genealogia, il populismo, un nativismo di tipo voelkisch, inteso quasi come una “superfamiglia”, i dialetti e uno stile vernacolare. I due casi tipici presi a esempio, nell’attualità, ne sarebbero rispettivam ente la Francia e la Germania (Smith 1992, pp. 281-282; Smith 1991, p. 13; Smith 1981, pp. 80-81).Rusconi critica questa posizione sotto due profili: gli ideal- tipi di “civico" e di “etnico” sono troppo schematici per coglie­re il senso di queste complesse realtà storiche; e inoltre Smith presuppone, a torto, che vi sia un passaggio per evoluzione fra nazioni etniche e nazioni civiche (Rusconi 1993, pp. 158-159).La critica di Rusconi può essere accolta come valida, nello spirito di quanto si osservava all’inizio sulla necessità di non lim itarsi nella ricerca a una pura e semplice classificazione eseguita applicando un ideal-tipo preso come autoevidente ed esaustivo - come nel caso del termine di dittatura totalitaria -; tuttavia se sotto la categoria del “civico” noi intendiamo con­cretamente, per l’epoca che c’interessa, il patrimonio culturale del giusnaturalismo e deH’Illuminismo, le conseguenze che es­si ebbero nelle società del tempo, e la penetrazione e diffusio­ne sociale differenziata che ottennero nei vari paesi; e nello stesso tem po rileviamo per contro quali siano state, in questi paesi, la maggiore e m inore perm anenza dell’“etnico” inteso come presenza dei tradizionali legami sociali e politici che si

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ispiravano alla sacralizzazione del genos e del potere delle mo­narchie feudali dinastiche regnanti per grazia divina, possia­mo ricostruire in concreto le tappe del passaggio dal prevalere di tali legami tradizionali a quello dell'affermarsi dei valori universalistici, nei quali si manifesta la qualità specifica di ciò che chiamiamo civico, e cioè del passaggio dalle società tradi­zionali a quelle democratiche moderne.In questo modo è possibile compiere degli accertam enti comparati - tenendo presente la specificità concreta delle ri­spettive storie - e concludere come in taluni di questi paesi si sia conservata in maggior misura la componente tradizionale in rapporto a quella innovativa e universalistica, o viceversa. In tal modo si possono rilevare discrasie notevoli fra le diverse nazioni europee, e non solo fra Francia e Germania, ma anche all'interno di esse, Francia e Germania comprese, individuan­do quali regioni conservano maggiori elementi tradizionali in relazione ad altre. In ogni nazione, in quale più o in quale me­no, esiste infatti una situazione di difficile coesistenza conflit­tuale fra passato e presente, nella quale le mort saisit le vif.Gli ideal-tipi di “civico” e di “etnico” vanno quindi storiciz­zati e usati, come ogni ideal-tipo del resto, con criterio e misu­ra, dato il loro carattere di strumenti euristici, e non applicati brutalmente come etichette di qualificazione o di squalifica­zione globale di interi popoli storici, nella complessità e va­rietà delle loro forme e atteggiamenti nei diversi tempi e nelle diverse congiunture.Se volessimo poi tentar di dare una risposta all’interrogati­vo cruciale sollevato da Rusconi: “Le nazioni possono trascen­dere l’etnicità?”, potremmo dire che Yethnos non è un acciden­te nel consorzio umano, e quando non si faccia un fine in se stesso come esasperato etnocentrismo, ma appaia quale mez­zo di civiltà, in quanto portatore nel suo ethos di valori univer­salistici, esso rappresenta una necessità, senza la quale quei valori non avrebbero modo di esprimersi: non si dà una so­cietà di puri spiriti disincarnati.Un altro termine oltre a quelli di “civico” ed "etnico”, quel­lo di “dem os ' , usato da Rusconi, richiede una qualche rifles­sione. Se esso è inteso nello stesso significato di “civico”, vale per esso quello che se ne è detto: indica la sintesi di una tradi­zione di civiltà universalistica. Ma spesso esso viene inteso ideologicamente come un “corpo mistico", un ente depositario di ogni germe positivo di valore, in quanto sede di una creati­va dinamica conflittuale. In questo senso esso appare la trasfi­gurazione simbolica della realtà di ciò che chiamiamo “civi­co", la sua traduzione in mito, oggetto di credenza e non di co­

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noscenza, di venerazione o di avversione, secondo la colloca­zione socio-culturale e politica di chi lo osserva, intendendolo come un dio o come un demone. E quindi meglio non abusare di simili stenogrammi di pensiero, perché sono di facile utiliz­zazione ideologica e di scarsa utilità euristica.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Tullio-Altan (1989), sul fascismo, pp. 205-264;Mosse (1964), (1964), (1982), (1986), sul nazionalsocialismo; Venturi (1972), sul populismo russo;Carr (1964), sulla rivoluzione sovietica.

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6. L’identità etnica in Italia

1. La peculiarità del caso italiano nella storia europeaIl sociologo americano Robert Bellah, a proposito della sto­ria della coscienza nazionale in Italia sosteneva che il suo te­ma di fondo potrebbe essere espresso con una metafora musi­cale, quella di un "basso continuo religioso” (in Cavazza e Graubard 1974, p. 444). Io proporrei un’altra metafora musi­cale, quella di una "polifonia dissonante”, ed è la legittimità di usare una tale metafora nel caso italiano ciò che vorrei soste­nere in questo capitolo.Questo tema, che rientra nei discorsi sui caratteri naziona­li, spesso assai generici, per quanto riguarda l’Italia non può venir trattato senza che da qualcuno, o da molti, si venga ac­cusati di disfattismo e di "sputare sul proprio paese”, come è effettivamente accaduto al sottoscritto nel recente passato. Tuttavia mi sembra utile riprendere quel tem a in questo conte­sto, sia per la sua intrinseca rilevanza, sia perché esso si presta a illustrare diversi aspetti dell’argomento di questo saggio.Innanzitutto servirà come dimostrazione del fatto che la fi­sionomia storica di un’etnia o di una nazione non può essere disegnata nel vuoto, ma sullo sfondo di un quadro storico più ampio, in rapporto alle cui caratteristiche complessive un’et­nia o una nazione assume una sua specificità. Una nazione è sempre tale in rapporto ad altre che fanno parte di un orizzon­te storico comune , che per l’Italia è quello europeo. Solo col­locandolo nel contesto delle vicende che hanno caratterizzato l’insieme dei popoli d’Europa, infatti, il caso italiano può esse­re inteso nella sua concretezza e specificità come variante di una storia comune.L’economia di questo saggio ci obbliga a offrire della vicen­

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da italiana solo un’esposizione molto sintetica, basata soprat­tutto sulla comparazione con quanto si è detto del percorso storico delle altre nazioni europee e in modo particolare di quelle che sono oggi le nazioni più direttam ente e incisiva­mente attive nella seconda e terza fase di tale processo, al qua­le dobbiamo la nascita e lo sviluppo della democrazia.Quest’ultime sono giunte a essere quello che sono oggi, co­me s’è detto, attraverso una sequenza di fasi che ognuna di es­se ha, più o meno compiutamente, attraversato: una prim a fa­se è costituita dalla formazione della società feudale, intesa come sintesi culturale tra le etnie germaniche che invasero i territori dell’Impero di Roma e le residue tradizioni della ci­viltà classica greca, rom ana e cristiana, dando vita a signorie basate sui feudi e facenti capo a un monarca dinastico regnan­te per grazia divina; m entre una seconda fase si aprì con la graduale trasform azione interna delle monarchie feudali in stati assoluti costruiti in base a principi razionali di organizza­zione tanto sul piano giuridico quanto su quello politico, eco­nomico e soprattutto militare; una terza fase, in parte contem­poranea alla seconda, ha portato all’affermazione di valori e di tendenze sociali ispirati a una prospettiva universalistica, i quali hanno condotto alla formazione di monarchie costitu­zionali o di repubbliche democratiche, in cui vengono garanti­ti i diritti civili di cittadinanza dei singoli così come gli inte­ressi sociali delle collettività, in una situazione condivisa di li­bertà, nella quale si attui, senza ostacoli, una dialettica costan­te di rinegoziazione creativa degli equilibri storico-sociali fra le parti interessate alla gestione del bene comune. L’ultima di queste fasi si è definita storicamente con la duplice rivoluzio­ne inglese, del xvn, e francese del xvin secolo.Se questo è stato, in estrema sintesi, il percorso europeo dalla società feudale a quella dem ocratica, quale fu invece quello che si produsse nella realtà italiana nello stesso periodo?Innanzi tutto deve essere tenuto presente il fatto che nella penisola italiana, fin dalla protostoria, ebbe luogo una succes­sione ininterrotta di insediamenti etnici di varia provenienza e natura: di tribù celtiche, venete, liguri, di popoli di una cultu­ra già raffinata, come gli Etruschi, i Greci della Magna Grecia, e le colonie fenicie di minori dimensioni, formatesi in ragione dell’interscambio commerciale con i paesi del bacino mediter­raneo orientale e meridionale, che resero impossibile la for­mazione di un substrato etnico uniforme, omogeneo. E dopo la costituzione dello stato rom ano imperiale e la successiva sua distruzione radicale, ebbe luogo nuovamente una serie di invasioni da parte di tribù germaniche, m entre rimanevano

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zone del territorio sottoposte ancora al dominio bizantino. Un insieme quindi estremamente composito, e ben diverso dal pa­noram a offerto dall’Europa centro-orientale, caratterizzata da una prevalenza caratterizzante dell’elemento germanico a ovest e slavo a est.Dopo la caduta del sistema imperiale romano e nei primi secoli che seguirono, il panoram a della penisola sotto il profi­lo etnico presentava la sopravvivenza, più o meno diffusa nelle diverse parti del paese, di una base demografica estremamen­te ridotta e depauperata di origine “latina”; le città, che aveva­no avuto una funzione centrale nel sistema imperiale romano, erano quasi del tutto scomparse, col venir meno di tale funzio­ne; parti del territorio, rimaste sotto il controllo bizantino, ave­vano conservato tracce più consistenti del sistema della pro­prietà fondiaria romana, nella Pentapoli, in Puglia e in Basili­cata; mentre altre come il settentrione della penisola e i ducati di Benevento e di Spoleto, passavano sotto il dominio germa­nico dei Longobardi; e la Sicilia veniva invasa dagli Arabi nell’827, e dai Normanni nel 1027.Ognuno di questi fram menti incontrò un destino diverso sia in ragione dell'influenza dei dominatori più recenti, sia per apporti di civiltà pre-romane e si caratterizzò pertanto in mo­do peculiare. In questo senso si può dire quindi che la peniso­la italiana non ebbe una storia uniforme, m a una molteplicità di storie, fin dalle più lontane origini. E mancò quindi di quel­la relativa omogeneità che ebbero le zone d’Europa abitate ori­ginariamente dalle tribù germaniche, assai affini fra di loro sul piano etnico-culturale. In nessun modo, per l’Italia, si può par­lare, come per il Volk germanico, di una comune tradizione antica, di tipo tribale passibile di un recupero ideologico nelle nuove circostanze.Questo non permise che il sistema feudale si organizzasse in Italia allo stesso modo dei paesi europei del Centro-Nord abitati dalle tribù germaniche, nei quali una tale molteplicità preesistente di tradizioni locali non era presente. E interessò pertanto in modo particolare solo le regioni settentrionali del­la penisola nella pianura padana, confinanti con la Germania meridionale. Mentre in Sicilia e in Calabria la feudalità nor­manna non si costituì in loco sulla base di una genuina com- mendatio, come nel resto d’Europa, m a si sovrappose con un’operazione militare di presa del potere, in quanto aristo­crazia staniera dominante, eterogenea al preesistente substra­to culturale popolare con il quale non costituì mai un'unità or­ganica, come nei paesi germanici, nel regno dei Franchi e nel Nordeuropa.

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Il destino successivo del paese venne determ inato essen­zialmente dalla sua collocazione geopolitica nel centro del Me­diterraneo, che gli assegnò il compito di collegare, sul piano degli scambi commerciali e culturali, il Medio Oriente arabo e l’Europa dei Franchi. Quest’ultim a infatti, nel tardo Medio Evo, cominciò gradualmente ad accrescere la produttività ri­dottissima della originaria economia curtense di sussistenza e a disporre così di beni di scambio in grado di alimentare un mercato in via di espansione nello spazio geografico del Medi- terraneo. L’Italia, come cerniera fra l'Europa e il Medio Orien­te, si trovò, grazie a questa sua collocazione, a fruire di una condizione di grande privilegio in questo processo di sviluppo, nel quale venne a precedere di due secoli il resto d’Europa, po­nendo le basi delle prime forme moderne del capitalismo m er­cantile e manifatturiero.Le latenti tradizioni della antica civilitas, miracolosamente sopravvissute nelle residue città, sem brarono revitalizzarsi nelle repubbliche marinare di Venezia, Genova, Pisa, Amalfi, che per secoli monopolizzarono gli scambi marittimi nel Me­diterraneo, e nelle città dell’entroterra poste sulla via di comu­nicazione verso il Nord dell’Europa, lungo il corso del Reno.Questa funzione storica della penisola italiana e delle sue città ridusse le possibilità d’espansione del regime feudale e favorì lo sviluppo originale e autonomo della civiltà comunale con le sue caratteristiche peculiari, e portò alla formazione di una nuova classe sociale, la borghesia mercantile, m anifattu­riera e finanziaria, che divenne ben presto la forza sociale vin­cente, in rapporto alla carente aristocrazia feudale. L’Italia im­boccò così una strada che la portò al vertice del progresso, in tu tti i campi della civiltà, nei secoli xii-xv, come si è detto par­lando delle vicende europee di quel periodo, m a che alla lunga doveva dimostrarsi una via senza uscita.La ragione di questo esito negativo risiede in gran parte nel fatto che venne a mancare, nell’esperienza storica italiana, un momento che fu invece centrale in quella degli stati europei in formazione in quei secoli: l’alleanza fra i titolari delle signorie territoriali più estese e in via d’espansione, marchesati, ducati, principati e monarchie, e le città, nella loro struttura di ceto (staendisch), che avevano sviluppato al loro interno, sulla base di un principio simbolico di comunanza (Genossenschaft), una form a di solidarietà corporativa che ne permetteva un rappor­to dialettico di collaborazione con il principe, che ne tutelava la sicurezza e l’attività produttiva, ottenendone in cambio con­senso e appoggio finanziario, dando così sostanza politica e sociale a quello che poi venne chiamato col nome di stato as­

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soluto, e avviando una politica econom ica m ercantilistica, nell’interesse dello stato medesimo, in una condizione di cre­scente istituzionalizzazione su basi razionali (Poggi 1978).La storia delle città italiane il cui fiorire precedette di oltre centocinquant’anni quello delle altre città europee, non regi­stra invece una realtà del genere. Innanzitutto per la debolez­za, in rapporto al resto dell’Europa occidentale, di uno dei fon­damentali interlocutori della storia europea di quei secoli; e cioè della componente feudale nella sua tarda versione di si­gnoria territoriale, come controparte attiva delle città, e in se­condo luogo per la scarsa o nulla solidarietà interna alle città e la corrispondente assenza di istituzioni in cui questa potesse manifestarsi, con la conseguenza del formarsi di consorterie, costituite dalle famiglie più potenti e dalle loro clientele, in lotta spietata fra di loro per il predominio, in una condizione di endemica anarchia.Questa situazione delle città italiane si comprende bene se si considera il processo per il quale dalla originaria gestione consolare dei comuni sulla base di statuti redatti da giurecon­sulti, si passò all’affidamento del potere a un podestà, chiama­to dal di fuori e al di sopra delle parti, m isura che non riuscì tuttavia a impedire che le città finissero col cadere sotto il do­minio di una famiglia, che riuscì ad affermarsi con la violenza su tutte le altre, nella città e nel territorio circostante.In questo modo alle città italiane fu sottratta quella decisi­va funzione che esse ebbero nel resto dell’Europa occidentale, di centri di sviluppo economico e di elementi attivi dei proces­si di istituzionalizzazione della nuova forma-stato, forma che prese il posto di quella feudale. Venne così a mancare in Italia quell’anello di passaggio dalla società feudale a quella fondata sulla primazia dello stato assoluto, di cui si è detto nelle pagi­ne precedenti.

Questo spiega l’incapacità del sistema di signorie e princi­pati che si venne costituendo in Italia, di resistere agli attacchi esterni da parte dei nuovi stati assoluti in concorrenza fra di loro per il primato europeo. E si passò dalla pace di Lodi, del 1454, in cui si raggiunse un precario equilibrio fra i nuovi po­tentati italiani, alla inarrestabile discesa di Carlo vili che con­quistò Napoli nel 1494, e finalmente alla pace di Cateau-Cam- brésis, che sanzionò il primato spagnolo nella penisola col do­minio nel regno di Napoli, del ducato di Milano e dello stato dei Presidi. L’Italia rimase così divisa, oltre alle regioni sotto il dominio spagnolo nel ducato di Savoia, nella repubblica di Genova, in quella di Venezia, nel granducato di Toscana, nel ducato di Parma, nella repubblica di Siena, e negli stati della102

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Chiesa. Mentre il meridione d’Italia, già escluso dall’esperien­za comunale, sotto gli spagnoli rimase ancor più gravemente isolato dal resto di un paese in ragione del sistema parafeuda­le che ereditò la form a peculiare di quello norm anno, e ne bloccò ogni forma di sviluppo fino all’avvento dei Borbone nelxviii secolo.Sul piano dell’economia l’Italia subì in quello stesso perio­do una crisi profonda e radicale, da un lato per la scoperta delle Americhe e lo spostamento dell’asse dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico, e dall’altro in conseguenza delle er­rate scelte produttive, ancora orientate verso i consumi di lus­so di contro a quelli di natura popolare, fortemente crescenti, in parallelo con lo sviluppo dell’economia europea.L’Italia arrivò così al limite di quel percorso storico origi­nale, che per tre secoli ne aveva fatto, nonostante l’assenza di un’unità politica, un soggetto fondamentale della storia euro­pea, e si ridusse a oggetto delle storie di altri paesi, che aveva­no preso la guida del processo di costituzione degli stati asso­luti e della maturazione di nuovi valori, dai quali sarebbe nata la democrazia nelle sue forme più m ature e avanzate.Sul piano dei valori, di cui si sostanzia l’identità etnica di un popolo in quanto ethos, la multiforme ed eterogenea realtà italiana di quei secoli rimase così deprivata, in larga misura, di quelli m aturati nell’esperienza feudale, della fedeltà, della lealtà e dell’onore; così come si trovò estraniata da quelli ma­turati nell’ambito del processo di formazione degli stati asso­luti, e cioè dello spirito di servizio, del rispetto dei principi dell’ordine sociale e della fattiva collaborazione nell’interesse generale, che si riassumono nel senso dello stato; e non potè partecipare di conseguenza alla m aturazione di quei valori universali di cittadinanza che caratterizzano le moderne de­mocrazie.Non si creò così in Italia una forma di ethnos, per il quale si possa dire quanto si è scritto nell’introduzione sulla funzio­ne dell’identità etnica, come configurazione simbolica che for­nisce a coloro che la condividono le motivazioni adeguate a un comportamento di attiva e gratificante partecipazione, nel nome di valori comuni, alla vita collettiva.

2. La mentalità borghese e la cultura popolare nei documenti let­terari e nei proverbiCome ha osservato Jacques Le Goff, mancano in Italia stu­di sistem atici sulle forme e sull’evoluzione storica della co­

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scienza sociale (Il caso italiano, in Cavazza e Graubard 1974, pp. 535 e sgg.), quali possano essere i motivi della rimozione di un tem a di così grande rilievo per la conoscenza della so­cietà italiana. Non possiamo quindi, a questo proposito e peril periodo che ora c’interessa, che riferirci ad alcuni tra più no­ti documenti di una produzione letteraria, la manualistica mo­rale, fiorita fra i secoli xiii e xv.Per quanto riguarda la m entalità della classe egemone in quel periodo, quella dei m ercanti, le m assim e riportate da Paolo di Messer Pace da Certaldo, compilate a Firenze nei pri­mi decenni della seconda metà del Trecento, appaiono subito molto significative. Quella che riassume il senso dell’intera sua proposta morale suona così: “Affaticati sempre anzi per te che per altrui” (Paolo da Certaldo 1945, p. 78). A questo suggeri­mento fondamentale seguono una serie di utili specificazioni, tutte molto precise: "Quando vedi il fuoco nella casa del vicino reca l’acqua nella tua” (Ibidem, p. 130), e ancora: “..;e tu non dei servire (render servizio) altrui per disservire te e’ fatti tuoi” (Ibidem, p. 150). Per quanto riguarda invece la vita pubblica si legga questa massima: “In ogni terra che vai o che stai, dì sem­pre bene di que’ che reggono il Comune; e degli altri non dire però male, però che potrebboro montare in istato (salire al po­tere), e non t’avrebboro per amico di loro né di loro stato (re­gime di potere)” (Ibidem, p. 89).Giovanni di Pagolo Morelli, vissuto a Firenze fra il 1371 e il 1444, ci ha lasciato un documento di singolare valore, perché esplicitamente riservato per l’uso interno della sua famiglia [“...questo (scritto) non ha da venire in mano a forestieri”, Giovanni di Pagolo Morelli 1969, p. 284], nel quale suggerisce ai suoi una condotta assai simile a quella raccom andata da Paolo: “Se se’ ricco, sia contento (accontentati) comperare de­gli amici co’ tuoi denari, se non ne puoi avere per altra via; in­gegnati d’im parentarti con buoni cittadini e amati e potenti...” (Ibidem, p. 253). E specifica però: “Ma sopra tutto, se vuoi avere degli amici e de’ parenti, fa di non n’avere bisogno. Inge­gnati d’avere de’ contanti e sappigli tenere e guardare cauta­mente e que’ sono i migliori amici si truovino e i migliori pa­renti...” (Ibidem, p. 279). Come si vede i riferimenti sociali più rilevanti e raccomandabili sono quelli costituiti dalla ricchez­za, innanzi tutto, e poi dalla parentela e dai clienti (amici ac­quistati col denaro). Stabilito questo, e posto che si miri a vi­vere in pace nell’agitata vita del comune, la via suggerita è la seguente: “Cioè, istatti di mezzo (fra le parti in contesa) e tieni amicizia con tutti e none esparlare di niuno [...] quando t’av­vedessi che questa non fusse la salute tua (non ti giovasse), e104

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allora tu m uta mantello. E guarda a qual parte è più forte, quale più ragionevole, quale più creduta da chi regge, in quale è più uomini nobili e più guelfi; e con quella t'accosta, con quella t’imparenta, a quella fa onore, quella t’ingegna sormon­tare (far trionfare) e co’ fatti e colle parole. E quivi istà forte e non ti lasciare isvolgere (persuadere altrimenti)” (Ibidem , pp. 280-282).Ma il più celebre fra questi testi, e il più ricco e articolato, rimane sempre I Libri della Famiglia, opera di Leon Battista Alberti, vissuto fra il 1404 e il 1472 a Firenze. L’Alberti vi ap­pare come il teorico della "masserizia”, l’arte di gestire la fa­miglia mercantile, nella quale concorrono, accanto e insieme alla rete dei rapporti prim ari e affettivi, gli interessi dell’azien­da, strettamente intrecciati e confusi con quelli, e ciò nel qua­dro di vita della comunità cittadina. In tale contesto la fami­glia appare, come osservano Ruggiero Romano e Alberto Te­nenti, "come una cellula chiusa, un microrganismo, un fattore aristocratico, la cui azione è fine a se stessa. Non si scorge mai, assolutamente mai, nell’opera di Leon Battista, un ‘grap­polo’ di famiglie, che giungano a formare una civitas, una so­cietà. Per l’appunto, la famiglia albertiana è un am bito rac­chiuso in sé; è essa stessa una società, ma chiusa, isolata, im­permeabile” (R. Romano e A. Tenenti, in Leon Battista Alberti 1974, p. xxv)."Da natura l’amore, la pietà a me fa più cara la famiglia che cosa alcuna,” dice l’Alberti per bocca di Giannozzo, il per­sonaggio del suo dialogo familiare che compare come il più anziano ed esperto. "E per reggere la famiglia si cerca la roba; e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co’ quali ti consigli, i quali t’aiutino a sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della fami­glia e della amicizia, si convene ottenere qualche onestanza e onorata autorità” (Ibidem, p. 226). La gerarchia di valori è qui ben precisa: al vertice la famiglia, come valore assoluto di rife­rimento, seguita dall’azienda, e poi dagli amici clienti. La città e la politica vengono in considerazione solo in quanto possano giovare a questo insieme gerarchicamente ordinato di valori sociali.Questo appare chiaram ente dal dialogo tra Giannozzo e Lionardo: “Lionardo: Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi negli uffici e nello stato? Giannozzo: Niuna cosa manco, Lionardo mio, niuna cosa manco figliuoli miei: N iuna cosa a me pare meno degna di reputarsela ad onore che ritrovarsi in questi stati (impegnati nello stato)... Ogni altra vita a me sempre piacque più troppo di quella delli, così diremo, statuali”.

