fabio pesaresi - i grandi suq di parigi

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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” DipLeFili Dottorato in Studi Interculturali Europei 2 marzo 2010 Dottorando: Fabio Pesaresi I grandi suq di Parigi: il viaggio tra sguardo e racconto “L‟uomo osserva per conoscere. La vista è un‟entità divina legata alla meraviglia: una relazione di conoscenza. La filosofia nasce dallo stupore scaturito dall‟osservazione dei fenomeni della natura.” (Venturi Ferriolo, p. 25) Eppure, gli occhi non sono mai del tutto innocenti: il nostro sguardo è selettivo e ciò che vediamo non è la realtà oggettiva, quanto una proiezione dei nostri orizzonti d‟attesa. Persino il paesaggio naturale, che promette un contatto con quanto di più primordiale, è in realtà percepito solo attraverso la mediazione della cultura. Il viaggio è uno dei campi d‟azione privilegiati dello sguardo, ma mentre il Settecento razionalista proponeva con convinzione il viaggio come esercizio di empirismo volto ad abbattere i pregiudizi, oggi avvertiamo sempre di più la necessità di indagare il modo in cui si costituisce la nostra percezione. Gli studi imagologici, in particolare, analizzano le modalità di elaborazione delle immagini nazionali per svelare i filtri che concorrono a definire l‟Altro e, simmetricamente, noi stessi. 1. Lo sguardo culturale Descrivendo la Piccola isola di Iava, cioè Sumatra, Marco Polo scrive: Egli hanno leonfanti assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti. E‟ sono di pelo di bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno male con quel corno, ma con la lingua, ché l‟hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi. Lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra; e istà molto volentieri tra li buoi (entre la bue et entre le fang): ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch‟ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contradio. (Polo, p. 377) Marco vede un rinoceronte ma invece di descriverlo come una sua nuova scoperta, riconosce in esso, con qualche correzione, quello che la sua enciclopedia di riferimento gli aveva già insegnato: l‟unicorno. La sua percezione “è orientata da un insieme di testi di riferimento: nonostante il suo empirismo, egli non può evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura” (Umberto Eco, citato in Capoferro, p. 23). Un‟esperienza analoga è vissuta da Cristoforo Colombo nel corso del terzo viaggio quando, raggiunto per la prima volta il continente americano, ne analizza con precisione tutti gli elementi naturali, misura la portata del fiume Orinoco, e giunge all‟unica conclusione possibile: il luogo a cui è arrivato deve certamente essere il paradiso terrestre di cui ha letto nei testi antichi (cfr. Bertone, p. 16). Chagall Schizzo per l’angelo di Mozart

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Travellers only see what education allows them to. Mountains did not exist before travel literature discovered them, and Paris can be experienced as a city of endless suqs.This paper analyses the way in which we can view things, countries, peoples, and discover how images of the other are elaborated.

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Page 1: Fabio Pesaresi - I Grandi Suq Di Parigi

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” – DipLeFili Dottorato in Studi Interculturali Europei

2 marzo 2010 Dottorando: Fabio Pesaresi

I grandi suq di Parigi:

il viaggio tra sguardo e racconto

“L‟uomo osserva per conoscere. La vista è un‟entità divina

legata alla meraviglia: una relazione di conoscenza. La filosofia

nasce dallo stupore scaturito dall‟osservazione dei fenomeni

della natura.” (Venturi Ferriolo, p. 25) Eppure, gli occhi non

sono mai del tutto innocenti: il nostro sguardo è selettivo e ciò

che vediamo non è la realtà oggettiva, quanto una proiezione

dei nostri orizzonti d‟attesa. Persino il paesaggio naturale, che

promette un contatto con quanto di più primordiale, è in realtà

percepito solo attraverso la mediazione della cultura. Il viaggio

è uno dei campi d‟azione privilegiati dello sguardo, ma mentre

il Settecento razionalista proponeva con convinzione il viaggio

come esercizio di empirismo volto ad abbattere i pregiudizi,

oggi avvertiamo sempre di più la necessità di indagare il modo

in cui si costituisce la nostra percezione. Gli studi imagologici,

in particolare, analizzano le modalità di elaborazione delle

immagini nazionali per svelare i filtri che concorrono a definire

l‟Altro e, simmetricamente, noi stessi.

1. Lo sguardo culturale

Descrivendo la “Piccola isola di Iava”, cioè Sumatra, Marco Polo scrive:

Egli hanno leonfanti assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti. E‟ sono di pelo di

bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno

male con quel corno, ma con la lingua, ché l‟hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi. Lo capo hanno

come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra; e istà molto volentieri tra li buoi (entre la bue et

entre le fang): ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch‟ella si lasci prendere alla

pulcella, ma è il contradio. (Polo, p. 377)

Marco vede un rinoceronte ma invece di descriverlo come una sua nuova scoperta, riconosce in esso, con

qualche correzione, quello che la sua enciclopedia di riferimento gli aveva già insegnato: l‟unicorno. La sua

percezione “è orientata da un insieme di testi di riferimento: nonostante il suo empirismo, egli non può

evitare di guardare alle cose con gli occhi della cultura” (Umberto Eco, citato in Capoferro, p. 23).

Un‟esperienza analoga è vissuta da Cristoforo Colombo nel corso del terzo viaggio quando, raggiunto per la

prima volta il continente americano, ne analizza con precisione tutti gli elementi naturali, misura la portata

del fiume Orinoco, e giunge all‟unica conclusione possibile: il luogo a cui è arrivato deve certamente essere

il paradiso terrestre di cui ha letto nei testi antichi (cfr. Bertone, p. 16).

