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SCHOPENHAUER COME EDUCATORE Considerazioni inattuali, III 1874

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SCHOPENHAUER COME EDUCATORE

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Page 1: Friedrich Nietzsche - Considerazioni Inattuali III

SCHOPENHAUER COME EDUCATORE Considerazioni inattuali, III

1874

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Traduzione condotta sull'originale tedesco «Unzeitgemàsse Betrachtungen, Drittes Stiick. Schopenhauer als Erzieher», in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe Dritte Abteilung, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Erster Band, Berlin, Walter De Gruyter & Co., 1972. Traduzione di Matilde de Pasquale

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Nietzsche e Schopenhauer: autointerpretazione del pensiero innattuale

Elemento critico fondamentale per l'interpretazione dei rapporti storico-tematici fra il pensiero dì Nietzsche e il pensiero di Schopenhauer è la ricer­ca di un princìpio dì formazione, e di conseguente comprensione, del cor­pus nietzscheano come totalità.

L'opera di Nietzsche, pur nelle sue differenti e possibili versioni, nei suoi cicli costellari, nei suoi estremi, nelle sue figurazioni e nelle sue disconti­nuità, si può ricostruire a partire da un unico principio di formazione e di interpretazione che, nell'egemonia strutturale delle versioni, mantenga tut­tavia un rapporto essenziale con la cronologia, intesa non nel senso della semplice successione degli scritti e della conseguente costruzione e struttu­razione della totalità — pensata in tal caso come pura accumulazione, ma nel senso di luogo di rapporti temporali, destinato di volta in volta a una il­luminazione particolare. Il principio di totalità del testo nietzscheano si chiarisce come principio genealogico, la genealogia essendo la scoperta er­meneutica di Nietzsche, il nucleo della sua teoria dell'interpretazione e, al­lo stesso tempo, possibile elemento-chiave di una autointerpretazione. Nietzsche stesso, cioè, autore del modello genealogico, si autointerpreta at­traverso il metodo genealogico.

Che cos'è la genealogia? È certo un principio di formazione, un princi­pio storico. Allo stesso tempo è un principio ermeneutico, un modello e un sistema dell'interpretare.

Nella Prefazione del settembre 1886 al secondo volume di Menschliches, Allzumenschliches fUmano, troppo untano^* (1878-1880), Nietzsche trac-

* Codice delle sigle delle opere di Nietzsche usate nelle note: KGA = Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin, De

Gruyter, 1967 ff. OFN = Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano,

Adelphi, 1964 e ss. NF = Nachgelassene Fragmente Fruhjahr-Herbst 1884. EH = Ecce homo, in F.W. Nietzsche, Opere 1882/1895, Roma, Newton Compton, 1993. UT = Umano, troppo umano, in F.W. Nietzsche, Opere 1870/1881, Roma, Newton

Compton, 1993. NT = La nascita della tragedia, ed. cit., 1993. SE = Schopenhauer come educatore, in questo voi.

[«La prima traduzione italiana di Schopenhauer ais Erzieher fu pubblicata nel 1915 (Battel­li & Verando Editori in Perugia) nella versione di Vincenzo Arangio-Ruiz con un'Introduzio­ne di Vladimiro Arangio-Ruiz.

L'interpretazione di Vladimiro Arangio-Ruiz è in qualche modo all'origine della recezione e della Wirkunsgeschichte del primo Nietzsche in Italia: l'immagine fondamentale è il pessi­mismo di Nietzsche, il suo pessimismo anti-inteliettuatistico.

«In questo libretto di Nietzsche — scrive Arangio-Ruiz — la parte che filosoficamente ha secondo me maggiore valore è la critica alla scienza, o meglio la condanna dello spirito scien­tifico, "oggettivo", imperante nelle università e nella filosofia universitaria. Anche qui nulla di veramente nuovo per noi, dice Nietzsche; questo suo atteggiamento contro la "scienza" è comune a tutti, si può affermare, i pessimisti, da Pascal a Michelstaedter, come è comune a tutti i mistici — e i pessimisti si potrebbero definire i mistici della ragione e della moralità, della ragione come moralità. (...). Per paura, per pigrizia, per mancanza di veridicità verso se

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eia le linee della propria autointerpretazione, o almeno, i suoi princìpi fon­damentali. Dice infatti che tutti i suoi scritti vanno retrodatati con una ec­cezione, unica e essenziale: Also sprach Zarathustra fCosì parlò Zarathu­stra^ (1883-1885), che quindi occupa un posto, non centrale, ma dichiara­tamente unico, eccezionale, come evento fondatore di differenza fra il già adempiuto e il non ancora compiuto: Zarathustra non centro ma fine del tempo, dell'opera; limite.

Sembra allora possibile tracciare una linea di demarcazione fra un «pri­mo» e un «secondo» Nietzsche, e non nel senso della periodizzazione — problema connesso e che si affronterà fra breve — ma nel senso, per ora incerto e da definire, di una cronologia della decadenza, di un tempo del superamento e dell'interpretazione: il primo Nietzsche è autore, il secondo Nietzsche interprete. Questa cronologia lacerata apparentemente mutua dal modello di totalizzazione temporale cristiano-occidentale il suo fonda­mentalismo, il prima e il dopo. Il primo Nietzsche sarebbe il Nietzsche di «prima» dello Zarathustra, // secondo Nietzsche il Nietzsche delle opere successive. In realtà il suo fondamento sembra essere la forma dell'inter­pretazione, il rapporto tra testo finito e il carattere infinito dell'interpreta­zione, la contraddizione, la figura doppia dell'interpretare.

L'ipotesi di autointerpretazione è quindi legata al significato temporale, «cronologico» dello Zarathustra. Che cosa produce l "essere-fine dello Za­rathustra, /'/ suo essere il limite del testo, la sua eccezionalità e unicità, se interpretato come semplice centralità?

Semplicemente una scissione, una separazione tra un primo e un secon­do periodo, il concetto di una svolta che non spiega in nessun modo come tutti gli scrittori nietzscheani siano da retrodatare tranne uno solo. Gli scrittori successivi allo Zarathustra sono cioè omologhi agli scrìtti prece­denti, almeno nella loro determinazione temporale.

Il problema è allora quello di una figura doppia in cui da un lato sem­brano porsi tutti gli scritti nietzscheani e all'altro lo Zarathustra.

L'ipotesi della periodizzazione interna in due momenti, prima e dopo lo Zarathustra, non rende ragione di questo doppio perché produce una di­stinzione in periodi degli scritti e sembra cancellare le linee genealogiche dell'autointerpretazione. Il tema da cui si è partiti è il dominio del princi­pio genealogico: esso non si radica nel dualismo temporale del prima e del dopo, ma ne rappresenta il superamento. La divisione del corpus nietz­scheano in due tempi e in due spazi tematici è impossibile in un modello ge­nealogico di interpretazione.

Cade qui l'esigenza di considerare nel suo complesso il problema della periodizzazione esteriore, storico-critica1.

stessi, gli uomini fabbricano le loro case in provvisorio. L'uomo vero, il filosofo, l'eroe (il su­peruomo, il solo uomo, chi crea in sé l'uomo, l'individuo) è dunque chi sia perfettamente, crudelmente veridico verso se stesso, chi sveli volta per volta la provvisorietà delle sue costru­zioni, il non valore dell'attività qualsiasi in cui mette la sua vita, per non mettere in essa la sua vita; chi svelando il non-valore della qualsiasi attività in cui si trovi a mettere la sua vita, così va in cerca, per questa via di negazione, del valore, del valore che sempre e per sé valga: in una parola, il pessimista.y> (F. Nietzsche, Schopenhauer educatore, tr. it. di V. Arangio-Ruiz, Perugia, 1915, pp. VHI-IX)]. E = Epistolario di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da O. Colli e M. Montinari, Mila­

no, Adelphi, 1977 e ss. O = Opere, ed. a cura di F. Masini, Roma, Newton Compton, 1977 ss.

1 «Il problema della periodizzazione dell'opera di Nietzsche ha poco senso se viene posto al di fuori di una precisa interpretazione del significato di tutto il suo pensiero, come puro pro­blema biografico. Qui si può trovare la legittimazione di tutto un recente filone di letteratura

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Per ia periodizzazione delle opere di Nietzsche generalmente si rinvia al secondo capitolo di Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen di Karl Lowith2, interprete, insieme a Jaspers3, negli anni prima della seconda guerra mondiale, della filosofia nietzscheana. Lowith cerca le ragioni e il significato delle Prefazioni del 1886. In questi testi Nietzsche legittimerebbe la distinzione di tre periodi tematici o tempi fondamentali.

Il primo periodo che possiamo chiamare precritico o sistematico com­prende Die Geburt der Tragèdie (La nascita della tragedia) (1872), Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen (La filosofia nell'età tra­gica dei Greci) (1873) e le Unzeitgemàsse Betrachtungen (Considerazioni inattuali; (1873-1876).

Il secondo periodo comprende Umano, troppo umano, Morgenrote (Aurora) (1881) e Die fròhliche Wissenschaft (La gaia scienza) (1882). È il periodo critico o illuminista, il periodo della chimica delle idee e dei senti­menti, e della critica della cultura.

Il terzo periodo comprende lo Zarathustra, Jenseits von Gut und Bòse (Al di là del bene e del male) (1886), Zur Genealogie der Moral (Per la ge­nealogia della morale) (1887), Gòtzen-Dàmmerung (Crepuscolo degli ido­li), Der Antichrist (L'anticristo), Ecce Homo, Nietzsche contra Wagner. È la Umvertungszeit.

77 tempo della Experimental-Philosophie di Nietzsche è scandito così at­traverso il passaggio da un periodo all'altro, da un momento all'altro, da una figura all'altra della soggettività. Ai riferimenti testuali di Lowith che legittimerebbero questa periodizzazione (l'annotazione Der Weg zur Weis-sheit e il primo Discorso di Zarathustra, Von den drei Verwandlungen — Delle tre metamorfosi) si può aggiungere, con Masini, un frammento della primavera del 1884 per il Wille zur Macht, in cui lo stesso Nietzsche artico­la la dissoluzione della volontà nella lezione prospettìvistica (Perspektiven-Lehre) dello spirito libero, attraverso l'estatico passare della soggettività dal Du sollst (Tu devi) del primo periodo, del tempo della comunità, al Ich will (Io voglio) del secondo periodo, tempo della solitudine, al Ich bin (Io sono) del terzo e ultimo periodo:

Tu devi — obbedienza assoluta presso gli Stoici, negli ordini del Cristianesimo e degli Ara­bi, nella filosofia di Kant (è indifferente che si tratti di un superiore o di un concetto).

Superiore al «tu devi«» è: Io voglio (gli eroi); superiore a «io voglio» è io sono (gli dèi dei Greci)4.

Lo schema dei tre periodi è generalmente accolto come il più valido per un approccio sistematico al pensiero di Nietzsche, e certo lo schema ha lo scopo di comprendere e rappresentare l'evoluzione del pensiero nietzschea­no e la sua stessa interpretazione. È necessario, a questo punto, cercare un nesso, una relazione fra la periodizzazione critico-storica e l'autointerpre­tazione di Nietzsche cui abbiamo accennato.

Eliminata perché improduttiva e metafisica l'ipotesi di una svolta pensa­ta a partire dallo Zarathustra e fondata sull'eccezionalità dello scritto, ec-

nietzscheana, soprattutto francese, che, forse anche in nome di un antistoricismo di origine heideggeriana e strutturalista, trascura generalmente il problema dello svolgimento storico del pensiero di Nietzsche. Tuttavia, a noi pare che anche una lettura eminentemente "tematica" di Nietzsche non possa prescindere completamente dal proporre una ipotesi sull'effettivo con­catenarsi e svolgersi delle sue tesi l'una dalla altra.» G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano, 1974, p. 92 n.

1 K. Lowith, Nietzsche Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Berlin, 1935. 3 K. Lowith, Nietzsche Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Berlin, 1935. 4 NF, KGA vii, 2, p. 101.

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cezionalità sulla quale si ritornerà e che non sembra in grado di determina­re una periodizzazione corretta, consideriamo più da vicino l'ipotesi della successione dei tre periodi come è prospettata da Lowith. Vediamo allora che la centralità dello Zarathustra rimane, ma che soltanto si sposta come spartiacque tra secondo e terzo periodo, tra il perìodo critico e illuminista e il periodo cte/YTJmwertungszeit. A questi due periodi principali si antepone un primo periodo pre-critico, in qualche modo estraneo alla produzione centrata sullo Zarathustra, produzione matura nella quale, a vario grado di espressione, si possono rintracciare tutti i temi dominanti del pensiero nietzscheano: eterno, ritorno, nichilismo, Ubermensch, volontà di poten­za; temi che poi dominano, a loro volta, la critica nietzscheana, soprattut­to la Nietzsche-Renaissance che data dagli anni Sessanta con la pubblica­zione nel 1961 del Nietzsche di Heidegger (corsi universitari svolti tra il 1936 e il 1940) e nel 1964 dei primi volumi dell'edizione critica di Colli e Montinari. L'ipotesi di Lowith non rende ragione della figura doppia del­l'autointerpretazione, in quanto l'eccezionalità dello Zarathustra è vista come centralità periodizzante e in quanto tutti gli altri scritti sono distinti in tre gruppi in una prospettiva costruttivistica, totalizzante, dominata dal principio finalistico della messa in luce dei temi che sono fondamentali e ultimi a un tempo.

Recentemente Vattimo ha già posto il problema dell'«equilibrio» tra le opere di Nietzsche, a proposito della Gaia scienza5. Ma il problema si pone ancora di più per le opere del cosiddetto «primo periodo» di cui fa parte Schopenhauer come educatore (1874). Ci sembra allora opportuno porre il problema della periodizzazione a partire dal concetto di retrodatazione che secondo Nietzsche riguarda tutti gli scritti tranne lo Zarathustra. L'unicità dello Zarathustra va allora interpretata al di fuori di ogni schema di tem-poralizzazione — Nietzsche infatti ha parlato di unicità ed eccezionalità e non di centralità.