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La vita politica (statuale) è definita molestissima e piena di sospetti, di fatiche e di servitù. "Che vedi tu da questi i quali si travagliano agli stati (che si occupano della cosa pubblica) es­sere differenza a publici servi?” afferma Giannozzo e aggiun­ge: “Eccoti sedere in ufficio. Che n’hai tu d’utile se none uno solo: potere rubare e sforzare (fare violenza) con qualche li­cenza?” (Ibidem , pp. 218-219). Il solo motivo quindi per parte­cipare alla gestione della comunità è quello di poter arrivare, con la frode o la violenza, a ricavarne vantaggi per la gestione dell’azienda-famiglia, sostituto esclusivo della società.Da cui una vera e propria invettiva contro coloro che sento­no il dovere civico di partecipare al governo della cosa pubbli­ca: “Pazzi che vi esponete ad ogni pericolo, porgetevi alla mor­te [...] E chiam ate onore essere nel num ero de’ rapinatori, chiamate onore convenire e pascere e servire agli uomini ser­vili! E che piacere d’animo mai può avere costui, se già e’ non sia di natura feroce e bestiale il quale al continuo abbia a pre­stare orecchie a doglianze, lamenti, pianti di pupilli, di vedove e di uomini calamitosi e miseri?” (Ibidem , p. 220). E conclude: "È si vuole (conviene) vivere a sé, non al comune (per la so­cietà), essere sollicito per gli amici, vero, ove tu non interlasci (trascuri) e’ fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo gran­de” (Ibidem , p. 221).Alla radice di questa filosofia sta una concezione rigida­mente utilitaristica: “Tanto siamo quasi da natura tutti procli­vi e inclinati all’utile che per trarre ad altrui (estorcere agli al­tri) e conservare a noi, dotti (istruiti) credo dalla natura, sap­piamo e simulare benevolenza, e fuggire amicizia quando ci attaglia (conviene)” (Ibidem , p. 345).L’istituto nel quale si accentra ogni valore, che sia conse­guente a una tale visione del mondo, è la famiglia allargata, con l’appendice puram ente strumentale, e non affettivamente connotata, delle amicizie utili. La società come tale, e i doveri civili, sono in questa prospettiva radicalm ente squalificati. Tutto questo costituisce un insieme di modelli culturali di com portam ento incompatibile con una società, che non sia una società di fazioni, e comporta l’esclusione di ogni senso di corresponsabilizzazione sociale. Là dove l’etica calvinista, me­todista, puritana, stabilisce attraverso la dottrina della grazia e della predestinazione uno stretto legame fra la salvezza eter­na, il successo personale negli affari e le esigenze di salvaguar­dia dell’ordine sociale, quella albertiana, tipica come abbiamo visto di un’intera classe sociale, che è quella egemone, è radi­calmente particolaristica e sostanzialmenie anarchica. Mentre nella prima verranno a maturazione quelle condizioni che ca­106

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ratterizzeranno la società definita col termine di democratico­borghese, culla delle libertà politiche civili e dei doveri di soli­darietà collettiva, e aperta ai processi di mobilità sociale, nella società italiana post-comunale si porranno le premesse per una società chiusa nei particolarismi, dominata da una strut­tura gerarchica e rigida di potere di classe, sede di una forma di dominio esercitato da poteri dinastici, italiani e stranieri, senza traccia di dialettica democratica, all’ombra della Con­troriforma e della morale gesuitica.Si comprende quindi bene perché Machiavelli, ispirandosi alla realtà concreta della società del suo tempo e ai tipi umani che vi operavano universalizzandone le caratteristiche, giun­gesse a una simile descrizione della “natura um ana”: “Perché degli uomini si può dir questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupi­di di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offeren­ti el sangue, la roba, la vita, figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; m a quando (il bisogno) ti si ap­pressa (ti si fa sentire) e’ si rivoltano” (Machiavelli 1963, p. 54). Quella “semplicità”, che il Machiavelli attribuisce al popo­lo, il vulgo, la sua miope obbedienza alle "necessità presenti”, che lo rende facile preda dell'inganno del principe astuto e spregiudicato, sistematico mancatore di fede sotto la veste del­le contrarie apparenze, Bonfantini, il curatore del testo, la de­finisce “immaturità, mancanza di coscienza politica e civile, usando una terminologia m oderna” (Machiavelli 1963, p. 58, nota 5). In realtà più che di immaturità, si tratta di una “diver­sa” maturità, prodotta dalla particolare struttura e composi­zione della società, dalla struttura del potere e dalle condizioni di vita dell’epoca in Italia, nelle quali era m aturata una data form a storica di m entalità, una certa cultura, incongruente con le esigenze degli sviluppi in corso nella società europea del tempo.Nella società e nell’etica descritte dal Machiavelli manca ogni obiettivo utopico: una società in cui la legge divina e il volere di Dio contribuiscano a un tempo al progresso econo­mico e alla solidarietà e all’ordine sociali, come nella visione riform ata dell’etica sociale. Il risultato ne era una sorta di “fu­ga dalla libertà", come teorizza il Guicciardini: “Non crediate a costoro che’ predicano sì efficacemente la libertà, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l’obbietto agli interessi particulari: e la esperienza mostra spesso, è cer­tissimo, che se credessino trovare in un stato stretto (privo di libertà) migliore condizione, vi correrebbono per le poste (col mezzo più veloce)" (Guicciardini 1953, p. 111).

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Il conform ism o costituisce l'atteggiam ento più adatto a una simile realtà sociale: "...dèi sapere che a te conviene tem­perare e ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi, e a quello indiriz­zargli” (Della Casa 1960, p. 369): una versione ante litteram deH’“altro interiorizzato" del comportamentismo moderno, a uso della società del tempo. Ne deriva ovviamente il rispetto delle norm e sociali indipendentem ente dalla loro qualità: "...ma conviene ubbidire non alla buona, ma alla moderna usan­za, sì come noi siamo ubbidienti alle leggi eziandio meno che buone per fino (fino a quando) che il Comune o chi ha potestà di farlo non labbia mutate" (Ibidem, p. 395). In quest’epoca trion­fa in Europa Tristano Martinelli, il prototipo di Arlecchino, il bergamasco gaglioffo che gabba il padrone: simbolo dell'Italia serva dello straniero, che si consola attraverso l’evasione sim­bolica (Braudel, in Storia d ’Italia, 1974, vol. n, p. 2183).Nel xvii secolo il processo di degradazione sociale ed eco­nomica si definisce in tutta la sua gravità. Gli equipaggi ingle­si e olandesi e i loro comandanti, animati da uno spirito duro e competitivo, sicuri dei loro diritti, parsimoniosi, impongonoil loro dominio nel Mediterraneo, battendo l'armatoria italiana sul suo stesso terreno, definitivamente (Ibidem, p. 2226).Se questo era lo spirito pubblico della classe dominante, non diverso era, in sostanza, quello delle classi subalterne. Per coglierne alcuni aspetti significativi bisogna far ricorso a un altro genere di fonti: le raccolte di proverbi popolari. Fra tutte, forse la più ricca è quella redatta da Giuseppe Pitrè per la Sici­lia (Pitrè 1981), nella quale vengono indicate le varianti regio­nali dei proverbi, che dimostrano tuttavia come il sapere che vi era contenuto non avesse un carattere puram ente locale, ma facesse parte di un patrimonio culturale condiviso, ben oltre i confini dell’isola, dal mondo popolare in Italia.Se i testi sulla morale borghese ricordati sono databili con precisione, questi fanno parte di un insieme, stratificato nei secoli, di esperienze distillate in sintetici enunciati, non esatta­mente databili, che rappresentano, oltre al prodotto genuino della classe contadina, anche l'apporto della cultura dominan­te in essi calata e sedimentata, in ragione di una certa affinità culturale fra le classi, pur nella loro diversa collocazione nella struttura gerarchica della società tradizionale.In questa composita realtà sono stati rilevati alcuni temi più significativi ai fini della conoscenza della mentalità popo­lare (Migani 1977-1978). “Prim a iu e po’ l’autri", prim a io e poi gli altri, dice un proverbio in tema di individualismo (Pitrè 1981, vol. il, p. 37), tem a sul quale le testimonianze sono ric­

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chissime: “Ognuno pensa al propriu guadagnu e si joca acussì a gabbacumpagnu” (Ibidem , p. 34), ognuno pensa al proprio guadagno e si gioca così al gabba compagno, che dice molto sui rapporti fra individui nella società popolare, nella quale re­gna sovrana la reciproca diffidenza: “Malidittu chidd’omu chi fida ’n tra 'au tru om u” (Ib idem , vol. n, p. 260), m aledetto quell'uomo che si fida di un altro uomo. “Lu Signuri i fici pri­ma la so varva, e poi chidda di l’autri" (Ibidem , vol. il, p. 31), il Signore si fece prima la sua barba e poi quella degli altri, e co­sì di conseguenza: “A tem pu di ficu, né parente né amicu” (Ibi­dem, vol. li, p. 21), dove, di fronte all’io, saltano anche i rap­porti prim ari della parentela, come si conferma in questo det­to: "Li veri amici e li veri parenti, su’ li quattro tari cun l'ali bianchi” (Ibidem , vol. in, p. 267), e cioè i veri amici e i veri pa­renti sono i quattro tari con le ali bianche (una moneta d’ar­gento), opinione condivisa da Giovanni di Pagolo Morelli, già ricordato, a testimoniare la diffusione generale di questa men­talità radicalmente utilitaristica e individualistica, e come di­mostra quest’altro detto: "Quannu s’ardi la casa di lu tò vicinu, porta l’acqua la casa tò” (Ibidem , vol. in, p. 387), quando va a fuoco la casa del vicino porta acqua alla casa tua, detto che abbiamo pure incontrato in Paolo da Certaldo.Ne consegue il rifiuto ad aiutare altrui: “Nu’ ’mpristari, nun prigiari, beni nun fari, chi mali ti nni veni” (Ibidem , vol. n, p. 51), non fare prestiti, non far regali, non far del bene, che te ne verrà del male, concetto ribadito in modo radicale da que­st’altro detto: "A cui fa beni ammazzalu” (Ibidem , vol. il, p. 19), ammazza chi fa del bene. E la qualità dello spirito comu­nitario bene si esprime in quest’altro proverbio: "Lu meu è meu, e chiddu de l’autri è comuni” (Ibidem , vol. il, p. 29), il mio è mio e quello degli altri è comune.Oltre a questo tratto culturale dell’individualismo utilitari­stico, un altro tratto am piam ente testim oniato è quello del conformismo e della tendenza aH’immobilismo: “Contintàm- musi di stu re, cà chiddu chi veni ’un si sapi come" (Ibidem , vol. il, p. 337), accontentiamoci di questo re, che quello da ve­nire non si sa com e, e ancora, “Si vui vuliti cam pali cuntenti, vutatevi darresi e no davanti” (Ibidem , p. 306), se volete vivere contenti guardate indietro e non davanti, "Bisogna suffriri lu statu prisenti pri nun aviri lu mali avvinili” (Ibidem , vol. in, p. 247), bisogna sopportare lo stato presente per non avere il ma­le futuro, “Si nun sì Re, nun fare liggi novi, lassa lu munnu co­rnu lu trovi” (Ibidem , vol. iv, p. 209), se non sei re non fare nuove leggi, lascia il mondo come lo trovi, “Li cosi comu su’ lassali stari, né ti pigghiari gatti a pittinari” (Ibidem , vol. iv,109

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p. 172), lascia stare le cose come sono e non ti pigliare gatte da pelare.All’immobilismo e conformismo si associa la subordinazio­ne: “La pronta ubbidienza è d’ogni virtù la simenza” (Ibidem , vol. in, p. 248), la pronta ubbidienza è seme di ogni virtù, “A lu tò signuri ed a lu Rè, bisogna mantinirci la fè" (Ibidem , p. 79), al tuo padrone e al re bisogna mantenerti fedele, “Bisogna jiri cu lu ventu” (Ibidem , vol. in, p. 288), bisogna andare secondoil vento, e infine il motto famoso: “Càlati, juncu, chi passa la china” (Ibidem , vol. ni, p. 247), abbassa la testa, giunco, che passi la bufera.In questo quadro in cui si esprime con tutta evidenza la fi­losofia della vita di una classe spietatamente sottomessa da un regime sociale iniquo, sofferto con rassegnazione e disincanto, l’unico centro di socialità appare quello costituito dalla fami­glia di sangue e dal comparatico: “Dici Santu Nicola, prima chiddi di dintra, e po’ chiddi di fora” (Ibidem , vol. n, p. 204), dice san Nicola: prima quelli di dentro e poi quelli di fuori, e ancora "Li parenti su’ parenti, e li stranii sempre su’ strami” (Ibidem , vol. il, p. 216), i parenti sono parenti, e gli estranei sempre estranei. “E difficile farsi un’idea,” dice il Pitrè, “della venerazione in che questo comparatico è tenuto presso il po­polo siciliano; e basta dire che per lo più esso vale quanto e più del sangue” (Ibidem , vol. il, p. 202), e questo appare chia­ramente da alcuni proverbi nei quali compare il nome di san Giovanni che è il santo protettore del comparatico: "San Gio­vanni nun si tradisci” (Ibidem , vol. li, p. 232), “Cui nun timi a Sa Giovanni mancu timi a Diu cchiù granni” (Ibidem , vol. n, p. 202), chi non teme san Giovanni, nemmeno teme il sommo Id­dio, col che si dà un valore sacro a una rete di rapporti che so­stituisce largamente quelli più ampiamente sociali. Al di fuori di questi centri di aggregazione sociale primaria, infatti, c'è il vuoto, in questa prospettiva culturale: “Cui pri li figghi d’autru s’ammazza, schiacciàtici la testa cu ’na mazza” (Ibidem, vol. il, p. 203), a chi si ammazza per i figli degli altri schiacciategli la testa con una mazza.In mancanza di studi organici, ci dobbiamo accontentare qui di questo breve e sintetico sondaggio sui tratti più caratte­ristici della m entalità borghese di quel tem po e della corri­spondente cultura popolare, sondaggio sommario, ma suffi­ciente a rivelare diverse cose. Innanzitutto ci dice che non esi­steva una radicale differenza nella morale sociale corrente del­le classi egemoni e di quelle subalterne, anche perché le élites intellettuali italiane del tempo, che avrebbero potuto stimolare un diverso processo culturale, si vennero sempre di più distac­110

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cando dai problemi della società intesa nella concretezza di tutte le sue classi, per specializzarsi nel servizio delle corti e dei principi, sia in Italia che all’estero, verso cui l’esportazione della cultura italiana nei secoli xvi e x v ii fu intensa e ricca. La funzione di intellettuale organico della società italiana fu as­solta invece efficacemente dal clero della Chiesa di Roma, nell’età della Controriforma, che certamente non si adoperò per far m aturare uno spirito pubblico diverso da quello indivi­dualistico e sottomesso, quale ci appare dai testi ricordati so­pra. E questo mentre le chiese e le sette riformate agivano in stretto contatto con vasti settori sociali di altri paesi europei e con i loro problemi, nel modo che si è descritto. Bisognerà quindi aspettare, in Italia, la seconda metà del x v iii secolo, pri­ma che il pensiero economico e politico-sociale, che si produs­se nei paesi in cui operò la Riforma, specie in Inghilterra du­rante quel periodo, con profonde influenze sulla società civile, facesse sentire la sua azione anche nel nostro paese.Quasi intatto rimase quindi ed egemone, fino a tempi re­centissimi, il patrimonio culturale tradizionale, che ebbe una parte im portante nella determinazione degli eventi della no­stra storia nazionale. Tale patrimonio non può essere conside­rato come la determinante esclusiva di tali eventi e dei feno­meni tipici che li caratterizzarono, che non possono essere di certo esaurientemente “spiegati” in termini di "carattere na­zionale’’, m a non fu certo ininfluente su di essi. Una certa mentalità pubblica è il prodotto di una combinazione storica di fattori: economici, sociali, politici e specificamente cultura­li, combinazione nella quale tale m entalità prende forma, in armonia e in relazione alle esigenze che quella combinazione stessa globalmente esprime. Ma una volta formatasi, e consoli­data in una certa guisa, tale mentalità diviene una realtà vi­schiosa e resistente, che sopravvive alle condizioni che l’hanno generata, e agisce a sua volta, come uno dei fattori rilevanti, negli eventi successivi, economici, sociali e politici. Il patrim o­nio di idee, di concetti, di modelli di comportamento e di pre­giudizi, di cui consiste, rivelando solo certi aspetti della realtà e altri invece mascherando, paralizzando così lo spirito critico e facendo perdere di vista i problemi nuovi, che richiederebbe­ro profonde riforme nel modo di pensare e di agire, si traduce in comportamenti volti a irrigidire le strutture e le istituzioni esistenti, che sono il modo di essere della realtà sociale.E n o n v i è d u b b io , p e r q u a n to r ig u a r d a la s to r ia d e l n o s t r o p a e s e , c h e la s o c i e t à i t a l ia n a d a l la f in e d e l xvi s e c o lo a l la f in e d e l x v iii , s u b ì u n p r o c e s s o d i a r r e s t o d i s v i lu p p o e d i s u s s e ­g u e n t e p a r a l is i , in p a r te n o t e v o le d o v u ta a l l ’a n a c r o n is m o d e l la

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tradizione culturale, quale si era formata nell’età di passaggio fra la fase della civiltà comunale e quella successiva delle si­gnorie e delle repubbliche aristocratiche, dei principati, e delle monarchie regionali.Questo patrim onio culturale si definisce per alcuni tratti caratteristici che gli danno il tono generale. Innanzitutto quel­la che, in linguaggio odierno, potremmo definire una diffusa asocialità, e cioè mancanza di solidarietà e di partecipazione sociale, al di fuori della ristretta cerchia delle famiglie e paren­tele, con un rifiuto totale addirittura rabbioso di ogni impegno morale o politico nell’interesse della collettività. Basta ricorda­re l’invettiva dell’Alberti contro la politica, e il detto popolare che invita a schiacciare la testa a chi si occupi dei figli altrui. E correlativam ente, per contro, l’esaltazione della famiglia quale centro esclusivo d’interessi e valori, con il suo corredo di rapporti clientelari, che trovano nell’istitu to inform ale del comparatico la loro più tipica manifestazione. Quanto sia resi­stente questa costellazione di tratti culturali e di norme socia­li, lo prova il loro sopravvivere a distanza di secoli nella so­cietà attuale, cosa che faceva dire a Leo Longanesi, acuto e spregiudicato critico della nostra società, che questa non era in realtà una vera e propria società, bensì piuttosto un insieme di famiglie.La politica fatta di gruppi e di fazioni, e la struttura cliente­lare del potere, calano in questo terreno le loro radici più profonde, così come quel diffuso stato d’animo che, con un neologismo, viene oggi chiam ato qualunquistico. Un altro tratto diffuso, in questo orizzonte tradizionale di cultura, è quello della tendenza alla subordinazione, all’accettazione del dominio come di un fatto di natura, e l’immobilismo fatalisti­co e rassegnato, più largamente testimoniato dai documenti della cultura popolare, ma tuttavia generale, come ricorda il Guicciardini parlando della “fuga dalla libertà” dei suoi tempi. L’insieme di questi tratti può essere definito col termine di ar­retratezza socio-culturale, non tanto perché si misuri in term i­ni di distanza da un moderno modello alternativo di vita de­mocratica, anche se questo è un fatto constatabile, ma soprat­tutto perché, con quel patrimonio di cultura, non si può gesti­re un grande sistema sociale complesso come sono le società d’oggi, percorso da correnti di idee, di interessi economici, di forze sociali, di messaggi di cultura, che trascendono i limiti dei villaggi, delle province e delle nazioni, e hanno dimensioni ecumeniche. Arretratezza socio-culturale, quindi, in quanto realtà anacronistica incompatibile con le esigenze del mondo moderno (Tullio-Altan 1986, pp. 22-50).112

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Dopo queste considerazioni è facile comprendere come la conseguenza negativa fondamentale di questo percorso di sto­ria fu la mancata formazione in Italia di una classe dirigente all’altezza dei suoi compiti, capace di esercitare la sua egemo­nia come classe generale.Solo in alcune regioni del paese si produsse entro certi li­miti qualcosa di simile, e a questo proposito va ricordata l’ari­stocrazia piemontese di origine feudale che fornì elementi at­tivi e fedeli al servizio della Corona nel campo civile e militare, preziosi nella fase risorgimentale. E in altro modo è pure da ricordare il patriziato veneziano che, nella sua storia millena­ria, seppe rappresentare al meglio gli interessi collettivi di uno stato sui generis, altamente organizzato ed efficiente sul piano m ilita re -n av a le così com e nelle is titu z io n i p u b b lich e e nell’economia, un patriziato dotato di un profondo senso dello stato e degli interessi comuni della Serenissima “sposa del Ma­re”, e soggetto storico di prim aria importanza per molti secoli in Europa e nel Mediterraneo. Ma nel suo complesso, e salve lodevoli eccezioni di singoli personaggi, l’assenza o quasi di una classe dirigente m oderna si fece sentire duram ente fino agli inizi dell’Ottocento quando fece la sua comparsa come ri­stretta minoranza sociale.Ed ebbe così inizio, a partire dalla fine del xv secolo, quel periodo di anonimato storico che si protrasse fino alla fine del x v iii . Un periodo di latenza e di assenza dalla scena mondiale proprio in quella fase della storia europea nella quale gli stati assoluti si arricchivano sul piano delle idee e della pratica po­litica di quelle valenze universalistiche dalle quali derivarono gli aspetti migliori delle moderne società democratiche, assie­me alle nuove forze sociali che ne furono le portatrici. Due se­coli di latitanza che pesano ancora profondamente nel presen­te, come fenomeno di lunga durata.