Chagall – Schizzo per l’angelo di Mozart

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Marco Polo e Cristoforo Colombo riescono a vedere quello che non esiste - almeno nel mondo dei sensi -

perché non viaggiano per scoprire, ma per confermare. Essi appartengono a quella che Lotman e Uspenskij

hanno definito una cultura del Libro, e non del Manuale:

Un connotato essenziale della caratterizzazione tipologica della cultura può considerarsi il modo in cui essa si

definisce da sé. Se è proprio di certe culture il rappresentarsi come un insieme di testi regolati (…), altre

culture modellizzano se stesse come un sistema di regole che determinano la creazione di testi. […] Questo o

quell‟orientamento di una cultura genera l‟ideale del Libro o del Manuale. (Lotman-Uspenskij, pp. 50-51).

Gli occhi, opportunamente istruiti, riescono dunque a vedere persino quello che in realtà non c‟è, ma è

altrettanto possibile che accada il contrario. Nel suo viaggio in Italia, Goethe è talmente desideroso di

ritrovare i paesaggi classici vagheggiati che riesce ad ignorare quasi tutto il resto:

ci sarebbe da scrivere un apposito saggio intorno alle sue preterizioni: stando alle quali, chi del diario di

Goethe facesse una guida per i propri itinerari italiani, sarebbe indotto a pensare che nel nostro paese un‟arte

medioevale non sia mai esistita. A Verona, Goethe non si accorge di San Zeno e delle sue porte; a Venezia,

non ha occhi che per il Palladio, ignora il Palazzo Ducale, e di San Marco non nomina che il campanile, per la

vista che da lassù gode nelle giornate in cui l‟aria è tersa. (Assunto, p. 207)

Goethe non è l‟unica vittima di questa proiezione di se stesso sul paese che visita. Lo sguardo è selettivo a tal

punto che l‟Italia vista dai viaggiatori del Grand Tour non è altro che

una menzogna culturale, un atto ideologico, una proiezione del desiderio che compie il viaggiatore stesso

mentre percorre le strade della penisola fra la fine del XVI e il XIX secolo, perché quel paesaggio urbano e

soprattutto la gente che lo abita sono in gran parte costruiti prima della partenza. (Brilli, p. 15)

Attilio Brilli ha studiato l‟immagine degli

italiani nei resoconti dei viaggiatori, ed ha

rilevato che non solo i luoghi, ma soprattutto i

loro abitanti vengono presentati con immagini

stereotipate che si mantengono immutate per

un tempo incredibilmente lungo:

Spesso il viaggiatore si prefigura, magari

leggendo altri viaggiatori, una propria Italia

immaginaria che pretende poi di trovare tale e

quale nel corso della visita. Con l‟enfasi dei suoi

monumenti e delle mirabili vedute, al paesaggio si

chiede di rispondere alle aspettative, se non di

superarle, creando in questo caso l‟occasione

dell‟evento mirabile e il piacere aggiuntivo della

sorpresa. […] Dalla gente si esige né più né meno

che di adattarsi ad un modello previsto: essere

folla costituita di figure di maniera corrispondenti ai canoni del bozzettismo e del pittoresco, e con essi ai

pregiudizi più vieti che sull‟Italia e sugli italiani circolano nei paesi di origine dei viaggiatori, il che significa

essere figure inconsistenti e inanimate, dei veri e propri manichini distinguibili tutt‟al più dai costumi e dagli

orpelli regionali. (Brilli, ibidem)

Durante il suo soggiorno in Provenza, Cézanne si rese conto che i contadini che lo circondavano non

avevano mai davvero “visto” il monte Sainte-Victoire nonostante lo avessero avuto davanti agli occhi per

Richard Wilson, Il ponte di Rimini

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tutta la vita: “ho fatto a volte delle passeggiate, ho accompagnato un fittavolo che andava a vendere le patate

al mercato. Egli non aveva mai visto la Sainte-Victoire” (riportato in Bertone, p. 11).

Cézanne non solo riuscì a vedere quello che nessuno, prima di lui, aveva visto, ma insegnò anche agli altri,

anche a noi, come vedere la montagna della Sainte-Victoire:

è precisamente al genio di Cézanne che dobbiamo il Sainte-

Victoire, la sua «ispirazione», la sua artializzazione da paese

a paesaggio. Sull‟autostrada A7, che attraversa il massiccio,

si invita con dei cartelli ad ammirare il Sainte-Victoire e i

«Paesaggi di Cézanne», si chiama il genio del luogo, come

se, senza questo riferimento, il paesaggio rischi di cadere

nell‟indifferenza – nullità del paese, luogo senza genio. Altro

segnale rivelatore: devastato da un incendio, il Sainte-

Victoire sarà restaurato «alla Cézanne», come un quadro, a

tal punto Cézanne lo ha alla fine cambiato. (Alain Roger, in

D‟Angelo, p. 186).

La capacità che distingue i pittori, gli artisti, è proprio quella di

rompere la patina che l‟abitudine ha posato sulle cose che

abbiamo davanti e che ci impedisce di vederle.

2. L‟educazione dell‟occhio

“There was no fog in London before Whistler painted it”, scrisse Ernst Gombrich in Art and Illusion

(Gombrich 1969, p. 324), sostenendo la tesi che per vedere qualcosa abbiamo bisogno di qualcuno che ce la

mostri, che ci insegni a vederla. Gombrich riprende un appunto di

Oscar Wilde nel quale lo scrittore inverte il luogo comune per cui

l‟arte è imitazione del vero:

“At present, people see fogs, not because there are fogs, but because poets

and painters have taught them the mysterious loveliness of such effects.

There may have been fogs for centuries in London. I dare say there were.

But no one saw them, and so we do not know anything about them. They did

not exist till art had invented them.” (Wilde, p. 793)

Mostrare quello che i nostri occhi non possono, o non sanno, vedere

era stato uno degli obiettivi della poesia e dell‟arte del

Romanticismo. Nel capitolo 14 di Biographia Literaria, Samuel T.

Coleridge descrive il modo in cui insieme a Wordsworth decisero di

scrivere le Lyrical Ballads in questi termini:

the characters and incidents were to be such as will be found in every village and its vicinity, where there is a

meditative and feeling mind to seek after them, or to notice them, when they present themselves.