Retrodatare è un 'operazione ermeneutica: significa riferire l'opera a un tempo anteriore a quello in cui fu scritta e cioè al tempo in cui un «qualsia­si Factum o Factum proprio» fu vissuto. Le opere infatti rappresentano ciò che si è già superato, rappresentano per la conoscenza qualcosa di vis­suto e di superato: «I miei scritti parlano solo dei miei superamenti»6. In tal senso retrodatare significa ricondurre all'origine l'interpretazione, fon­darla genealogicamente. Retrodatare significa ancora la consapevolezza che le opere di Nietzsche sono state sempre «dietro» Nietzsche, che la sua

5 «Sia l'interpretazione lukacsiana, sia quella nazista, sia quella di Heidegger pongono dunque al centro della loro attenzione-idee e dottrine sviluppate da Nietzsche nell'ultimo pe­riodo della sua vita di pensatore, cioè a partire da Così parlò Zarathustra. A ciò si deve ag­giungere che anche l'edizione crìtica curata da Colli e Montinari tende a richiamare l'attenzio­ne sugli scritti dell'ultimo periodo, giacché proprio questi, soprattutto i frammenti postumi che erano stati utilizzati dalla sorella di Nietzsche per comporre La volontà di potenza, ap­paiono, dopo la messa a punto filologica, in una luce diversa e nuova.

In tale situazione, rileggere La gaia scienza può avere anzitutto il senso di un ristabilimento di equilibrio: mentre nelle opere dell'ultimo periodo, e nelle interpretazioni che ad esse princi­palmente si rifanno, la dottrina di Nietzsche si presenta spesso in uno stato di metafisica rare­fazione, o tende a irrigidirsi in vere e proprie "tesi" ontologiche (...), qui esse si presentano ancora nel loro legame originario con gli aspetti "illuministici'' dell'opera di Nietzsche, con la sua riflessione di "moralista" e di critico della cultura.» G. Vattimo, Introduzione a F. Nietz­sche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, Torino, 1979, pp. xn-xm.

6 UT JI, O, p. 7 (KGA, iv, 3, p. 3) (cfr. p. 216 nel n voi. di questa edizione).

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scrittura7 è scrittura del superato, dell'oltrepassato: il primo Nietzsche è al­lora l'autore, il secondo l'interprete di se stesso.

Queste considerazioni sul problema della periodizzazione e del suo signi­ficato ci permettono un nuovo inquadramento della Terza Inattuale, in­quadramento che è particolarmente importante per stabilire il rapporto Nietzsche-Schopenhauer.

Nella prefazione del 1886 qui considerata, Nietzsche retrodata la Terza Inattuale, la rimanda a un periodo anteriore al tempo in cui nacque La na­scita della tragedia (1872).

Quando poi, nella terza Considerazione Inattuale, espressi il mio profondo rispetto per il mio primo e unico educatore, il grande Arthur Schopenhauer — oggi lo manifesterei in termi­ni ancora più fervidi, e anche più personali —, ero per quanto mi concerneva, già entro la sce­psi e la dissoluzione moralistica, in una fase cioè sia di critica che di approfondimento di ogni precedente pessimismo, e già non credevo «più a nulla», come dice la gente, nemmeno a Schopenhauer8.

Questa retrodatazione ha un profondo significato perché fa risalire la «venerazione» di Schopenhauer a un tempo anteriore alla Nascita della tragedia in cui già — in un linguaggio non proprio — sì conduce una criti­ca a Schopenhauer. Nietzsche con il modello della retrodatazione, sembra avere in qualche modo ribaltato lo schema cronologico, apparentemente contraddittorio: critica-venerazione nella successione genealogica: venera­zione-critica.

Va intanto dimostrato il superamento del pensiero di Schopenhauer già nello scritto sulla tragedia. Quali i termini del superamento e della critica di Schopenhauer in Die Geburt der Tragòdie? Una risposta la dà lo stesso Nietzsche nel Versuch einer Selbstkritik ^Tentativo di autocritica^ (1886), prefazione alla terza edizione della Nascita della tragedia, uno dei testi-chiave dell'autointerpretazione di Nietzsche. I concetti di apparenza, di pessimismo e di volontà rappresentano i versanti tematici sui quali si con­suma la critica di Schopenhauer. Nel Versuch è possibile rintracciare alcuni elementi di questa critica: essi risultano particolarmente importanti non so­lo per l'interpretazione della concezione nietzscheana del tragico, ma — al­la luce del modello genealogico e del criterio della retrodatazione — anche per l'interpretazione del rapporto Nietzsche-Schopenhauer.

Il concetto di apparenza e quello di pessimismo sono al centro del Ver­such; nella Nascita della tragedia si annuncia «un pessimismo "al di là del bene e del male"», giunge a espressione e formulazione la «perversità di sentimento» ^Perversitàt der Gesinnung/, contro cui si scaglia Schopen-

7 Per l'analisi della scrittura nietzscheana rinviamo al libro di Ferruccio Masini Lo scriba del caos. In particolare per l'analisi della scrittura di Also sprach Zarathustra rinviamo al ca­pitolo «I "campi di significato" del Così parlò Zarathustra» (2 della Parte terza: Metafore della danza), in cui la scrittura dello Zarathustra, definita metasemantica o totale, «nel senso che le parole rinviano al di là di se stesse, a quell'orizzonte in cui l'articolazione ritmica della tensione espressiva stabilisce la misura di una totalità rispetto alla quale chi parla, cioè chi pronuncia quella totalità, lo fa nella maniera involontaria, "necessaria" di chi, invero, è da quella totalità "posseduto"», viene posta, nei suoi moduli retorico-stilistici, in relazione con la letteratura mistica preprotestante: «Certi procedimenti retorici, tipici nella mistica (...) mi­rano a creare nello Zarathustra una sorta di ebbrezza ritmica in cui si costruisce un'architettu­ra del periodo perfettamente commisurata alla linea ondulatoria-circolare di quel dialogo del­l'anima con se stessa [parlare è per Nietzsche un interrogarsi] (lo Zarathustra è in fondo l'au-toconfessione tragico-estetica di un solitario) che è caratteristico della letteratura mistica». F. Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna J978, p. 256 e pp. 275-276. Il saggio apparve nella sua originaria versione nelle «Nietzsche-Studien», 1973, 2.

8 UT li, O, pp. 7-8 (KGA, iv, 3, p. 4) (cfr. pp. 216-7 nel u voi. di questa edizione). 9 «La dissoluzione dell'etica del Du solisi era già in atto fin dal tempo della Geburt der

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hauer nei Parerga e Paralipomena; si annuncia un pensiero che pone la morale nel mondo dell'apparenza, e, non solo fra le «apparenze» Erschei-nungen) nel senso del terminus technicus idealistico, bensì fra «gli "ingan­ni"» fTaùschungen^ come parvenza ^Schein , illusione (V/ahn), errore flrrthumÀ interpretazione fAusdeutungJ, accomodamento fZurechtma-thungj e arte (Kunst/0.

La Nascita della tragedia è una controdottrina fX3egenlehre , formula una controvalutazione della vita, anticristiana, dionisiaca.

È chiaro che, pur accettando la suggestione della retrodatazione, il crite­rio rigidamente cronologico in rapporto allo svolgimento storico del pen­siero di Nietzsche ha una sua validità. Si tratta allora di comprendere il si­gnificato genealogico della retrodatazione, che cosa cioè essa produce al li­vello interpretativo. Il criterio cronologico vede prima la critica, La nascita della tragedia (1872), poi la venerazione, Schopenhauer come educatore (1874), e poi ancora la critica, cioè i Frammenti postumi del 1876-1878 e del 1878-1879; il criterio genealogico, retrodatando la in Inattuale, capo­volge lo schema. L'anticipazione genealogica significa uno stravolgimento cfe/nnattuale, una autointerpretazione.

È in Ecce homo che Nietzsche traccia le linee di una interpretazione della in Considerazione Inattuale che egli ha sempre considerato «con benevo­lenza, quasi con predilezione»11: in Schopenhauer come educatore e in Ri­chard Wagner a Bayreuth (1876) si presentano due immagini di «egoismo» e di «autodisciplina», «tipi inattuali par excellence (...) Schopenhauer e Wagner, ovvero, in una parola, Nietzsche...»12.

11 significato genealogico della m Inattuale risiede nell'appropriazione di una «semiotica» per se stesso, di segni, strumenti linguistici di autodeter­minazione. «In modo simile Platone si è servito di Socrate come di una se­miotica (Semiotik> per Platone. "».

L'appropriazione di sé si compie attraverso l'appropriazione dell'altro, dell'opposto. In Schopenhauer come educatore — «dove infondo» non si tratta di Schopenhauer ma del suo opposto fGegensatz>, Nietzsche — è in­scritta la storia di Nietzsche, il suo divenire, il suo compito, il suo senti­mento o senso della distanza fdas Distanz-Gefùhl^ — termine questo non del linguaggio delle Inattuali, ma successivo; «d'altra parte, Nietzsche ine­vitabilmente accentua o rende più coerenti certi aspetti della sua storia»1*.

L'appropriazione, attraverso l'opposto, di una semiotica per se stesso è l'autointerpretazione del rapporto Nietzsche-Schopenhauer, momento di una interpretazione genealogica della propria opera. La critica di Schopen­hauer, latente nella Nascita della tragedia e poi sistematicamente compiuta

Tragèdie e anche nella seconda Unzeitgemàsse questo pensiero costituiva una motivazione di fondo (...). Una Perversità! der Gesinnung è posta alla base — nella prefazione del 1886 alla Geburt der Tragèdie — del pessimismo nietzscheano (...). Il dio della Nascita della tragedia è un dio artista, "gànzlich unbedenklicher und unmoralischer Kunst-Gott"', che ad una teodicea di tipo cartesiano (la veracitas Dei) o comunque di tipo cristiano, e quindi ad una interpreta­zione "morale" dell'esistenza oppone una redenzione tragico-estetica del negativo (...). In questa prospettiva, che tende a trasferire il problema della giustificazione dell'esistenza in una sfera extramorale, devono collocarsi anche altri scritti del primo periodo come la Vorrede sul­la "gara omerica" (1872) e il saggio Ober Wahrheit und Lùge im aussermoralischen Sinne (1873).» F. Masini, Alchimia degli estremi, Parma, 1967, p. 125, ora in Lo scriba del caos, op. cit. pp. 151-152.

10 NT, pp. 120-1 (KGA, HI, 1, p. 12). " OFN ni, 1, p. 466 {Notizie e note). 12 EH.O, p. 81 (KGA, vi, 3, p. 315) (cfr. p. 870 nel ti voi. di questa edizione). 13 EH, O, p. 84 (KGA, vi, 3, p. 318) (cfr. p. 872 nel n voi. di questa edizione). 14 G. Morel, Nietzsche, i, Paris, 1970, p. 93.

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fino ai frammenti del 1876-78 e 1878-79, viene allora a congiungersi con lo scritto del 1874 che rappresenta l'origine, punto genealogico di una inter­pretazione dei propri segni.

Sembra così cadere la tesi di una conversione del primo Nietzsche a Schopenhauer e di un successivo rinnegamento di Nietzsche, e farsi strada la tesi di un rapporto semiologico fra Nietzsche e Schopenhauer dove Schopenhauer è segno, e segno e nel senso dell'opposto di Nietzsche, e nel senso efe//'annunciatore e nel senso di immagine del filosofo.

La «scoperta» di Schopenhauer si fa risalire all'inverno 1865-1866 tra­scorso a Lipsia, dove Nietzsche seguì il filologo Ritschl. Non si hanno do­cumenti epistolari che commentino direttamente questo avvenimento. In una lettera dell'll luglio 1866 all'amico Hermann Mushacke, Nietzsche scrive: «da quando Schopenhauer ci ha tolto dagli occhi le bende dell'otti­mismo, lo sguardo si è fatto più acuto. La vita è più interessante, sebbene più brutta»15. E in una pagina dello scritto autobiografico postumo Sguar­do retrospettivo sui due anni trascorsi a Lipsia;

... ogni riga [del Mondo come volontà e rappresentazione] ... gridava rinuncia, negazione, rassegnazione; qui vedevo uno specchio nel quale potevo scorgere il mondo, la vita, il mio animo in una grandiosità terribile. Qui mi contemplava l'occhio disinteressato dell'arte, qui vedevo la malattia e la guarigione, la messa al bando e il rifugio, l'inferno e il paradiso. Fui violentemente afferrato dal bisogno dì autoconoscenza, anzi di autocorrosione .

Altro documento della «scoperta» di Schopenhauer e del significato del suo pensiero è una lettera della fine dell'agosto del 1866 a Cari von Ger-sdorff:

Infine merita d'essere ricordato anche Schopenhauer, al quale sono legato ancora con tutta la mia simpatia. Ciò che egli rappresenta per noi, l'ho capito con molta chiarezza soltanto di recente, grazie a un altro scritto, eccellente nel suo genere e molto istruttivo: Storia del mate­rialismo e critica del suo significato per il presente di A. Lange, 1866. Siamo di fronte qui a uno studioso di Kant e della natura profondamente illuminato. Le sue conclusioni sono rias­sunte nelle tre seguenti proposizioni:

1. il mondo dei sensi è il prodotto della nostra organizzazione. 2. i nostri organi visibili (corporei) sono, così, come tutte le altre parti del mondo dell'ap­

parenza, soltanto immagini di un oggetto sconosciuto. 3. la nostra organizzazione vera e propria rimane quindi per noi sconosciuta, così come gli

oggetti reali al di fuori di noi. Noi abbiamo davanti, sempre e unicamente, il prodotto di en­trambi.

Non soltanto la vera essenza delle cose, la cosa in sé, ci è sconosciuta, bensì anche il concet­to di questa è né più né meno che l'ultimo prodotto di un principio opposto — condizionato alla nostra organizzazione — del quale non sappiamo se abbia un qualche significato al di fuori della nostra esperienza. Di conseguenza, pensa Lange, si lascino liberi i filosofi, premes­so che questi d'ora innanzi ci elevino. L'arte è libera, anche nella sfera dei concetti... .