3. Il difficile rientro dell’Italia nella storia europeaIl rientro dell’Italia sulla scena europea fu promosso essen­zialmente dall’esterno. Fu Carlo ni di Borbone a Napoli, dal 1734, furono Maria Teresa e Giuseppe n in Lombardia, i Lore­na in Toscana, e ancora i Borboni a Parma, principi illumina­ti, a introdurre e legittimare nel paese le prime istanze di rifor­ma delle leggi e dei costumi. All’interno non mancarono peral­tro risposte e contributi originali da parte di ristrette ma pre­ziose élites intellettuali: il Muratori, il Giannone, il Beccaria, il Verri, il Genovesi e la sua scuola, il Galiani, il Filangieri. Ma

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furono soprattutto la rivoluzione francese e l’invasione napo­leonica dell’Italia e il regno m urattiano a Napoli a realizzare il reingresso del paese nella storia europea e a determinare la progressiva conquista di una sua autonoma soggettività.Se l’operazione politica di indipendenza e unità si concluse in tempi relativamente brevi, nonostante le sfortune militari, che fecero parlare dello “stellone d’Italia” come solo vero arte­fice dell'unificazione nazionale, assai più lunga, torm entata e difficile, e tuttora incompiuta, fu l’opera di costruzione di uno spirito nazionale democratico e unitario, vissuto come valore condiviso e vincolante: l’Italia era fatta, ma restavano da fare gli italiani, rilevò con assoluta pertinenza un osservatore come Massimo d’Azeglio.Come tutti sanno l’élite sociale italiana che portò a termine l’operazione politico-militare dell’indipendenza nazionale rap­presentava una minoram za esigua della popolazione, ed era costituita da elementi dell’aristocrazia e della borghesia di Pie­monte, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, e da un folto gruppo di esuli meridionali, che si riunirono attorno a due principali poli di aggregazione ideale: quello sabaudo e quello repubblicano. A Giuseppe Mazzini si dovette il modello ideale di nazione più moderno e avanzato, sul piano dei principi de­mocratici, dell’Europa del tempo.Di contro a questa straordinaria élite, che è entrata a giusto e pieno titolo nell’epos risorgimentale, che dovrebbe stare a fondamento di una com piuta e condivisa identità nazionale unitaria, si collocava la sterm inata maggioranza del mondo contadino e quei ceti che restavano legati ideologicamente e politicam ente alle istituzioni tradizionali delle m onarchie e dei principati pre-unitari, e al potere temporale della Chiesa, ceti che erano del tutto indifferenti o ostili di fronte a ogni ti­po di nuova autorità statale, quale essa fosse, chiusi nel loro particolare. La tragica vicenda della Repubblica Partenopea del 1799 che si concluse con il massacro di quel pugno di gia­cobini, che la ressero per meno di sei mesi, dopo la riconqui­sta di Napoli da parte dei "sanfedisti” e dei briganti al seguito del cardinal Ruffo, offre una rappresentazione emblematica del rapporto num erico delle contrastanti forze sociali impe­gnate pro e contro l’impresa unitaria, per lo meno ai suoi ini­zi, così come testimonia la distanza planetaria sul piano dei valori che esisteva fra di esse. Questo abisso culturale venne colmato solo in minima parte nel corso del xix secolo, senza mai venir meno del tutto neppure nei decenni che seguirono. E subito dopo l’unità fu all’origine di quell’aspro e sanguinoso conflitto che è stato impropriamente e riduttivamente definito114

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col nome di "brigantaggio”, che impegnò per una decina d’an­ni un centinaio di migliaia di soldati dell’esercito regolare, ol­tre alle formazioni ausiliarie, per essere represso, conflitto che oppose le forze dello stato a formazioni ribelli composte da bande brigantesche ispirate dal legittimismo borbonico e dalla Chiesa, e appoggiate da ampi strati della popolazione (Tullio- Altan 1986, pp. 40-46).Se noi guardiamo alla situazione del paese applicando il criterio dell’identità etnica e delle sue componenti strutturali possiamo dire che il nucleo prevalente di valore che caratteriz­zava, e ancora in parte caratterizza, la coscienza nazionale de­gli abitanti della penisola era quello del familismo e cioè del genos, nella forma della parentela genealogica di filiazione e in quella di affiliazione clientelare facente capo alle famiglie al­largate, una struttura vagamente tribale con mentalità partico­laristica, quale quella illustrata dai documenti che abbiamo ri­portato nel paragrafo precedente, con una distribuzione terri­toriale non omogenea che si accentuava nelle zone rurali e in quelle del Sud del paese. Mentre ciò che è stato chiamato con termine sintetico il demos, per indicare lo spirito democratico moderno, era presente in misura nettamente minoritaria, con prevalenza nel Centro-Nord della penisola e nelle città.L’adozione del sistema elettorale, anche quello a suffragio universale maschile, che venne introdotto solo nel 1912, e che avrebbe dovuto rivoluzionare in senso democratico la rappre­sentanza parlamentare, non fu in grado di sviluppare le sue potenzialità in una società nella quale permanevano, in misu­ra certamente maggioritaria, i relitti del passato tradizionale, con le sue caratteristiche di arretratezza culturale e sociale, anche se la decisione vaticana di escludere i cattolici dalla par­tecipazione alle elezioni politiche, col non expedit di Pio ix, re­se comunque possibile l’esistenza di un governo in grado di svolgere, nei primi decenni dopo l'unità, un’opera mirabile, date le circostanze, di costruzione del nuovo stato unitario. Ma la tecnica democratica di selezione elettorale della classe politica non poteva da sola supplire alla carenza generale di spirito pubblico, che si espresse sempre di più nel favorire l’ascesa politica di elementi nei quali il supporto di tipo clien­telare prevaleva sul fattore reale di merito e capacità. E così avvenne che, col passare del tempo, la qualità media delle rap­presentanze parlamentari si deteriorasse costantemente, dan­do vita a una forma ibrida di democrazia incompiuta di taglio clientelare, corruttrice e corruttibile, basata sulla pratica par­lamentare del trasformismo e sulla conseguente consuetudine del sistematico voto di scambio, praticato tanto sul piano indi­115

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viduale dei singoli parlamentari, quanto nei confronti di grup­pi di interessi particolari, attivi nel sociale a danno di quelli pubblici, spesso collegati a sfere malavitose, modello che trovò sempre maggior spazio di applicazione, fino ai giorni nostri, in forme sempre più crude e degradate.Vi furono due momenti nella storia parlamentare post-uni­taria nei quali la classe politica al potere si dimostrò all’altezza delle sue funzioni: e fu quello rappresentato dalla Destra stori­ca, giunta al governo nel 1861 per i suoi effettivi meriti risorgi­mentali e che per un quindicennio resse positivamente le sorti del paese, e quello rappresentato dagli eletti alla Costituente del 1946, per i loro meriti antifascisti e resistenziali. A entram ­be queste maggioranze di qualità seguirono una serie di leve elettorali, attraverso le quali fece la sua ricomparsa attiva, in modo crescente e spettacolare, quella gestione clientelare del potere che sem bra ancor’oggi la più congeniale allo spirito pubblico della maggioranza della società civile.In altra sede ho analizzato le varie fasi di questo processo di costante degrado della vita politica italiana post-unitaria e delle sue alterne vicende (Tullio-Altan 1986 e 1989). Qui posso solo aggiungere che vi è un filone di tragica continuità fra il compromesso con la camorra napoletana stipulato dallo stato tramite Liborio Romano, ex ministro borbonico passato dalla parte di Garibaldi nel 1860, per favorire l’ingresso senza diffi­coltà in Napoli del dittatore, e le forme moderne di collusione delle forze di governo della recente partitocrazia per risolvere casi spinosi, come quello del sequestro del democristiano Ciro Cirillo a Napoli, e numerosi altri non meno clamorosi e certi, in Sicilia e altrove.Un altro fatto va ricordato, il fenomeno dell’altemarsi nella storia della politica italiana, fin dalle sue origini, di fasi autori­tarie a fasi trasformistiche: dalla Destra storica, prefettizia e centralista per necessità di cose, al trasformismo clientelare della sinistra di Depretis; daH’autoritarismo assai meno neces­sario di Crispi e a quello reazionario di Pelloux, al trasformi­smo come arte di governo di Giolitti; daH’autoritarismo di re­gime di Mussolini, alla degenerazione clientelare-trasformisti- ca delle legislature ispirate al doroteismo democristiano, dege­nerate nella partitocrazia di “tangentopoli” e, dopo il suo cla­moroso fallimento, si apre oggi la prospettiva di un rinnovato ritorno a una fase autoritaria della pratica governativa, fase di cui sono presenti sintomi molto concreti, sui quali è opportu­no riflettere attentamente.In sostanza queste vicende sembrano dimostrare l’esistenza di un fattore per cui, in Italia, il sistema democratico parla-

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meritare non sia in grado di funzionare così come accade inve­ce nei paesi a democrazia compiuta, nei quali i suoi eventuali limiti e difetti, che il m utare delle condizioni storiche di volta in volta mette in evidenza, trovano modo di venire corretti, con procedure regolate di autotrasformazione a tal fine.Questo fattore di negatività viene per lo più indicato nelle deteriori caratteristiche della classe dirigente nel suo comples­so, e del personale politico in particolare. Il che è certamente vero, m a non basta a dar pienamente ragione del fenomeno. La qualità di una classe dirigente dipende infatti a sua volta da quella della cultura nella quale si è formata, assieme al resto della popolazione, dal suo spirito pubblico, dal suo ethos, con i suoi specifici valori, che sono, per i paesi di tradizione euro­pea occidentale, quelli ben noti della democrazia. Ora la parte­cipazione degli italiani al processo storico di maturazione di questi valori è stata, come si è detto, fortemente condizionata dalla peculiarità della sua storia, per la quale la società italia­na non ha direttamente vissuto le diverse fasi cruciali di tale processo. Non quella feudale, matrice dei valori di lealtà per­sonale reciproca fra signori e sudditi; non quella rappresenta­ta dalla costituzione degli stati assoluti, in cui la lealtà perso­nale si converte in quella collettiva nei confronti delle istitu­zioni, con il corollario dell’osservanza dei doveri civici, dell’or­dine sociale, e della fattiva collaborazione di tutti; non quella di maturazione dello spirito democratico e del rispetto dei di­ritti civili, che trasforma i sudditi in cittadini corresponsabili del bene comune.Questo difetto di esperienza storica in tem a di valori ha la­sciato un segno nella cu ltura sociale italiana, più o meno profondo nelle diverse regioni del paese, che presentano sotto questo profilo delle differenze, ma che è certamente esteso e condiviso, come risulta dai comportamenti collettivi e indivi­duali tipici del costume italiano contemporaneo.La carenza di spirito pubblico che ne è derivata nella so­cietà italiana è stata surrogata, da secoli, da un atteggiamento alternativo pervasivo, quello dell’individualismo familistico, matrice prim aria della struttura clientelare del potere in Italia, fonte della sua inevitabile degenerazione. La disattenzione se­lettiva della storiografia italiana su questo fenomeno, nono­stante il contributo di conoscenza offerto nella seconda metà del xix secolo dalla letteratura storico-critica del grande meri­dionalismo, legato ai nomi di Pasquale Villari, di Franchetti e di Sonnino, di Giustino Fortunato, di Pasquale Turiello, di Gaetano Salvemini, è stata all’origine di una vera e propria opera di rimozione del problema. Ne costituisce una convin­117

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cente testim onianza la reazione generalizzata di rigetto che suscitò al suo apparire la ricerca di E. Banfield sul “famili­smo” nella società italiana, soprattutto meridionale che, pur con certe ingenuità critiche, metteva direttamente il dito nella piaga (Banfield 1976).

4. L ’identità etnica in Italia: una polifonia dissonante?Conviene ora, prim a di affrontare il tema di questo para­grafo, ricordare alcuni punti essenziali del discorso già fatto circa l’identità etnica e le sue componenti. Si è stabilito che questa risulti dalla combinazione di una serie di elementi rea­li, trasfigurati in valori simbolici, che in un processo di lunga durata vengono a costituire il contenuto di autocoscienza di un popolo e la sua ragion d’essere come tale. Si è anche propo­sto che questi valori aggreganti siano rappresentati dalla me­moria storica degli eventi gloriosi che hanno presieduto alla sua unificazione e caratterizzazione come soggetto storico, il suo epos; dall’insieme di norme di vita associata e delle relati­ve istituzioni, il suo ethos; dalla lingua comune, il suo logos-, dal ceppo genealogico originario da cui discende o ritiene di discendere, il suo genos; e dal territorio sul quale vive, il suo

topos. Tre elementi di ordine culturale e due di ordine natura­le, trasfigurati in simboli di identificazione.Di questi, due sono essenziali e sempre necessariamente presenti, l’epos e l’ethos; uno, il logos, molto rilevante ma non sempre indispensabile; uno, il genos, essenziale nelle forme et­niche delle società preletterate, con la tendenza a perdere con­sistenza in quelle più avanzate sulla via della universalizzazio- ne dei valori etici; e uno, il topos, soggetto alle mutevoli circo­stanze storiche nelle quali un popolo si trova a vivere.Se noi teniamo presenti queste premesse nel discorso sul caso italiano dobbiamo osservare il fatto che, per quanto ri­guard a il p rocesso della sua un ificaz ion e , non si t ra t ta dell’evento di un passato secolare, ma di data recente, dovuto in modo quasi esclusivo alle qualità di un ristrettissimo grup­po di uomini politici che seppero sfruttare con grande abilità una congiuntura estremamente favorevole sul piano interna­zionale, con il concorso di un altrettanto ristretto numero di intellettuali che s’inserirono con un contributo originale nel movimento nazionalitario europeo, promosso dalla rivoluzio­ne del 1789 in Francia. Le sfortunate vicende militari che ac­compagnarono queste azioni politiche elitarie non furono ca­ratterizzate da quell’alone di gloria che costituisce invece per118

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le altre nazioni europee un dato simbolico centrale nell’epos nazionale, nel bene o nel male.Per quanto riguarda il contributo dato dagli italiani al pa­trimonio della civiltà universale con l’Umanesimo e il Rinasci­mento, che potrebbe costituire un elemento assai ricco di po­tenziale simbolico, in senso positivo, dell’epos nazionale, va fatto un discorso che guarda più al presente che al passato. E infatti tale patrimonio è vissuto come un autentico valore so­prattutto dagli stranieri, che da tutto il mondo vengono nel nostro paese per ammirarne i residui monumenti, viaggio da cui deriva una diffusa e motivata disistima per gli attuali de­positari di tale splendido legato perché, con la sua incuria e i suoi interventi deturpanti, la maggioranza degli italiani mo­stra in concreto e persuasivam ente, nei com portam enti, di non considerare affatto tale patrim onio un autentico valore primario, con grave danno della nostra attuale immagine di nazione.Per trarre legittimo vanto da un illustre passato bisogna poter dimostrare di esserne rimasti degni, almeno rispettando­lo, se non si può fare di più.Sulla bilancia dei valori storici positivamente integrabili nell’epos nazionale vanno posti invece lo sforzo tenace e i sa­crifici durissimi sopportati dalle esigue minoranze intellettua­li, operanti in tal misero contesto storico, per riscattare le sorti del paese: gli illuministi lombardi, gli eroici giacobini napole­tani e coloro che li ispirarono, e poi lungo tutto il xix secolo coloro che si dedicarono con successo all’opera di conquista di una nuova identità nazionale unitaria all’insegna della visione mazziniana e di quella dei grandi liberali italiani di cultura eu­ropea, del Nord e del Sud.Un particolare valore, sotto il profilo dell’epos nazionale, non sempre adeguatamente riconosciuto, va attribuito, quale con­tributo positivo all’immagine della nazione italiana nel mon­do, a quelle masse di lavoratori infaticabili che, tanto in pa­tria, quanto all’estero, si impegnarono senza risparmio sia peril proprio bene sia per quello comune delle società in cui ope­rarono; così come allo spirito geniale e coraggioso di intrapre­sa, che si richiama a una delle più antiche e nobili tradizioni nazionali. A questi uomini, e a coloro che parteciparono atti­vamente alla lotta civile e militare antifascista nella Resisten­za, e successivamente alla fondazione della Repubblica, nella Costituente, noi dobbiamo la ricostruzione nazionale e lo svi­luppo dell’economia nella prima fase del dopoguerra.Ma il punto in cui la debolezza dell’identità nazionale si ri­vela senza alcun dubbio più grave, è sul piano dell ’ethos, tanto119

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sul versante della moralità pubblica e privata, quanto su quel­lo delle norme e delle istituzioni nelle quali si concreta.Questa realtà etica deteriore ha assunto negli ultimi decen­ni la forma di un sistema politico partitocratico di tipo neo- clientelare, attraverso il quale le risorse pubbliche sono state in larga misura utilizzate a fini privati, onde consolidare l’assetto di potere esistente, e il cui personale politico si è formato per cooptazione attraverso canali elettorali nei quali trovano modo di inserirsi poteri malavitosi, capaci di influenzare così le strut­ture dello stato, fino ai livelli più alti; un sistema trasversale al­la struttura di classe che coinvolge, volenti o nolenti, soggetti dei più disparati ceti e categorie il cui destino dipende dalle de­cisioni e sovvenzioni, concessioni e privilegi elargiti dal potere politico; un sistema per cui la selezione del personale ammini­strativo viene portata a termine con criteri sostanzialmente as- sistenziali-clientelari, messi in atto sia nei confronti di singoli che di gruppi corporativam ente organizzati, che provocano una progressiva dilatazione, dequalificazione e inefficienza del­le strutture della burocrazia nelle sue diverse articolazioni, del potere esecutivo, giudiziario, della scuola, della sanità, dei tra­sporti e via di seguito, con un crescente peggioramento dei ser­vizi resi dalle pubbliche istituzioni, che funzionano a bassissi­mo rendimento e a costi altissimi, gravando, con le loro croni­che e crescenti passività, sul bilancio dello stato, incrementan­do quindi in forma esponenziale il debito pubblico, e sottraen­do così risorse per gli investimenti e per l’attività economica delle imprese non favorite; un sistema che lascia spazio a ini­ziative più o meno occulte di lobbies e potentati economici che intessono una fitta rete di rapporti con il potere politico e con settori di quello amministrativo, per ritagliarsi indebitamente fette di mercato protetto e garantito da appalti e concessioni, sottoposti a tangenti e balzelli, che si affiancano, in certe regio­ni, a quelli percepiti dalla malavita organizzata; un sistema nel quale la distinzione fra i poteri e gli organi costituzionali si so­no resi confusi, a causa dei vuoti di in izia tiva provocati dall’inerzia, per non dire paralisi, del sistem a legislativo e dell’esecutivo, vuoti che vengono riempiti da indebite surroga­zioni di organi non costituzionalmente competenti, creando si­tuazioni di conflitto all'interno stesso del sistema statuale fra gli stessi organi istituzionali che sprecano tempo, energie e mezzi per contrastarsi fra di loro, paralizzandosi reciproca­mente; un sistema che favorisce il crearsi di segrete colleganze e fraternità di interessi che coinvolgono soggetti appartenenti ai vari settori della vita pubblica, degli apparati dello stato e della società civile, nel tentativo di raggiungere obiettivi parti­120

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colari muovendosi in quegli interstizi, sempre più vasti e agibi­li, lasciati aperti dalle inefficienze pubbliche della vita naziona­le; un sistema che ha il risultato di ridurre drammaticamente il potere e l’autorità dello stato, al quale sfuggono oggi intere re­gioni del paese, ormai del tutto fuori controllo; un sistema che suscita una crescente e diffusa disaffezione per il mondo della politica, che favorisce forme di localismo esasperato, di riflus­so qualunquistico nel privato e di reazione ribellistica e violen­ta, che sono le due facce della stessa medaglia.In questo quadro generale che stiam o delineando, che si ispira al tipo ideale de\Yethnos, la lingua, come elemento di ag­gregazione etnica, ha recitato una parte certamente im portan­te, m a più che altro a livello delle élites colte delle classi supe­riori. È infatti soprattutto a questo elemento che si sono riferi­ti gli studiosi italiani della storia unitaria del paese e dei suoi costum i nel xix secolo, come Costantino Nigra, Domenico Comparetti, Alessandro Ancona, Pio Rajna che diedero inizio alle indagini sul folclore nazionale. E vero che i primi germi della sua originaria identità culturale furono posti dai poeti e dai letterati del "dolce stil novo” in cerca di un linguaggio co­mune per una nazione inesistente, ma suspicata e amata come si ama un sogno del futuro. Tuttavia una ricerca nella sola di­mensione della lingua non poteva rendere conto della com­plessità e multidimensionalità di fenomeni come quelli propri di un’etnia storica. E per giunta i pionieri ottocenteschi di queste indagini mancavano ancora degli strum enti necessari di studio che le scienze umane non avevano ancora elaborato. Si può osservare che la funzione della lingua letteraria ed eli­taria, derivata dal dialetto toscano, ha certamente contribuito a caratterizzare il senso di identità e di appartenenza a una nazione comune. Ma solo per quelle assolute minoranze che erano in grado di apprenderla e di usarla nel discorso corren­te, il che escludeva, come esclude anche oggi, nonostante i mezzi di comunicazione sociale, la maggioranza degli italiani, assai legati ai loro dialetti locali.Il tem a attuale delle cosiddette “lingue mozzate”, come ten­tativo fortemente polemico di recuperare dei dialetti, in con­trasto con il principio unificante della lingua nazionale comu­ne, è un chiaro sintomo di questa condizione, che si rapporta peraltro a un fenomeno non solo italiano, e che va considerato nel contesto dei processi di revivalismo di cui tratteremo più avanti.L’argomento del genos invece ha un peso assai più rilevante nella moderna caratterizzazione delYethnos italiano, soprattut­to in rapporto al demos, come insieme di valori universali de­mocratici.

