francesco rizzo ²

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Francesco Rizzo – L’Adelchi di Alessandro Manzoni

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da

copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e

per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Francesco Rizzo – L’Adelchi di Alessandro Manzoni

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Indice

1. LA TRAMA ................................................................................................................................................. 3

2. CORO ATTO III: ........................................................................................................................................ 5

3. CORO ATTO IV: ........................................................................................................................................ 9

BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................................................. 16

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1. La trama

La tragedia si apre con la scena di Ermengarda, che, ripudiata da Carlo, ottiene dal padre

di ritirarsi nel monastero di San Salvatore a Brescia (ove è badessa la sorella Ansberga), per

dimenticare, nella preghiera, le sue sofferenze. Il ripudio di Ermengarda acuisce il dissidio politico

del longobardo re Desiderio con Carlo Magno, il quale protegge il Pontefice e ordina ai

Longobardi di abbandonare le terre della Chiesa. Desiderio rifiuta e dichiara guerra ai Franchi,

nonostante i consigli di moderazione del figlio Adelchi, che lo esorta ad un accordo.

Nemmeno alcuni duchi longobardi sono d’accordo sulla guerra ai Franchi. Essi si riuniscono

nella casa di Svarto, per macchinare un tradimento, inviando a Carlo lo stesso Svarto, così da

renderlo consapevole delle loro intenzioni. Intanto Carlo è bloccato col suo esercito alle Chiuse, in

Val di Susa, difese valorosamente da Adelchi. Sta per rinunciare all’impresa quando giunge il

diacono Martino ad indicargli un sentiero ignoto, attraverso il quale l’esercito franco può piombare

alle spalle dei Longobardi, costringendoli alla fuga.

Mentre avviene ciò, Ermengarda muore nel monastero di Brescia, in preda alla follia, dopo

aver saputo che Carlo si è risposato con Ildegarda di Svezia. Cade intanto Pavia, per il tradimento

di Guntigi. Desiderio, fatto prigioniero, intercede presso Carlo per la salvezza del figlio, assediato in

Verona. Adelchi, che con un’audace sortita era riuscito a fuggire dalla città, sopraggiunge ferito e

muore sotto gli occhi del padre e di Carlo: una catastrofe arbitrariamente teatralizzata poiché,

nella storia effettuale, Adelchi non sarebbe deceduto in combattimento ma fuggito a

Costantinopoli.

La tragedia dell’Adelchi viene considerata dai critici la più riuscita del Manzoni. Una delle

figure più emblematiche dell’opera è Ermengarda. Questa, sebbene ripudiata da Carlo, lo ama in

modo profondo, e compie grandi sforzi per staccarsi dai «terrestri ardori» e rivolgersi a Dio. Solo

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nella morte si placherà il suo dissidio interiore, il suo martirio. Lo stesso destino tocca ad Adelchi,

combattuto tra il suo dovere di lottare accanto al padre e la consapevolezza di una guerra

ingiusta e senza speranza. Nelle parole che pronuncia prima di spirare vi è tutto il senso del suo

Cristianesimo elegiaco.

L’Adelchi viene pubblicata nel 1822. Narra la vicenda di Adelchi, figlio di Desiderio, l’ultimo

re dei Longobardi prima di essere sconfitti definitivamente dai Franchi di Carlo Magno (i fatti narrati

si svolgono intorno al 770 d.C.). Adelchi in punto di morte, innanzi a un Carlo Magno disposto a

riconoscergli l’onore che merita, e al padre Desiderio, fa riflettere sulla ciclicità della storia. Come i

Franchi hanno inflitto ai Longobardi sconfitta e dolore, così i Longobardi in passato avevano

arrecato danno ad altri popoli. Inoltre il potere non sempre è fonte di felicità. Il fatto che Desiderio

non sia più re lo mette al riparo dal compiere ancora torti, e dal subirne. La tragedia è attraversata

da un tono elegiaco e da un patetico messaggio provvidenziale di predestinazione e di

sottomissione al fato. I personaggi di più alta carica patetica sono Adelchi e Ermengarda, figli di

Desiderio, che comprendono il messaggio alto del vivere eventi più grandi della loro stessa

umanità. Sono personaggi di alto valore, che sono però destinati a soccombere all’automatismo

provvidenziale che spesso si serve di personaggi che non si interrogano sul senso del vissuto: tali

personaggi sono, nella tragedia manzoniana, tanto Desiderio quanto Carlo Magno.

Tra le parti di testo di più alto livello espressivo vanno annoverati i due cori: il primo,

sul finire del Terzo Atto, vuole essere una riflessione sulla divisione dei popoli conquistati, sull’attualità

del messaggio della conquista e del valore negativo del tradimento; il secondo, invece,

famosissimo, è alla fine dell’Atto IV e riguarda la fine di Ermengarda, donna sacrificata alle ragioni

di Stato, profondamente segnata da una religiosità tragica, che la conduce alla follia e alla morte.

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2. Coro Atto III:

Dagli atri muscosi, dai Fori cadenti,

Dai boschi, dall'arse fucine stridenti,

Dai solchi bagnati di servo sudor,

Un volgo disperso repente si desta;

Intende l'orecchio, solleva la testa

Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,

Qual raggio di sole da nuvoli folti,

Traluce dei padri la fiera virtù;

Nei guardi, nei volti confuso ed incerto

Si mesce e discorda lo spregio sofferto

Col misero orgoglio d'un tempo che fu.