In this idea originated the plan of the LYRICAL BALLADS; in which (...) Mr. Wordsworth (...) was to

propose to himself as his object, to give the charm of novelty to things of every day, and to excite a feeling

analogous to the supernatural, by awakening the mind's attention to the lethargy of custom, and directing it to

the loveliness and the wonders of the world before us; an inexhaustible treasure, but for which, in consequence

J. A. M. Whistler, Nocturne: Blue and

Gold - Old Battersea Bridge

Paul Cézanne, Sainte-Victoire

(Cleveland)

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of the film of familiarity and selfish solicitude, we have eyes, yet see not, ears that hear not, and hearts that

neither feel nor understand.

Il mondo è davanti ai nostri occhi, ma non riesce a vederlo che una “meditative and feeling mind”, quella del

poeta, dell‟artista (cfr. Bonadei-Volli, p. 15) che ha la facoltà di esplorare, di penetrare, di trovare ciò che gli

altri non riescono neppure a percepire: è l‟artista, soprattutto l‟artista romantico, colui che possiede la

capacità di scendere “au fond de l‟inconnu per trouver du nouveau” (Baudelaire, Le voyage, VII), di

insegnare cosa vedere nella natura tanto che nessuno,

nemmeno i pittori stessi, può apprendere la natura se non

attraverso un vocabolario predisposto dai pittori che lo

hanno preceduto. (cfr. Gombrich 1973).

Sembra allora possibile tentare una definizione di

paesaggio come “natura percepita attraverso una cultura.

[…] Per vedere un paesaggio c‟è bisogno di qualcosa di

più di un occhio che lo scorga: ci vuole una riflessione che

lo costituisca nella sua diversità dal mero dato sensibile:

una teoria, appunto”. (D‟Angelo, p. 8).

Quando la natura è vista da chi la contempla con

sentimento, essa si rivela e diventa paesaggio, ma a

condizione che l‟uomo si rivolga ad essa senza uno scopo

pratico, intuendola e godendola liberamente per essere nella natura in quanto uomo (cfr. Ritter p. 47). Ritter

sostiene che l‟arte del paesaggio è una specie di compensazione di quanto l‟uomo ha perso a causa della sua

evoluzione tecnologica. Nel momento in cui si interrompe il suo contatto organico con la natura, nel

momento in cui l‟uomo diventa cittadino, sente la necessità di ricostruire un rapporto con essa e lo fa

attraverso l‟arte. Il paesaggio diventa tale solo quando è guardato con disinteresse: la contemplazione estetica

della natura è una compensazione, una sorta di risarcimento e sostituzione, di quello che è andato perduto

attraverso la matematizzazione della natura, frutto della scienza-tecnica moderna. Quando la natura come

totalità contemplabile esce dall‟orizzonte della scienza, essa trova rifugio nell‟estetica: il paesaggio è

appunto l‟erede moderno dell‟idea antica di una totalità contemplabile (theoria).

Tra Sei e Settecento si diffonde, soprattutto in Inghilterra, il desiderio di riscrivere la natura nelle forme

trasmesse dalla pittura. Lo sguardo degli aristocratici e dei ricchi borghesi che si era educato con i panorami

gustati nel corso del Grand Tour, cerca nel paesaggio inglese lo stesso godimento estetico. La campagna

inglese viene quindi trasformata ad uso e consumo dell‟osservatore, e i parchi inglesi diventano il luogo in

cui si inventa, e si insegna, un nuovo tipo di sguardo.

Il „700 codifica la spettacolarizzazione dello spazio con una pratica dei luoghi che ne ridefinisce radicalmente

il loro „godimento‟. (…) E qualcosa di cruciale effettivamente avvenne quando un nuovo genere di osservatore

apparve sulla scena, distinguendo lo sguardo „pratico‟ da quello „estetico‟: il punto qui non è la divisione, ma il

fatto che quell‟osservatore provò il bisogno, e si trovò nella posizione, di „distinguere‟. Questa è la figura che

mancava - il beholder, l‟osservatore consapevole – l‟uomo qualunque che osserva ed è consapevole di farlo

come esperienza in sé, che ha predisposto modelli sociali e analogie per supportare e giustificare tale

esperienza: dire paesaggio non vuol perciò dire un certo tipo di natura ma un certo tipo di uomo, un modo di

vedere la natura. Dietro il „genio del luogo‟ sta un padrone del luogo, osservatore/artefice/spettatore, capace di

generare processi culturali complessi e godimenti nuovi a partire da uno sguardo. (Bonadei-Volli, p. 13)

Per trasformare un paese in paesaggio occorre la presenza di un osservatore distaccato, che possa

contemplare il panorama senza esservi coinvolto in modo esistenziale nel modo in cui lo erano i contadini di

Cézanne (cfr. Ogden). E‟ uno spettatore che insieme al piacere estetico suscitato dalla scena che si prospetta

John Davies, British Landscape

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dinnanzi a lui, gode contemporaneamente della sua posizione al riparo da ogni pericolo. Da questa posizione

è possibile riconoscere i valori estetici della natura più maestosa, che fino ad allora era stata invece subita

come ostile.

La posizione dell‟uomo del Settecento ricorda quella dello spettatore del naufragio descritto da Lucrezio nel

Secondo Libro del De Rerum Naturae e discusso da Blumenberg in Naufragio con Spettatore: lo spettatore è

affascinato dallo spettacolo che si svolge sul mare, sotto il suo sguardo, solo perché è al sicuro su un terreno

solido.