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A proposito del genos va rilevato che si tratta di un valore che può essere concepito in due modi molto diversi a seconda che sia presente in una società etnografica o in una società m oderna complessa. Nel primo caso il genos è vissuto come trasfigurazione sim bolica di una realtà fattuale, costitu ita dall’insieme dei rapporti genetici di discendenza e dai vincoli matrimoniali che fondano la convivenza di un gruppo tribale: i rapporti di parentela e dì lignaggio vissuti come un valore miti­co. Nel secondo caso, quello delle società moderne complesse, il genos compare in una forma diversa, di carattere ideologico, che risulta da un’operazione di “invenzione della tradizione”, compiuta in funzione di un disegno politico di espansione e di dominio di un gruppo sociale - organizzato su basi statuali - nei confronti di altri gruppi concorrenti. In questo caso ci tro­viamo di fronte a raffigurazioni come quella del Volk tedesco, o della stirpe di Roma, nelle rispettive versioni nazionalsocialista e fascista, che rientrano neH'armamentario della propaganda di regime, e vanno considerati in tale prospettiva.Nella società italiana il genos sopravvive in una forma pe­culiare che non è quella autentica delle società etnografiche, né quella ideologica dei totalitarismi, perché deriva dal falli­m ento dello stato nella sua funzione storica di prom otore dell’unità del paese come nazione moderna. Nonostante le sue origini nei millenni di una storia complessa, questo valore ne­gativo sopravvive infatti là dove lo stato, nella sua edizione at­tuale, non è riuscito ad affermarsi come l’unica fonte di potere legittimo. Intere regioni in Italia sono state aggregate politica- mente allo stato, ma non alla cultura e ai valori su cui si fonda legittimamente, regioni in cui lo stato è presente quasi solo nelle vesti del fisco e del servizio obbligatorio di leva, ma non certo come attivo promotore di una più equa ripartizione delle risorse e delle possibilità di sviluppo. In conseguenza di ciò in quelle regioni si è prodotta una situazione peculiare: il vuoto lasciato dalla carenza di intervento dello stato nel colmare la distanza fra le due parti della società nazionale, quella favorita e quella emarginata, ha fatto sì che esso venisse riempito in buona parte da un potere alternativo a quello ufficiale, e basa­to sulla sacralizzazione dei rapporti di parentela e di tipo clientelare che, contrapponendosi allo stato ufficiale e legitti­mo, come fonte di potere autonomo, non poteva non assume­re, e ha assunto di fatto, un carattere illegale e malavitoso. Og­gi, grazie allo sviluppo mondiale dell’economia e delle tecnolo­gie, questo potere si è reso capace di controllare, sempre di fatto, intere regioni italiane, come già del resto era accaduto nel passato (Franchetti 1974; Tullio-Altan 1986, pp. 60-62).122

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È chiaro come l’etica familistica, impropriamente definita dal Banfield (Banfield 1976) “familismo am orale”, proprio perché espressione di una normativa morale sui generis forte e pervasiva, possa avere, e ha di fatto avuto, una notevole parte nel processo di degrado della classe politica italiana, in combi­nazione con l’etica particolaristica e chiusa agli interessi col­lettivi, di origine urbana, entrambe conseguenze, nel campo morale, della mancata partecipazione del paese alle rivoluzio­ni culturali e politiche del x v i i e x v i i i secolo.Per quanto riguarda il fenomeno del razzismo in chiave ideologica, anche per i millenari e molteplici contributi etnici dai quali è risultata la variegata e multiforme popolazione del­la penisola, si osserva invece che esso non ha avuto mai una presa profonda nella società italiana, e le attuali e sporadiche manifestazioni di intolleranza che purtroppo le cronache regi­strano, sembrano avere un carattere più che altro contingente, in cui si mescola una forma di mimetismo idiota di quanto ac­cade altrove, il timore di una pericolosa concorrenza sul m er­cato del lavoro, unitamente alle conseguenze di una più gene­rale crisi psicologico-culturale delle giovani generazioni nel mondo occidentale, che induce a reazioni di aggressività con­tro ogni disponibile capro espiatorio.Da ultimo ci rim ane da considerare, nel quadro generale dell'identità italiana, il topos, il mito della propria terra natia, l’attaccamento al suolo della patria come valore al quale sacri­ficare la vita. Dal modo nel quale gli italiani trattano il suolo natio, e cioè tutto quanto sta al di fuori delle m ura e delle so­glie della propria casa di famiglia, non sembra che attualmen­te questo sentimento sia molto sentito. Lo è stato di certo dalle élites ristrette che promossero l’impresa risorgimentale, e dagli irridentisti dei primi del secolo. Esso resta vivo soprattutto in coloro che le necessità della vita hanno costretto a lasciare le case in cui erano nati, per cercare lavoro altrove. Sentimento da rispettare e da apprezzare, anche se esso non ha una gran­de incidenza nel determinare gli atteggiamenti e i comporta­menti di coloro che sono rimasti in patria.Del resto, un mondo in cui ancor oggi i conflitti etnici per i confini dei rispettivi territori fanno milioni e milioni di vittime innocenti, il venire meno del culto esasperato e feticistico del territorio non può essere in alcun modo oggetto di critica.In conclusione due sembrano essere i pricipali punti deboli nel quadro generale qui descritto dell’identità etnica naziona­le: la carenza di senso dello stato e dei valori democratici e uni­versalistici sul piano dell ’ethos, e il sopravvivere abnorme di forme legate al principio del genos, in senso anacronistica­123

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mente tradizionale. Ma queste caratteristiche, assieme ad altre di carattere storicamente positivo, non si distribuiscono né so­cialmente né geograficamente in modo uniforme bensì combi­nandosi con altri aspetti peculiari da luogo a luogo del patri­monio culturale, e contribuiscono alla creazione di un insieme disomogeneo di valori, di una pluralità di voci che in molti ca­si produce conflitti e dissonanze. E per questo ho usato la me­tafora della polifonia dissonante, per caratterizzare la peculia­rità dell’identità etnica italiana, che ne fa qualcosa di intrinse­camente contradditorio, che disorienta gli osservatori, e susci­ta così reazioni di rigetto e al tempo stesso di attrazione e di apprezzamento, per la sua varietà e imprevedibilità.Questo singolare prodotto storico che è l’identità etnica ita­liana, è il risultato di un percorso centenario di cui si è cercato qui di tratteggiare in modo schematico solo le tappe cruciali. In quanto fenomeno storico la società italiana, come ogni so­cietà, rappresenta un equilibrio congiunturale di elementi na­turali, economici, sociali, politici e culturali, che si mantiene nel corso del tempo, con varia fortuna. Nel caso italiano si tra tta di un equilibrio instabile e mutevole di lunga durata, che presenta aspetti di pericolosa incoerenza, e al tempo stes­so di una tenace capacità di autoriproduzione. Da cui le co­stanti sorprese, gli inattesi “miracoli” - l’unità all'insegna dello "stellone d’Italia”, la ricostruzione economica del secondo do­poguerra, ma anche il fascismo dopo la conclusione della pri­ma - che rendono particolarmente difficile pensare a un pro­gramma di riform a radicale del paese, che ne elimini le tare antiche e profonde, realizzando finalmente l’obiettivo di una democrazia compiuta.Una delle caratteristiche peculiari di questo sistema di vita, fra le molte, è quella di essere capace di produrre delle élites di rara eccellenza, e di essere incapace di produrre vaste e quali­tativamente elevate forme di vita collettiva. Quasi si trattasse di un popolo ricco di intelligenze individuali e poverissimo di intelligenza sociale. Certo è che prima di proporre un qualsia­si programma di radicale riforma di una simile identità etnica - ammesso che ciò sia possibile - si tratta di guardarla final­mente per quello che essa è nella sua specifica natura, evitan­do le scorciatoie delle semplificazioni ideologiche, per metter­ne a fuoco i reali problemi e per proporre le relative soluzioni. Solo così si può sperare che le contraddizioni che la affliggono non pervengano alla sua autodistruzione. Perché il pericolo esiste e ha trovato espressione concreta nei programmi sepa­ratisti che interessano vasti settori della società italiana con­temporanea.124

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Detto questo àeìYethnos italiano, allo stato degli atti, va precisato un fatto. La configurazione simbolica di cui consiste si presta, così come appare oggi, assai male a garantire una salda unitaria identità nazionale come modello partecipato di valore, a causa delle vaste e gravi zone d’ombra della realtà di cui rappresenta la trasfigurazione. Ma la realtà Italia non si esaurisce nella dimensione simbolica àeìYethnos, che entra a far parte della sua peculiare cultura. Se non dimentichiamo infatti la lezione delle Annales dobbiamo ricordare che una realtà nazionale comprende, certamente, anche questo patri­monio culturale di qualità simbolica, ma assieme ad altri ne­cessari e attivi elementi, economici, sociali e politici, di cui consiste ogni aggregato umano avente il carattere di società storica determinata e autonoma. L’ethnos quindi non è tutto.Ora tanto le etnie quanto le nazioni, come formazioni sto­riche, sono da intendere come strutture-congiunture di più o meno lunga durata, come equilibri in movimento, perché ani­mati dalla creatività e inventività di coloro che li abitano, e cioè come percorsi storici in atto e non come realtà ontologi­camente e staticamente date. E per questa loro peculiare natu­ra, che distingue le società umane da ogni altra forma di so­cietà animale, esse si possono comprendere solo attraverso la conoscenza della loro storia.

Nella storia della società italiana, come abbiamo segnalato, il momento del passato come tradizione, intesa in una forma incompatibile con le esigenze di vita di una moderna società democratica, ha influito assai negativamente nel darle quella particolare caratteristica che si è descritta.Tale tradizione negativa infatti agì nel nostro caso, proprio come diceva Engels, quando sosteneva che “le m ort saisit le vif”, il “m orto s’impadronisce del vivo”. Ma il vivo, tuttavia, esiste in Italia e ha avuto, e può ancora riavere, una sua parte positiva da realizzare. Il nostro paese non è afflitto da un male senza speranza di guarigione, non sottostà inevitabilmente a un destino di morte per soffocamento ad opera del passato.Ciò che fu realmente vivo nella storia d'Italia, dopo la rag­giunta unità, può riassumersi in quei movimenti di pensiero e di azione che si ispirarono ai valori della liberal-democrazia, attivi nei decenni di fine secolo xix, assieme al filone del catto­licesimo liberale dei Lam bruschini, Capponi, Ricasoli, e a quello sociale, ispirato dai movimenti cattolici di origine rena­na dopo la Rerum Novarum di Leone x i i i , e alla socialdemo­crazia, che lentamente si veniva staccando dalla sua iniziale matrice anarchica, per far propria, con Filippo Turati, la ten­denza riform ista e um anitaria del socialismo. Questi movi­125

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menti esercitarono una preziosa azione formativa della co­scienza nazionale attraverso una m olteplicità di iniziative spontanee nei diversi campi della vita sociale, attraverso la scuola, l’editoria popolare, le associazioni di mutuo soccorso, le cooperative, le università popolari, le amministrazioni locali e via dicendo.Quest’opera preziosa che avrebbe potuto, attraverso una politica conseguente, costituire la via m aestra per fare di quel­la italiana una democrazia compiuta, venne sconvolta e prati­camente paralizzata dalla bufera ideologica di fine secolo, e del primo Novecento, all’insegna del nazionalismo, del massi­malismo socialista e dei diversi movimenti di avanguardia che portarono all’interventismo, al diciannovesismo, che seguì al traum a della prima guerra mondiale, concludendosi in Italia con il regime fascista.Le iniziative socio-culturali formative di fine secolo venne­ro così radicalmente spazzate via da questa vicenda depreca­bile.La democrazia formalmente restaurata tramite la Resisten­za e la nuova Costituzione, dopo la seconda guerra mondiale, non trovò modo di dare vita a un rinnovato processo di rifor­ma del costume nazionale, in ragione del fenomeno della guer­ra fredda e della cortina di ferro che paralizzò la dinamica po­litica dei partiti italiani, nonostante l’impetuoso processo di sviluppo dell’economia nazionale nel mercato intemazionale. E così il sistema politico italiano, senza possibilità di un ri­cambio rigeneratore della classe dirigente, degenerò progressi­vamente nel regime di “tangentopoli”, in quanto la società ci­vile, priva di anticorpi democratici attivi, non fu in grado di reagire creativamente, negando così ogni spazio al prodursi di una nuova religione civile nella vita del paese.Ma dopo l’imprevista e subitanea caduta della ideologia co­m unista che aveva avuto nell’Urss il suo punto di forza, e lo sviluppo di un processo di recupero dei valori democratici da parte del partito comunista italiano già da tempo in corso in Italia, sembra ora che si sia riaperta la possibilità di un rinno­vamento della situazione.In proposito ricordiam o brevemente: lo sm antellam ento del passato regime politico, ormai del tutto screditato, ad ope­ra di gruppi molto attivi della magistratura, da anni passiva, nel suo complesso, di fronte ai ladrocinii di stato e dei privati collusi. Il conseguente e ancora confuso processo di ristruttu­razione delle forze politiche, per ritrovare un contatto perduto con il loro elettorato congeniale, e per fronteggiare finalmente i reali e gravi problemi del paese. L’attivarsi di vasti settori del

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volontariato su singoli progetti, la cui attuazione era stata to­talmente disattesa e trascurata. L'ingresso nella vita politica - spesso in forma ancora inadeguata - di vasti settori di quella che era stata la passiva “maggioranza silenziosa” sulla quale aveva vissuto la partitocrazia.Si tratta per ora solo di segnali, che indicano tuttavia un inizio del processo di superamento possibile della situazione di stallo, nella quale il paese era caduto, ormai quasi senza più speranza di recupero.Il compito non sarà facile e richiederà tempi relativamente lunghi, anche perché larghi settori sociali - dipendenti, in quanto a privilegi, dal corrotto regime di potere di cui rim ­piangono il venir meno - stanno opponendo una tenace resi­stenza alla rigenerazione del paese, e le gravi minacce date dallo stato della finanza pubblica possono incidere negativa- mente sul processo. Ma se questo obiettivo richiede un forte impegno degli uomini di buona volontà, esso appare tuttavia oggi come un’utopia realizzabile.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Sereni (1972), sulle prime differenziazioni regionali in Italia, pp. 143 e sgg.;Bloch (1959), sul feudalesimo normanno in Italia, p. 282;Pirenne (1956), i normanni in Italia, p. 101;Le Goff (1974), sulle origini del particolarismo in Italia, pp. 2008 e sgg.; sulla feudalità italiana p. 2039;Tabacco (1974), sul feudalesimo in Italia, pp. 175 e sgg.;Vivanti (1974), sulla fuoruscita dell’Italia dalla storia europea, pp. 304 e sgg.;Braudel (1974), sulla forza come virtù nello spirito pubblico ita­liano, pp. 2097 e sgg.;Le Goff (1976), sulla mentalità mercantile italiana, p. 41;Chabod (1992), sulle origini della nazione e dello stato italiano, pp. 96-184;Tullio-Altan (1972), sulla formazione della coscienza nazionale in Italia, pp. 24-25;Tullio-Altan (1989), sul mito nazionale mazziniano, pp. 56-58;Rusconi (1994), sul mito della Resistenza, pp. 81-85;Cartocci (1994), sulla crisi degenerativa delle istituzioni e il venir meno del loro valore simbolico, pp. 67-74, sul prevalere conseguente

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del particolarismo sulla solidarietà, p. 75, sulla perdita del senso di legittimità dello stato, e la conseguente pedagogia negativa, pp. 200- 202, sulle nuove modalità della protesta sociale, sulle istanze separa­tiste e sull’influenza della Chiesa nella nuova situazione, pp. 120- 145, 205, sugli interrogativi attuali, pp. 208-209.Tullio-Altan (1989), sulla formazione della coscienza civile in Ita­lia a fine Ottocento, pp. 131-146; sulla bufera ideologica del primo Novecento, pp. 163-204; sul fascismo, pp. 205-269.

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7. Il revival etnico e le nazioni emergenti

1. Il revival etnico contemporaneoIl revival etnico è un fenomeno centrale nel panoram a in­ternazionale contemporaneo, e ha sorpreso gli analisti della politica per la sua intensità e diffusione, che smentisce la teo­ria - di ispirazione storico-evoluzionistica - sull’irreversibile corso del progresso lineare e necessario dei popoli sulla via del cosmopolitismo, che esclude ogni ritorno a forme storiche del passato.Non sono ovviamente mancate le ricerche sulle cause del revivalismo oggi, e R.L. Hall ne ha fatto un elenco: “la diffe­renza di accesso delle minoranze alle fonti del potere; le diver­sità di lingua, tradizioni e religioni fra i gruppi etnici; lo svi­luppo economico diseguale; la minaccia di estinzione di deter­minate etnie; l’attiva presenza di leadership capaci di mobilita­re le masse; la convinzione che la sopravvivenza naturale ne­cessiti di mezzi estremi; l’esistenza di forme tradizionali e ra­dicate di odio interetnico esacerbato da più recenti motivi reli­giosi, sociali, economici e politici; la situazione di privilegio di determ inati gruppi di potere in tem a di gestione dell’econo­mia; una certa m isura di tolleranza in rapporto ai fenomeni del dissenso” (Hall 1979, pp. 433-435).Quando di un fenomeno si enunciano tante possibili cause isolate o concorrenti, ciò significa in genere che non lo si è an­cora messo a fuoco nella sua autentica peculiarità. Ma se si tiene conto che ogni equilibrio storico, che assume la forma di un’etnia o di una nazione, è il risultato del concorso di molte­plici elementi costitutivi, economici, sociali, politici o cultura­li, i quali possono essere in conflitto fra di loro, tale moltepli­cità di cause possibili risulta in questo caso un fatto naturale;

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e tanto più l’evento che funge da detonatore ha un carattere drammatico, tanto maggiore è il numero di variabili che ven­gono implicate nel conflitto generale, sotto forma di fattori culturali, etnici o religiosi, che si associano a fattori economici (sottosviluppo) o a disuguaglianze nella distribuzione delle ri­sorse fra i singoli e fra i gruppi sociali. Nei casi estremi si può verificare, come di fatto è avvenuto per l’Urss, una vera e pro­pria implosione dell’intero sistema dalla quale riemerge una varietà di etnie che erano state da secoli integrate nella strut­tura imperiale, e che scelgono la separazione.Sta di fatto che la ricerca sulle singole o molteplici cause dei diversi casi di revival contemporaneo non può dare frutti validi se questi casi non vengono collocati nel contesto storico più vasto nel quale si sono prodotti. E nel caso europeo tale contesto è dato in modo particolare dalla situazione di crisi degli stati multietnici tradizionali e di quelli che si sono costi­tuiti sulla base dei trattati del primo e del secondo dopoguer­ra, come si è ricordato nelle pagine precedenti. Mentre nel re­sto del mondo il revival etnico si è avuto soprattutto in conse­guenza della decolonizzazione e della formazione di stati arti­ficiali, le cui componenti etniche non coincidevano con i con­fini politici intemazionalmente concordati per ognuno di essi, come avvenne in particolare in Africa già con i tra tta ti del 1885.

2. Il revival etnico in Europa, il crollo dell’Unione Sovietica e il melting pot negli Stati UnitiUn panoram a ampio e al tempo stesso dettagliato della ca­sistica europea di revivalismo e di separatismo è disponibile grazie alla preziosa opera di Anthony Smith (per maggiori ri­ferimenti al quale si veda la nota bibliografica di questo capi­tolo), per cui mi limito qui a toccare solo alcuni punti di carat­tere più generale, nel rispetto dell’economia di questo saggio. Uno di questi riguarda il principio sostenuto dal presidente Usa, W. Wilson, e poi accettato nel trattato di Versailles, secon­do il quale veniva stabilita la necessaria coincidenza fra le frontiere politiche dei nuovi stati indipendenti e le rispettive nazionalità e lingue. A questo proposito Hobsbawm (Hobs­bawm 1991, pp. 157-158) ha giustamente osservato che l’appli­cazione solo parziale e approssimativa di quel principio diede luogo alla costituzione di stati altrettanto multietnici quantolo erano state le formazioni imperiali dalle quali vennero sepa­rati, privandoli dei principi di unificazione di carattere simbo­

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lico, che per secoli erano stati elementi attivi di aggregazione delle etnie nell’ambito degli imperi: la lealtà dinastica nei con­fronti delle immagini carismatiche dei detentori supremi del potere imperiale in Austria e in Russia, e la religione islamica nell’im pero ottom ano, in seguito al movim ento dei giovani turchi.Le etnie del passato divennero quindi le nuove minoranze in paesi come la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania e la Jugoslavia, esposte spesso a procedure di espulsione violenta e di genocidio, come accadde a greci e arm eni da parte della Turchia nel 1913 e nel 1922, e come accade alle minoranze musulmana e croata nella Bosnia d’oggi. “Così che la nazione territorialmente omogenea risultò un programma che poteva essere opera esclusivamente di barbari, o se non altro, avveni­re solo con gli strumenti dei barbari” (Ibidem, p. 158).L’elemento discriminante fra gli atteggiamenti assunti dalle diverse etnie di fronte al problema della separazione pacifica o violenta, fino ai limiti del genocidio, è dato essenzialmente dal livello di coscienza democratica universalistica presente nel- ì’ethos delle singole etnie o nazioni, come esso si era definito nella sua concretezza storico-culturale per ognuna di esse. La cronaca contemporanea ci offre due esempi molto precisi in proposito: il comportamento tenuto dalle repubbliche ceca e slovacca nelle procedure civili e pacifiche della loro separazio­ne, e quello tenuto da croati, serbi e bosniaci musulmani nel caso della ex Jugoslavia. Qui il rispetto dei valori della tolle­ranza, della cittadinanza e delle libertà individuali e collettive appare del tutto assente.L’esempio di gran lunga più rilevante del revival europeo contemporaneo di nuove etnie miranti all’indipendenza dopo il secondo dopoguerra, è dato dalla vicenda dell’Urss, che si è conclusa con l’inattesa implosione dell’impero sovietico, dovu­ta in modo particolare alla sconfitta economica e politica subi­ta nel confronto con le potenze della Nato, che pose fine al progetto staliniano di imposizione, con il peso delle arm i e dell’ideologia, del predominio mondiale degli eredi del pansla­vismo russo.La politica interna della Russia moscovita si era basata sul principio francese dell’assimilazione politica e culturale delle minoranze etniche, utilizzando nell’amministrazione dello sta­to elementi provenienti da tutte le etnie dell’impero, a esclu­sione di quella polacca il cui spirito nazionale era così vivo da impedire qualsiasi collaborazione con il potere centrale (R. Ri­pes, in Ethnicity today, 1988, pp. 456-458).Ma già nel xix secolo l’atm osfera europea, segnata e dal

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movimento di indipendenza politica delle nuove identità na­zionali e dalle relative guerre, si era fatta sentire nelle mino­ranze etniche sottomesse al potere autocratico degli zar. Con la Rivoluzione di Ottobre, poi, e con la fondazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), e con il trattato federativo del 1923 voluto da Lenin, veniva teoricamente rico­nosciuto alle singole repubbliche il diritto di dissociazione dalla repubblica russa dom inante, d iritto che si estese dal 1924 al 1929, dopo la morte di Lenin, alle repubbliche tran­scaucasiche e all’Ucraina, alla B ielorussia, all’Uzbekistan, Turkmenistan e Tadzikistan.I gruppi etnici censiti furono in tutto 103, e tra questi i principali: gli ukraini, i bielorussi, i musulmani (divisi in più etnie per timore delle influenze panislamiche), i georgiani, gli armeni, gli ebrei (diffusi in tutto il territorio, ma soprattutto a occidente), i tedeschi (immigrati sotto Caterina il). Mentre gli estoni, lettoni e lituani ottennero lo statuto di stati indipen­denti che conservarono fino al 1939.II processo di disintegrazione dell’impero sovietico è tutto­ra in corso, ma quello che già si osserva riguarda, oltre al rie­mergere di tratti fondamentali della cultura tradizionale russa e dei suoi prodotti simbolici caratterizzanti, e al riemergere di correnti panslave decisamente aggressive, anche la tendenza al recupero di numerosi esponenti della nomenclatura comu­nista, sia nell’amministrazione dello stato sia nella gestione dell’economia statalizzata. Questo induce a riflettere su alcuni precedenti storici significativi, come il recupero della burocra­zia zarista da parte dei bolscevichi giunti al potere nel 1917 quando furono posti di fronte al problema della governabilità della immensa e complessa realtà russa. Non va dimenticato il fatto che l’impero russo dell'età degli stati assoluti nacque da un compromesso fra quella straordinaria realtà che è stata ed è l’identità etnica russa nelle sue componenti originali, e l’esi­genza di dare a questa realtà la forma di uno stato gestito con criteri di razionalità funzionale. E così anche oggi si avverte la necessità del tutto analoga di reintegrare, nella sua razionale efficacia, una struttura di gestione del potere adeguata all’im ­mensa e diversificata realtà della Russia e dei paesi che gravi­tano da secoli nella sua orbita, legati a essa come sono da una serie di interessi non solo economici. E quindi anche la neces­sità di fare ricorso, nella drammatica congiuntura in atto, a un personale professionalm ente addestrato sul piano tecnico a una simile funzione, pena la totale disintegrazione del secola­re equilibrio storico rappresentato dalla Russia e dai suoi sa­telliti.