Come vedi, persino attenendoci a questo rigidissimo principio critico ci rimane sempre il nostro Schopenhauer, anzi egli diventa per noi quasi qualcosa di più ...; se la filosofia ha il compito di elevare, allora non conosco nemmeno un filosofo che elevi più del nostro Scho­penhauer17.

Attraverso Schopenhauer e Lange, Nietzsche incontra la tradizione kan­tiana; nel 1868 conosce il Kant di Kuno Fischer, divenendo così per lui «di un 'evidenza accecante che la metafisica è stata per sempre privata, alle ra­dici, delle sue pretese scientifiche»16.

Il regno della metafisica, e con esso l'area della verità «assoluta», è stato innegabilmente inserito in un'unica categoria insieme con la religione e la poesia. Chi vuole conoscere qualco-

15 E, i, p. 441. 16 E, i, pp. 706-707. 17 E, 1, pp. 462-463. 18 G. Morel, op. cit., p. 55.

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sa, si limita ora a una conoscenza della cui relatività egli stesso è consapevole .... Per alcuni la metafisica appartiene dunque alla sfera dei bisogni dell'animo, è essenzialmente edificazione. Per altro verso essa è arte, quella cioè della poesia concettuale. Una cosa è certa però: la me­tafisica, sia come religione che come arte, non ha nulla a che vedere con il cosiddetto «vero o essere in sé»19.

Kant è considerato «un precursore di Schopenhauer»10: rivelò come lo spazio, il tempo e la causalità servissero solo ad elevare la semplice appa­renza fErscheinung) a unica realtà, ponendola al posto della vera essenza delle cose, e a rendere così impossibile la conoscenza di quest'ultima, cioè secondo un'espressione di Schopenhauer, «ad addormentare ancóra di più il sognatore»21.

La centralità tragica della tesi fenomenologica kantiana ritorna anche nella in Inattuale: Nietzsche cita una famosa lettera di Kleist, il poeta del Principe di Homburg e del Teatro delle marionette, il poeta travolto dal «disperare della verità» ^Verzweiflung an der Wahrheit):

Poco tempo fa ho conosciuto la recente cosiddetta filosofia kantiana — e ora ti devo far partecipe di un pensiero, poiché non temo che ti possa scuotere così profondamente e doloro­samente, come è stato per me .... Se tutti gli uomini al posto degli occhi avessero vetri verdi, dovrebbero giudicare che gli oggetti visti attraverso di essi sono verdi — e non potrebbero mai decidere se l'occhio mostri loro le cose come sono o non aggiunga ad esse qualche cosa che non appartiene a loro, ma all'occhio. Lo stesso avviene per l'intelletto. Noi non possiamo de­cidere se ciò che chiamiamo verità sia veramente verità o soltanto così ci appaia .

// disperare della verità, l'isolamento f'Vereinsamung) e l'indurimento morale o intellettuale r'Verhàrtung, im Sittlichen oder im intellectu elleno rappresentano dopo Kant i «pericoli della costituzione» che, con i «pericoli del tempo», minacciano ogni formazione filosofica e spirituale.

Nietzsche pone in tal modo il problema della visibilità ^Sichtbarkeit^ e dell'unicità del filosofo, termini che rimandano alla visibilità di Zarathu­stra.

La generazione del filosofo «in noi e fuori di noi» è il compito della cul­tura. La generazione del filosofo, la generazione dell'uomo liberatore è un 'anticipazione genealogica di Zarathustra. Morel segnala un inedito del tempo della ni Inattuale in cui c'è «un oscuro presentimento del problema fondamentale che porterà un giorno il nome di eterno ritorno»23: «Questo filosofo deve (...) rinascere ancora infinite volte ^Dieser Philosoph muss (...) noe unendliche Male wiedergeboren werden>. Con la sua fragile appa­rizione in Schopenhauer niente è ancora veramente avvenuto»24.

Anticipazione dello Zarathustra e presentimento dell'eterno ritorno del­l'eguale rappresentano possibili linee interpretative, tuttavia ancora legate, teleotogicamente, alla Umwertungszeit, alla tesi della trasvalutazione. Qua! è allora la versione del valore, la sua figura particolare nella m Consi­derazione Inattuale, vista come testo compiuto, pur nel suoi rapporti ge­nealogici con i testi nietzscheani sul valore e sulla inversione dei valori? Il problema del valore è posto nei termini della questione metafisica del senso dell'esistenza.

" E, i, pp. 575-576. 20 O. Reboul, Nietzsche critique de Kant, Paris, 1974, p. 7. 21 NT, p. 167 (KGA, ni, 1, p. 114). 22 H. v Kleist, Sàmtliche Werke und Briefe, hrsg. von H. Sembdner, Miinchen, 1961, II,

p. 634 (An Wilhelmine von Zeuge, Berlin, den 22. Màrz 1801). Sul rapporto Kleist-Kant cfr. E. Cassirer, «Heinrich von Kleist und die Kantische Philosophie», in Idee und Gestalt, Darm­stadt, 1975 (reprint della u ediz., Berlin, 1924), pp. 158-202.

23 G. Morel, op. cit., p. 92. 24 F. Nietzsche, Werke, ed. Naumann, 1903, t. x, p. 319, 86.

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NIETZSCHE E SCHOPENHAUER... INTRODUZIONE DI GIULIO RAIO 395

«Immaginiamoci l'occhio del filosofo indugiare sull'esistenza: egli vuole stabilirne di nuovo il valore»; «che valore ha in assoluto l'esistenza?»2$.

Quale la risposta di Schopenhauer? La risposta di Empedocle. Nella Gaia scienza (1882) Nietzsche invece dirà che la risposta di Scho­

penhauer fu soltanto un accomodamento, un arrestarsi alla prospettiva ascetico-cristiana:

Mentre respingiamo in tal modo da noi l'interpretazione cristiana, condannandone il «sen­so» come un'opera di falsari, ecco che subito ci si viene avvicinando, spaventosamente, il quesito di Schopenhauer: ha dunque l'esistenza in generale un senso? — quel quesito che sol­tanto per essere compreso e sentito in tutta la sua profondità avrà bisogno di un paio di seco­li. Quel che lo stesso Schopenhauer ha risposto a tale quesito fu — mi sia concesso dirlo — qualcosa di prematuro, di giovanile; fu soltanto un accomodamento, un arrestarsi e un are­narsi proprio in quelle prospettive ascetico-cristiane, alla fede nelle quali era stato dato il ben servito insieme alla fede in Dio...2*.

Nei paragrafi 4, 5 e 6 della in Inattuale si configura, nelle sue linee essen­ziali, una versione del valore, in certa misura autonoma della teorizzazione e della comprensione ulteriori del valore quale problema fondamentale del nichilismo. Il problema del valore sembra posto nei termini della questione metafisica del senso dell'esistenza. La relazione di valore e senso, come corrispondenza classica che conduce a una traduzione immediata del luogo dell'in-sé nel luogo del per-sé, sembra connotare di una valenza esistenzia­listica questo testo nietzscheano.

Anche il concetto di unicità, di individuazione — la proposizione svelata dall'artista individualista che scopre e demistifica l'infinità cattiva della norma, dell'adattabilità (Bequemlichkeity secondo cui «ogni uomo è un miracolo irripetibile»21 — sembra giustificare una interpretazione esisten­zialistica, dove l'unicità appare come un carattere esistenziale.

In realtà senso dell'esistenza e unicità dell'esistenza rimandano a una versione del valore, in qualche modo pre-nichilista, e, comunque, origina­ria, nella quale giocano un ruolo determinante i concetti di umano, di na­tura e di cultura.

Nietzsche vuole cogliere il rapporto che lega il filosofo — specie d'uomo la cui teleologia è transpolitica^, e la cultura — totalità considerata, a sua volta, nella sua transpoliticità e indipendenza dallo stato: il rapporto si de­finisce come sensibilità della malattia, consapevolezza della distruzione, coscienza della crisi.

I sintomi della malattia generale, gli elementi della crisi sono la retroces­sione della religione, la dissoluzione scientifica della tradizione e della cre­denza, l'economia del denaro.

«Tutto serve alla barbarie ventura, comprese l'arte e la scienza attua­li»29.

L'immagine della crisi è il disgelo. Il moto devastatore è storico e mette capo alla rivoluzione atomistica, al caos atomistico, cioè alla distruzione delle parti elementari e invisibili della società umana.

La devastazione micrologica è cominciata con la crisi delle unità storico-politiche e culturali del medioevo, con la crisi storica dell'umano. La sepa-

25 SE, O, pp. 51-52 (KGA, in, 1, p. 356) (cfr. pp. 412-3 in questo voi.). 26 OFN, v, 2, pp. 229-230 (KGA, v, 2, pp. 282-283). 27 SE, O, p. 33 (KGA, HI, 1, p. 333) (cfr. p. 400 in questo voi.). 28 «Ogni filosofia che creda rimandato e risolto il problema della esistenza da un avveni­

mento politico è una filosofia da farsa o una pseudofilosofia.» SE, O, p. 55 (KGA, ni, 1, p. 361) (c.n.) (cfr. p. 414 in questo voi.).

29 SE, O, p. 56 (KGA, in, 1, p. 362) (cfr. p. 415 in questo voi.).

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razione Scheidung> atomistica, la disgregazione dell'umano, dell'umanità (Menschlichkeit) è il moto di decadenza che dall 'immagine fBild dell'uo­mo conduce all'immagine cfe//'animalità e della meccanicità.

Contro tale decadenza la cultura moderna ha eretto tre immagini del­l'uomo: l'uomo di Rousseau, l'uomo di Goethe, l'uomo di Schopenhauer.

Attraverso i principi di antropologie filosofiche fortemente opposte, possiamo cogliere le linee della visione nietzscheana dell'umano, nella sua figura doppia: la critica di un antropologismo illuministico e naturalistico, la decostruzione di un umanismo della conoscenza e della coscienza, e, at­traverso la tesi schopenhaueriana della vita eroica, la formulazione di un umanismo dei non-più-animali ^Nicht-mehr-Thiere^, di un umanismo «ge­niale».

L'uomo di Rousseau è la coscienza «socialista» per la quale solo l'uomo naturale fnatùrliche Menscty è umano, è /'uomo attivo.

L'uomo di Goethe è /'uomo contemplativo: è un'interpretazione del Faust che mette capo all'immagine goethiana dell'umano; Faust può appa­rire come il vero genio del rivolgimento, come ribelle e liberatore, immagi­ne, a sua volta, dell'immagine rousseauiana dell'uomo attivo. In realtà Faust, il liberatore del mondo, è soltanto l'immagine del viaggiatore che attraversa le epoche passate, le arti, le mitologie, le scienze; è l'immagine del desiderio; una forza conservatrice e tollerante che non rovescerà mai alcun ordine fOrdnung^.

La degenerazione dell'uomo attivo è il «catilinario»; quella dell'uomo contemplativo è il «filisteo» — si scopre qui, in qualche modo, la genealo­gia del filisteismo, fondamento della critica di tutte le Inattuali.

«L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità.30» Attraverso il dolore per la professione di verità — contro il fi­listeismo — l'uomo eroico vince la volontà individuale, preparando il rove­sciamento fUmwàlzung) e la conversione (UmkéhTung) della propria esi­stenza.

Questo movimento, questa trasvalutazione dell'umano è anticipazione genealogica del movimento di fuga dal centro, dall'io come «soggetto grammaticale» e «finzione», «"come se — osserva ancora Nietzsche — molti stati simili in noi fossero l'effetto di un unico substrato": allo stesso modo con cui il mondo "questo abissale, ricco mare", questo mondo "non divino, non morale, non umano", questo mondo, "crudele, contradditto­rio, carico di seduzioni e senza senso" è un mondo prospettico, un mondo per l'occhio»11.

Alle tre immagini (classiche) dell'uomo, Nietzsche oppone — in questa Inattuale solo in via negativa e storico-monumentale (elogio di Schopen­hauer) — una quarta immagine: «"il quarto uomo" (...) l'uomo con la "perdita del centro" (...). L'uomo senza contenuto morale e filosofico, che vive per i principi della forma e dell'espressione»32.

Il movimento, iniziato dal rovesciamento e dalla conversione dell'uomo schopenhaueriano nel quarto uomo nietzscheano, «non nasce da una deci­sione individuale, da una metànoia del singolo; vuole una preparazione di generazione»13. È il problema della differenza fra lo «spirito libero» fFrei-

30 SE, O, p. 60 {KGA, ni, 1, p. 367) (cfr. p. 417 ih questo voi.). " F. Masini, Lo scriba del caos, op. cit. p. 313. 32 G. Benn, «Nietzsche-Nach funfzig Jahren», (Essays Reden Vortràgé), in Gesammelte

Werke in vier Bànden, hrsg. von D. Wellershoff, Wiesbaden, 1958-1963, i, p. 493. 33 G. Vattimo, «Tramonto del soggetto e problema della testimonianza», in La testimo-

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NIETZSCHE E SCHOPENHAUER... INTRODUZIONE DI GIULIO RAIO 397

geist> che è più vicino all'uomo eroico, alla matrice schopenhaueriana, e /'oltreuomo fUbermenscty la cui posizione filosofica presuppone il supera­mento dell'orizzonte del soggetto borghese-cristiano e del dominio logico della coscienza.

La versione «inattuale» del valore — abbiamo detto — si forma come schema dei concetti-chiave di uomo, dì natura e di cultura. Per compren­dere l'impostazione nietzscheana, il concetto di uomo — come problema dell'umano e anticipazione del problema tfe//'oltre-umano — va decostrui­ta in senso antiumanistico — o pre-antiumanistico — attraverso la messa in luce del significato della natura e della cultura per l'immagine dell'uomo (schopenhaueriano prima, nietzscheano poi).

Partendo dalla possibile obiezione all'uomo schopenhaueriano della condizione — in termini goethiani — limitata dell'uomo, della sua destina­zione alla comunità politica che contrasta con l'immagine dell'uomo di Schopenhauer, capace soltanto di porci al di fuori di noi e della comunità degli uomini attivi, Nietzsche tematizza la differenza fra la condizione ani­male e la condizione umana.* la vita attiva è «Fortsetzung der Thierheit», «continuazione dell'animalità», opposizione-educazione «alla rovescia» — alla disposizione metafisica rmetaphysische Anlage^, alla riflessione (Tìesin-nungA L'immagine dell'uomo di Schopenhauer è allora l'immagine del non-più-animale, un'immagine negativa (il filosofo, l'artista, il santo), an­tiumanistica, nel senso della dissoluzione della coppia metafisica uomo at­tivo-uomo contemplativo, classica composizione dei principi tradizionali dell'etica e della gnoseologia.