… Per questo motivo il teatro, secondo Galiani, è una

perfetta esemplificazione della natura umana. Solo dopo che

gli spettatori hanno avuto i loro posti sicuri può dispiegarsi,

di fronte a loro, lo spettacolo degli uomini in pericolo. “Più

lo spettatore è al sicuro e più grande è il pericolo che vede,

tanto più s‟interessa allo spettacolo. Questa è la chiave di

tutti i segreti dell‟arte tragica, comica, epica.” Cosicché

Lucrezio non avrebbe completamente torto. Sicurezza e

felicità sono le condizioni della curiosità, e questa è il loro

sintomo. Trasferito dal mare al teatro, lo spettatore di

Lucrezio viene sottratto alla dimensione morale, è diventato

spettatore “estetico”. (Blumenberg, p. 64-65)

Il paesaggio è a sua volta teatro, luogo riservato allo sguardo,

organizzato dallo sguardo e per lo sguardo. “Non c‟è paesaggio senza teatro” dichiara Venturi Ferriolo (p.

15), che in Percepire paesaggi sviluppa il rapporto tra il paesaggio, la visione (theoria) e la capacità di

conoscere:

la buona visibilità dell‟insieme … è un concetto fondamentale per la conoscenza dei luoghi nella loro

complessità. Come costruirla o ricostruirla? Come svelare l‟invisibile, vale a dire l‟opera palese o nascosta

dell‟uomo?

La risposta è il teatro con la buona organizzazione del visibile, accesso alla leggibilità di un paesaggio per

facilitare la comprensione delle sue trame peculiari: un universo con i suoi elementi particolari che concorrono

insieme di pari grado all‟unità della sua immagine univoca di realtà vivente in perpetua trasformazione.

(Venturi Ferriolo, p. 90)

3. Lo sguardo del viaggiatore

L‟artista non è però davvero l‟unico ad essere dotato di quella particolare sensibilità che gli permette di

vedere ciò che gli uomini normali non vedono. Nella situazione sospesa tra la partenza e l‟arrivo, il

viaggiatore prova una sensazione di spaesamento e si può permettere di indossare una identità temporanea

che gli permette di sfuggire al sonno dell‟abitudine.

'Fare forward, you who think that you are voyaging;

You are not those who saw the harbour

Receding, or those who will disembark.‟

(T.S. Eliot, Four Quartets, The Dry Salvages, III)

In questa situazione, che Leed ha chiamato passage (Leed, p. 55), il viaggiatore si trova ad avere una

sensibilità acuita che lo rende “poroso” al mondo:

T. Gainsborough,

Mr and Mrs Andrews

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What gives value to travel is fear. It is the fact that, at a certain moment, when we are so far from our own

country ... we are seized by a vague fear, and the instinctive desire to go back to the protection of old habits.

This is the most obvious benefit of travel. At that moment we are feverish but also porous, so that the slightest

touch makes us quiver to the depths of our being. (Albert Camus, Carnets 1935-1942, in Leed, p. 1).

Il viaggio restituisce freschezza al nostro sguardo, e nel proporre le cose sotto una diversa luce, ce le fa

apparire come nuove: “This was the experience Goethe had continuously on his journey through Italy, as he

came upon „familiar objects in an unfamiliar world,‟ an

experience in which everything was new and fresh.” (Leed, p.

67). Lo stesso Goethe si rese conto che per poter avvicinare il

mondo in un nuovo modo, c‟era bisogno di elaborare un nuovo

sguardo:

Quelle che adesso mi importano sono solo le impressioni dei

sensi, che nessun libro, nessun quadro può dare. Il fatto è

che sto riprendendo interesse al mondo , sperimento il mio

spirito di osservazione e verifico la reale portata delle mie

scienze e delle mie cognizioni; mi accerto se il mio occhio è

chiaro, puro e lucido, se in questo passaggio veloce posso

arricchirmi di nuove nozioni, e se le rughe che mi si sono

formate e incise nell‟animo possono essere ancora cancellate

(Viaggio in Italia, Trento 11 settembre 1786).

Goethe fa propria un‟esigenza sentita da altri suoi contemporanei, come ad esempio William Hogarth, di

liberare lo sguardo da quello che De Bolla chiama il regime of picture, condizionato da ciò che uno sa e che

viene riconosciuto in ciò che si guarda, per scoprire un nuovo regime of the eye in cui lo sguardo è libero di

rispondere in modo autonomo agli stimoli che gli si offrono (cfr. De Bolla, p. 9). Mentre il regime of the

picture discrimina gli osservatori in base alla cultura, e quindi anche della storia personale, della situazione

socio-economica, il regime of the eye si propone in modo democratico, dato che chiunque ha la possibilità di

leggere e rispondere in modo emotivo a ciò che vede.

Questo processo di democratizzazione dello sguardo è connesso al nuovo quadro culturale che si era andato

formando sugli scritti dei filosofi dell‟empirismo, soprattutto di Francis Bacon, e sulle regole elaborate dalle

Accademie scientifiche, prima tra tutte la Royal Society di Londra. L‟empirismo modificava in modo

radicale il concetto di autorità: chiunque poteva condurre osservazioni, esperimenti, esplorazioni, e tutti i

risultati erano degni di attenzione purché fossero conformi ai precetti stabiliti e promossi dalla Royal

Society. Improvvisamente, ogni persona poteva avere una voce nel mondo della scienza: non più solo gli

esponenti della cultura accademica, ma persino un viaggiatore, un capitano, un marinaio. Anzi, secondo i

parametri fissati dalla Royal Society, l‟ideale linguistico diventava quello di artigiani e mercanti, preciso,

asciutto, senza tropi, mentre

i relatori dovevano essere più versati nelle attività pratiche che non in quelle teoretiche e dimostrarsi

osservatori sobri, diligenti e laboriosi: anziché portar con sé un gran bagaglio di conoscenze portano le proprie

mani, e hanno occhi e il cervello incontaminati da false immagini. (Capoferro, p. 54)

La nuova stagione culturale, affermatasi tra il Seicento e il Settecento, era destinata ad avere una influenza

determinante sul modo di viaggiare e di vedere i luoghi che si visitavano, nel momento in cui il viaggio

veniva per la prima volta non subìto come una necessità, ma vissuto come un‟occasione di piacere, senza

alcuno scopo se non quello di conoscere nuovi luoghi ed incontrare nuove persone.