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I sintomi di quanto serio sia questo rischio sono del tutto evidenti con il diffondersi della malavita organizzata, con la crisi alimentare e la paralisi dei servizi, soprattutto nel settore dei trasporti, con la disoccupazione dovuta alla chiusura degli impianti industriali obsoleti, e via dicendo.Una risposta a questi problemi non può essere data nei ter­mini di una com piuta democrazia parlam entare oggi, in un paese che non ne ha mai, nella sua storia, avuta esperienza al­cuna, se non in settori elitari di esigue dimensioni.La repubblica dei consigli dovette venire a patti con la realtà russa tradizionale e ne derivò l’Unione Sovietica come dittatura totalitaria. Ora è il momento del confronto del mo­dello democratico liberale con ciò che resta della tradizione russa, passata attraverso la fase della dittatura staliniana, ed è quanto mai azzardato fare una previsione sul suo esito.Nel resto d’Europa, salvo naturalm ente il caso della ex Ju ­goslavia, il problema delle reviviscenze etniche presenta un andam ento che si potrebbe definire cronico, come il caso dell’Ira in Irlanda, dell’Età nei Paesi Baschi, conflitti che si tra­scinano ormai da molti decenni, senza sostanziali novità, così come quello assai meno grave fra i fiamminghi e valloni in Belgio. Si tratta in questi casi assai più di fenomeni che sono il retaggio del passato storico, e dei relativi problemi, che non di situazioni conflittuali prodotte dalla dinamica di trasform a­zione e di innovazione degli equilibri politici continentali.In altri casi, fra i quali quello italiano, la comparsa di cor­renti che mirano a obiettivi federativi o confederativi o al limi­te separatisti, hanno un carattere assai più politico che non et­nico, in quanto risultano da un indebolimento dei governi cen­trali dei singoli paesi che non riescono più a mediare efficace­mente i conflitti fra le realtà regionali, e assicurare un ordina­to andam ento della gestione degli interessi comuni, da cui l’orientamento verso prospettive localistiche di politica inter­na, come surrogato per le carenze della politica centralistica. Questa situazione può coinvolgere settori sociali che Smith chiamerebbe “categorie etniche”, ma non etnie vere e proprie, in quanto non dotati di una compiuta e consapevole identità etnica, e ispirati da interessi corporativi o mossi da obiettivi di carattere prevalentemente culturale, nel senso della difesa dei mores tradizionali, e del patrim onio linguistico letterario e folclorico. E quasi mai mirano a soluzioni separatiste vere e proprie.Un caso particolare di revivalismo etnico, che si è prodotto al di fuori del continente europeo, ma sempre nell’ambito del­la civiltà occidentale, e cioè nel Nordamerica, riguarda il pro­133

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blema dei molteplici gruppi etnici che sono entrati a far parte degli Usa nelle varie fasi della sua storia, che mantengono viva la memoria storica delle loro etnie originarie, e sui quali esiste già una vasta letteratura, dopo i recenti movimenti di rivendi­cazione delle loro autonomie tradizionali. Qui ci limiteremo a considerare il problema dei loro rapporti con l’identità nazio­nale nordamericana, chiedendoci innanzitutto se essa esista, in base all’ideal-tipo di ethnos.Si può parlare di un’identità etnica americana del Nord? Certamente, in quanto esiste ed è ben definita. L’epos ne è fat­to iniziare, nel mito americano, con lo sbarco dei Padri Pelle­grini della Mayflower sulle coste orientali del continente nel 1620, e con la fondazione delle prime townships nel Massa­chusetts; nel secolo successivo esso si perfeziona nel ricordo del distacco delle colonie dalla madre-patria inglese attraverso la guerra di indipendenza e la costituzione del nuovo stato fe­derale a opera dèi Padri Fondatori; e si dispiega con la conqui­sta dei territori dell’Ovest, fino alle spiagge del Pacifico, cui se­gue l’episodio drammatico e sanguinoso della guerra civile fra il Nord e il Sud del paese, il poderoso sviluppo economico e sociale con le successive ondate immigratorie, la partecipazio­ne decisiva a due vittoriose guerre mondiali e la conquista del prim ato economico e politico internazionale nel mondo, un epos oscurato da due grandi ombre: il genocidio delle autocto­ne tribù indiane e la recente guerra perduta nel Vietnam. Tut­to questo fa intrinsecamente parte di una memoria storica che è m ateria simbolica fondamentale nei processi di accultura­zione delle successive generazioni di nativi e di immigrati.Ancora più significativo nella configurazione dell’identità etnica americana è il momento dell’ethos che si fonda in modo caratterizzante sull’apporto etico-culturale dei primi immigra­ti protestanti e puritani, fuggiti dall’Europa nel xvn secolo in seguito alle persecuzioni religiose, portatori di una morale ri­gorosa di carattere individualistico civile, basata sulla centra­lità della lettura e predicazione del testo biblico, ben distinta dall’etica cattolica personalistico-familistica con forte inciden­za dell’attività sacerdotale istituzionale e ritualistica. A questo taglio morale ben preciso si associa una altrettanto precisa tendenza a privilegiare la prassi politica basata sulla vita civile delle comunità locali, in un senso fortemente rappresentativo della volontà popolare, con l’elezione della gran parte delle ca­riche politiche, amministrative e giudiziarie, tendenza che si afferma anche nell’autonomia degli stati federati e nella for­mazione degli organismi di vertice: senato, camera dei rappre­sentanti e presidente, tutti elettivi. Allo stato assoluto di tipo134

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reuropeo si contrappone così lo stato democratico federale pre­sidenziale, in coerenza non solo formale con i valori universa­listici della moderna democrazia, non avendo dovuto, il nuovo stato, fare i conti con più antiche e vincolanti tradizioni istitu­zionali, come accadde per gli stati europei. E per questo il Tocqueville, nell’Ottocento, vedeva nella società am ericana l’esempio più compiuto di democrazia, come all’età nostra an­cora lo vede Hannah Arendt (Tocqueville 1982; Arendt 1983).Il significato simbolico della lingua inglese come valore ag­gregante non sembra essere negli Stati Uniti così preminente come lo è stato in molte nazioni europee sulla via dell’indipen­denza nell’Europa del xix secolo, per ragioni storiche e soprat­tutto perché lingua condivisa con modeste differenze da tutti i paesi del Commonwealth nel mondo, e ormai d'uso interna­zionale, dove ha sostituito da tempo il francese. Un problema assai più complesso si pone invece per il genos. Su questo te­m a sia l’etica cristiana in versione tanto cattolica quanto pro­testante, sia la filosofia giusnaturalistica, che è parte integran­te della visione democratica dei rapporti sociali, che qualifica Yethos statunitense, esaltano il principio dell’universalità del genere umano, al di là di ogni distinzione culturale, politica, sociale o di razza. Ma l’assunzione di questo principio univer­sale ha trovato nei fatti solo una parziale conferma nella storia sociale americana, tanto nel caso dei rapporti con gli indiani originari dei territori conquistati, quanto nel caso della legitti­mazione della schiavitù da parte di molti stati americani del Sud, per un lungo periodo, fino alla guerra civile della secon­da metà dell’Ottocento.La costituzione di fatto negli Usa di un’aristocrazia politica dominante, denotata con l’aggettivo Wasp {white, anglo-saxon, protestant) nel discorso corrente, testimonia dell’esistenza di un forte privilegio sociale concesso ai bianchi, di origine an­glosassone, e di religione protestante, nell’accesso agli alti gra­di della vita politica nazionale, e questo in netta contraddizio­ne con i principi ufficiali della morale pubblica. Il processo di riduzione di questa discriminazione sembra procedere con al­quanta lentezza. E questo ci porta direttamente a un tema og­getto da tem po di grandi dibattiti: la natu ra del fenomeno americano del melting pot, del crogiolo di razze e di etnie ame­ricano.Il confluire di ondate successive nel tempo e, per motivi di­versi, di apporti etnici i p iù vari dall’E uropa, dall’Africa, dall’America Latina, parte dei cui territori settentrionali ven­nero conquistati dagli Stati Uniti, e più recentemente dall’Asia e dal Pacifico, afflusso in corso ormai da due secoli, si è inne­

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stato in un assetto socio-culturale preesistente e ben consoli­dato e ha creato una situazione unica nel mondo di coesisten­za di molteplici etnie estremamente differenziate per razza e cultura in un quadro istituzionale estraneo a ognuna di esse, salvo per gli immigrati anglosassoni e in parte irlandesi.La teoria assimilazionistica è stata posta in questi ultimi anni in discussione dalla prova dei fatti, che hanno dimostrato la vitalità, e la resistenza dei vari gruppi etnici a lasciarsi omo­logare all’identità etnica am ericana. Là dove faceva la sua comparsa un numero anche ridotto di soggetti di una data et­nia, là si veniva costituendo ben presto una comunità aggrega­ta attorno ai propri valori identitari tradizionali. E nel corso del tempo le comunità così costituite, pur sviluppando aspetti dettati dalle necessità pratiche di adattamento sul piano socia­le, mantenevano tuttavia saldi i fondamenti culturali della lin­gua, di molti aspetti dell'epos e soprattutto del genos, mentre si creava, come nelle com unità nere, un nuovo epos, legato all’evento dell’immigrazione forzata e testimoniato da forme alte di qualità estetica. Col tempo si è venuta creando in que­sto complesso una gerarchia di fatto in relazione alla maggio­re o minore distanza culturale delle varie etnie in rapporto alla cultura del gruppo Wasp e ai suoi valori.Se la conservazione e riproduzione nel tempo delle diverse etnie del presunto melting pot, sia dipesa da un processo di au­toemarginazione parziale dalla maggioranza etnica dominante a difesa della propria identità, o sia il prodotto di un processo di emarginazione attiva da parte della maggioranza stessa a propria difesa, è un problema ancora aperto, allo stato delle conoscenze, nonostante la gran massa del materiale monogra­fico raccolto sull’argomento, e questo in buona parte per ca­renza di criteri interpretativi efficaci. Un’ipotesi di risposta a questo interrogativo potrebbe essere quella di un concorso in parallelo di entrambi questi motivi di fondo. Emarginazione e autoemarginazione potrebbero concorrere nella determinazio­ne delle tenaci sopravvivenze etniche, che si verificano in luo­go dell’assimilazione nel melting pot, che in tal caso più che un crogiolo sarebbe paragonabile a una serra.Ma la grande varietà delle forme etniche interessate rende assai discutibile per il momento ogni forma di teoria generale che possa valere per l’intero e complesso fenomeno, che varia anche da luogo a luogo, e in particolare fra il Nord e il Sud de­gli Stati Uniti. Al fine di fornire una più ampia base di cono­scenza su cui lavorare, l’analisi dei singoli gruppi sotto il profi­lo delle diverse componenti ideal-tipiche dell ’ethnos, e il con­fronto successivo dei dati comparabili così ottenuti, potrebbe136

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dare un maggior ordine e coordinamento alle indagini. L’iden­tikit comparato da luogo a luogo delle etnie in rapporto al mo­dello am ericano complessivo e dom inante, potrebbe forse chiarire alquanti problemi. Fra questi la natura dei fenomeni degenerativi, all’origine di comportamenti illegali, all’intemo delle singole etnie (la m alavita organizzata am ericana è in massima parte etnicamente caratterizzata); il tipo di reazione politica dei gruppi etnici nei confronti delle maggioranze, che appare assai differenziato, e altri ancora.Per completare il quadro dell’ideal-tipo americano di iden­tità etnica, resterebbe da trattare il tema del territorio, vissuto a livello di valore, come madre patria. E in questo caso viene in primo luogo alla mente l’epopea della progressiva conquista delle sterminate zone dell'Ovest intesa idealmente come “nuo­va frontiera” e come illim itata tensione verso sempre nuovi confini di civiltà, come immagine utopica di un futuro di co­stante progresso. Ma questo fa parte ormai della retorica pa­trio ttica più che dell'autentico patrim onio della tradizione americana, perché per quanto riguarda il territorio geografico, delimitato da due Oceani, l’Atlantico e il Pacifico, esso è stato da tempo completamente assicurato al dominio politico dello stato. E come esperienza simbolica compare soprattutto nella poetica trasfigurazione delle sue grandiose bellezze naturali.

3. Il revival postcoloniale. I problemi della decolonizzazione e le loro originiLa crisi che ha investito i paesi usciti dal dominio coloniale nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale e le terri­bili difficoltà da essi incontrate per dare una base stabile alla loro condizione di indipendenza, sono derivate da molteplici fattori. L’uno di questi, il più influente, sia in sé sia per le sue conseguenze sulle società indigene, è dato dall’estensione ai paesi ex coloniali dell’economia mondiale di mercato con le sue leggi spesso incompatibili con le procedure delle econo­mie locali tradizionali, basate sulle unità domestiche di produ­zione per la sussistenza e le peculiari m odalità di scambio, economico e rituale, nell’ambito dei sistemi di parentela. Un esempio fra tutti: la maggior parte delle società africane sono state caratterizzate, o lo sono ancora, dalla centralità assoluta del sistema di parentela e delle sue articolazioni strutturali, controllato dal gruppo generazionale degli anziani. Uno dei mezzi più efficaci per esercitare il controllo sociale in quelle società è dato dal cosiddetto “prezzo della sposa” e cioè da

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quel patrimonio di capi di bestiame che la famiglia del futuro marito deve offrire alla famiglia della sposa come compenso per la perdita della donna ceduta in matrimonio. I capi dei li­gnaggi, che detengono la disponibilità di questo bene simboli­co e che ne fanno uso con criteri politici per stabilire utili al­leanze all’intem o delle comunità, riescono così a consolidare e garantire il loro tradizionale primato nella vita di gruppo e al tempo stesso l’ordine sociale. Da quando l’economia di merca­to ha introdotto in quei paesi le imprese agricole estensive di piantagione e le industrie minerarie con lavoratori indigeni sa­lariati, dando ai giovani maschi la possibilità di acquistare in modo autonomo sul mercato il bestiame necessario per offrire il “prezzo della sposa”, svincolandosi così dal potere degli an­ziani, l’intero equlibrio tradizionale della comunità tribale, ba­sato sul primato economico e politico e sociale degli anziani, ne è stato sconvolto.Questo, del "prezzo della sposa” e delle sue conseguenze, è un esempio particolarmente significativo, per il fatto che ri­guarda un fenomeno che Marcel Mauss ha chiamato “fatto so­ciale totale”, al prodursi del quale concorre tanto la dimensio­ne economica del modo di produzione, quanto quella sociale, culturale e politica. Ma anche sul piano puram ente economico l’economia di mercato ha avuto un effetto distruttivo sulla tra­dizionale forma di produzione e distribuzione di beni, fondata essenzialmente sul soddisfacimento di bisogni primari, sia in­dividuali sia collettivi, introducendo la logica della domanda e dell’offerta come determinante dei prezzi, che ha rivoluziona­to la pratica dei consumi, e la struttura stessa delle unità do­mestiche di produzione e di autoriproduzione.Questo sconvolgimento, unitamente alle sfavorevoli vicen­de climatiche che hanno catterizzato le zone subtropicali afri­cane in questa fase storica, sono all’origine di quelle caotiche forme di migrazione di massa che stanno coinvolgendo pro­gressivamente i paesi economicamente sviluppati del resto del mondo.Un fattore che ha ulteriormente aggravato la situazione dei paesi ex coloniali, dovuta al vuoto politico creatosi per la mes­sa in crisi del sistema di parentela, è dato dal tentativo di col­marlo con l’introduzione dal di fuori, senza preparazione alcu­na, di metodi form almente democratici di formazione della classe dirigente indigena, o con l'adozione di regimi che si ispiravano ai modelli delle due potenze concorrenti sul terre­no dell’espansione dell’ideologia socialista in campo interna­zionale, come l’Urss e la Cina rivoluzionaria di Mao Tse Tung. Ne derivarono così form e di d itta tu ra m ilitare che hanno138

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riempito le cronache di questi ultimi decenni con le notizie delle loro efferatezze.Si aggiunga che a partire dalla metà degli anni cinquanta, in epoca di guerra fredda, si venne creando sul piano intem a­zionale una complessa situazione politico-ideologica, per il combinarsi dei momenti di protesta delle etnie profondamen­te travagliate da questi eventi, con i movimenti ideali di ten­denza libertaria e socialista della cultura politica dei paesi di tradizione liberal-democratica, e con l’ideologia ambiguamen­te internazionalista dei paesi a regime totalitario, nel più vasto ambito del cosiddetto movimento del Sessantotto. Si produsse così un clima assai poco favorevole a una presa di coscienza critica della realtà sconvolta alle radici dei paesi del Terzo Mondo, un clima fortemente ideologizzato e orientato verso la lotta arm ata assai più che verso uno studio meditato dei gra­vissimi problemi che si erano aperti in quegli anni e delle loro possibili soluzioni.L’asprezza del conflitto di ideologie e degli scontri sociali e militari che ne seguirono parve oscurare i reali problemi dati dai fenomeni degenerativi dei paesi ex coloniali, che passaro­no in secondo piano di fronte alle esigenze prim arie della guerriglia, che si alimentava dal commercio delle armi, favori­to da potenti interessi finanziari intemazionali e dai riforni­menti delle fabbriche d’armi dei paesi dell’area comunista.Alla radice dei molti errori che vennero compiuti allora, sta una diffusa e condivisa situazione di ignoranza negli attori della politica mondiale, tanto di parte sovietica quanto demo­cratico-occidentale, su che cosa significhi un raggruppamento etnico fondato sul primato del genos. Introdurre in modo arti­ficiale frammenti di un sistema democratico rappresentativo - che è il frutto di un processo secolare nel quale si è gradual­mente prodotta quella prassi elettorale che si esprime attraver­so la concorrenza ideale e politica fra partiti - entro comunità etniche basate sulla sacralizzazione dei rapporti di parentela, costituisce un’operazione di grande astrattezza, dalle conse­guenze tragicamente fallimentari, così come doveva necessa­riamente accadere per il tentativo di costringerle negli schemi ideologici del “socialismo reale”.Con questo non si vuol certamente sostenere che il regime coloniale tradizionale fosse in queste circostanze una valida alternativa a simili forzature, ma per intendere meglio la com­plessità della situazione è necessario non dimenticare che si son date diverse forme di politica coloniale che ebbero nei di­versi paesi conseguenze differenti, di cui va tenuto conto.Come è noto il fenomeno storico della colonizzazione, di139

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cui trattiam o in queste pagine, ha avuto origine, dalla fine del xv secolo in poi, in seguito allo sviluppo della tecnologia della navigazione transoceanica, che rese possibili i grandi viaggi di esplorazione della superficie della terra, e uno scambio sem­pre più intenso e diffuso di merci per via marittima, dopo la scoperta dell’America. Le potenze europee direttamente inte­ressate a questa vicenda furono quelle rivierasche dell’Oceano Atlantico: Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra e Olanda, cui si debbono i primi insediamenti sulle coste atlantiche delle due Americhe e dell’Africa. Da questi insediamenti nacquero quelle colonie europee molte delle quali, dalla seconda metà del Settecento in poi, vennero gradualmente acquistando la lo­ro indipendenza dagli stati metropolitani d’origine, dando vita a una varietà di stati nazionali, che si differenziano tra di loro in ragione della maggiore o minore incidenza dei valori demo­cratici nella storia del loro processo di formazione, così come era accaduto in Europa, dove la differente presenza del demos caratterizza la differente qualità delle risposte ai conflitti inter­etnici date dai paesi a democrazia incompiuta, in rapporto a quelli di più antica e salda tradizione democratica. Con la co­stituzione nel Nord, nel Centro e nel Sudamerica di tali nazio­ni indipendenti si concluse la prima ondata della colonizzazio­ne europea oltreoceano.La seconda ondata, che più ci interessa qui, si produsse dalla seconda metà del Settecento, con la statalizzazione delle diverse Compagnie europee delle Indie occidentali e orientali, inglesi, francesi e olandesi, e con la graduale estensione della colonizzazione dell’Africa subsahariana, fino a quel periodo toccata solo sul fronte atlantico dalle colonie portoghesi, e dal­la tratta degli schiavi esportati nelle piantagioni americane.In questa seconda fase si manifestarono alcune differenze nelle politiche seguite dalle varie potenze interessate alla nuo­va e alla più antica espansione coloniale in Africa ed Estremo Oriente.Se le primitive forme di colonizzazione delle Americhe si produssero all’insegna dello sfruttamento e della rapina, spes­so accompagnati da pratiche di vero e proprio genocidio, esse cedettero il posto in questa seconda fase a una politica orien­tata al fine di uno sfruttamento più razionale delle risorse lo­cali, che non venisse compromesso da un eccesso di disordine

sociale e di turbolenze nella popolazione indigena. A questo fi­ne era necessario mantenere rapporti, in certa m isura accetta­bili, con i detentori tradizionali del potere locale, anche per­ché nella nuova forma di colonizzazione, alle ragioni econo­m iche e com m ercia li del p assa to si era agg iun ta quella140

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dell’importanza strategica di determinati territori nel quadro della politica di potenza della fine del xix e dell’inizio del xx secolo. Da questo insieme di motivi aveva preso forma l’asset­to coloniale africano riconosciuto dalla conferenza di Berlino del 1884-1885.Il governo britannico adottò così il sistema del dominio in­diretto, tramite i potentati locali posti sotto controllo inglese, e con il supporto di ridotte forze militari; e la Francia mise in pratica il metodo dell’assimilazione culturale, all’insegna della francofonia e grazie a un sistem a scolastico efficiente. En­trambe queste forme resero possibile la formazione di élites indigene che si dimostrarono capaci di esprimere personalità quali Sekou Touré, Senghor, Kwame Nkrumah, Jomo Keniat- ta, Nyerere, che si mostrarono all’altezza delle pesanti respon­sabilità che si assunsero nella delicata fase del trapasso dal re­gime coloniale all’indipendenza dei loro paesi.Diverso fu invece il caso delle colonie belghe e di quelle olandesi (boeri), dove una politica restrittiva si oppose tenace­mente ad analoghi processi di formazione di gruppi dirigenti indigeni, con le gravi conseguenze che si conoscono. Ma nem­meno le forme di colonialismo tem perato francese e inglese potevano affrontare alle radici il problema reale e concreto posto in Africa, in m odo partico lare , dall’incom patib ilità dell’economia di mercato e delle sue leggi di razionalità fun­zionale nei confronti del sistema sociale ed economico fonda­to sulla sacralizzazione dei rapporti di parentela. Questo pro­blema irrisolto ha contribuito in modo decisivo al venir meno del sistema coloniale in Africa, sistema che anche in Asia, per motivi diversi, presentava ormai un costo troppo alto per esse­re sopportato dalle potenze coloniali sul piano economico e militare, per il mantenimento dei loro domini. Il tentativo de­gli Stati Uniti di prendere la successione dei francesi in Indo­cina nel secondo dopoguerra ne è stata una evidente dim ostra­zione.Ma il caso africano resta emblematico nel quadro della no­stra analisi circa la possibilità di immaginare una via d’uscita dal vicolo cieco della incompatibilità fra tradizione e innova­zione nelle nuove società postcoloniali. Per questo non basta­no infatti interventi di ingegneria costituzionale o di tecnolo­gia applicata alla produzione agricola o industriale, ma si tra t­ta di incidere nella stessa vita sociale a livello dei valori etici di convivenza, cosa che richiede il concorso di personalità politi­che che si siano formate in quelle culture, siano dotate di fan­tasia etica e di una autentica partecipazione al mondo simbo­lico nel quale sono chiamate a operare. L'esperimento in corso

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oggi in Sudafrica grazie a personalità come Nelson Mandela e al suo interlocutore di origine boera De Klerk, m erita tu tta l’attenzione e l’appoggio appassionato dell’opinione pubblica responsabile, perché dal suo esito felice potrebbe derivare un modello di politica interetnica di rilevanza mondiale.