La determinazione più specifica della antropologia schopenahueriana — semiotica per l'antropologia nietzscheana, orientata in senso antiumaniu-stico — è il legame con una teoria della natura, con una teleologia della na­tura, con un 'estetica della natura che realizza la propria destinazione: al­l'apparire dei non-piìJ-animali la natura comprende «che deve disimparare ad avere mète, e che ha giocato troppo alto il gioco della vita e del diveni­re»34; esprime allora, nella sua «bellezza» — termine di autovalutazione e autoconoscenza della natura, la grande illuminazione ^Aufklàrung^ sull'e­sistenza.

Questa concezione del rapporto uomo-natura è «apollineo-goethiana» secondo la definizione di Thomas MannÌS. Il suo significato nietzscheano sta nel carattere antiumanistico e antisoggettivistico della generazione del filosofo, dell'artista e del santo.

La generazione dell'uomo liberatore non è soltanto il mezzo attraverso cui si attua la destinazione estetico-conoscitiva della natura, ma è soprat­tutto crisi del soggetto, generazione del quarto uomo, decostruzione del­l'io.

Non c'è dubbio, tutti noi siamo affini e legati col santo così come lo siamo col filosofo e coll'artista; vi sono momenti, e quasi scintille del più limpido amoroso fuoco, alla cui luce non intendiamo più la parola «io»; al di là del nostro essere (jenseits unseres Wesens) c'è qualcosa che in quei momenti diventa al di qua (Diesseits) e perciò dal più profondo del cuore noi bramiamo il ponte tra qui e là (den Brucken zwischen hier und dort)u.

La generazione continua, sempre nuova, è il compito della cultura. La

nianza. Atti del Convegno indetto dal Centro internazionale di Studi umanistici e dall'Istituto di Studi filosofici, a cura di E. Castelli, Roma, 1972, p. 136.

34 SE, O, p. 67 (KGA, tu, 1, p. 376) (cfr. p. 421 in questo voi.). 35 Th. Mann, Adeldes Geistes. Sechzehn Versuche zum Problem der Humanìtàt, Stockhol-

mer Gesamtausgabe der Werke con Th. M., Stockholm, 1948 (Schopenhauer, pp. 329-387). 36 SE, O, p. 69 (KGA, m, I, pp. 378-379) (cfr. p. 422 in questo voi.).

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concezione della cultura, è — con /'umano e la natura — il terzo elemento nietzscheano-schopenhaueriano di quella che abbiamo chiamato «versione inattuale del valore», per indicare lo stato autonomo di elaborazione di una teoria del valore del tempo delle Inattuali.

In antitesi a un'idea di cultura come formazione di «uomini correnti», come Stato di cultura, come manierismo e formalismo, e come scientismo, Nietzsche elabora in Schopenhauer come educatore un concetto «metafisi­co», «esistenziale» di cultura. La cultura è figlia dell'autoconoscenza del singolo e dell'insoddisfazione di sé.

Colui che le si riconosce devoto, si esprime così: «sopra di me vedo qualcosa di più elevato e più umano (etwas Hóheres und Menschlicheres) di quanto io stesso sono, aiutatemi tutti a raggiungerlo, così come io voglio aiutare chiunque conosca le stessa cosa e ugualmente ne sof­fra: affinché finalmente risorga l'uomo che sente se stesso pieno e infinito nel conoscere e nel­l'amare, nel contemplare e nel potere, e che in tutta la sua totalità si affida e confida nella na­tura, come giudice e misura del valore delle cose (Werthmesser der Dingé)vP.

La centralità del soggetto viene in un certo senso riaffermata nella defi­nizione preplatonica dell'umano come misura del valore; tuttavia il signifi­cato antisoggettivistico e antiumanistico del pensiero inattuale è racchiuso, ancor più profondamente che nella destinazione estetico-conoscitiva dei non-più-animali, nella metafisicità della cultura, nel desiderio di «guardare oltre sé e cercare con tutte le energie un se stesso superiore, ancora nasco­sto da qualche parte»1*'.

La ricerca del rapporto fra il filosofo — uomo impolitico — e ia cultura — totalità infinita e non politica — sfocia, nel paragrafo 8, ultimo della ni Inattuale, nella contrapposizione tra stato e filosofia, che sviluppa una teo­ria catastrofica19 dei rapporti tra stato moderno e filosofia, dove lo stato moderno, come il sovrano medievale che, per essere incoronato, all'occor­renza nominava un antipapa fGegenpapst), nomina per essere legittimato, un 'antifilosofia fGegenphilosophie>, e dove la filosofia, quando appunto non è antifilosofia, è un tribunale superiore, giudice della cultura che la circonda.

GIULIO RAIO

37 SE, O, p. 71 (KGA, in, 1, p. 381) (c.n.) (cfr p. 424 in questo voi.). 38 SE, O, p. 71 (KGA, in, 1, p. 381) (cfr. p. 42 in questo voi.). 39 «Ma alla fine a che ci serve l'esistenza di uno Stato, l'incremento dele università, se è in­

nanzitutto in gioco l'esistenza della filosofia sulla terra!» SE, O, p. 102 (KGA\ ni, 1, p. 421) (cfr. p. 446 in questo voi.).

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1. Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, in­

terrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più vali­damente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro co­stumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così ec­centricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza — perchè? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde. Ma cosa costringe il singolo a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggio­ranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavi­di sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata. Soltanto gli artisti odiano questo in­dolente incedere ostentando maniere d'accatto e opinioni posticce e svela­no il segreto, la cattiva coscienza di ognuno, il principio cioè che ogni uo­mo è un miracolo irripetibile; essi soltanto osano mostrarci l'uomo nella sua peculiarità e unicità fin nel più piccolo movimento muscolare e, ancor più, osano mostrarci come, in questa rigorosa coerenza della sua unicità, è bello e degno di osservazione, nuovo e incredibile come ogni opera della natura, e niente affatto noioso. Il grande pensatore che disprezza gli uomi­ni, ne disprezza la pigrizia: poiché a causa di questa essi appaiono simili a prodotti di fabbrica, indifferenti, indegni di contatti e di ammaestramenti. L'uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di es­sere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: «sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora».

Ogni giovane anima sente giorno e notte questo appello e ne trema; in­fatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura di felicità destinatale dall'eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiun­gere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata può divenire l'esistenza senza questa liberazione! Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si di­ce del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, can-

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celiato dalla storia della vera liberazione della vita. Con quanta ripugnanza si occuperanno le generazioni future dell'eredità di un'epoca in cui a go­vernare non erano uomini viventi ma parvenze di uomini con un'opinione pubblica; per questo forse la nostra epoca apparirà a una qualche lontana posterità il periodo della storia più oscuro e più ignoto perché più inuma­no. Vado per le nuove strade delle nostre città e penso che di tutte queste orribili case, che la generazione dell'opinione pubblica si è costruita, tra un secolo non rimarrà nulla, e che saranno finalmente crollate anche le opi­nioni dei costruttori di tali case. Quante speranze debbono nutrire, invece, tutti coloro che non si sentono cittadini di questo tempo; se lo fossero, in­fatti, si adoprerebbero a uccidere il proprio tempo e a perdersi con esso — mentre vogliono piuttosto ridestare alla vita il tempo per continuare essi stessi a vivere in questa vita.

Ma anche se il futuro non ci lasciasse speranze — la nostra straordinaria esistenza proprio nel suo ora ci dà forza più di ogni altra cosa a vivere se­condo una legge e una misura nostra: quel qualcosa d'inesplicabile per cui noi viviamo, proprio oggi, pur avendo avuto il tempo infinito per nascere, per cui nuli'altro possediamo se non un oggi brevissimo e in esso dobbia­mo mostrare perché e a che scopo siamo nati proprio ora. Noi siamo re­sponsabili davanti a noi stessi della nostra esistenza; quindi vogliamo esse­re i veri timonieri di questa esistenza e non permettere che assomigli a pura accidentalità senza pensiero. Con essa bisogna saper trattare con audacia, esponendosi al rischio: tanto più che, sia nel migliore che nel peggiore dei casi, la perderemo. Perché allora essere attaccati a questa zolla, a questo mestiere, perché drizzare le orecchie per sentire ciò che dice il prossimo? È così provinciale sentirsi vincolati a opinioni che a distanza di qualche centi­naio di miglia già non sono più vincolanti. Oriente e occidente sono segni di gesso che qualcuno traccia davanti ai nostri occhi per prendersi gioco della nostra pavidità. Voglio tentare di raggiungere la libertà, si dice la gio­vane anima: ed ecco che dovrebbero impedirglielo due nazioni che per caso si odiano e si combattono, o un mare che divide due continenti, o il fatto che ovunque si insegna una religione che duemila anni fa ancora non esi­steva. Tu non sei tutto questo, si dice la giovane anima. Nessuno può co­struirti il ponte sul quale tu devi attraversare il fiume della vita, nessuno se non tu stessa. Ci sono sì infiniti sentieri e ponti e semidei pronti a portarti oltre il fiume; ma solo al prezzo di te stessa: tu daresti in pegno te stessa e ti perderesti. Nel mondo esiste una sola strada che nessuno, se non tu, può percorrere: dove conduce? Non domandare, ma seguila! Di chi era la frase «Mai uomo si innalza tanto come quando non sa dove può condurlo la sua strada»?

Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l'uomo conoscersi? È una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli l'uomo può toglierne sette volte settanta e neppure allora potrà dire: «questo ora sei realmente tu, non è più scorza». Inoltre, scavare se stessi in questo modo e sprofon­dare così per la via più diretta nel pozzo della propria esistenza, è un inizio tormentoso e azzardato. Con che facilità ci si possono produrre cosi delle ferite che nessun medico può sanare. E per giunta: a che scopo ciò sarebbe necessario, quando tutto testimonia del nostro essere: le nostre amicizie e le nostre inimicizie, il nostro sguardo, la nostra stretta di mano, la nostra memoria e ciò che dimentichiamo, i nostri libri e i tratti della nostra penna. Ma ecco il mezzo per realizzare l'interrogatorio più importante. Guardi la giovane anima indietro nella propria vita, e si chieda: che cosa hai vera­mente amato finora, che cosa ha attratto la tua anima, che cosa l'ha domi-

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SCHOPENHAUER COME EDUCATORE [2] 401

nata e allo stesso tempo resa felice? Allinea davanti a te questi venerati og­getti ed essi, forse, con il loro essere e la loro successione, ti daranno una legge, la legge fondamentale di te stesso. Confronta questi oggetti e osser­va come l'uno completi l'altro, lo ampli, lo superi e lo trasfiguri fino a for­mare una scala su cui tu finora ti sei arrampicato alla conquista di te stes­so; la tua vera essenza infatti non sta profondamente celata dentro di te, ma smisuratamente al di sopra di te o, almeno, al di sopra di ciò che tu sei solito considerare il tuo io. I tuoi veri educatori e formatori ti svelano il senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualcosa che non si può assolutamente educare né formare, ma in ogni caso di difficile accesso, perché legato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient'altro che i tuoi liberatori. E questo è il segreto di ogni formazione: essa non dà membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti — doni che solo la falsa immagine dell'educazione può dare. Essa è vera liberazione, rimozione di tutte le erbacce, rifiuti e parassiti che minacciano i delicati se­mi delle piante, è emanazione di luce e di calore, tenero scroscio di pioggia notturna, essa è imitazione e venerazione della natura, quando questa si mostra materna e misericordiosa, e ne è perfezionamento, quando ne pre­viene gli attacchi terribili e spietati volgendoli al bene, quando stende un velo sulle manifestazioni del suo animo matrigno e della sua triste follia.

Certo esistono altri mezzi per ritrovarsi, per rinvenire dall'intontimento in cui, come in una fosca nube, si vive normalmente: io però non conosco nulla di meglio che ricordarsi dei propri educatori e formatori. Pertanto oggi voglio essere memore di quell'educatore e maestro severo, del quale posso vantarmi, che fu Arthur Schopenhauer, per ricordarne, in seguito, altri.

2.

Per descrivere quale avvenimento fu per me il primo sguardo gettato agli scritti di Schopenhauer mi sia concesso soffermarmi su un'immagine che, nella mia gioventù, fu frequente e insistente come nessun'altra. Quando un tempo mi abbandonavo, a mio piacimento, ai desideri, pensavo che il de­stino mi avrebbe esonerato dalla tremenda fatica e dal dovere di autoedu-carmi purché trovassi, al momento giusto, un filosofo come educatore, un vero filosofo, a cui si potesse ubbidire senza ulteriori ripensamenti, perché si sarebbe riposta in lui una fiducia più grande di quella in se stessi. Così mi chiedevo: quali saranno mai i princìpi secondo cui ti educherà? e riflet­tevo su che cosa avrebbe detto circa le due massime dell'educazione che so­no in voga nel nostro tempo. La prima richiede che l'educatore riconosca subito la forza precipua dei suoi allievi e, quindi, indirizzi tutte le energie e tutte le linfe, e ogni raggio di sole proprio in quella direzione, per aiutare quell'unica virtù a raggiungere la giusta maturazione e fecondità. La se­conda massima, invece, richiede che l'educatore faccia crescere tutte le for­ze a disposizione, le curi e le porti a un rapporto armonico tra loro. Ma per questo si dovrebbe forse costringere alla musica chi ha una spiccata attitu­dine all'arte dell'orafo? Si deve dunque dare ragione al padre di Benvenuto Cellini che affliggeva di continuo il figlio con il «lascivissimo cornetto» che il figlio chiamava «quel maledetto sonare»? Nel caso di attitudini sì forti e che si manifestano decisamente non si può considerare giusto questo tipo di educazione; e forse allora quella massima dell'educazione armonica sarà da applicarsi alle nature più deboli in cui è sì presente un'intera nidiata di bisogni e inclinazioni che, però, presi nella loro complessità o singolarmen-

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te, non vogliono poi significare molto. Ma dove troviamo in un'unica na­tura quella totalità armonica e consonanza polifonica, dove ammiriamo più armonia, se non proprio in quegli uomini, del tipo di Cellini, nei quali tutto, conoscere, desiderare, amare, odiare, tende verso un centro, verso una forza radicale, dove appunto per il sovrappotere cogente e dominante di questo centro vitale si forma un sistema armonico di movimenti in tutte le direzioni? E così forse le due massime non sono affatto dei contrari? Forse l'una dice soltanto che l'uomo deve avere un centro, mentre l'altra afferma che deve avere anche una periferia? Quel filosofo educatore, che vagheggiavo per me, non solo avrebbe scoperto quella forza centrale, ma avrebbe, anche, saputo impedire che essa avesse un'azione distruttrice ri­spetto alle altre forze: anzi, compito della sua educazione sarebbe stato — almeno così ritenevo — trasformare l'uomo nella sua totalità fino a farne un sistema solare e planetario vivo e in movimento e riconoscere la legge della sua meccanica superiore.