Samuel Wale, Vauxhall Gardens

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Nel Settecento, l‟esperienza del viaggio diventa una vitale esigenza per l‟uomo di cultura e il viaggiatore si

identifica sempre di più con il philosophe, inteso, secondo la definizione data dagli Enciclopedisti , come colui

che è guidato dalla passione di osservare e riflettere, per scoprire per quale ragione le cose siano in un modo

piuttosto che in un altro” (Bacchereti, p. 306)

Ad istruire il nuovo viaggiatore concorrono numerosi testi pubblicati in quel periodo e che vanno a comporre

quella Ars Apodemica che formerà nuove regole non solo di comportamento ma anche di osservazione.

Tra gli scritti che ebbero maggiore influenza e successo, c‟è il

breve saggio dedicato al viaggio da Francis Bacon che

stabilisce le regole che saranno poi osservate nei due secoli

seguenti: il viaggiatore deve conoscere almeno un po‟ la lingua

del luogo, deve essere accompagnato da un tutore esperto,

avere libri sul paese che visita, incontrare le persone eminenti

di ogni paese, tenere un diario e non mancare di osservare una

lunga lista di cose che vanno dalle corti, ai monasteri, agli

arsenali, alle feste. Questo viaggiatore ideale deve essere

aperto alle nuove esperienze, osservare quello che i luoghi gli

offrono, trascrivere le proprie osservazioni nei diari, ed essere

consapevole che viaggiare fa parte della sua educazione.

L‟empirismo proposto da Bacon non può però fare a meno di

essere guidato, e così anche il viaggiatore non può fare a meno

di una guida, sia una persona o un libro, che lo aiutino a

conoscere i luoghi che visita. Il Settecento assiste ad una fioritura di pubblicazioni di resoconti di viaggio in

cui vengono proposti gli itinerari seguiti nel corso del Grand Tour. Alcuni di questi itinerari furono

estremamente popolari, come le Remarks on Several Parts of Italy di Joseph Addison che vennero ristampate

in numerose edizioni e furono per molto tempo il testo di

riferimento per ogni viaggiatore in Italia, tanto che spesso sia i

viaggi che le osservazioni riportate nei diari sono né più né meno

che una copia esatta delle note di Addison.

Più tardi, nell‟Ottocento, saranno pubblicate nuove guide, come

le celebri Baedeker, che offriranno libertà al viaggiatore

maggiore libertà nella scelta degli itinerari, delle mete, delle cose

da visitare ed osservare. Con le Baedeker ogni viaggiatore potrà

costruire il proprio viaggio, ma persino l‟apparente neutralità

della guida moderna nasconda scelte ed imposizioni culturali,

come ha segnalato Roland Barthes per il quale la guida diventa

“per un‟operazione comune ad ogni mistificazione, il contrario

stesso del suo titolo, un mezzo di accecamento” (Barthes, 120).

La guida seleziona gli oggetti del nostro sguardo, e guida la nostra vista. In questo le guide moderne non

sono diverse da quelle che nel Settecento imposero la moda del pittoresco: dapprima Thomas West, con le

sue 21 stazioni di osservazione del Lake District, poi Gilpin con i numerosi saggi sul pittoresco, sul viaggio

pittoresco e con il dialogo sui giardini di Stowe che costituiscono una interessante guida ad uno dei giardini

maggiormente significativi per l‟elaborazione del nuovo gusto estetico, ma per noi anche una porta d‟accesso

all‟estetica di quel tempo. Le guide al Pittoresco non si limitavano a proporre nuovi luoghi ai viaggiatori, ma

anche punti panoramici, fenomeni atmosferici, ed indicavano quali attrezzi utilizzare per ottenere il massimo

risultato, in termini di piacere, dal loro viaggio. Tra gli oggetti in voga c‟era il cosiddetto Claude Glass, uno

Tintern Abbey

vista su un Claude Glass

Tintern Abbey

vista su un Claude Glass

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specchio convesso che trasformava ogni paesaggio in un quadro alla Lorrain provocando quindi i brividi di

piacere alla cui ricerca erano partiti i viaggiatori.

La scoperta del pittoresco travolse l‟Inghilterra nel giro di pochi anni, ed aprì nuovi itinerari per i viaggiatori

che, per ragioni economiche o per evitare gli inconvenienti del viaggio, preferivano rimanere in Gran

Bretagna. Non è strano che questo atteggiamento sia stato oggetto di ironia da parte dei caricaturisti del

tempo che sottolineavano gli eccessi determinati dal nuovo entusiasmo per la scoperta di una natura che fino

ad allora era stata temuta, evitata, ignorata.

Thomas Rowlandson, Dr Syntax Sketching the Lake

Si propongono a noi due modelli tra cui scegliere: il viaggiatore ben preparato, fornito di tutti gli strumenti

culturali che però rischiano di diventare una limitazione a quanto di inatteso ci potrebbe essere, oppure il

viaggiatore ingenuo ma aperto a tutto quanto gli si possa presentare? Mario Praz mette a confronto la propria

esperienza di viaggiatore moderno, catapultato in aereo tra le rovine di Palmira, nel deserto siriano, e quella

della spedizione condotta nel Settecento da Wood e Dawkins che avevano preparato il viaggio per un intero

leggendo tutti i testi classici e dopo aver visitato tutta la Grecia e l‟Asia Minore, ma non riesce a trovare una

risposta definitiva: “L‟abolizione delle distanze diminuisce la poesia del viaggiare, o la sostituisce con una

diversa poesia più vicina all‟incanto del sogno?” (Praz, p. 214)

Gavin Hamilton, James Dawkins and Robert Wood Discovering the Ruins of Palmyra

La tirannia esercitata dalla guida turistica sullo sguardo del viaggiatore non sfuggì a Edward M. Forster, che

in A Room with a View mostra una giovane donna inglese che comincia a vedere l‟Italia, e metaforicamente a

vivere veramente, solo dopo essere stata privata del suo prezioso Baedeker:

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Lacrime di indignazione salirono agli occhi di Lucy – un po‟ perché Miss Lavish l‟aveva piantata in asso, un

po‟ perché si era portata via il suo Baedeker. Come avrebbe fatto tornarsene a casa? Come avrebbe fatto a

visitare Santa Croce? (…) Ora entrò nella chiesa depressa e umiliata, incapace perfino di ricordare se fosse

stata costruita dai francescani o dai domenicani.