4 .1paesi del continente asiatico nel mondo contemporaneoSe per una buona parte delle popolazioni africane subsaha­riane si pone in primo piano il problema grave e ancora inso­luto della conciliazione fra economia di mercato e strutture sociali tradizionali, altri sono invece i problemi che riguarda­no il rapporto fra i paesi di antica civiltà dell’Asia contempora­nea e il mondo occidentale. Non è in questo caso in gioco una maggiore o m inore incidenza del genos, m a una differenza qualitativa nell'ambito dei valori simbolici dell 'ethos e delle forme religiose nei loro riflessi sulle diverse società.Abbiamo ricordato come già dalla metà del i millennio a.C. il filosofo Confucio avesse elaborato una dottrina sociale in cui si esprimeva una visione della vita eminentemente razio­

nale e ispirata a criteri di efficienza e di senso del dovere degli organi amministrativi, che avrebbe costituito per i secoli futu­ri, e resta tu tt’ora, l’asse portante della civiltà cinese. Mentre la metafisica e il senso mistico religioso si esprimeva in Cina nel­la visione filosofica di Lao Tse, e poi nella versione cinese del buddhismo Chang, la scuola confuciana codificava una prassi già m aturata nei secoli precedenti nell’esercizio dell’attività di governo delle dinastie imperiali che, in contrasto con i bellico­si feudatari, si erano impegnate nella costruzione di uno stato assoluto, contemporaneo a quello imperiale di Roma, e prece­dendo di millecinquecento anni la creazione degli stati assolu­ti europei, fondati su principi di razionalità funzionale.Si può quindi comprendere bene perché la Cina fu per se­coli, e lo rimane ora, al centro della storia dell’Estremo Orien­te, sia per la sua sterminata estensione geografica, sia per la sua popolazione numericamente senza confronti nel mondo, sia per la sua struttura statuale, esercitando un’influenza deci­siva sui territori limitrofi situati sulle coste asiatiche del Paci­fico, e sul Giappone.La storia di quest’ultimo paese è particolarmente significa­tiva in tem a di identità nazionale perché appare sotto questo profilo straordinariam ente ben caratterizzata, nonostante la varietà dei contributi etnici dal cui concorso il Giappone è ri­sultato: gli autoctoni ainu, gli apporti coreani, cinesi e indoci­

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nesi, oltre a quelli polinesiani; mentre sul piano simbolico la tradizionale religione shintoista di tipo etnico si combinava con la versione giapponese del buddhismo cinese Chang, dan­do vita allo zen, e a una morale aristocratico-cavalleresca con singolare affinità con quella medievale europea, il bushido. La capacità del Giappone di assorbim ento, rielaborazione originale e assim ilazione dei m olteplici apporti cu lturali esterni per fam e elementi costitutivi della propria identità na­zionale del tutto specifica e duratura, non ha confronti col re­sto del mondo.Un episodio della storia giapponese è sotto questo profilo assai istruttivo. Il Giappone si aprì nella prim a metà del x v i i secolo all'influenza dei m issionari cattolici provenienti dal­l’Europa, ma questi diedero luogo ben presto a vivaci turbo­lenze nel Sud del paese, mettendo l’uno contro l’altro i signori feudali del luogo, da cui un decreto imperiale del 1639, con il quale non solo vennero eliminati gli agitatori cattolici che ave­vano fomentato i disordini, ma si dispose la chiusura di tutti i porti del paese alla navigazione verso i paesi oltremare, per impedire che qualcosa di simile potesse ripetersi. Ma durante gli oltre due secoli di totale isolamento, il governo imperiale lasciò aperto nel porto di Nagasaki un pontile destinato ad ac­cogliere, una volta all’anno, una nave di mercanti olandesi di religione protestante giudicati meno pericolosi dei cattolici sotto il profilo dell’ordine pubblico, ai quali veniva commissio­nato di anno in anno un rifornimento costituito da strumenti scientifici e da trattati della stessa natura, per mantenersi ag­giornato sullo sviluppo dell’attività scientifica del mondo occi­dentale. Il blocco durò fino al 1854 quando il Giappone cedet­te alle pressioni esercitate dagli Stati Uniti per la riapertura dei suoi porti allo scambio delle merci, con l’invio delle sue navi da guerra davanti al porto di Yokohama, sotto il comando del commodoro Perry. Da quel momento ebbe inizio un feno­meno che presenta aspetti straordinari. Dopo pochi anni, nel 1868, si produsse in Giappone, paese a regime feudale, una ri­voluzione culturale, politica ed econom ica, la rivoluzione Meiji, grazie alla quale il paese, con le sue nuove industrie pe­santi, fu in grado di armarsi al punto di sconfiggere l’impero cinese nella guerra del 1894-95, e lo stesso impero russo, per terra nella battaglia di Mudken e per mare in quella di Tsushi­ma, nel 1905, esattam ente cinquant'anni dopo essere uscito dal suo medioevo feudale (Panikkar 1958).Una simile capacità di autotrasform azione e di sviluppo, che non ha paragoni storici per la rapidità in cui si produsse, non può essere spiegata solo con il rifornimento annuale di li­143

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bri e strumenti nel porto di Nagasaki, ma da fattori culturali di ben più antica data, che hanno agito non solo nel caso del Giappone, ma che riguardano l’intera area dell’Asia estremo­orientale, e che andrebbero meglio conosciuti sul piano storio­grafico.Sullo sfondo di questi eventi si delinea infatti l’attiva pre­senza della Cina la cui storia, come stato in via di costituzio­ne, precedette di almeno duemila anni quella del Giappone, e irradia ancor oggi la sua influenza su tu tta l’Asia estrem o­orientale, da circa quattro millenni. Il popolo cinese è anch’es- so caratterizzato da un’identità etnica estremamente ben ca­ratterizzata in tutte le sue componenti ideal-tipiche, m antenu­ta, arricchita e difesa in circostanze assai più drammatiche e difficili di quelle della storia del Giappone, protetto dalla sua insularità, di contro alle decine di migliaia di chilometri di confini della Cina, esposta da sempre sul fronte terrestre ad attacchi ininterrotti. Le sue capacità di assimilazione e assor­bimento di etnie diverse, soprattutto mongole, la salvarono co­m unque dalla deculturazione, anche quando queste ultime giunsero alla conquista del trono imperiale nel xin-xrv secolo, seguite dalle tribù tunguse dei manciù, che lo detennero a par­tire dal xvii fino ai primi anni del xx secolo.La sapienza amministrativa e l’intraprendenza economica della Cina, che si fece sentire oltre i suoi confini sui popoli cir­costanti, e l’attività delle sue colonie di mercanti stabilite in Indonesia e nel Pacifico nel corso del tempo, diffusero, attra­verso l'esempio, una mentalità orientata in senso razional-fun- zionale, che può almeno in parte spiegare come in quelle zone del continente asiatico la penetrazione dell’economia di mer­cato abbia trovato un terreno più favorevole che in altre regio­ni dell’Asia centrale e occidentale, come la storia contem pora­nea dimostra oggi sempre più chiaramente.Anche gli eventi dram m atici di questo secolo rivelano in Cina l'operare originale di una razionalità storica peculiare, certamente diversa da quella occidentale, in quanto vi è assen­te quella dimensione di valori democratici che la caratterizza­no, ma che mostra tuttavia una sua propria logica, commisu­rata alla grandiosità dei problemi posti dalla gestione della sua così vasta realtà um ana e territoriale, e della quale si potrà dare un giudizio storico pienamente fondato solo quando ne saranno evidenti i risultati futuri.Un panoram a m olto diverso ci viene offerto in Asia da un’altra forma storica di civiltà, di dimensioni subcontinentali e costituita da una miriade di comunità etniche differenti: l’In­dia. La sua storia comincia a essere conosciuta con la discesa,

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agli inizi del il millennio a.C., delle popolazioni arie, indoeuro­pee, dalle loro sedi caucasiche originarie, attraverso la valle dell’Indo, nelle pianure settentrionali della penisola, per esten­dersi gradualmente verso il Sud, sovrapponendosi come ari­stocrazia dominante a una popolazione di pelle scura, i mun- da e i dravida, di cui ben poco si conosce, data la povertà di testimonianze archeologiche, e che costituì in buona parte la base sociale contadina delle innumeri comunità di villaggio.L’identità etnica dell’India ariana è riccamente documenta­ta dai testi, trasmessi oralmente per secoli, dell’epos militare e mistico-religioso (i libri del M ahabharata e della Bhagavad-gi- ta) di alta qualità poetica; dalla lingua sanscrita in cui questi poemi furono immaginati e cantati, come tutti i sacri testi del­la poetica e dell’etica religiosa, e che fu ed è fino a oggi la lin­gua dell’aristocrazia dom inante sovrapposta alla m iriade di dialetti locali; dall’esaltazione del genos ariano, sacralizzato in un rigido sistema metafisico di caste che ne sancisce la diver­sità assoluta e il predom inio sugli autoctoni “intoccabili”; mentre il territorio è vissuto intensamente, nell’immaginario mitopoietico, come matrice della vita nella sterminata prolife­razione delle sue figure umane e naturali, che compongono l’Olimpo di una religione pervasiva, multivalente, dram m ati­camente vitalistica nel suo intrecciarsi con l’ambiente umano e sociale, per cui si può dire della terra indiana, quel che dice­va Eraclito delle realtà del mondo, che sia cioè “tutta piena di dèi” (pantaplere theon).Ma è soprattutto per la peculiarità del suo ethos che la ci­viltà indiana si definisce e caratterizza: per l’intensità brucian­te della sua religiosità devozionale ed emozionale (la bhakti), per la penetrazione sconvolgente delle sue mistiche esperienze interiori che rivelano una realtà soggettiva che sfugge alle ca­tegorie del pensiero filosofico classico della tradizione greco­romana, nella quale solo un’eco lontana vi compare nel filone orfico e misterico. Non che sia mancata in India una forma di riflessione filosofica che trattasse i temi dell’idealismo e dello stesso materialismo, anzi, il suo contributo in questo senso è stato notevole. Ma questa speculazione si è m antenuta sempre un patrimonio di eletti, sostanzialmente separati dal contesto sociale; praticata individualmente o nelle scuole, senza ricadu­te nella pratica sociale, come è avvenuto invece nella tradizio­ne dell’Occidente.Una sorta di narcisismo speculativo che induce alla lunga all’isolamento in se stessi, risolti nell’infinito della meditazio­ne ascetica, vanifica in questo peculiare spirito di civiltà ogni possibile incontro fattivo di pensiero e azione, e ogni forma di _

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mediazione pragmatica del conoscere per fare. Nel corso della storia del pensiero mistico religioso indiano vengono così pro­dotte immagini di alta qualità spirituale ed etica, come quella dell’assoluto rispetto per la vita, come nel jainismo, della pace, della non violenza (ahimsa), e della tolleranza, come nel mes­saggio del Buddha, che invita assai più all’estremo distacco dalle cose concrete, nel nirvana, che non all’attiva partecipa­zione alle rischiose vicende che le caratterizzano. Si stabilisce una frattura fra il principio dell’ordine metafisico religioso del m ondo (il dharma), e l’attività produttiva sociale e politica (artha e varrta).E accade così che questa società storica, che produsse in sé così alti valori universali di vita, sia afflitta, nella pratica, da una spaventosa carica di violenza, non efficacemente frenata e controllata da leggi e istituzioni razionalm ente concepite a questo fine, tentativo avviato solo in tempi recentissimi e con incerti risultati. E questo accade nonostante la presenza di una forma di religiosità che, nella sua complessa natura, è ca­pace di soddisfare le esigenze delle menti più colte e raffinate, come per i testi della letteratura sacra dei Veda e delle Upani- shad, e un patrimonio di concezioni filosofiche che coprono praticamente tutto il terreno della problematica speculativa, e al tempo stesso, sull’onda della stessa ispirazione fondamenta­le, capace di dar vita a forme di culto popolare di una varietà e ricchezza senza rivali, adatte a esser vissùte in modo autentico dalle menti popolari e contadine.Il tentativo del M ahatma Gandhi di fondare un nuovo stato sui grandi valori universali della tradizione indiana, fra i quali in prim o luogo quello della non violenza, conciliandoli con quelli democratici, dopo la sua tragica morte per assassinio nel 1948, l’anno successivo a quello della raggiunta indipen­denza del paese dal dominio indiretto inglese, non ha potuto evitare che in India si sviluppassero vere e proprie forme di genocidio fra quelle parti della popolazione che restano legate alla tradizione induista e quelle che sono state islamizzate a partire dal xm secolo nell’India settentrionale, con la conse­guente scacciata dal subcontinente indiano degli ultimi fedeli del messaggio del Buddha. Così come non ha eliminato i con­flitti di fazione e interetnici che travagliano ancor oggi quel paese. E una delle ragioni di questo stato di cose, non la sola m a fra le più rilevanti, può essere indicata nell’esistente e te­nace discrasia fra le esigenze di un indispensabile orientamen­to razional-funzionale nella gestione dei problemi politico so­ciali ed economici, e i vincoli creati da una vera e propria iper­trofia dei prodotti dell’immaginazione simbolica tradizionale,146

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che ostacolano lo sviluppo armonico di una moderna società indiana.Qual è il rapporto che esiste oggi fra l’insieme di questi paesi e quelli di tradizione occidentale, in relazione ai valori della democrazia politica e sociale che li caratterizza? Nel ca­so del Giappone noi ci troviamo di fronte a un paese che, dopo essere passato attraverso una fase di tipo feudale, nella quale i valori della lealtà e fedeltà dei sudditi alle persone in cui si in­carna il potere sono determinanti, e a una fase in cui, dopo la rivoluzione Meiji del 1868, si è prodotto attorno alla figura sa­crale dell’imperatore, il Tenno, uno stato assoluto razional­mente ed efficientemente costituito, è arrivato, in una terza fa­se, all’adozione di un regime formalmente democratico, come conseguenza della sconfitta militare subita da parte degli Stati Uniti. Come gli osservatori rilevano, i valori tradizionali del passato rivivono ancor oggi nel presente del Giappone, in sin­tesi con quelli delle democrazie moderne, dando vita a una realtà statuale e socio-economica di straordinaria produttività. Alcuni aspetti del comportamento della classe dirigente, sog­getta a fenomeni di malcostume politico comuni ai paesi euro­pei di democrazia incompiuta, fanno tuttavia pensare che an­che la dem ocrazia giapponese, nonostante le sue capacità esemplari nella produzione del sociale, soffra sul piano etico­politico di una non perfetta identificazione dei cittadini con la nuova forma istituzionale del potere statuale.Il caso della Cina postmaoista - ma non si sa fino a qual punto - manifesta ancora un netto distacco del regime attuale nei confronti dei valori della democrazia liberale. Questa pre­suppone, per potersi realizzare, un sistema di rappresentanza degli interessi individuali e collettivi basato sulle libere scelte dei cittadini, in grado di gestirle secondo criteri di libertà, effi­cienza e giustizia. Ciò comporta l’attiva partecipazione di base dei cittadini al sistema che sembra richiedere - se si guarda all’esempio americano - una struttura federale, quando si trat­ti di determinare le sorti di centinaia di milioni di persone vi­venti su territori di vastità continentale. Il realizzarsi di un si­stema di tal fatta, che pervenga alla sintesi politico-ammini­strativa di molteplici libere decisioni individuali e di gruppo, richiede che i principi ideali della democrazia abbiano per­meato la società interessata dai vertici alla base, cosa che può avvenire solo in tempi molto lunghi. Il centralismo autoritario, in queste circostanze, si è sempre presentato come il più ac­cessibile dei surrogati della democrazia reale. E la Cina lo ha storicamente dim ostrato fin dall’affermazione della dinastia Ch’in (221-206 a.C.) per arrivare alla d itta tu ra di Mao Tse147

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Tung, inventore del comuniSmo in versione cinese. Poste que­ste condizioni di fatto, è del tutto impensabile per la Cina un rovesciamento subitaneo degli equilibri tradizionali, che non provochi lo sfasciamento di tutto l’impianto statuale e sociale del paese. Di questo i giovani rivoluzionari anarco-libertari di piazza Tien Nan Men, oggetto della repressione del governo riformatore guidato da Deng Tsiao Ping, non avevano tenuto il debito conto. La via verso la democrazia sostanziale è quindi una via difficile e lunga per il popolo cinese, e ogni affrettato giudizio in merito è oggi del tutto prematuro, m a essa non è affatto esclusa, in una nuova e ancora inedita forma.Totalmente diverso è invece in Asia il fenomeno dei paesi islamici, in rapporto agli ideali della democrazia. Questi paesi si distribuiscono sopra una fascia che attraversa due continen­ti, quello africano e quello asiatico, dall’Atlantico al Pacifico, dal Marocco all’Indonesia, e comprendono decine e decine di etnie assai diverse tra di loro, come è naturale data la distribu­zione geografica, con dei patrimoni culturali assai differenzia­ti e ricchi di caratteristiche originali. Essi presentano regimi politici diversi che vanno dalle monarchie feudali alle repub­bliche, e ai regimi basati sul primato politico degli esponenti della religione islamica.Alcuni di essi godono di situazioni economiche privilegiate in ragione delle risorse petrolifere di cui dispongono, e altri vi­vono in condizioni di pericolosa marginalità e di grande disa­gio economico, ai limiti della sopravvivenza, come in Africa. Ciò che li unisce è il momento simbolico religioso dell’epos, la credenza nell’Islam, da essi condivisa fino ai limiti del più al­lucinato fideismo, e partecipata in modo omogeneo e totale da tutti gli strati sociali. Si tratta del più vasto, compatto e com­battivo degli integralismi religiosi del mondo moderno, con una sua storia m illenaria, strettam ente in terconnessa con quella dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa.L’argomento dei fondamentalismi religiosi è troppo vasto e complesso, come si è già detto, per essere trattato in un saggio come il presente, e al quale va dedicato uno studio a se stante. Ma in relazione all’interrogativo che ci siamo posti, sul rap­porto fra nazioni diverse da quelle di tradizione occidentale e i principi della democrazia, si può osservare il fatto che il con­flitto latente o esplicito, fra questi principi e le società islami­che è radicale e senza prospettive di mediazione. Il rifiuto del­la civiltà occidentale e dei suoi valori, nella sua versione de- mocratico-liberale, in nome dei principi della profetica corani­ca è infatti totale e pregiudiziale. Non si tratta quindi tanto di un conflitto politico, economico, e neppure strettamente reli­148

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gioso - ebrei e cristiani sono sotto questo profilo cugini dei m usulm ani, in quanto tu tti si rifanno al com une patriarca Abramo, adorano un unico dio, e si riferiscono a un testo, il Libro, la Bibbia, che è da tutte e tre le religioni considerato sa­cro - quanto globalmente culturale. Esso contrappone infatti l’insieme delle motivazioni rappresentate da credenze, costu­mi, leggi, com portam enti e pratiche quotidiane di vita che traggono la loro origine dalla rivoluzione culturale europea del x v i i - x v i i i secolo, all’intera vita sociale e culturale in cui l’Islam si esprime. L’Islam, nella sua versione fondamentalista, si propone così come alternativa alla società occidentale nel suo complesso, senza possibilità di mediazioni e di dialogo, che resta invece aperto, sia pure con difficoltà, fra le tre gran­di religioni dei popoli del Libro. Non si tra tta quindi di un conflitto imperialistico, nazionalistico o anche solo etnico o religioso, ma di un conflitto di civiltà.Quale ne sarà l’esito finale non è dato assolutamente preve­dere oggi, ma è certo che questo conflitto costituisce l’ostacolo maggiore sulla via di quell’ecumenismo dal quale dipenderan­no in futuro la pace e l’ordine mondiale.