S'aduna voglioso, si sperde tremante;

Per torti sentieri, con passo vagante,

Fra tema e desire, s'avanza e ristà;

E adocchia e rimira scorata e confusa

Dei crudi signori la turba diffusa,

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Che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,

Irsuti per tema le fulve criniere,

Le note latebre del covo cercar:

E quivi, deposta l'usata minaccia,

Le donne superbe, con pallida faccia,

I figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando i

Quai cani disciolti, correndo, frugando,

Da ritta da manca, guerrieri venir:

Li vede, e rapito d'ignoto contento,

Con l'agile speme precorre l'evento,

E sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,

Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,

Son giunti da lunge, per aspri sentier:

Sospeser le gioie dei prandi festosi,

Assursero in fretta dai blandi riposi,

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Chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciàr nelle sale del tetto natìo

Le donne accorate tornanti all'addio,

A preghi e consigli che il pianto troncò:

Han carca la fronte dei pesti cimieri,

Han poste le selle sui bruni corsieri,

Volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,

Cantando giulive canzoni di guerra,

Ma i dolci castelli pensando nel cor;

Per valli petrose, per balzi dirotti,

Vegliaron nell'arme le gelide notti,

Membrando i fidati colloqui d'amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,

Per greppi senz'orma le corse affannose,

Il rigido impero, le fami duràr;

Si vider le lance calate sui petti,

A canto agli scudi, rasente gli elmetti

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Udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti

Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

D'un volgo straniero por fine al dolor?

Tornate alle vostre superbe ruine,

All'opere imbelli dell'arse officine,

Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico;

Col novo signore rimane l'antico;

L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.

Dividono i servi, dividon gli armenti;

Si posano insieme sui campi cruenti

D'un volgo disperso che nome non ha.

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3. Coro Atto IV:

Sparse le trecce morbide

Su l'affannoso petto,

Lenta le palme, e rorida

Di morte il bianco aspetto,

Giace la pia, col tremolo

Guardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime

S'innalza una preghiera:

Calata in su la gelida

Fronte una man leggiera

Su la pupilla cerula

Stende l'estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall'ansia

Mente i terrestri ardori;

Leva all'Eterno un candido

Pensier d'offerta, e muori:

Fuor della vita è il termine

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Del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile

Era quaggiuso il fato,

Sempre un obblìo di chiedere

Che le saria negato,

E al Dio dei santi ascendere

Santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,

Pei claustri solitari,

Fra il canto delle vergini,

Ai supplicati altari,

Sempre al pensier tornavano

Gli irrevocati dì;

Quando ancor cara, improvida

D'un avvenir mal fido,

Ebra spirò le vivide

Aure del Franco lido,

E fra le nuore Saliche

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Invidiata uscì:

Quando da un poggio aereo,

Il biondo crin gemmata,

Vedea nel pian discorrere

La caccia affaccendata,

E su le sciolte redini

Chino il chiomato sir;

E dietro a lui la furia

Dei corridor fumanti;

E lo sbandarsi, e il rapido

Redir dei veltri ansanti;

E dai tentati triboli

L'irto cinghiale uscir;

E la battuta polvere

Rigar di sangue, colto

Dal regio stral: la tenera

Alle donzelle il volto

Torcea repente, pallida

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D'amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi

Lavacri d'Aquisgrano !

Ove, deposta l'orrida

Maglia, il guerrier sovrano,

Scendea del campo a tergere

Il nobile sudor!

Come rugiada al cespite

Dell'erba inaridita,

Fresca negli arsi calami

Fa rifluir la vita, -

Che verdi ancor risorgono

Nel temperato albor;

Tale al pensier, cui l'empia

Virtù d'amor fatica,

Discende il refrigerio

D'una parola amica,

E il cor diverte ai placidi

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Gaudii d'un altro amor.

Ma come il sol che reduce

L'erta infocata ascende,

E con la vampa assidua

L'immobil aura incende,

Risorti appena i gracili

Steli riarde al suol;

Ratto così dal tenue

Obblìo torna immortale

L'amor sopito, e l'anima

Impaurita assale,

E le sviate immagini

Richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall'ansia

Mente i terrestri ardori;

Leva all'Eterno un candido

Pensier d'offerta, e muori:

Nel suol che dee la tenera

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Tua spoglia ricoprir,

Altre infelici dormono,

Che il duol consunse; orbate

Spose dal brando, e vergini

Indarno fidanzate;

Madri, che i nati videro

Trafitti impallidir.

Te dalla rea progenie

Degli oppressor discesa,

Cui fu prodezza il numero,

Cui fu ragion l'offesa,

E dritto il sangue, e gloria

Il non aver pietà,

Te collocò la provida

Sventura in fra gli oppressi:

Muori compianta e placida;

Scendi a dormir con essi:

Alle incolpate ceneri

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Nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime

Si ricomponga in pace;

Com'era allor che improvida

D'un avvenir fallace,

Lievi pensier virginei

Solo pingea. Così

Dalle squarciate nuvole

Si svolve il sol cadente,

E dietro il monte imporpora

Il trepido occidente:

Al pio colono augurio

Di più sereno dì.

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Bibliografia

Battistini, A., Letteratura italiana, vol. II, Mulino, Milano 2014

Bruni, A., Giudice, G., Problemi e scrittori della letteratura italiana, Paravia,

1978.

Manzoni, A., Adelchi, Ferrario, Milano 1822