Frattanto un tal filosofo mi mancava e io tentai invano con questo e con quello; scoprii così quanto sia misera la nostra condizione rispetto ai Greci e ai Romani, anche solo dal punto di vista di una concezione seria e rigorosa dei compiti dell'educazione. Con un tal bisogno nel cuore si può correre per tutta la Germania, andando, perfino, in tutte le università e non si troverà ciò che si cerca; anzi, desideri molto più semplici e meno ele­vati vi rimangono inadempiuti. Chi, per esempio, tra i Tedeschi volesse se­riamente formarsi come oratore o chi intendesse recarsi in una scuola per scrittori, non troverebbe né scuola né maestri; sembra che qui non si sia mai riflettuto sul fatto che parlare e scrivere sono arti che non si possono acquistare senza la più accurata direzione e i più faticosi anni di apprendi­stato. Nulla rivela in modo tanto chiaro e allo stesso tempo tanto umiliante il presuntuoso autocompiacimento dei contemporanei come la meschinità, per metà taccagna e per metà priva di pensiero, delle loro pretese verso educatori e maestri. Di che cosa non ci si contenta, persino tra la nostra gente più nobile e meglio istruita, sotto il nome di precettori: quale guazza­buglio di teste stravaganti e di istituzioni invecchiate viene spesso indicato come ginnasio ed è considerato buono; di che cosa non ci accontentiamo noi tutti, come supremo istituto di istruzione, come università: quali gui­de, quali istituzioni, paragonati alla difficoltà del compito di educare un uomo ad essere un uomo! Perfino il modo degli eruditi tedeschi di dedicar­si alla scienza, pur se tanto ammirato, mostra soprattutto come essi, nel far ciò, pensano più alla scienza che all'umanità, che sono addestrati a sa­crificarsi ad essa come una perduta schiera per spingere a loro volta nuove generazioni ad immolarvisi. Il commercio con la scienza, se non è guidato, né limitato da una massima superiore dell'educazione, ma è sempre più scatenato secondo il principio «tanto più tanto meglio», è certamente dan­noso per i dotti quanto lo è la teoria economica del laisserfaire per la mo­ralità di popoli interi. Chi sa ancora che l'educazione del dotto, la cui uma­nità non deve essere abbandonata o fatta insecchire, è un problema di grandissima difficoltà? — Eppure tale difficoltà salta agli occhi, basta fare attenzione ai numerosi esemplari, che per una dedizione sconsiderata e troppo precoce alla scienza, si sono incurviti o si distinguono per la gobba. Ma ben altra testimonianza esiste per l'assenza di ogni educazione superio­re, testimonianza più importante e più pericolosa, ma soprattutto più gene­rale. Se è immediatamente chiaro perché oggi non si può educare un orato­re o uno scrittore — appunto per il motivo che per loro non esistono edu­catori —; se è quasi altrettanto chiaro perché oggi un dotto deve essere de-

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forme e contorto — perché la scienza, quindi un'inumana astrazione, lo deve educare — ci si chieda infine: dove sono tra i nostri contemporanei, propriamente per noi tutti, istruiti ed ignoranti, nobili e di semplice nasci­ta, i nostri modelli e le nostre celebrità morali, quel compendio visibile di tutta la morale creativa della nostra epoca? Dove è andato a finire, in real­tà, tutto quel riflettere sui problemi morali, di cui in ogni tempo ogni socie­tà nobile e evoluta si è sempre occupata? Non esiste più nessuna riflessione o celebrità di questo tipo; in effetti consumiamo quel capitale di moralità, accumulato dai nostri predecessori, che noi non sappiamo certo più accre­scere ma solo dissipare; di queste cose, nella nostra società, o non se ne parla affatto, o se ne parla con una goffaggine e imperizia naturalistica, che non può che suscitar disgusto. Così si è arrivati al punto che le nostre scuole e i nostri maestri semplicemente prescindono da una educazione morale o se la cavano con formalismi: e virtù è una parola che non evoca più né nel maestro né negli scolari alcun pensiero, una parola antiquata di cui si sorride — e se non si sorride è un male, perché in tal caso si è ipocriti.

La spiegazione di questa fiacchezza e del basso livello di tutte le forze morali è difficile e complessa; tuttavia nessuno che consideri l'influenza del cristianesimo vittorioso sulla moralità del nostro mondo antico, potrà trascurare la reazione del cristianesimo soccombente, quindi la sorte per esso sempre più probabile nella nostra epoca. Con l'altezza del suo ideale il cristianesimo ha soverchiato gli antichi sistemi morali e la naturale schiet­tezza, in tutti ugualmente presente, in modo tale che rispetto ad essa si è di­venuti ottusi e schifiltosi; più tardi però, quando ancora si riconosceva ciò che era migliore e superiore, ma non si era più in grado di realizzarlo, non si potè più tornare al buono e all'elevato, cioè a quella antica virtù, per quanto lo si volesse. In un tale oscillare tra cristianesimo e antichità, tra una cristianità dei costumi intimidita o menzognera ed un ritorno all'anti­co, altrettanto scoraggiato e impacciato vive l'uomo moderno, e in questa situazione si trova male; il timore ereditato di ciò che è naturale e il rinno­vato fascino del naturale, il desiderio di trovare un punto fermo qualsiasi, l'impotenza del suo conoscere, che vacilla tra ciò che è bene e ciò che è me­glio, tutto ciò produce una irrequietezza, una confusione nell'anima mo­derna, che la condanna ad essere sterile e priva di gioia. Mai furono tanto necessari educatori morali e mai fu tanto improbabile trovarne! Nei mo­menti in cui il bisogno dei medici è altissimo, cioè durante le grandi epide­mie, essi sono i più esposti al pericolo. Dove sono, infatti, i medici della moderna umanità, capaci di stare ben saldi e sani sui propri piedi, così da sostenere un altro e condurlo per mano? Un'atmosfera scura e tetra aleg­gia anche intorno alle personalità migliori della nostra epoca, un'eterna scontentezza per la lotta tra ipocrisia e lealtà che si combatte nel loro petto, una irrequietezza nel confidare in se stessi — per tutto questo non possono assolutamente più essere guide e allo stesso tempo maestri severi per gli al­tri.

Era, quindi, proprio un cullarsi nei miei desideri, quando mi immagina­vo di poter trovare come educatore un vero filosofo, che fosse capace di sollevare una persona al di sopra dell'insoddisfazione insita nell'epoca e che di nuovo insegnasse a pensare e a vivere con semplicità e sincerità, ad essere cioè inattuale, nel significato più profondo della parola; oggi infatti gli uomini sono diventati così molteplici e complicati che devono essere in­sinceri quando parlano, sostengono delle opinioni e vogliono agire in con­seguenza ad esse.

In questo stato di angustie, bisogni e desideri conobbi Schopenhauer.

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Faccio parte di quei lettori di Schopenhauer che, dopo averne letto la prima pagina, sanno con sicurezza che leggeranno e ascolteranno ogni pa­rola da lui comunque detta. Subito si determinò in me fiducia in lui, fidu­cia che a tutt'oggi è la stessa di nove anni fa. Lo intendevo come se avesse scritto per me: per esprimermi in modo chiaro anche se non privo di immo­destia e di follia. Da ciò deriva il fatto che non ho mai trovato in lui un pa­radosso, anche se qua e là qualche piccolo errore; infatti che cosa sono i paradossi se non affermazioni che non ispirano fiducia, fatte senza fiducia dallo stesso autore, per poter, grazie a loro, essere brillante, sedurre o co­munque far bella figura? Schopenhauer non vuole mai far bella figura: egli infatti scrive per sé e nessuno ama essere ingannato, meno di tutti un filo­sofo che addirittura si impone la legge: non ingannare nessuno, neppure te stesso! Neppure con quell'inganno sociale ben accetto, che quasi ogni con­versazione comporta e che gli scrittori quasi inconsapevolmente imitano, tanto meno con l'inganno consapevole del palco oratorio e con i mezzi ar­tificiosi della retorica. Schopenhauer invece parla con se stesso: o, se pro­prio si vuole pensare a un destinatario, si pensi al figlio che il padre istrui­sce. È un esprimersi onesto, vigoroso, benevolo, rivolto a un uditore che ascolta amorevolmente. Scrittori simili ci mancano. Il vigoroso senso di benessere di colui che parla ci afferra al primo risuonare della sua voce: è una sensazione simile a quella che si prova entrando in un bosco di alberi ad alto fusto; respiriamo profondamente e ci sentiamo tutto a un tratto di nuovo bene. Qui c'è sempre un'aria egualmente corroborante, così sentia­mo; qui c'è una certa inimitabile libertà e naturalezza, propria di quegli uomini che dentro di sé si sentono a casa, e in una casa molto ricca: al con­trario di quegli scrittori che ammirano soprattutto se stessi per essere stati, una volta, geniali e la loro esposizione, proprio per questo, ha un che di in­quieto e innaturale. Tanto meno, quando Schopenhauer parla, penseremo all'erudito, che per natura ha membra rigide e impacciate ed è di torace stretto e perciò avanza angoloso, goffo o arrogante; mentre, d'altra parte l'anima ruvida e un po' burbera di Schopenhauer insegna non tanto a rim­piangere quanto, piuttosto, a disprezzare l'agilità e la grazia gentile dei buoni scrittori francesi e nessuno scoprirà mai in lui quell'imitata indora­tura pseudofrancese, di cui vanno orgogliosi gli scrittori tedeschi. Il modo d'esprimersi di Schopenhauer, in alcuni punti, mi ricorda un poco Goethe, altrimenti nessun altro modello tedesco. Perché egli sa dire le cose profon­de con semplicità, quelle commoventi senza retorica, le cose rigorosamente scientifiche senza pedanteria: da quale Tedesco avrebbe potuto apprendere ciò? Egli non ha neppure nulla della maniera troppo cavillosa, a volte trop­po movimentata e — se mi è permesso dirlo — abbastanza poco tedesca di Lessing; il che è un grande merito; Lessing, infatti, per quanto riguarda la scrittura in prosa è tra i Tedeschi l'autore che suscita le maggiori tentazio­ni. E per dire subito il massimo che si possa dire del suo modo di esporre riferisco a lui la sua frase: «un filosofo deve essere molto sincero per non servirsi di espedienti poetici o retorici». Che la sincerità sia qualcosa, addi­rittura una virtù nell'epoca delle opinioni pubbliche, fa parte di quelle opi­nioni private che sono proibite; e perciò non avrò lodato ma solo caratte­rizzato Schopenhauer ripetendo che egli è sincero anche come scrittore; e così pochi scrittori lo sono, che in realtà bisognerebbe diffidare di tutti co­loro che scrivono. Un solo scrittore conosco che per sincerità posso mette­re allo stesso livello se non addirittura più in alto di Schopenhauer: Mon­taigne. Il solo fatto che un uomo simile abbia scritto, ha aumentato, in ve­rità, la gioia di vivere su questa terra. È quanto, perlomeno, succede a me

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da quando conosco quest'anima liberissima e vigorosissima, tanto che di lui debbo dire quanto egli dice di Plutarco: «non appena ho gettato uno sguardo su di lui, mi è subito cresciuta una gamba o un'ala». Con lui mi intenderei se fosse posto il compito di trovarsi una patria sulla terra.

In comune con Montaigne Schopenhauer ha, oltre alla sincerità, anche una seconda qualità: una serenità veramente rasserenante. Aiiis laetus, sibi sapiens. Vi sono invero due specie di serenità molto diverse. Il vero pensa­tore rasserena e allieta sempre, sia che esprima la sua serietà o il suo scher­zo, la sua perspicacia umana o la sua divina indulgenza; senza gesti pieni di cipiglio, mani tremanti, occhi acquosi, ma con sicurezza e semplicità, con coraggio e forza, forse un po' cavallerescamente e con durezza, ma, co­munque, come un vincitore: e questo è proprio ciò che rasserena nel più profondo e nel più intimo: vedere il dio vittorioso accanto a tutti i mostri che ha abbattuto. La serenità invece che, talvolta, si incontra in scrittori mediocri o in pensatori molto limitati ci immiserisce nel leggerli: come ho avvertito ad esempio nella serenità di David Strauss. Ci si vergogna a buon diritto di avere simili sereni contemporanei, perché essi compromettono presso i posteri la nostra epoca e noi uomini in essa. Questi falsi sereni non vedono affatto i dolori e i mostri che come pensatori pretendono di vedere e di combattere; e perciò la loro serenità suscita disgusto, perché è un in­ganno: infatti vuol indurre a credere che si sia conquistata una vittoria. In fondo v'è serenità solo dove c'è vittoria, e ciò vale sia per le opere dei veri pensatori che per ogni opera d'arte. Per quanto il contenuto sia terribile e serio, come lo è appunto il problema dell'esistenza: l'opera avrà un effetto opprimente e tormentoso soltanto se il mezzo pensatore o il mezzo artista vi avrà effuso i vapori della propria insoddisfazione; mentre per l'uomo non vi sarà nulla di più gaio e di più bello che poter stare vicino ad uno di quei vittoriosi, che, proprio per aver pensato le cose più profonde, devono appunto amare ciò che è più vivo e, come saggi, infine, aver predisposizio­ne al bello. Essi parlano veramente, non balbettano né chiacchierano a vanvera; essi si muovono e vivono realmente, non certo al modo di sinistre maschere, come sono soliti vivere gli uomini: perciò, nella loro vicinanza, ci sentiamo davvero umani e naturali e vorremmo esclamare come Goethe «che cosa meravigliosa e preziosa è un vivente! quanto adeguato alla sua condizione, quanto vero, quanto esistente!»