5. Considerazioni provvisorieCome si è visto da questa sintetica rassegna di casi diversi, il revivalismo presenta aspetti particolari nelle varie situazioni in cui si manifesta, sia che si tratti della sfera occidentale eu­ropea o di quella americana, sia che riguardi i paesi ex colo­niali, soprattutto africani, sia che si considerino i casi delle grandi civiltà dell'Ori'ente, per le quali in verità più che di revi­valismo si deve parlare di perm anenza della loro millenaria tradizione, nella nuova situazione del mercato mondiale, nel favorire o nell’ostacolare il processo di modernizzazione eco­nomica che li riguarda.Una cosa si può dire su tutto questo ed è che in nessuna delle forme storiche prese in considerazione in questo capitolo il sistema democratico, con i suoi specifici valori, si è piena­mente affermato, perché sovente del tutto incompatibile con le loro tradizioni culturali. E questo accade, in modo partico­lare, in quei paesi dell’Africa e dell’Asia che rientrano nella sfe­ra d’influenza dell’integralismo islamico.La stessa concezione democratica del vivere sociale, taglia­ta su misura per alcuni stati del mondo moderno occidentale, richiederebbe di venire in certe sue parti reinventata, per ri­spondere a problemi di senso e di valore che altre civiltà si so­

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no posti, e che nella nostra tradizione occidentale sono stati sacrificati a favore di problemi legati strettamente con la pro­duzione di beni materiali. La secolarizzazione può diventare una mutilazione, quando trascuri tali insoddisfatte esigenze. E di fatto l'ansiosa ricerca, di una parte non indifferente del mondo giovanile delle società occidentali, di una risposta a questo bisogno di senso nei culti e nei miti religiosi d’Oriente, ne è una ben concreta testimonianza, così come lo furono i culti di Mitra e Iside a Roma.Da queste considerazioni emergono anche alcune indica­zioni di carattere teorico, legate alle esigenze della ricerca. La complessità del campo d’indagine, le diversità dei singoli casi,lo stato di avanzamento degli studi e della messa a punto degli strumenti euristici adeguati, rende prematuro il proposito di form ulare oggi teorie generali su ciò che andrebbe fatto in concreto per realizzare una democrazia veramente compiuta e capace di guardare al futuro in una prospettiva tendenzial­mente ecumenica, superando le attuali chiusure etnocentri­che, che però non basta solo deprecare, senza averne compre­so i fondamenti e le complesse ragioni storiche.Sul piano della ricerca poi, vanno esclusi i tentativi di "spie­gazione” dei fenomeni storici, che puntano in modo riduttivo sopra uno o l’altro degli elementi, economici, sociali, politici o culturali, di cui complessivamente s’intesse la tram a della sto­ria, proponendoli come loro “causa prim a”. Troppe e fallaci ideologie si sono fondate sopra simili primi motori immobili dell’immaginario economicistico, sociologistico, politologico o idealistico culturale, per non diffidarne, e per dim enticare quella m ultidim ensionalità e quel carattere struttural-con- giunturale del corso storico che è stato sottolineato con forza dalla scuola delle Annales.Nell’approccio necessariamente interdisciplinare che risul­ta da queste considerazioni va ridato maggior peso a un mo­mento, che il materialismo di varia origine ha confinato spes­so nel limbo delle “sovrastrutture”, o nella generica e svalutati- va categoria dell’irrazionale, e cioè alla dimensione dell’espe­rienza simbolica, che tanta influenza m ostra di avere, sia in concorso, sia in contrasto con quella razional-funzionale, nel­la realizzazione degli eventi concreti.In sintesi, e più in generale, sembra si debba far uso, nello studio dei fenomeni come quello dell’identità etnica e delle forme analoghe di aggregazione sociale, assai più degli stru­menti dell’interpretazione che non di quelli della spiegazione in termini di scienze della natura o di scienze esatte e formali, fermo restando che queste sono tuttavia indispensabili nel de­150

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finire, nella loro concretezza, i fatti da interpretare, e cioè nel garantirne la concreta e documentata storicità.E da ultimo vorrei ricordare che in questo processo di ri­cerca recita una parte notevole anche il momento dell'argo­mentazione, e quello della narrazione, che obbliga a rispettare certe sequenze significative, per garantire a ogni singolo even­to la sua parte nella globale significanza del processo al quale inerisce. Molte volte il narrare obbliga il narratore a rispettare una coerenza altrimenti esposta al rischio dell’arbitrio, che è la q u a lità essenziale d ell’esperire poetico , p er fare cioè dell’epos e non della storiografia.Le forme che si sono prese in considerazione sono molto diverse fra di loro per quanto riguarda il grado di definizione del loro mythomoteur, come direbbe Smith, e per quanto ri­guarda la loro estensione territoriale e il grado della loro com­plessità e della loro articolazione strutturale, sia economica sia politico-istituzionale. In questo senso Smith ha parlato di "categorie etniche” per quelle meno definite e di “comunità et­niche” per quelle più complete e storicamente definite. Non si tratterebbe pertanto di tipi diversi, bensì di momenti diversi di un processo di sviluppo di movimenti che puntano a consoli­darsi in vere e proprie istituzioni. Se si tiene conto che a que­sto sviluppo processuale corrisponde una parallela presa di coscienza di sé delle realtà storiche costituende, sia sul piano simbolico dei valori sia su quello razionale delle esigenze fun­zionali, e quindi anche un diverso grado di capacità autocriti­ca e di progettazione, possiamo chiederci se il vissuto delle et­nie del cui revival stiamo parlando abbia o non abbia un au­tentico contenuto in termini di un’etnicità consapevole, o sia presente solo come un'istanza ancora indefinita, di un atteg­giamento fatto assai più di protesta che non di proposta.Questo può tradursi in una serie ulteriore di domande: hanno queste etnie reviviscenti una memoria storica in term i­ni di epos? Hanno un patrimonio normativo originale che sia omogeneo e pervasivo? Hanno sentiti legami di appartenenza a una stirpe più o meno immaginaria? Parlano lingue proprie e caratterizzanti? Occupano territori o aspirano a occuparli, dai confini precisabili?Gli estremi di una classificazione possibile, se la conside­riamo utile, va dal movimento di gruppi di opinione ristretti, fino ai precisi e articolati programmi politici avanzati da po­poli storicamente ben individuati e organizzati, che pretendo­no di essere come tali internazionalmente riconosciuti. In ge­nerale i casi più vicini al movimento che non all’istituzione so­no quelli in cui prevalgono le istanze simboliche di carattere

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estetico-letterario ed etico-culturale, grazie alle quali afferma­re la propria attiva, originale, legittima presenza nel quadro di contesti statuali multietnici, come accade nella società ameri­cana, nel cui ambito sentirsi riconosciuti e apprezzati, senza pretese egemoniche o separatiste. In altri casi, come avviene per le componenti francese e anglosassone del Canada, questa tendenza può arrivare a una vera e propria richiesta esplicita di separazione politico-istituzionale, in term ini di territorio. In altri ancora si arriva alla rivendicazione, con ogni mezzo, anche violento, della propria indipendenza nazionale, come nel caso dei paesi baschi, dei curdi, degli armeni, degli eritrei e delle repubbliche facenti parte dell'impero russo degli zar e dell’Unione Sovietica.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Smith (1992), sulla specificità degli “etnicismi" come espressione difensiva delle etnie minacciate dall’esterno e dall’interno, pp. 118, 127, 133, sulla tipologia degli etnicismi genealogici, ideologici e co­munitari, pp. 133-135, centralità dei mythomoteur religiosi, p. 154.Smith (1984), sul panorama generale della situazione coloniale, pp. 26-29, 222-225;Smith (1991), sugli aspetti comuni delle nazionalità coloniali, pp. 107-110;Hobsbawm (1991), sull’influenza delle ideologie intemazionaliste e fondamentaliste nella caratterizzazione delle nuove nazionalità, pp. 161-162, 178-179, sulla formazione degli stati nazionali nel xx secolo, pp. 157-158, sul caso jugoslavo, pp. 203-204, sul proliferare attuale di nuovi nazionalismi, p. 176, sui caratteri dei nuovi naziona­lismi, pp. 194-195, sui fondamentalismi e le etnie, pp. 198-199, sulla degenerazione del nazionalismo, pp. 200-202;Smith (1991), sulle peculiarità delle nazionalità coloniali, pp. 107- 108, sulle etnie dominanti nelle nuove nazionalità postcoloniali, pp. 110-111, 137;Smith (1984), sulle nuove comunità etniche in America e in Euro­pa, pp. 249-264, 268-271; sul quadro conclusivo, pp. 219-221;Petrosino (1991), sul nazionalismo etnico nelle società postindu­striali, pp. 87-89;Ripes in Ethnicity (1988), sul separatismo in Russia, pp. 456-458;Smith (1991), sul separatismo nelle società industriali, p. 138;Hall (1979), sulle variabili determinanti del separatismo, pp. 433- 435;Worsley (1971), sui movimenti di liberazione nel Terzo Mondo;Markovitz (1970), sulle conseguenze politiche della decolonizza­zione;Friedland-Rosberg jr. (1965), sulle influenze dell’ideologia comu­nista in Africa;

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Tucci 1956, sulla storia dell’Oriente antico;Masson Oursel-de Willman Grobowska-Stern (1951), sulla civiltà indiana;Renou-Filliozat (1947), sull’India classica;Tucci (1957), sulla filosofia indiana;Creel (1937), sulle origini storiche della Cina;Creel (1951), sulla personalità di Confucio;Kidder (1960), sulle origini del Giappone;Panikkar (1958), sulla dominazione coloniale europea in Asia.

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8. E tnicità e universalità

1. Il superamento dell’ethnos?Se il discorso critico che riguarda i fatti del passato com­porta già un margine di notevole incertezza, tenuto conto del­la diversa prospettiva temporale sulla realtà, di chi lo in tra­prende oggi, quello che si propone l’obiettivo di orientarci ver­so ciò che ci attende nel futuro lo è ancora di più per l’indefi­nito numero delle possibili opzioni alternative che certamente presenta. Esso infatti manca di ogni riferimento concreto su cui basarsi, perché ogni estrapolazione dal passato rischia di essere del tutto fallace, come l’esperienza dimostra, in quanto non tiene conto della creatività innovatrice che caratterizza la

storia degli uomini.Per tentare una risposta all’interrogativo circa le sorti futu­re del principio etnico in rapporto a un’istanza universalistica che si fa sempre maggiormente sentire, e che mira a superar­ne ì limiti cui si deve in buona parte lo stato presente di disor­dine e di conflittualità mondiale, mi rifarò a una riflessione ispirata dallo stesso ideal-tipo di ethnos, che ci ha guidato in tutto il corso del ragionamento qui esposto.Da qui la domanda centrale: è ragionevolmente concepibile oggi una versione di ethnos che sia compatibile con la condi­zione di cittadinanza del mondo, che elimini da sé ogni trac­cia di etnocentrismo conflittuale, e che assolva al tempo stesso alla funzione di principio di aggregazione e di identificazione rassicurante in un’um anità non ancora pacificata?Questo interrogativo si distingue a sua volta in una serie u lteriore di dom ande: è concepibile un epos nel quale sia esclusa, come ricordo da cui trarre vanto, la sacralizzazione della violenza, quella militare in particolare, e ci si affidi inve­154

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ce al patrimonio di contributi di civiltà nel campo delle arti, delle scienze, degli istituti sociali, per celebrare i m eriti co­muni? E un ethos che, oltre alla tradizione del giusnaturali­smo, deirillum inism o e dei valori della dem ocrazia e delle forme universalistiche dell’etica religiosa si dischiuda ai nuo­vi valori della storia, nel segno della pace fra gli uom ini e dell’affettuoso rispetto per la natura? E un logos che, invece di dividere i popoli come nel mito biblico, trovi sempre nuove e più suggestive forme del comunicare fra di essi? E un topos che non venga inteso come oggetto di competizione m a come- bene com une da salvaguardare nell’interesse di tutti? E so­prattutto un genos che non si esaurisca nel culto della paren­tela e del lignaggio, come confini della solidarietà umana, ma venga inteso come espressione della com une e universale condizione umana? Tutte queste qualità di un ethnos univer­salistico sono in teoria possibili e compatibili con una conce­zione ideale ecumenica di aggregazione umana, ma la strada per arrivare a un tale obiettivo, non solo da parte di singoli il­lum inati dalla fede e di gruppi di fedeli da questa ispirati, ma dall'insieme delle società nelle loro maggioranze interne, ap­pare lunga e impervia data la straordinaria difformità attuale delle etnie e delle nazioni nel mondo. I tentativi posti in atto da missionari religiosi o da innovatori laici per forzare l’ado­zione di valori nuovi da parte di gruppi sociali tradizionali non hanno avuto mai un esito felice, nella prospettiva ecu­menica cui ci riferiamo qui.Ci muoviamo infatti sul terreno dei fenomeni di lunga du­rata e ogni forzatura dei tempi non può essere che negativa in termini sostanziali, per cui non resta se non la via di un per­corso, che tenga conto delle distanze culturali dei singoli grup­pi dal modello ideale di un’ecumenicità realizzata.

2. Le proposte unitarie della civiltà occidentale europeaSe si considera l’estrema e multiforme varietà di identità etniche e nazionali attualmente presenti nel mondo, l’impresa di una loro riunificazione e omologazione culturale, per quan­to riguarda i principi fondamentali dell 'ethos su cui si reggo­no, appare attualmente un obiettivo irrealistico, dato il carat­tere dei processi di lunga durata dai quali risultano. È quindi ragionevole prevedere la necessità di procedere per tappe in­termedie, promuovendo delle aggregazioni regionali fra le na­zioni meno distanti fra di loro in quanto a tradizioni culturali. Nel suo recente saggio su questo argomento Anthony Smith

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(Smith 1991) sostiene la candidatura della civiltà europea per una leadership in questa direzione:Questi modelli della cultura europea - l’eredità della lex romana, dell’etica giudaico-cristiana, l’Umanesimo e l’individualismo del Ri- nascimento; il razionalismo illuministico e la scienza, il classicismo artistico e il romanticismo, e soprattutto le tradizioni dei diritti civili e della democrazia, che sono emerse in diversi tempi e luoghi del continente - hanno formato un’eredità comune europea e un’unica area culturale che supera i confini nazionali, permeando le sue diffe­renti culture nazionali di comuni motivi e tradizioni. In questo mo­do una famiglia di culture che s'intersecano si è formata progressiva­mente nei secoli, nonostante i molti strappi e gli scismi. Questa non è la beneamata e pianificata “unità nella diversità” dei burocrati eu­ropei, ma una ricca, rudimentale mescolanza di assunti culturali, di forme e tradizioni, che crea sentimenti di affinità fra i popoli d’Euro­pa. È qui, piuttosto che nella mitologia della cristianità medievale (nonostante gli sforzi dell’ecumenismo contemporaneo) o in un Sa­cro Romano Impero (nonostante la collocazione geografica di Stra­sburgo) che bisogna guardare per individuare la base di un naziona­lismo culturale paneuropeo che può portare, al limite, al di là della nazione. (Ibidem, p. 174)Ma forse il problema non è così semplice, se si tiene conto dei dati della storia d’Europa. Il patrimonio di cui parla Smith non è affatto equamente condiviso dai popoli europei, tanto da proporsi eo ipso come la base simbolico-culturale di una comune unitaria convivenza, con la quale identificarci e attra­verso la quale riconoscerci. Abbiam o già rilevato il caso dell’Italia e della sua anomala specificità in rapporto a una ta­le base di riferimento, in quanto gli abitanti della penisola non parteciparono compiutamente alle fasi nelle quali essa si è co­stituita. La stessa cosa si può osservare per la maggioranza numerica degli stati europei, ognuno dei quali, in modi diversi e peculiari, ha risentito di un difetto di partecipazione allunao all’altra delle fasi cruciali della storia delle democrazie libe­rali proponendosi così come forme storiche di democrazia in­compiuta.Nel panoram a europeo, come si è osservato per le nazioni del xix secolo, si possono rilevare alcune aree che si caratteriz­zano per la presenza di formazioni storiche che sono espres­sione di quella che possiamo chiamare una democrazia avan­zata, che si differenziano da altre in cui prevalgono invece for­me storiche di democrazia imperfetta o parziale, per varie e molteplici ragioni storiche; e altre ancora nelle quali sembra prevalere il modello dello stato assoluto in versione autorita­ria, o al limite autocratica; e altre in cui sono presenti forme

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tuttora caratterizzate dal prevalere di valori derivanti dalla sa­cralizzazione del genos, nelle sue modalità neo-tribali. A ren­dere più complessa questa distribuzione si aggiunge la coesi­stente presenza di religioni storiche diverse, spesso fra di loro in concorrenza, e di scelte ideologiche apertamente e dichiara­tamente conflittuali e incompatibili fra di loro.Su queste basi si possono quindi schematicamente delinea­re in Europa, nel xx secolo che sta per chiudersi, una sfera ter­ritoriale centro-settentrionale, una mediterranea, una alpina, una centro-orientale, e orientale, e una sfera balcanica, nelle quali prevalgono rispettivamente le forme storiche ricordate sopra. Si tratta ovviamente di una schematizzazione tipologi­ca alquanto astratta, perché ognuna delle realtà considerate, oltre a rientrare nel quadro di questa tipologia, risulta da un processo storico peculiare che ne fa qualcosa di specifico.Quello che va sottolineato in ogni caso è il fatto che la di­scriminante fondamentale fra questa varietà di forme, situate in sfere geografiche contigue, che nel linguaggio di De Gaulle costituirebbero l’“Europa delle patrie”, che si estende “dall’Atlan­tico agli Urali”, si colloca soprattutto a livello dell ’ethos. Sono infatti suscettibili di convergenza solo quelle forme di identità etniche nazionali europee nel cui ethos sia effettivamente ope­rante il patrimonio di valori universalistici di solidarietà nella li­bertà corresponsabile, che caratterizzano le democrazie moder­ne occidentali. Ma sotto questo profilo esistono ancora fra i vari paesi europei differenze assai profonde, come si è fatto rilevare.E chiaro che in queste circostanze il processo di unificazio­ne europea si presenta come un compito di estrema difficoltà, al di là di ogni retorica sua esaltazione. L’esigenza di un tal processo si era già fatta sentire con forza dopo la prima guer­ra mondiale in seguito al bilancio assolutamente fallimentare, sia per i vincitori che per i vinti, di entrambi i gruppi dei paesi alleati in conflitto fra di loro, in termini di perdita di beni e di vite umane. E per evitare che qualcosa di simile potesse ripe­tersi in futuro, venne stipulato nel 1919 il trattato istitutivo della Società della Nazioni, istituzione che fallì del tutto al suo compito nei decenni successivi, in modo particolare per la di­serzione degli Stati Uniti che ne erano stati, col presidente Wilson, i primi ispiratori, e l'esclusione dell’Unione Sovietica. Nello stesso periodo, nel 1923, venne promosso da Richard Coudhenove Kalergi, figlio di un diplomatico austriaco e di madre giapponese, un movimento culturale paneuropeo, con l’assenza della Russia e dell’Inghilterra, fortemente legata al mito della propria insularità, che ebbe un certo seguito negli ambienti colti e benpensanti animati dagli ideali intemaziona-

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listi del primo Novecento. Questo movimento riprese vigore, dopo la seconda guerra mondiale, con la fondazione a Parigi, da parte dello stesso Coudhenove Kalergi, di un’unione parla­mentare europea, dalla quale ha preso le mosse l’attuale Unio­ne Europea ad opera del belga Spaak, del francese Schuman, del tedesco Adenauer, e del nostro Alcide De Gasperi, assieme ad Altiero Spinelli, i quali unitam ente all’iniziale ispiratore Coudhenove Kalergi, possono essere considerati, nell’immagi- nario simbolico europeo, come i “padri fondatori” dell’Europa unita.Questa istituzione, della quale entrò a far parte in un se­condo tempo, con notevole riluttanza e con molte riserve an­che l’Inghilterra, raggruppando gradualmente altri membri, fi­no all’attuale numero di quindici, e in attesa di accrescersi an­cora di nuove partecipazioni, ha svolto un notevole e positivo lavoro sul piano economico e finanziario, degli scambi di m er­ci, lavoro e capitali. Ma assai più ridotta è stata la sua opera nel campo dei problemi sociali comunitari, e in quello delle istituzioni politiche, nel quale si sono fatte sentire con forza le resistenze residue delle tradizionali forme storiche di identità etnica, di quella inglese in modo particolare. Quanto poi alla sua azione in campo culturale, essenziale proprio per attenua­re l’impatto negativo del tradizionale policentrismo conflittua­le delle nazioni europee, al di là di alcune iniziative di pubbli­che relazioni e di propaganda formale, e a episodici interventi ufficiali nel campo delle arti e della programmazione scientifi­ca di ricerche comuni, di notevole rilievo in questo specifico settore, poco o nulla si è fatto per promuovere una nuova e co­mune "mentalità" europea, che incidesse nel campo dei costu­mi, dei valori e delle condotte morali, non solo di élites cultu­rali privilegiate, m a della gente comune, dei semplici cittadini.Sta di fatto che un discorso critico e autocritico in termini di identità nazionali è visto con timore dai responsabili della vita intellettuale dei nostri giorni in Europa. Troppi sono gli scheletri negli arm adi nazionali perché ciò non accada, ma questa non è una buona ragione per eludere un argomento che sarebbe necessario affrontare fra l’altro, anche perché quegli armadi non si affollino di tragici ulteriori documenti di nequizie, come sta succedendo in questi mesi (1995).Da questo stato di fatto derivano almeno due conseguenze. Da una parte la deprivazione delle istituzioni comunitarie, as­sorbite come esse sono dai problemi della razionalità econo­mica, da ogni valenza carism atica, destinandole a una cre­scente burocratizzazione che ha reso difficile, nonostante gli sforzi pubblicitari e le iniziative promozionali, un autentico158

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processo di identificazione simbolica con esse, da parte di am­pi settori sociali. E dall'altra ha dato luogo a una sensibile ca­renza di conoscenze sulle effettive dinamiche dei fenomeni et­nici in Europa - dato il generale processo di rimozione di que­sto aspetto della vita collettiva come oggetto di studio - che ha fatto trovare del tutto impreparati i governi delle nazioni euro­pee di fronte all'insorgere di problemi di estrema gravità per i destini della comunità in fieri, come quelli posti in essere dai conflitti sanguinosi che travagliano intere regioni del conti­nente.L’esito di questa penosa inadeguatezza si è manifestato in modo particolare nella paralisi politica della com unità di fron­te a eventi, come quelli della Bosnia, che hanno finito per as­sumere l’apparenza di irrimediabili catastrofi naturali, per evi­tare le quali non vi sia rimedio che valga, così come per i ge­nocidi di massa nelle società africane postcoloniali.Il problema dell’unificazione europea non è un problema facile, anche per la carenza di precedenti ai quali potersi ispi­rare. Non possono infatti essere un modello valido al quale ri­farsi gli imperi europei, che hanno cessato di esistere nel xx secolo e sono irripetibili, come tutti i fenomeni che si sono esauriti nel loro significato storico. E fra le forme multietni- che di stato, tuttora esistenti nella cosiddetta area occidentale non può neppure valere l’esempio degli Stati Uniti d’America, che si sono formati in un processo spontaneo di lunga durata e in seguito al successivo apporto di ondate migratorie che ap­prodarono in una società nuova, ma già ben consolidata e de­finita sul piano dei valori etico-politici fondamentali, stabiliti nella sua Costituzione. Un modello che, per le sue peculiarità, non è quindi imitabile in Europa oggi.Così come non lo è il modello europeo della Confederazio­ne svizzera, per le sue ridotte dimensioni geografiche e demo­grafiche, che è stato il frutto di circostanze particolari: innan­zitutto il fattore della comune collocazione dei cantoni in una zona alpina relativamente omogenea, che ha influito nel carat­terizzare com uni pratiche produttive e i relativi costumi, e questo in un processo determ inato dalle necessità di difesa dalle minacce all’autonomia dei cantoni stessi da parte delle signorie feudali circostanti, che indusse gli abitanti a unirsi politicamente in modo sempre più stretto, a partire dalla pri­ma aggregazione di Uri, Schwitz e Unterwalden nel 1291, fino alla Lega dei tredici cantoni del 1513, salvaguardando, oltre alle lingue diverse, molto del patrimonio culturale originario dei tre distinti ceppi francese, tedesco e italiano della popola­zione svizzera.159