Naturalmente non poteva che trattarsi di un edificio meraviglioso. Ma come somigliava a un granaio! E che

freddo! Naturalmente, c‟erano gli affreschi di Giotto, e in presenza dei loro valori tattili Lucy si sentiva in

grado di provare le giuste emozioni. Ma come distinguerli dagli altri? Lucy continuò a girare per la chiesa con

aria sprezzante, restia a dimostrare entusiasmo per opere d‟arte di autore e data incerti. Non c‟era nessuno che

potesse dirle almeno quale, delle tante pietre tombali che lastricavano la navata e i transetti, fosse quella

davvero bella, quella tanto lodata da Mr. Ruskin.

Poi si lasciò prendere dal pernicioso fascino dell‟Italia e, invece di darsi da fare per saperne di più sui

monumenti, cominciò a sentirsi felice. (Forster, p. 26)

Le pagine di Forster ci interrogano sulla capacità che lo sguardo del viaggiatore ha di vedere e conoscere

quello che lo circonda, soprattutto nell‟epoca contemporanea in cui il viaggio è diventato una prassi comune,

fruita da persone che non sono sempre guidate dal desiderio della scoperta e dell‟incontro. Paradossalmente,

sembra che la nostra società, almeno per quanto riguarda il viaggio, sia tornata ad essere una società del

Libro, per riprendere la terminologia proposta da Lotman e Uspenskij, in cui il nostro sguardo è

costantemente pilotato dai mass media, dagli agenti di viaggio e dai modelli di consumo imposti

dall‟economia di mercato. Il nostro sguardo è sempre meno quello di un individuo davanti al mondo e

sempre più quello richiesto dalla collettività. In altre parole, lo sguardo romantico ha lasciato il posto allo

sguardo collettivo (cfr. Urry, p. 76), ed i luoghi si sono adattati alla richiesta del mercato turistico. La

dialettica tra la realtà e il mondo fittizio dei turisti è uno dei fili conduttori dei best-sellers di Ian Rankin. Alla

conclusione del primo romanzo della fortunata serie in cui compare l‟ispettore Rebus, scrive:

Edinburgh had shown itself to Jim Stevens as never before, cowering beneath the shadow of the Castle Rock in

hiding from something. All the tourists saw were shadows from history, while the city itself was something

else entirely. He didn‟t like it.

(Rankin, p. 226)

Resta però da chiederci se il mondo dei turisti sia fittizio solo perché il viaggiatore non ha occhi per la realtà

cruda dei luoghi che visita, oppure se siano i luoghi ad adattarsi, a specializzarsi almeno in parte, per essere

fruiti dai viaggiatori in una sorta di enorme Disneyland costruita solo per essere guardata. Lo spettatore è

infatti capace di creare i luoghi che attraversa col suo sguardo, ai quali non è mai veramente estraneo, come

ci racconta Marco Aime nel suo Diario dogon descrivendo il modo in cui i locali adattino la propria realtà

alle richieste dei turisti.

4. Lo sguardo narrato

Il viaggiatore è esposto al rischio di mancare l‟incontro con l‟alterità e di non trovare altro che la proiezione

di se stesso: di riprodurre stereotipi invece di creare conoscenza.

Nella tradizione della letteratura di viaggio il tentativo di definire una cultura diversa da quella di appartenenza

attraverso gli usi, i costumi e l‟indole di un popolo è sempre stato per il viaggiatore un modo per affermare se

stesso e i propri connotati culturali. Definire un‟identità diversa dalla propria significa ridefinirsi facendo leva

sull‟intera gamma delle altrui differenze. Atto, questo, che implica l‟ostentazione di tali differenze con la

rigidità e la schematicità dei pregiudizi, dei luoghi comuni, dei cliché e degli stereotipi, che sono le „verità‟ più

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economiche e a portata di mano che esistano. E come tali ambìti in particolar modo dai viaggiatori frettolosi.

Onnipresenti nella letteratura di viaggio, e in specie nelle guide, gli stereotipi sono espressioni sintetiche,

costruite per infiggersi nella memoria e per colpire l‟immaginazione.” (Brilli 27)

Sebbene nessuno riesca a sfuggire del tutto alle immagini semplificate che ci vengono fornite dalla cultura,

un‟attenta analisi dei modi in cui esse si formano può aiutarci ad assumere un atteggiamento più maturo.

Nell‟ambito della comparatistica, e più in generale nell‟orizzonte degli studi culturali, si è andata affermando

fin dagli anni ‟60 l‟imagologia, una prassi che si occupa di analizzare l‟elaborazione delle immagini culturali

dell‟Altro poggiando sul presupposto che “il testo letterario è un palinsesto sul quale convergono elementi

tematici, mitici, morfologici, lessicali” (Proietti, p. 34).

Il campo classico su cui si sono esercitati gli studiosi di imagologia è ad esempio il rapporto tra la Francia e

la Germania, tra cui si è effettuato un continuo scambio reciproco di eterostereotipi negativi corrispondenti

ai rispettivi autostereotipi positivi: si pensi ad esempio alle raffigurazioni di Voltaire e di Lessing, che

vengono poi del tutto ribaltate dall‟atteggiamento germanofilo di Mame de Staël in De l‟Allemagne. (cfr.

Beller)

L‟atteggiamento verso l‟altro risente sia del pensiero personale dell‟autore, ma anche della pressione che su

di lui esercitano le opinioni collettive. Gramsci, Foucault, Said e molti altri autori contemporanei ci hanno

insegnato che nessun discorso è neutro, ma che esprime sempre un tentativo politico di persuasione e di

dominio. Svelare le forme in cui si costruisce questo discorso può aiutarci a liberarci dalle imposizioni

culturali di cui siamo oggetto.