Io non descrivo altro che la prima e quasi fisiologica impressione susci­tata in me da Schopenhauer, quel magico irradiare della più profonda for­za di un frutto della natura su di un altro, che si ha al primo e più lieve contatto; e, se analizzo ulteriormente quell'impressione, trovo che è for­mata da tre elementi, dall'impressione della sua sincerità, della sua serenità e della sua fermezza. È sincero perché parla e scrive a se stesso e per se stes­so, e fermo perché così deve essere. La sua forza si innalza come fiamma, quando l'aria è ferma, diritta e leggera in alto, sicura, senza tremolìi e in­certezze. Trova la sua strada in ogni caso, senza che noi neppure ci accor­giamo che l'ha cercata; ma, come costretto da una legge della gravità, vi accorre così fermo e agile, così inevitabile. E se qualcuno ha mai inteso che cosa significhi, nella nostra attuale umanità di ircocervi, trovare una natura tutta intera, univoca, ben salda nei propri cardini e tuttavia in mo­vimento, disinvolta e senza impacci, comprenderà la mia felicità e la mia meraviglia, allorché trovai Schopenhauer: sentivo di aver trovato in lui quell'educatore e filosofo da tanto tempo cercato. E tutto ciò soltanto sot­to forma di libro: il che fu certo una grande privazione. Tanto più mi af­fannai di vedere attraverso il libro e di immaginarmi l'uomo vivente, di cui

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dovevo leggere il grande testamento in cui prometteva di fare suoi eredi so­lo coloro che volessero e potessero essere più che suoi semplici lettori: cioè suoi figli e discepoli.

3.

La mia valutazione di un filosofo dipende dalla misura in cui egli è in grado di dare un esempio. Non c'è dubbio, infatti, che con l'esempio si possa trascinare interi popoli: la storia indiana, che è quasi la storia della filosofia indiana, lo dimostra. Ma l'esempio deve esser dato dalla vita visi­bile e non solo dai libri, e pertanto, come insegnavano i filosofi della Gre­cia, più con l'impressione, il comportamento, il vestito, il cibo e i costumi che non con il parlare o addirittura con lo scrivere. Da noi, in Germania, manca tutto per avere questa coraggiosa visibilità di una vita filosofica; qui i corpi si liberano a poco a poco, quando sembra che già da molto gli spiriti si siano liberati; e tuttavia è solo un'illusione che uno spirito sia libe­ro e indipendente, se questa illimitatezza raggiunta — che in fondo è auto­limitazione creativa — non è sempre di nuovo dimostrata da ogni sguardo e da ogni passo, dalla mattina alla sera. Kant rimase attaccato all'universi­tà, si sottomise ai governi, rimase nell'apparenza di una fede religiosa, la sopportò tra colleghi e studenti: quindi è naturale che il suo esempio abbia prodotto soprattutto professori di università e filosofia professionale. Schopenhauer ebbe poco a che fare con le caste dei dotti, se ne separò, mi­rò all'indipendenza dallo Stato e dalla società — ecco il suo esempio, il suo modello — per prendere qui le mosse dagli elementi più esteriori. Ma molti gradi della liberazione della vita filosofica tra i Tedeschi sono ancora sco­nosciuti e non potranno rimanere tali in eterno. I nostri artisti vivono in modo più audace e sincero; e l'esempio che più potente si offre ai nostri occhi, quello di Richard Wagner, mostra come il genio non debba temere di entrare nella contraddizione più ostile con gli ordinamenti e le forme esi­stenti, se vuole mettere in piena luce l'ordine superiore e la verità che vivo­no in lui. La «verità» però di cui i nostri professori tanto parlano, in realtà ci appare come un qualcosa senza grandi pretese, da cui non c'è da aspet­tarsi né disordini né cose straordinarie: una creatura tranquilla e benevola che si affanna a rassicurare tutti i poteri esistenti che nessuno, a causa sua, avrà dei fastidi; in fondo non è che «pura scienza». Dunque, io volevo dire che la filosofia in Germania deve sempre di più disimparare a essere «scienza pura»: e appunto questo è l'esempio dell'uomo Schopenhauer.

È niente meno che un miracolo, che egli sia riuscito ad acquistare la di­mensione di esempio per gli uomini: era assalito, infatti, dai più tremendi pericoli, sia dall'esterno che dall'interno, pericoli da cui qualsiasi creatura più debole sarebbe stata oppressa e mandata in frantumi. V'era tutta l'ap­parenza, credo, che l'uomo Schopenhauer sarebbe tramontato lasciando dietro di sé come residuo, nel migliore dei casi, «scienza pura»: ma anche questo solo nel migliore dei casi; molto più probabilmente non sarebbe ri­masto né l'uomo né la scienza.

Così un inglese moderno descrive il pericolo più comune per uomini straordinari, che vivano in una società legata a ciò che è banale: «Questi strani caratteri dapprima si piegano, poi si immalinconiscono, quindi si ammalano e, infine, muoiono. Uno Shelley non avrebbe potuto vivere in Inghilterra, e una razza di Shelley non sarebbe stata possibile». I nostri Hòlderlin e Kleist e tanti altri, perirono per la loro straordinarietà e non sopportarono il clima della cosiddetta cultura tedesca; solo nature di ferro

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come Beethoven, Goethe, Schopenhauer e Wagner sono capaci di non ce­dere. Ma anche in loro, si mostra l'effetto della lotta e dello spasimo più defatigante in molti tratti e rughe: il loro respiro si appesantisce, e il tono della voce diventa con facilità troppo violento. Un esperto diplomatico, che aveva visto Goethe e parlato con lui solo di sfuggita, disse: « Voilà un homme, qui a eu de grands chagrins!» — tradotto da Goethe con la frase: «ecco qua un altro che si è reso la vita dura!». «Se nei tratti del nostro viso — egli aggiunge — non si può cancellare il segno della sofferenza superata, dell'attività svolta, non c'è da meravigliarsi se tutto ciò che rimane di noi e delle nostre aspirazioni porta la stessa traccia.» E questo è Goethe, che i nostri filistei della cultura indicano come il più felice dei Tedeschi, per pro­vare, così, che doveva pur essere possibile una vita felice tra loro — con il pensiero recondito che non si deve perdonare a nessuno che, tra loro, si senta infelice e solo. Pertanto, con massima crudeltà, hanno posto e spie­gato praticamente l'assioma, secondo cui, in ogni isolamento, ci sarebbe sempre una colpa segreta. Dunque il povero Schopenhauer aveva sul cuore una colpa segreta, e cioè di apprezzare la sua filosofia più dei suoi contem­poranei; e per giunta fu così sfortunato da sapere, proprio da Goethe, di dover difendere ad ogni costo la sua filosofia, per assicurarne l'esistenza, dall'indifferenza dei contemporanei; esiste infatti un tipo di censura da in­quisizione in cui i Tedeschi, secondo il giudizio di Goethe, si sono spinti molto avanti; essa si chiama: scrupoloso silenzio. E con ciò si era già otte­nuto, se non altro, che la maggior parte della prima edizione della sua ope­ra principale fosse inviata al macero. Il pericolo incombente che la sua grande opera scomparisse per pura disattenzione, lo portò a una terribile e difficilmente dominabile inquietudine; nemmeno un seguace di qualche ri­lievo si faceva avanti. Ci rende tristi vederlo alla ricerca di una qualche traccia della sua notorietà; e il suo grande, clamoroso trionfo finale perché veramente era letto («legor et legar») ha qualcosa di dolorosamente com­movente. Proprio tutti quei tratti in cui egli non fa scorgere la dignità del filosofo, mostrano l'uomo sofferente, in apprensione per i suoi beni più nobili; così lo tormentava la preoccupazione di perdere il suo piccolo patri­monio e forse di non poter mantenere la sua posizione, pura e veramente antica, rispetto alla filosofia; e così nella sua ricerca di uomini fidati e compassionevoli spesso si sbagliò, per ritornare sempre con sguardo deso­lato al suo cane fedele. Egli fu in tutto e per tutto un eremita; non ebbe un solo amico che lo consolasse e veramente sentisse come lui — e tra uno e nessuno, c'è veramente un infinito, come tra qualcosa e nulla. Chi ha veri amici non sa cosa sia la vera solitudine, anche se tutto il mondo intorno a lui gli fosse ostile —. Oh, ben m'accorgo che voi non sapete che cosa sia l'isolamento. Dove si sono avute potenti società, governi, religioni, opinio­ni pubbliche, in breve, ovunque ci fu una tirannia, essa ha odiato il filoso­fo solitario; infatti la filosofia offre all'uomo un asilo a cui nessuna tiran­nide può accedere, la caverna dell'intimo, il labirinto del petto: e questo ir­rita i tiranni. Là i solitari si nascondono: ma là si apposta anche il maggior pericolo per loro. Questi uomini, che hanno messo in salvo nell'intimo la propria libertà, devono vivere anche esternamente, diventar visibili, farsi vedere; essi hanno infiniti legami per nascita, residenza, educazione, pa­tria, caso, indiscrezione degli altri; e così anche infinite opinioni sono pre­supposte in loro, solo perché sono quelle dominanti; ogni espressione che non sia un diniego vale come approvazione; ogni movimento della mano, che non distrugge, viene interpretato come accondiscendimento. Essi san­no, questi solitari e liberi nello spirito, — di apparire continuamente e

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ovunque in modo diverso da come pensano: e, pur non volendo altro che verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi si­lenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcani­ci e minacciosi. Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi, della riservatezza imposta. Escono dalle loro caverne con espressioni tre­mende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile che causino la loro stessa rovina. In tanta pericolosità visse Schopenhauer. Proprio questi solitari hanno bisogno di amore, di compagni con cui poter essere aperti e semplici come con se stessi, alla cui presenza lo spasimo del silenzio e della finzione abbia tregua. Se togliete loro tali compagni, au­menterete il pericolo. Heinrich von Kleist perì per non essere amato; il più terribile antidoto contro uomini straordinari è infatti respingerli nel pro­fondo di se stessi in modo tale che ogni nuova sortita debba avvenire come un'esplosione vulcanica. Tuttavia c'è sempre un semidio che sopporta di vivere a queste tremende condizioni e di vivere vittoriosamente; e se volete ascoltare i suoi canti solitari, ascoltate la musica di Beethoven.

Il primo pericolo all'ombra del quale Schopenhauer crebbe fu dunque l'isolamento. Il secondo è il disperare della verità. Questo pericolo accom­pagna ogni pensatore che, partendo dalla filosofia kantiana, percorra una strada propria, premesso che sia un uomo possente e completo, nel dolore come nelle aspirazioni, e non soltanto una strepitante macchina per pensa­re e calcolare. Ora noi tutti sappiamo bene in che stato vergognoso ci si trovi con questa premessa. A me sembra addirittura che Kant sia penetrato in modo vivo solo in pochissimi uomini trasformandone sangue e linfa. Certo, come si può leggere ovunque, dall'epoca dell'azione di questo silen­zioso dotto sarebbe scoppiata in tutti i campi dello spirito una vera e pro­pria rivoluzione, ma io non posso crederci. Infatti non lo vedo con chiarez­za in uomini, che anzitutto avrebbero dovuto essere rivoluzionati loro, pri­ma che tale rivoluzione potesse avvenire in interi campi dello spirito. Non appena, però, Kant dovesse incominciare ad esercitare un'influenza popo­lare, questa la percepiremmo nella forma di uno scetticismo e relativismo corrosivo, che manda tutto in briciole; e solo negli spiriti più attivi e più nobili, che non sono mai riusciti a vivere nel dubbio, subentrerebbe invece quello sgomento e quel disperare di ogni verità, quali, ad esempio, li visse Heinrich von Kleist, come effetto della filosofia kantiana. «Di recente — scrive in quel suo stile che coinvolge — ho fatto conoscenza con la filosofia kantiana — e devo comunicarti un pensiero che me ne è nato, non dovendo temere che possa scuoterti così profondamente e dolorosamente come me. — Noi non possiamo decidere se ciò che chiamiamo verità sia veramente verità o se solo ci sembri tale. Se si tratta della seconda ipotesi allora la ve­rità che noi qui raccogliamo, dopo la morte che non è più nulla e ogni aspi­razione e affanno per conquistarci una proprietà, che ci segua anche nella tomba, è vano. — Se la punta di questo pensiero non ti trafigge il cuore, non sorridere di chi invece se ne sente ferito nel più sacro del suo intimo. II mio unico e massimo fine è caduto ed io non ne ho più alcuno.» Sì, quan­do di nuovo gli uomini sentiranno in questo modo kleistianamente natura­le, quando impareranno di nuovo a misurare il senso di una filosofia sulla loro «più sacra intimità»? Eppure tutto ciò è della massima necessità per poter valutare cosa significhi per noi, dopo Kant, proprio Schopenhauer