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La situazione delle nazionalità europee è infatti assai più complessa e diversi sono i problemi che ne derivano oggi, so­prattu tto dopo la caduta del m uro di Berlino e la fine della guerra fredda. Il crollo dei vincoli ideologici che fra le due guerre avevano mantenuto l’Europa in una condizione di equi­librio coatto fra i paesi a dittatura totalitaria e quelli a demo­crazia liberale, prima, e fra quest’ultimi e l’Unione Sovietica e i paesi satelliti, dopo la seconda guerra mondiale, ha indotto una situazione di deregolamentazione del contesto intem azio­nale europeo. Questa è dovuta sia al riemergere delle identità nazionali nella loro tradizionale versione etnocentrico-partico- laristica, sia alla sopravvivenza di quel sedimento storico di antica data, che è m aturato nella secolare sequenza di guerre di religione, e di incompatibilità fideistiche che hanno caratte­rizzato la storia europea dal Medio Evo delle crociate antisla- miche, fino alle guerre politico-religiose del xvii secolo. Queste vicende storiche hanno alimentato una diffusa mentalità dog­matico-settaria, che si è espressa nel mondo moderno nel fe­nomeno delle ideologie laiche totalitarie, e rimane, anche do­po la crisi di quest’ultime, a caratterizzare troppi aspetti del convivere sociale.L 'attuale conflitto interetnico nei Balcani sem bra essere uno dei frutti più velenosi di questa mentalità matrice di guer­re ed etnocidi. Questa negativa realtà culturale costituisce una rem ora al processo di formazione di una comune coscienza nazionale europea su basi universalistico-democratiche, e me­rita molta più attenzione da parte degli studiosi in chiave so­ciale dei fenomeni storici, di quanto ne sia stata loro dedicata.Il quadro, tutto in positivo, disegnato da Anthony Smith come nucleo esemplare di valori, che potrebbe configurarsi come benefica ispirazione di una civiltà ecumenica, per acqui­sire il suo concreto spessore storico deve essere prospettato sullo sfondo di questa negatività, che offre di sé tante prove e tante manifestazioni di intolleranza e di violenza. Solo così quel quadro può assumere una piena definizione dei suoi con­torni reali, delle sue luci e delle sue ombre e fornire utili indi­cazioni a chi si propone di superarne i limiti storici, purtrop­po molto evidenti.Non è infatti solo con l’enunciazione in termini ideali di un nuovo mythomoteur che i limiti dell’attuale assetto dei rappor­ti intemazionali possono essere superati, ma dalle azioni ra­zionalmente concepite e rivolte al raggiungimento di questo fi­ne. Non basta la buona volontà, pur necessaria, non basta la predicazione dei buoni principi, non basta l’appassionata r i­tualità delle celebrazioni collettive, ovviamente tutte utili, ma160

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che cessano di esserlo se non arrivano a tradursi nell’intelli­genza di una politica fatta di cose concrete, di regole precise e di istituzioni efficaci, attraverso le quali possano essere rag­giunti equilibri nuovi nei rapporti fra le nazioni.Alla luce di queste ovvie considerazioni, assai spesso di­menticate, appare utile l’individuazione precisa, in via prelimi­nare a ogni altra considerazione, di quali siano le esigenze fondam entali del nostro tem po che vanno necessariam ente soddisfatte se si vuole realmente spianare la difficile via di un nuovo ordine mondiale di tipo universalistico ed ecumenico. Esse si riassumono in tre punti: una più equa e a tutti utile ri- partizione delle risorse disponibili fra i popoli della terra, del primo, secondo e terzo mondo, che riduca drasticamente le di­sparità attuali, con le conseguenze che ne derivano e che mi­nacciano l’intero pianeta con una nuova Voelkerwanderung, migrazione di popoli, determinata dalla disperazione di massa dei sacrificati; l’instaurazione istituzionalizzata della pace fra i popoli, una volta che sia venuta meno la conflittualità intro­dotta dalla miseria e dalla insicurezza delle condizioni di so­pravvivenza di miliardi di uomini e donne; una rigida regola­m entazione dello sfru ttam ento della n a tu ra che m inaccia egualmente tutti i popoli del mondo, se perseguito con l’attua­le, cieca e irresponsabile dismisura.Possiamo chiederci allora, tenendo presenti questi tre pun­ti fondamentali, quali dovrebbero essere gli aggiornamenti da introdurre per arrivare a un comune mythomoteur di carattere ecumenico che ne tenga debito conto.Come sappiamo ormai bene, un nuovo epos, che abbia una valenza universalistica, che non si basi cioè sulla vuota retori­ca e sull’esaltazione di valori obsoleti, non può non fondarsi che sulle conquiste di civiltà, che si manifestano concretamen­te nelle opere, e non solo nelle buone parole. Queste opere, nella fase attuale della nostra storia, sono quelle che mirano alla realizzazione di quei tre punti fondamentali che abbiamo indicati in via prelim inare. Gli uom ini capaci di realizzare questo disegno potrebbero costituire la versione moderna degli “eroi fondatori e nutritori’’ della tradizione mitica, del passato lontano dell’umanità. Apparire come gli eroi del nostro tempo, elevati a simboli di una comunità ecumenica, portatori e ga­ranti di benessere, di pace e di rispetto per il mondo della na­tura, di cui l’uomo fa parte assieme agli animali e alle piante.Ma è ben difficile investire di un tale valore quei funzionari che oggi sono esclusivamente o quasi impegnati nel discutere di prezzi delle derrate alimentari, o di complesse e non sem­pre chiare manovre di economia finanziaria e intemazionale,

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mentre non trovano, perché non la cercano realmente, una so­luzione adeguata ai problemi dei conflitti interetnici che tra­vagliano il mondo. Uomini e istituzioni delle attuali organizza­zioni intemazionali non sembrano proprio all’altezza di una simile consacrazione.Sul piano dei riti, che sono i modi di mettersi in scena dei valori collettivi, sopravvivono poi diffusamente quelli relativi alle vicende militari. Il tutto in evidente contrasto con il valore attuale, e universale, della pace fra gli uomini di buona vo­lontà.In tema di ethos va riconfermato e ampliato il senso dei va­lori della democrazia, nella direzione di una loro internazio­nalizzazione e applicazione non solo alla vita interna delle na­zioni. E questo anche perché in questo secondo dopoguerra si sono prodotti fenomeni inediti nella loro dimensione sociale. Negli spazi lasciati vuoti da una pericolosa e colpevole assenza di regole, di cui abbiamo già parlato nelle pagine precedenti, si sono prodotte forme nuove di illegalità organizzata che si estendono rapidamente e si intensificano in funzione dell’ac- crescersi del potenziale dei mercati intemazionali, forme per­fettamente organizzate che costituiscono, soprattutto nei pae­si a democrazia incompiuta dell’America Latina, dell’Europa e dell’Estremo Oriente, un pericolo crescente e minaccioso per l’ordine intem o e intemazionale. Solo con molto ritardo le or­ganizzazioni internazionali, come l’Onu, stanno prendendo coscienza del problema, che è collegato in modo diretto anche con quello della iniqua distribuzione internazionale delle ri­sorse di vita, che facilita e sollecita il ricorso all’illegalità di massa.Per quanto riguarda il logos, in un mondo di pacificazione, più che di una sua esaltazione in quanto valore simbolico ca­ratterizzante le singolarità etniche, esso pone oggi il proble­m a di come convertirsi da elemento di distinzione e di sepa­ratezza, in uno strumento efficace di comunicazione interet­nica - al di là delle irrealizzabili utopie di una lingua universa­le - grazie, in modo particolare, alle grandiose possibilità che le nuove tecnologie aprono nel dominio della comunicazione umana. Dalla soluzione positiva o negativa di questo proble­ma deriverà la possibilità di incrementare la reciproca cono­scenza e apprezzamento delle diversità compatibili fra le per­sone e fra i popoli, oppure la loro sottomissione ancor più spietata e pericolosa del passato ai processi di manipolazione delle coscienze che ne stabiliscano la condizione di servitù ai detentori del potere.Nel campo del topos, della matrice territoriale, è in corso162

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un’azione di presa di coscienza sempre più intensamente e op­portunam ente sollecitata per salvaguardare la sua integrità naturale e restituirlo nel suo ruolo simbolico di matrice della vita nelle sue varie forme ed espressioni. Da troppo tempo e in modo troppo brutale il territorio è stato deprivato delle sue di­mensioni simboliche originarie che garantivano l’armonia fra l’habitat e le comunità umane, nel tentativo di fame un puro bene d’uso da consumare senza ritegno, a spese della stessa possibilità di sopravvivenza umana, in modo radicalmente dis­sennato e autodistruttivo, oppure fatto oggetto di conflitti in tem a di diritti di proprietà individuali, o collettivi e politici, a sostegno dei quali sacrificare milioni di vite umane nelle con­tese irredentistiche sui confini degli stati. Le campagne di mo­bilitazione per una tale presa di coscienza cominciano a dare in questo settore alcuni frutti importanti, e vanno perseguite al fine di stabilire anche in questo campo le basi normative e istituzionali per una garanzia solida degli equilibri naturali ed economico-sociali che sono posti a rischio.Sul tem a del genos va fatta un’osservazione che riguarda un problema generale: il genos infatti offre un esempio di co­me un valore molto antico e consacrato nei millenni di storia delle comunità umane, possa convertirsi - in circostanze radi­calmente nuove - in un disvalore dalle conseguenze micidiali. È forse il caso più evidente del fenomeno già rilevato da Jung, relativo alla vita e alla morte dei simboli, quando questi abbia­no perso contatto con la storia, si siano fatti cioè anacronistici.Nelle form e nelle quali il genos a ttu a lm en te com pare nell’immaginario etnico è ormai del tutto assente quella vali- dazione che il genos riceve, sul piano simbolico autenticamen­te vissuto, dalla sacralizzazione del sistema di parentela nelle società tribali, là dove esso rappresenta effettivamente un va­lore storicamente vivo, e non lo strumento più o meno artifi­ciale di un disegno politico di potenza, come supporto ideolo­gico di sopraffazione delle nazioni concorrenti. Nelle rielabo­razioni ideologiche del genos in chiave razzistica, che stanno alle origini delle moderne pratiche del genocidio e dell’apartheid, e nell’esercizio della “pulizia etnica”, il genos si è fatto oggi de­cisamente, non solo un simbolo morto, ma un disvalore in at­to, tremendamente vivo.Ciò che del genos ancestrale si mantiene col suo valore è, o dovrebbe essere, solo un sentimento di pietas che ci inviti a guardare senza irrisione e senza rimpianto alle realtà umane del nostro passato, ai nostri progenitori vicini e lontani, e alle cose perdute del loro mondo, progenitori che spesso hanno sa­puto sacrificare se stessi per ciò in cui credevano, ispirandosi

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a ideali che non sono più i nostri, e nei quali ormai ci è moral­mente vietato credere. Anche nei loro errori, essi ci sono stati,o avrebbero dovuto esserci stati, maestri di vita, nella verità da perseguire e nell’errore da evitare.Se questi sono gli aggiornamenti da apportare a un mytho­moteur universalistico, concepito in termini di valori storica­mente attuali, che guardi oltre se stesso e i propri limiti, pur senza distruggersi, resta in ogni caso, come si è detto nelle pa­gine che precedono, che una tale operazione non può esaurireil discorso sulla realtà di un futuro desiderabile. Nessun ideale può evitare di ridursi all’astrazione di un’utopia irrealizzabile se non si traduce in opere concrete, e queste richiedono, oltre all’ispirazione dei valori simbolici, l’intelligenza pratica e ra ­zionale dell’azione politica. I riti non bastano, anche se predi­spongono gli animi al bene, e se ci si limita ai momenti della loro celebrazione, in campo sociale e politico, essi rischiano di omologarsi alle cerim onie delle rogazioni per sollecitare la pioggia in tempo di siccità. Oltre agli uomini di medicina o ai sacerdoti ci vogliono, nel caso nostro, anche uomini di buona volontà e di pratica intelligenza per realizzare nei fatti un fu­turo desiderabile.

3. Verso l’ecumenismoRosario Romeo, pur riconoscendo che l’istituto della nazio­ne, come si era definito nel xix secolo, aveva fatto il suo tem­po, se ne rammaricava nel dubbio che questo costituisse una perdita senza rimedio e compenso. Ma i valori di tolleranza, di libertà e di solidarietà che ne erano a fondamento, assieme a quelli di giustizia sociale, non entrano in conflitto di incompa­tibilità con la nuova esigenza universalistica di una comunità mondiale, che trascenda il sostanziale autocentrismo della na­zione liberale ottocentesca, la quale non ha impedito il pro­dursi di guerre ripetute e sanguinose fra i popoli. Non va di­menticato infatti che quei valori che hanno aggregato un dato gruppo sociale in quanto riferimento simbolico unificante, in determinate condizioni storiche, nel mutamento di esse e nel formarsi di nuovi istituti che soddisfano le nuove esigenze che ne derivano, non vanno necessariamente perduti, ma si carica­no di un senso più profondo e più vasto, come accadde nel ca­so della società feudale e del corrispondente valore di fedeltà e di lealtà personale nei confronti della presenza carismatica del sovrano, che si arricchì di un significato ulteriore quando la lealtà dei nuovi cittadini si indirizzò verso l’istituzione imper­

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sonale dello stato e delle sue leggi, inteso quale stato di diritto, garante della libertà, della giustizia e della solidarietà di tutti i cittadini, stabilendone diritti e doveri. Cambiano le istituzioni ma si perpetuano in una nuova versione i valori di aggregazio­ne sociale sul quale si fondano.Nell’epoca attuale una nuova esigenza si è fatta prepotente- mente sentire, di fronte alla situazione intemazionale di caos nei rapporti fra i popoli e del disordine e dei conflitti che ne derivano, così come nel rapporto fra gli uomini e l’ecosistema alle cui spese sopravvivono distruggendolo. E di conseguenzail bisogno di un inedito sistema di ordinamento planetario.Se noi guardiamo al futuro, fatti esperti del passato, una ri­sposta positiva a questa istanza, che si fa sempre più urgente, di creare le basi per un comune ordinamento intemazionale, deve tener conto di alcune condizioni. Innanzitutto essa non può consistere in un programma di pura ingegneria istituzio­nale, che trascuri quel livello di partecipazione simbolica sen­za la quale si creano tutt’al più sistemi burocratici di gestione poliziesca del potere, e non unità etniche partecipate e vissute come valori. D’altro canto appare del tutto sterile la semplice proposta di una serie di valori, astrattam ente immaginati, e senza concrete basi di cui rappresentino la trasfigurazione simbolica, e quindi di carattere utopistico, privi di incidenza sullo spirito pubblico reale, nonostante ogni sforzo retorico. Né si può fare ricorso a un ulteriore tentativo di invenzione di un'inesistente tradizione, sulle orme del nazionalismo ottocen­tesco, o dei totalitarismi del Novecento.Bisogna invece ricondursi alla concretezza dei problemi reali del nostro tempo, ai quali cercare risposte razionalmente efficaci. Allo stato delle cose, come abbiamo già accennato frai problemi più concreti e urgenti stanno quelli dati dall'esplo­sione demografica della popolazione mondiale, che minaccia di crescere oltre i limiti delle capacità attuali di sostentamento offerte dall'economia; dalla degradazione del terreno e delle condizioni climatiche dovute all'inquinamento dell'atmosfera e del suolo, e allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali; dai movimenti migratori di massa delle popolazioni deprivate di ogni risorsa disponibile, verso le regioni del mondo abitate da società economicamente più sviluppate; dal verificarsi di manifestazioni incontrollate di violenza collettiva, innescate da motivazioni etniche spesso sollecitate da condizioni di vita ormai al limite della sopportabilità; tutto questo insieme di condizioni in larga m isura provocate dall'assenza di una poli­tica di respiro mondiale e non solo nazionale, costituiscono il concreto dei problemi da risolvere per garantire il prosegui­

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mento del corso stesso della vita a livello ecumenico. In assen­za di una tal politica, che presuppone istituzioni capaci di af­frontarne i nodi cruciali, il rischio di una radicale disintegra­zione della società mondiale, dopo la scoperta dei mezzi ato­mici di aggressione bellica, non è più un evento fantascientifi­co immaginario, m a una concreta possibilità.La faticosa messa in atto di un nuovo, indispensabile ordi­ne mondiale, richiederà costi materiali e umani incalcolabili, perché molte sono le forze che dal disordine attuale traggono vantaggi notevoli, come le nuove forme della malavita intem a­zionale organizzata come mai è avvenuto nella storia, e come i vasti ceti parassitari che vivono sul denaro sporco che alimen­ta il mercato di armi e di droga. Ma questo sforzo coraggioso e tenace, se giungerà a segno, fornirà, come nel caso europeo, la materia prima di un nuovo epos, con le sue vicende, i suoi pro­tagonisti ed eroi, vicende tali da alimentare una nuova memo­ria storica, quella della genesi sofferta di una nuova identità planetaria.E al centro di questa identità non ci saranno più le imma­gini simbolo del genos che isola e oppone le nazioni, e del ter­ritorio, il topos, da conquistare e da difendere con la violenza delle armi, valori ancestrali fattisi antistorici, m a un nuovo ethos di pacificazione, per il quale la stirpe si risolva nella co­mune universale condizione umana e la terra natia sia vissuta come la matrice della vita di tutti gli esseri umani e animali.La riconversione di questi valori ancestrali in chiave uni­versale non potrà né dovrà tuttavia mai omologare e cancella­re la mirabile varietà di forme etniche, presenti nella lunga storia degli uomini, nella loro multiforme originalità. Il lin­guaggio non è una pura tecnica di comunicazione ma anche logos spermatikòs, la materia del creare immagini irripetibili nella loro purezza formale, e inimitabili nella loro originalità, così come lo sono le comunità dei parlanti che vi si esprimono.La soluzione più probabile del conflitto che sembra oppor­re in questo caso l’universalità dei valori e l’unicità dei popoli sta in una forma di duplice lealtà, per la quale sia resa possibi­le la contestuale partecipazione ai due mondi da parte dei cit­tadini, resi capaci di farli convivere tanto in sé quanto in una nuova realtà istituzionale, nella quale questo assetto trovi la sua storica concreta manifestazione: vivere l'universale nella p ratica della vita quotidiana. Quest’idea non è certam ente nuova ma presente da millenni nelle grandi rivelazioni misti- co-religiose, ciò che è tuttavia sempre mancato è un’ordine istituzionale in cui possa compiutamente realizzarsi. Nemme­no l’imperatore buddhista Asoka fu capace di creare una tale166

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realtà istituzionale che soprawivesse alla fine del suo regno. Troppo lontane dalla realtà culturale delle masse popolari era­no le ispirazioni mistiche degli spiriti eletti.Si tra tta infatti, tanto nel passato più antico, quanto nel presente contem poraneo, di un problem a di diffusione del messaggio degli illuminati a quella moltitudine che oggi chia­miamo con termine approssimativo di “società civile", per di­stinguerla qualitativamente dalla società politica. Solo i biso­gni che m aturano aU’interno di queste sterm inate masse di persone, possono farsi sostanza di azione politica, cessando di essere semplici stati d’animo e traducendosi in una realtà isti­tuzionale definita e operante.Ma dato che si tra tta , nel nostro caso, di fenom eni che coinvolgono l’intero sistema degli equilibri mondiali, e quindi di lunga durata, non dobbiamo dimenticare che allo stato at­tuale ci troviamo solo nella loro fase iniziale, in cui i protago­nisti ne sono ancora le élites ristrette presenti sotto forma di movimenti attivi nei diversi paesi, e tali da aver raggiunto la fase politico-propositiva solo nelle società dem ocratiche più mature: attraverso l’azione di veri e propri partiti.I movimenti dei pacifisti e dei verdi sono il segnale più chiaro di un bisogno crescente di liberazione da quei vincoli e da quelle prospettive tradizionali che si ispirano a una visione etnocentrica e particolaristica della vita sociale, motivata fon­damentalmente dal bisogno di sicurezza attraverso la conser­vazione, che in varie proporzioni costituisce ancora la tenden­za maggioritaria nel panorama politico internazionale. E se si tiene conto degli interessi che vi sono connessi c’è da pensare che il cammino verso un rovesciamento degli equilibri - nono­stante la strao rd inaria urgenza del problem a, nelle nuove dram m atiche circostanze m ondiali - sia ancora purtroppo molto lungo e difficile, nonostante i rischi sempre più gravi che il disordine mondiale comporta oggi.Non bisogna infatti farsi alcuna illusione su due aspetti che hanno attratto in modo particolare l’attenzione degli studiosi contem poranei di questi problemi, quello della unificazione mondiale del m ercato in term ini capitalistici e quello dello straordinario progresso tecnologico dei mezzi di comunicazio­ne in tempo reale, che dovrebbero creare nel mondo le condi­zioni ideali del cosiddetto “villaggio globale”.La storia, letta con occhio critico, ci dimostra che nei vil­laggi del passato, nei quali si parlava un’unica lingua e si pra­ticava un ’econom ia omogenea si produssero i conflitti più aspri, esempio eccellente fra tutti quello dei Comuni italiani del tardo Medio Evo.

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Economia e tecnologia sono pratiche razionali, e fornisco­no quindi mezzi adeguati a raggiungere scopi determinati, ma non sono tali da produrre i fini che debbono dare pienezza di valore agli scopi cui si dirigono.La cronaca contemporanea è ricca di episodi di inimmagi­nabile crudeltà determinata dall’azione distruttiva del mercato mondiale sulle economie locali e di conflitti interetnici, mai così diffusi e sanguinosi, sollecitati dalla propaganda mondia­le multimediale.Nessun prodotto dell’ingegno scientifico può produrre da sé, in modo oggettivo, un esito di valore, se non viene usato se­condo regole e leggi di natura morale e cioè simbolica. E que­ste traggono la loro forza suggestiva e imperativa solo attra­verso il coinvolgimento attivo dei soggetti nel processo della loro nascita, nella mitopoiesi, con la trasfigurazione del reale che, da domesticità puram ente utilizzabile si faccia compiuta domesticità um ana nella dimensione del valore.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Smith (1991), sulla proposta del modello culturale europeo come riferimento simbolico comune, p. 174;Smith (1992), sulla necessità di un nuovo ordine mondiale, pp. 455-456, 458;Romeo (1979), sul superamento del concetto di nazione, pp. 536- 537;Rusconi (1993), sulla dimensione culturale delle costituzioni eu­ropee, pp. 39-40, sulla tesi di Romeo (1979), pp. 114-117.

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Indice dei nom i

Adenauer, Konrad 158 Alberti, Leon Battista 105, 112 Alessandro n, zar di Russia 84 Alessandro Magno 35, 41, 46 Amenofi iv (Ekhnaton), faraone egizio 39, 40 Ancona, Alessandro 121 Arendt, Hannah 81, 135 Arnim, Ludwig Achim von 69, 71Asoka, re indiano 41, 167 Averroè 57 Avicenna 57Azeglio, Massimo d’ 114Bacone, Ruggero 62 Banfield, E. 118, 123 Bausani, A. 76 Beccaria, Cesare 113 Bellah, Robert 98 Benda, Julien 159 Benedetto da Norcia 59 Bentley, A. 13, 18 Berger, E 10 Berger, RIO Billington, J.H. 81 Blanc, Louis 81 Bloch, Marc 76, 127 Bodin, Jacques 62 Bodmer, Jakob 68, 69, 72 Bonfantini, M. 107 Borbone, dinastia, re di Napoli, duchi di Parma 103, 113

Bossuet, Jacques 62 Bottai, Giuseppe 87 Braudel, Fernand 9, 94, 108, 127 Brentano, Klemens 69 Buddha 17, 40, 146Calvino, Giovanni 63 Campanella, Tommaso 80 Capponi, Gino 125 Carlo i Stuart, re d’Inghilterra 65Carlo in di Borbone, re di Napoli 113Carlo Magno 49, 52 Carlo vili, re di Francia 102 Carr, Edward H. 97 Cartesio 62 Cartocci, R. 127Caterina n, imperatrice di Rus­sia 83, 90, 132 Cavazza, F.L. 98, 104 Chabod, Federico 66, 77, 127 Ch’in, dinastia, imperatori della Cina 147 Cid Campeador 53 Cirillo, Ciro 116 Cohen, A. 31Colbert, Jean-Baptiste 62 Comparetti, Domenico 121 Confucio 38, 62, 142 Costantino, imperatore romano 47Coudhenove Kalergi, Richard 157, 158

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