E‟ esemplificativa a questo riguardo la critica che Chinua Achebe fece dello Heart of Darkness di Joseph

Conrad. Ribaltando l‟opinione più diffusa che aveva visto in Conrad un convinto anti-imperialista, Achebe

vide in Heart of Darkness un chiaro atteggiamento colonialista poiché riduceva i congolesi e tutta l‟Africa a

mero sfondo delle vicende degli europei.

L‟imagologia e gli studi interculturali hanno posto sulla letteratura di viaggio un‟attenzione particolare, in

quanto

L‟esperienza del viaggio si configura (…) come un «momento» di conoscenza dell‟alterità e, attraverso

quest‟ultima, come processo di ridefinizione delle identità: alla natura molteplice del viaggio corrisponde

dunque una diversa organizzazione dei modelli imagologici attraverso i quali il testo riferisce dell‟esperienza

dell‟alterità che si è compiuta. (…)

Viaggiare e scrivere di viaggi sono attività che rimandano ad una realtà e ad un‟idea ad essa collegata, che

richiedono, oltre ad uno spostamento fisico ed intellettuale nell‟alterità considerata, passaggi ulteriori, assai

rilevanti nel quadro di una riflessione sull‟immagine dell‟Altro. Da un lato, infatti, l‟esperienza del viaggio, in

quanto spostamento in un contesto culturale diverso, si segnala per la propria portata antropologica, attraverso

la quale è possibile stabilire una prima relazione con l‟alterità; dall‟altro la trasposizione di tale esperienza nel

testo letterario comporta sia scelte di ordine poetico e retorico, direttamente collegate alla testimonianza del

viaggio – memoria, diario, romanzo, reportage, ecc. – alla riscrittura dello spazio, al lessico utilizzato, sia

attitudini mentali fondamentali che denotano il tipo di relazione esistente fra le identità culturali poste in

relazione – quella del viaggiatore e quella della realtà visitata – fortemente condizionanti lo sviluppo tematico

dell‟opera. (Proietti, p. 138-139).

Un testo tipico che descrive lo scarto tra l‟esperienza e il suo racconto, è la poesia The Road Not Taken di

Robert Frost, un testo che egli stesso definì “tricky” poiché dietro all‟apparente inno alla strada tipico della

cultura americana rivela dei risvolti meno ovvi:

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Robert Frost

The Road Not Taken (1916)

Two roads diverged in a yellow wood,

And sorry I could not travel both

And be one traveler, long I stood

And looked down one as far as I could

To where it bent in the undergrowth;

Then took the other, as just as fair

And having perhaps the better claim,

Because it was grassy and wanted wear;

Though as for that, the passing there

Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay

In leaves no step had trodden black

Oh, I kept the first for another day!

Yet knowing how way leads on to way,

I doubted if I should ever come back.

I shall be telling this with a sigh

Somewhere ages and ages hence:

two roads diverged in a wood, and I --

I took the one less traveled by,

And that has made all the difference.

Per cogliere lo scarto che c‟è tra l‟esperienza vissuta ed il modo in cui viene scelto di narrarla può rivelarsi

utile mettere a confronto diversi testi prodotti da uno stesso autore per descrivere una stessa esperienza. Lo

ha fatto ad esempio Antonio Franceschetti, che ha messo a confronto i Viaggi di Russia dell‟Algarotti con il

Giornale, inedito, sul quale l‟autore aveva registrato il suo viaggio giorno per giorno. Il confronto mette in

luce lo scarso valore autobiografico del testo pubblicato, dove le informazioni originali scompaiono,

vengono modificate o integrate con ulteriori annotazioni. Nel testo dei Viaggi, a titolo di esempio,

scompaiono “le critiche sull‟esercito prussiano e quasi tutti i riferimenti a i nomi delle personalità tedesche

incontrate a Pietroburgo, che la storia aveva ormai cancellato dalla politica” (Franceschetti, p. 325). La scelta

editoriale di Algarotti ci stupisce poco, se pensiamo al legame di amicizia che lo legava con Federico II, il

nuovo Re di Prussia.

La deformazione dell‟esperienza si riflette nell‟immagine che ci creiamo dell‟altro, come sintetizza Garane

Garane in un breve componimento poetico:

L‟altro

Si, sono l‟altro

Sono nato deformato

Sono l‟altro

Sono nell‟altro

L‟altro sono io

Sono nell‟altro

L‟altro mi ha creato

L‟altro mi ha assorbito

Sono nell‟altro.

L‟immagine dell‟Altro si fissa nell‟immaginario sociale attraverso la sua diffusione nel testo letterario e

diventa parte della cultura condivisa da un popolo:

La vastità degli aspetti e dei metodi scientifici con riferimento ai tanti fattori che convergono nella formazione

dell‟immagine che un uomo si fa dell‟altro, un gruppo sociale dell‟altro, un popolo dell‟altro, una razza

dell‟altra, rispecchia lo sviluppo del nostro sapere sull‟intricato rapporto fra gli uomini e le loro reazioni

vicendevoli. La prospettiva interdisciplinare risponde alla variegata multiculturalità. (Beller)

L‟imagologia è pertanto chiamata a definire il proprio campo di azione:

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Da un lato, infatti, gli studi che analizzano le immagini del Paese X di fronte al Paese Y in un dato momento

storico, si fondano su un approccio alla questione di tipo storico-culturale, si presentano come una sorta di

“Studi culturali” ante litteram, poiché essi sono investiti da questioni che rinviano all‟ideologia, alle forme

dell‟esotismo, alle questioni sociali che fanno da sfondo alla cultura di quel tempo. Dall‟altro si può

considerare un‟immagine più focalizzata, per esempio l‟immagine letteraria di una città lungamente celebrata,

come Venezia, proiettandola nello scenario della produzione artistica di uno scrittore, come Thomas Mann, che

l‟ha celebrata nel romanzo breve La morte a Venezia (1912). In questo caso la lettura imagologica della città

lagunare può ben inserirsi in un discorso storico sulle rappresentazioni letterarie di Venezia, ma, più

produttivamente tale immagine fa comprendere cosa Venezia permette di chiarire nei processi di scrittura e

nell‟immaginario dello scrittore tedesco. (Proietti, p. 16)

Nel primo caso ci viene offerta un‟analisi della circolazione delle idee attraverso la mediazione delle

immagini, mentre nel secondo otterremo un‟analisi di come una rappresentazione – una immagine – si

inserisca nel processo creativo di un‟opera letteraria.