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— la guida, cioè, che dalle caverne del malumore scettico e della rinuncia critica conduce in alto, verso la sommità della contemplazione tragica, — il cielo notturno con le sue stelle infinitamente sopra di noi — e che, per primo, ha condotto su questa strada se stesso. Questa è la sua grandezza: nell'essersi posto di fronte al quadro della vita come di fronte ad un tutto, per interpretarlo come un tutto; mentre le teste più acute non riescono a li­berarsi dall'errore che a questa interpretazione si possa giungere solo ana­lizzando minuziosamente i colori e la materia su cui questo quadro è stato dipinto; col solo risultato, forse, che si tratta di una tela dalla tessitura in­tricatissima e di colori che non si possono analizzare chimicamente. Biso­gna indovinare il pittore per poterne intendere il quadro, — e Schopen­hauer questo lo sapeva. Ora tutta la congrega di tutte le scienze si sforza di capire quella tela e quei colori, ma non il dipinto; si può, anzi, dire che so­lo colui che ha compreso e fissato nei suoi occhi il quadro generale della vi­ta e dell'esistenza, potrà servirsi, senza suo danno, delle varie scienze, giac­ché senza questo quadro d'insieme regolatore, esse non sono che fili che non portano mai alla fine e rendono lo svolgersi della nostra vita ancor più confuso e labirintico. Proprio in questo — come ho detto — Schopenhauer è grande, perché persegue quel quadro come Amleto lo spirito, senza farsi mai distrarre, come fanno gli eruditi, o senza rimanere impigliato nella scolastica concettuale, sorte questa dei dialettici sfrenati. Lo studio di tutti i mezzi-filosofici è attraente soltanto per conoscere che essi, nella costru­zione di grandi filosofie, si fermano subito dove è accademicamente il prò e il contro, dove è permesso rimuginare, dubitare, contraddire, e, così, sfuggono all'esigenza di ogni grande filosofia che, in quanto totalità, af­ferma sempre e soltanto: questo è il quadro di tutta la vita, e da ciò impara il senso della tua. E per converso: leggi soltanto la tua vita e da essa com­prendi i geroglifici della vita universale. E così anche dovrebbe essere, in primo luogo, interpretata la filosofia di Schopenhauer: individualmente dal singolo, cioè, solo per se stesso, per prendere coscienza della propria miseria e dei propri bisogni nella propria limitatezza, per imparare a cono­scere i rimedi e le consolazioni: cioè sacrificio dell'Io, sottomissione ai più nobili scopi, soprattutto a quelli della giustizia e della misericordia. Egli ci insegna a distinguere tra le fonti reali e quelle illusorie della felicità umana: come né l'arricchirsi, né l'essere onorati, né l'essere dotti possa sollevare il singolo dalla amarezza per la mancanza di valore della propria esistenza, e come, invece, l'aspirazione a questi beni abbia senso solo se inserita in uno scopo globale superiore e trasfigurante: conquistare potere per aiutare con esso la physìs, correggendone un po' le follie e goffaggini. Dapprima certo ancora per se stessi soltanto; ma attraverso se stessi, infine, per tutti. È un'aspirazione questa che certo porta, nel profondo del cuore, alla rasse­gnazione: che cosa, infatti, e di quanto, può ancora esser migliorato sia nel singolo che nel generale!

Se applichiamo queste parole proprio a Schopenhauer, tocchiamo il ter­zo e più caratteristico pericolo in cui egli visse e che era insito in tutta la struttura e ossatura del suo essere. Ogni uomo è solito trovare in se stesso una limitazione sia della sua attitudine che della sua volontà morale, che Io riempie di struggente desiderio e di malinconia; e, come dal sentimento della propria inclinazione al peccato aspira al Santo, così in quanto essere intellettuale, ha in sé un profondo anelito al Genio. Ecco la radice di ogni vera cultura; e intendendo con questo l'anelito degli uomini a rinascere co­me Santi o come Geni, so perfettamente che non c'è bisogno di essere bud­disti per intendere questo mito. Quando troviamo il talento senza quell'a-

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nelito, nella cerchia degli scienziati o semplicemente nelle persone istruite, proviamo una certa avversione e ripugnanza; infatti presagiamo che tali uomini, con tutto il loro spirito, non favoriscono una cultura in divenire o la creazione del Genio — che è lo scopo di ogni cultura — ma anzi la osta­colano. È una condizione di indurimento, uguale per valore a quella vir­tuosità abitudinaria, fredda e orgogliosa di se stessa, che è la cosa che più di tutto è lontana e allontana dalla vera santità. La natura di Schopen­hauer, dunque, presentava una strana e pericolosissima duplicità. Pochi pensatori hanno sentito, allo stesso modo e con la stessa incomparabile.de­terminazione, agitarsi in loro il Genio; e il suo Genio gli prometteva il mas­simo: che non ci sarebbero stati solchi più profondi di quelli scavati dal suo aratro sul suolo dell'umanità moderna. Così egli poteva considerare una metà del suo essere sazio e appagato, senza brame, certo della sua forza e compì così, con dignità e grandezza la sua missione, come colui che vitto­riosamente si è realizzato. Nell'altra metà viveva un impetuoso anelito; noi lo capiamo ripensando alle parole che disse, volgendo lo sguardo dolente dal ritratto di Rancè, il grande fondatore della Trappa: «Questa è opera della Grazia». II Genio, infatti, anela più profondamente alla santità, per­ché egli, dal suo osservatorio, ha visto più lontano e più chiaramente di ogni altro uomo, fino alla conciliazione dell'essere con il conoscere, fino al regno della pace e della volontà negata, e, oltre ancora, verso l'altra riva, di cui parlano gli indù. Ma proprio qui è il miracolo: quanto incomprensi­bilmente integra e infrangibile doveva essere la natura di Schopenhauer, se neppure da questo anelito potè essere distrutta e neppure indurita. Che co­sa ciò significhi ognuno lo capirà secondo la misura di ciò che egli stesso è, ma nessuno di noi potrà capirla in tutta la sua gravità.

Più riflettiamo sui tre pericoli descritti e più ci stupisce con quanta forza Schopenhauer si sia difeso da essi e come sia uscito integro e a testa alta dalla lotta. Certo anche con molte cicatrici e ferite ancora aperte; e in uno stato d'animo che a volte può apparire un po' troppo brusco o anche trop­po battagliero. Anche al di sopra dell'uomo più grande si innalza il suo proprio ideale. Che Schopenhauer possa essere un modello, rimane fermo nonostante tutte quelle cicatrici e macchie. Si potrebbe anzi dire: ciò che nel suo essere era imperfetto e troppo umano, ci avvicina a lui proprio in senso umano, perché lo vediamo sofferente e compagno di dolore e non soltanto nell'altezza sprezzante del Genio.

Quei tre pericoli, propri della sua costituzione, che minacciavano Scho­penhauer, minacciano tutti noi. Ognuno ha in sé una unicità produttiva, che costituisce il nucleo del suo essere; quando, però, diventa consapevole di questa unicità, intorno a lui appare uno splendore insolito, tipico di ciò che è straordinario. Per i più ciò è qualcosa di insopportabile: perché, co­me ho detto, sono pigri e perché a quella unicità è legata una catena di af­fanni e di pesi. Non c'è dubbio che, per chi è straordinario e si grava di questa catena, la vita deve perdere quasi tutto ciò che ci si aspetta da lei nella gioventù: serenità, sicurezza, leggerezza, onore; la sorte dell'isola­mento è il regalo che gli fanno gli altri uomini; deserto e caverna gli si of­frono ovunque voglia vivere. Allora stia ben attento a non farsi soggioga­re, a non deprimersi o immalinconirsi. Perciò si circondi delle immagini di bravi e valorosi combattenti, quale fu lo stesso Schopenhauer. Ma anche il secondo pericolo, che minacciava Schopenhauer, non è poi tanto raro. Qua e là si incontra qualcuno dotato per natura di sguardo acuto, i suoi pensieri seguono volentieri il doppio andamento dialettico: quanto è facile allora, se abbandona imprudentemente le redini al proprio talento, che co-

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me uomo vada in rovina e conduca una vita quasi da fantasma nella «pura scienza»; o che, abituato a ricercare nelle cose il prò e il contro, si smarri­sca completamente di fronte alla verità e debba, quindi, vivere senza co­raggio e senza fiducia, nella negazione e nel dubbio, in uno stato d'animo corrosivo, scontento, in una mezza speranza, e nell'attesa della delusione: «neanche un cane potrebbe vivere a lungo così!». Il terzo pericolo è l'irrigi­dimento nella morale e nell'intelletto: l'uomo lacera il vincolo che lo lega­va al suo ideale, smette di essere fecondo in questo o in quel campo, smette di trapiantarsi; diventa, ai fini della cultura, gracile e inutile. L'unicità del suo essere è divenuto atomo indivisibile, incomunicabile, fredda pietra. E così è possibile andare in rovina per la propria unicità come per la paura di essa, per se stesso o per la rinuncia a se stesso, per l'anelito e per l'irrigidi­mento: e vivere, in generale, significa essere in pericolo.

Oltre a questi pericoli di tutta la sua costituzione, a cui Schopenhauer sa­rebbe stato comunque esposto, in qualsiasi altro secolo fosse vissuto — vi sono però altri pericoli, che incombevano su di lui dal suo tempo', e questa distinzione tra pericoli della costituzione e pericoli dell'epoca è essenziale per comprendere l'elemento esemplare e pedagogico della natura di Scho­penhauer. Immaginiamoci l'occhio del filosofo indugiare sull'esistenza: egli vuole stabilire di nuovo il valore. Questo è stato infatti il lavoro pro­prio di tutti i grandi pensatori, essere legislatori per la misura, la moneta e il peso delle cose. Come sarà imbarazzante per lui se l'umanità, che vede per prima, è un gracile frutto divorato dai vermi! Quanto dovrà aggiunge­re al «non valore» dell'epoca per essere comunque giusto verso l'esistenza! Se occuparsi della storia di popoli passati o stranieri ha valore, lo ha so­prattutto per il filosofo che voglia dare un giudizio equo su tutta la sorte umana, non quindi solo su quella media, ma anche e soprattutto su quella suprema, che può toccare ai singoli come a interi popoli. Ora però tutto ciò che è presente è importuno, opera e condiziona l'occhio anche quando il fi­losofo non vuole; e, involontariamente, nel conto complessivo sarà so­pravvalutato. Perciò il filosofo deve ben valutare la sua epoca nella sua differenza rispetto alle altre e, mentre supera per sé il presente, deve supe­rarlo anche nel quadro che da della vita, rendendolo cioè impercettibile e ridipingendovi sopra. Compito difficile e quasi inassolvibile. Il giudizio de­gli antichi filosofi greci sul valore dell'esistenza dice tanto di più di un giu­dizio moderno, perché essi avevano, davanti e intorno a sé, la vita stessa nella sua rigogliosa perfezione e perché in essi, a differenza che da noi, il sentimento del pensatore non si confonde nel dissidio tra il desiderio di li­bertà, bellezza, grandezza di vita, e l'anelito alla verità che chiede soltanto: che valore ha in assoluto l'esistenza? Per tutti i mezzi resta importante sa­pere ciò che Empedocle, nel mezzo della gioia di vivere più vigorosa e più esuberante della cultura greca, disse sull'esistenza; il suo giudizio è di gran peso, tanto più che non fu contraddetto da nessun giudizio contrario di un qualche altro grande filosofo della stessa grande epoca. Egli forse è quello che si esprime con maggior chiarezza, ma in sostanza — cioè se si aprono un po' le orecchie — dicono tutti la stessa cosa. Un pensatore moderno soffrirà sempre — come ho detto — di un desiderio inappagato: pretende­rà che gli si mostri di nuovo soltanto la vita, una vita vera, vermiglia, sana, affinché possa far cadere su di essa il suo verdetto. Almeno per se stesso considererà necessario essere un uomo vivo, prima di credere di poter esse­re un giudice equo. Questo è il motivo per cui proprio i filosofi moderni appartengono ai più forti fautori della vita, della volontà di vivere, ed è il motivo per cui, dal loro tempo infiacchito, anelano ad una cultura, a una

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physis trasfigurata. Questo anelito è però anche il loro pericolo, in essi il ri­formatore della vita combatte con il filosofo, vale a dire con il giudice della vita. Qualunque sia la parte verso cui la vittoria inclina, si tratta sempre di una vittoria che include una sconfitta. E come potè dunque Schopenhauer sfuggire anche a questo pericolo?

Se ogni grande uomo, di preferenza, è considerato proprio come l'auten­tico figlio del suo tempo — e comunque soffre di tutti i suoi malanni con maggiore intensità e sensibilità di tutti gli altri uomini più piccoli — la lotta di un tale grande contro la sua epoca è solo apparentemente una battaglia insensata e deleteria contro se stesso. Ma appunto solo apparentemente; poiché nel suo tempo egli combatte ciò che gli impedisce di essere grande, e ciò in lui non significa altro che essere liberamente e completamente se stesso. Ne consegue che la sua inimicizia in fondo è indirizzata contro ciò che è sì in lui stesso, ma che però non è propriamente lui stesso, cioè contro l'impuro mescolarsi e coesistere di ciò che è immescolabile e non unificabi­le in eterno, contro la falsa saldatura dell'attuale al suo inattuale; e alla fi­ne il presunto figlio si rivela figliastro del suo tempo. Così Schopenhauer fin dalla prima gioventù si ribellò a quella falsa, vana e indegna madre che era la sua epoca, e mentre, per così dire, la cacciava via da sé, purificava e sanava il suo essere e ritrovava se stesso nella salute e nella purezza che gli erano proprie. Perciò gli scritti di Schopenhauer si debbono utilizzare co­me specchio del tempo: e certamente non dipende da un difetto dello spec­chio se in esso ogni attualità appare solo come una malattia deturpante, come magrezza o pallore, come occhi incavati e volti spossati, quasi soffe­renze riconoscibili di quell'essere figliastro. La nostalgia per una natura forte, per una umanità sana e semplice, in lui era nostalgia di se stesso; e non appena in sé ebbe vinto il tempo, dovette anche vedere, con occhio an­che stupito, il Genio che era in lui. Ora il segreto del suo essere gli era sve­lato, resa vana l'intenzione di quella matrigna — l'epoca — di nasconder­gli il Genio: il regno della physis trasfigurata era scoperto. Ora volgendo lo sguardo impavido alla domanda: «qual è il valore in assoluto dell'esisten­za?» non doveva più condannare un'epoca confusa e sbiadita insieme alla sua vita torbida e ipocrita. Ben sapeva che su questa terra si può trovare e raggiungere qualcosa di più alto e più puro di una simile vita attuale e che chiunque giudichi e conosca l'esistenza solo sulla base di questa odiosa for­ma, le fa una amara ingiustizia. No, ora il genio stesso viene invocato per sentire se questo, il supremo frutto della vita, possa forse giustificare la vi­ta in generale; l'uomo magnifico e creatore dovrà rispondere alla doman­da: «approvi tu dunque, nel profondo del tuo cuore, questa esistenza? Ti è sufficiente? Vuoi esserne il difensore e il redentore? Soltanto un unico e sincero sì! dalla tua bocca — e la vita così pesantemente sotto accusa sarà libera». —

Quale sarà la sua risposta? — Quella di Empedocle.