Data la centralità dell‟immagine in questo tipo di studi, occorre innanzitutto vedere in che modo queste si

distinguano dagli stereotipi: l‟immagine è per sua natura produttiva, polisemica, mentre lo stereotipo è un

segnale immobile, che propone sempre lo stesso messaggio e come tale stabilisce un facile legame tra il testo

letterario e l‟immaginario sociale e fissandolo per sempre.

Lo stereotipo non è sempre necessariamente negativo, perché si basa sul grado di prestigio di cui gode una

determinata cultura in un determinato tempo, come si è visto nel caso del passaggio tra il sentimento anti-

germanico di Voltaire a quello filo-germanico di Voltaire. Entrambi gli atteggiamenti producono dei

mirages, cioè immagini distorte che presuppongono uno sbilanciamento che rischia di impedire una

valutazione corretta di sé e dell‟Altro.

Le immagini dell‟Altro possono così essere sintetizzate in questo modo:

Altro > sé = mirage, visione distorta (mania)

Altro < sé = mirage, visione distorta (fobia)

Altro = sé = filia

L‟atteggiamento pluridisciplinare della scuola francese di Daniel-Henry Pageaux, che si è avvalsa

dell‟apporto di tutte le discipline, sociologia, storia sociale, psicologia sociale, è stato criticato da Rene

Wellek, che ha invece proposto che l‟indagine rimanesse nell‟ambito della critica letteraria. Questa

prospettiva è stata ritenuta eccessivamente rigida poiché

la ricerca ed l‟individuazione della presenza di mirages e di images dell‟Altro all‟interno di un‟opera letteraria

nella considerazione della loro portata in termini di «mediazione simbolica» non ha un valore meramente

analitico o tassonomico, ma acquista un valore ermeneutico laddove queste stesse immagini letterarie

costituiscono la chiave di accesso a quelle dinamiche attraverso le quali il testo letterario esercita un‟influenza

sull‟opinione pubblica, su quello che chiamiamo immaginatio, il quale le riceve e le elabora, a sua volta

incidendo sul contesto sociale e culturale (Proietti, p. 35).

L‟imagologia di matrice francese non rinuncia alla vocazione sociale che può ricoprire e pertanto afferma la

qualità dialettica del testo, le sue capacità di produrre e riprodurre contenuti attraverso la stretta relazione che

esso intrattiene con il lettore e non solo con l‟autore. La sua fruizione trova il suo compimento nel

riconoscimento e nella condivisione di valori collettivi in quello che Jauss ha chiamato l‟«orizzonte di

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attese», cioè il modello interpretativo che, sollecitando il lettore, gli prospetta una via d‟accesso al significato

stesso dell‟opera.

Lo studio della ricezione, peraltro, non può limitarsi ad uno studio atemporale, e deve articolarsi nei due

momenti identificati da Yves Chevrel: «estéthique de la réception et histoire des réceptions: d‟un côté un

texte, chargé de virtualités et potentialités, de l‟autre des marques de lectures diverses d‟une oeuvre, prise

dans sa manifestation concrète» (cfr. Proietti, p. 135).

L‟osservazione di Chevrel segnala nella storia delle ricezioni il modo in cui l‟ imagologia e ricezione

letteraria si incontrano per l‟analisi dei fatti letterari, puntualizzando che sia l‟immagine letteraria che la sua

ricezione attraverso la lettura dell‟opera si comprendono solo se contestualizzate.

L‟imagologia e gli studi interculturali hanno ricevuto particolare impulso nel periodo seguente al crollo del

Muro di Berlino, a causa del riproporsi sulla scena mondiale dei problemi relativi alle identità nazionali ed

alla loro definizione, e si sono avvalsi di molti concetti elaborati dagli studi sulla ricezione dell‟opera

letteraria e dagli studi post-coloniali.

L‟aspirazione degli studi imagologici è quella di non limitare il suo campo d‟azione al solo ambito letterario

poiché, consapevole dell‟aumento costante degli incontri che il mondo attuale propone con l‟Alterità e delle

domande che ne conseguono, intende proporsi anche come etica sociale:

“Etudier, cultiver le divers, non pour s‟y complaire en multipliant les juxtapositions de teste et de cultures,

mais pour le maîtriser, en le composant selon des ensembles et des modes explicatifs, est tout à la fois un

principe d‟étude, une forme de pensée et un idéal de vie” (Daniel-Henry Pageaux, in Proietti, p. 21).

Per la loro capacità di fare perno su problematiche storico-culturali, politiche e sociali inerenti al contatto tra

diversi popoli e culture, l‟imagologia e gli studi interculturali, possono giocare oggi un ruolo particolarmente

importante per aiutare ad interpretare in maniera più “utile e dilettevole” la complessità e la ricchezza della

nostra società in cui le Alterità ci sono sempre più vicine, e sempre più numerosi gli incontri che ci vengono

offerti. Riscoprire la portata civile dei testi letterari può aiutarci a vedere il mondo nel modo più ampio

possibile, comprendendo la nostra identità nello specchio dell‟identità che noi costruiamo dell‟Altro.

E ora che avevo cominciato

A capire il paesaggio:

«Si scende,» dice il capotreno.

«E‟ finito il viaggio».

(Giorgio Caproni, Disdetta)

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