4.

Non ha importanza se quest'ultimo accenno rimarrà per ora incompre­so: ora mi interessa qualcosa di molto più accessibile, e cioè spiegare come noi tutti attraverso Schopenhauer possiamo educarci contro il nostro tem­po — poiché abbiamo il vantaggio, grazie a lui, di conoscerlo veramente. Ammesso che sia un vantaggio! È certo tuttavia che tra un paio di secoli ciò non sarebbe proprio più possibile. Mi diverto all'idea che gli uomini ben presto saranno finalmente stufi di leggere e così pure gli scrittori; che

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un bel giorno lo scienziato si ravvederà e farà testamento disponendo che il suo cadavere sia bruciato nel bel mezzo di tutti i suoi libri, anzi delle sue proprie opere. E se i boschi dovessero divenire sempre più rari, non si po­trebbe forse arrivare al momento in cui si utilizzeranno le biblioteche come legno, paglia e sterpi? Che forse la maggior parte dei libri non è nata dal fumo e dal vapore delle teste: ritornino quindi a essere fumo e vapore. E se in loro non vi era fuoco, appunto il fuoco li dovrà punire per questo. Sa­rebbe dunque possibile che, per un'epoca futura, forse proprio il nostro se­colo debba essere considerato, un saeculum obscurum; appunto perché con i suoi prodotti, si sarebbero alimentate più a lungo e con più solerzia le stufe! Come siamo quindi fortunati a poter conoscere ancora questa epo­ca! Se infatti ha in generale un senso occuparsi del proprio tempo, è co­munque una fortuna potersene occupare il più a fondo possibile, tanto da dissipare ogni dubbio su di esso: e proprio questo ci garantisce Schopen­hauer.

Certo, cento volte maggiore sarebbe la nostra fortuna se da questa anali­si risultasse che, finora, non c'era stata nessuna altra epoca così orgogliosa e ricca di speranza come la nostra. Del resto anche attualmente esistono persone ingenue in un qualche angolo della terra, per esempio in Germa­nia, disposte a credere una cosa simile, anzi con la massima serietà affer­mano che da un paio di anni il mondo si sarebbe corretto, e che colui che forse ha sull'esistenza gravi e tenebrose riserve, sarebbe contraddetto dai «fatti». I fatti starebbero così: la fondazione del nuovo impero tedesco avrebbe dato il colpo decisivo e annientatore contro ogni «filosofare pessi­mistico» — e su questo non si potrebbe nemmeno discutere. — Chi invece voglia rispondere proprio alla domanda circa il significato del filosofo co­me educatore del nostro tempo, deve rispondere a questa concezione molto diffusa e perfino molto seguita nelle università, in questo modo: è uno scandalo e una vergogna che una adulazione così ripugnante e così idolatri­ca del tempo possa essere espressa e ripetuta dai cosiddetti benpensanti e degni di onore — una prova di come non si abbia più la minima consape­volezza della distanza che esiste tra la serietà della filosofia e la serietà di un giornale. Tali uomini hanno perduto l'ultimo residuo non solo di un sentire filosofico, ma anche religioso, e tutto ciò non l'hanno barattato certo con l'ottimismo ma con il giornalismo, con lo spirito, o non-spirito, del giorno e dei quotidiani. Ogni filosofia che creda rimandato e risolto il problema dell'esistenza da un avvenimento politico è una filosofia da farsa o una pseudo-filosofia. Più volte ormai, da quando il mondo esiste, si so­no fondati gli Stati; questa è una vecchia storia. Come dovrebbe un rinno­vamento politico essere sufficiente a rendere, una volta per tutte, gli uomi­ni appagati abitatori della terra? Ma se qualcuno nel profondo del suo cuo­re crede veramente che ciò sia possibile, allora si faccia avanti: merita in verità di diventare professore di filosofia in una università tedesca, come Harms a Berlino, Jurgen Meyer a Bonn e Carrière a Monaco.

Quindi subiamo, tuttavia, le conseguenze di quella dottrina predicata di recente da tutti i tetti, secondo cui il fine supremo dell'umanità sarebbe lo Stato e per un uomo non ci sarebbe più alto dovere del servire lo Stato: in ciò io non vedo una ricaduta nel paganesimo ma nella stupidità. Può essere che un uomo, che vede nel servizio allo Stato il suo dovere supremo, non conosca realmente altri obblighi superiori; ma proprio perciò dall'altra parte esistono altri uomini e altri doveri — e uno di questi doveri, che per me almeno vale più del servire lo Stato, esige che si distrugga la stupidità in ogni sua forma, quindi anche questa stupidità. Perciò in questa sede mi oc-

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cupo di un tipo di uomini la cui teleologia addita un po' oltre il bene di uno Stato, cioè dei filosofi, e anche di questi solo riguardo a un mondo a sua volta abbastanza indipendente dal bene dello Stato, quello della cultura. Dei molti anelli che, messi alla rinfusa, formano la comunità umana, alcu­ni sono d'oro altri di similoro.

Com'è dunque che il filosofo considera la cultura nella nostra epoca? Certo in modo diverso da quei professori di filosofia soddisfatti del loro Stato. Se considera la fretta generale, la crescente velocità di caduta, la fi­ne di ogni contemplatività e semplicità, è quasi come se avvertisse i sintomi di una completa distruzione e sradicamento della cultura. Le acque della religione si ritirano lasciando acquitrini e paludi; di nuovo le nazioni si di­vidono nella massima ostilità e bramano dilaniarsi. Le scienze, esercitate senza alcuna misura e nel più cieco laisser faire, sminuzzano e dissolvono ogni salda credenza; i ceti e gli stati civili vengono travolti da una econo­mia del denaro enormemente spregevole. Mai il mondo fu più mondo, più povero di amore e di bontà. I ceti colti non rappresentano più il faro o l'a­silo in mezzo a tutta questa inquietudine di secolarizzazione; essi stessi, giorno per giorno, si fanno più irrequieti, privi di pensiero e di amore. Tut­to serve alla barbarie ventura, comprese l'arte e la scienza attuali. La per­sona colta è degenerata ormai nel nemico più grande della cultura, perché vuole negare la malattia generale ed è di impedimento ai medici. Questi po­veri diavoli, ormai allo stremo delle forze, si amareggiano se si parla della loro debolezza o se ci si oppone al loro dannoso spirito menzognero. An­che troppo volentieri vorrebbero far credere di aver riportato la vittoria su tutti i secoli e si muovono con artificiosa allegria. Il loro modo di fingere felicità ha intanto qualcosa di toccante, perché la loro felicità è del tutto in­concepibile. Non si vorrebbe neppure porre loro la domanda di Tannhàu-ser a Biterolf: «Che cosa hai mai goduto tu, disgraziato?». Infatti, ohimè, noi stessi già sappiamo tutto meglio e diversamente! Su di noi incombe un giorno invernale, e noi abitiamo sugli alti monti, pericolosamente e nella miseria. Breve è ogni gioia e pallido ogni raggio di sole che sulle bianche montagne scivola fino a noi. Ma ecco risuonare della musica: un vecchio gira un organetto, i ballerini volteggiano — a questa vista il viandante è sconvolto: così selvaggio, così chiuso, così incolore, così privo di speranza è il tutto, ed ecco, qui, un suono di gioia, di vera gioia spensierata! Ma già avanzano furtive le nebbie della prima sera, il suono si smorza, il passo del viandante scricchiola; fin dove il suo sguardo si spinge, non vede che il vol­to desolato e terribile della natura.

Ammesso, però, che mettere in risalto solo la debolezza delle linee e l'ot­tusità dei colori nel quadro della vita moderna sia troppo unilaterale, l'al­tro lato non è affatto più rallegrante, ma anzi tanto più inquietante. Vi so­no certo forze, forze enormi, ma selvagge, primordiali e del tutto impieto­se. In angosciosa attesa si guarda ad esse come al crogiuolo della cucina di una strega: da un momento all'altro può esserci un sussulto o un lampo ad annunciare apparizioni tremende. Da un secolo siamo preparati a vere e proprie scosse dalle fondamenta; e se di recente si è cercato di contrappor­re a questa profondissima tendenza moderna a rovinare o a esplodere, la forza costitutiva del cosiddetto Stato nazionale, anche questo, per molto tempo ancora, non sarà altro che un incremento alla insicurezza e alla mi­naccia generale. Che i singoli si comportino come se non sapessero nulla di queste angosce, non ci induce in errore: la loro inquietudine è testimonian­za di quanto invece ne siano pienamente consapevoli; essi pensano a se stessi con una furia ed una esclusività con cui mai degli uomini hanno pen-

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sato a se stessi. Essi costruiscono e piantano per il loro giorno, e la caccia alla felicità non potrà mai essere più grande di quando dev'essere afferrata tra l'oggi e il domani: perché dopo domani, forse, la stagione della caccia sarà definitivamente chiusa. Noi viviamo l'epoca degli atomi, del caos ato­mistico. Le forze ostili nel medioevo furono, più o meno, tenute insieme dalla Chiesa e, per la forte pressione esercitata da questa, assimilate in qualche modo l'una all'altra. Quando il vincolo si spezza e la pressione di­minuisce, ognuno insorge contro l'altro. La Riforma dichiaro molte cose come adiaphora, àmbiti cioè che non dovevano essere determinati dal pen­siero religioso; questo fu il prezzo a cui le venne concesso di vivere: come già il cristianesimo, opponendosi alla ben più religiosa antichità, affermò la sua esistenza a un pari prezzo. Da quel momento (a spaccatura andò al­largandosi sempre di più. Ora quasi tutto sulla terra è determinato dalle forze più rozze e peggiori, dall'egoismo degli affaristi e dai tiranni militari. Lo Stato, nelle mani di questi ultimi — così come l'egoismo degli affaristi — fa certo il tentativo di riorganizzare tutto di sua iniziativa ed essere, quindi, vincolo e pressione per tutte quelle forze ostili: desidera, cioè, che gli uomini abbiano verso di lui la stessa idolatria che prima riservavano al­la Chiesa. Ma con quale successo? È ancora da vedersi; ancora ci troviamo in ogni caso nella corrente trascinatrice di ghiacci del Medioevo; è comin­ciato il disgelo e un violento movimento devastatore ha avuto inizio. La­stre di ghiaccio precipitano su lastre di ghiaccio, tutte le rive sono inonda­te, minacciate. Non si può assolutamente evitare la rivoluzione, quella ato­mistica; ma quali sono gli elementi più piccoli e indivisibili della società?

Non c'è dubbio che con l'avvicinarsi di tali periodi l'umano è forse in un pericolo maggiore che non durante il crollo e il vortice caotico stesso, e che questa angosciosa attesa e lo sfruttamento avido del minuto fanno emerge­re tutte le viltà e i più egoistici istinti dell'anima. Mentre la reale calamità e, soprattutto, la generalità di una grande calamità, di solito, migliora e ri­scalda gli uomini. Chi dunque, in questi pericoli della nostra epoca, dedi­cherà i suoi servigi di guardia e di cavaliere sàY umanità, al sacro e inviola­bile tesoro del tempio, che le più diverse generazioni, a poco a poco, hanno raccolto? Chi terrà alta Yìmmagine dell'uomo, mentre tutti gli altri sento­no in sé soltanto il verme dell'egoismo e la vile paura, e tanto sono decadu­ti da quell'immagine da ridursi alla bestialità o addirittura alla rigida mec­canicità?

Tre sono le immagini dell'uomo che la nostra epoca moderna ha innal­zato, l'una dopo l'altra, e dalla cui vista i mortali, certo per molto tempo ancora, prenderanno l'impulso per una trasfigurazione della propria vita: queste sono l'uomo di Rousseau, l'uomo di Goethe e infine l'uomo di Schopenhauer. Di queste, la prima immagine ha il fuoco maggiore e certa­mente l'effetto più popolare; la seconda è fatta solo per pochi, cioè per quelle nature contemplative in grande stile, mentre è fraintesa dalla massa. La terza pretende di essere considerata dagli uomini più attivi: solo costoro la possono contemplare senza danni; infatti estenua i contemplativi e terro­rizza la massa! Dalla prima immagine è venuta fuori una forza tale da spingere, allora e tuttora, a tempestose rivoluzioni; in qualsiasi sommovi­mento o terremoto socialista, infatti, è sempre l'uomo di Rousseau che si muove come il vecchio Tifone sotto l'Etna. Oppresso e quasi schiacciato da caste superbe, da una ricchezza spietata, guastato dai preti e da una cat­tiva educazione, umiliato davanti a se stesso da ridicoli costumi, l'uomo nel suo bisogno invoca la «santa natura» e improvvisamente sente che essa è lontana da lui quanto una qualche divinità epicurea. Le sue preghiere

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non la raggiungono: tanto egli è sprofondato nel caos della non-natura. Sprezzante getta via da sé tutti i variopinti ornamenti che fino a poco pri­ma gli apparivano come le sue caratteristiche più umane: le sue arti e scien­ze, i privilegi della sua vita raffinata; colpisce con il pugno le mura alla cui ombra si è così degenerato e invoca la luce, il sole, il bosco e la roccia. E quando grida «solo la natura è buona; solo l'uomo naturale è umano», di­sprezza se stesso e anela al di là di se stesso: uno stato d'animo in cui l'ani­ma è pronta a terribili decisioni, ma che evoca dalle sue profondità anche ciò che c'è di più nobile e raro.

L'uomo di Goethe non è una forza così minacciosa, anzi in un certo sen­so, è perfino un correttivo e un calmante proprio di quelle pericolose irre­quietezze a cui l'uomo di Rousseau è abbandonato. Goethe stesso nella sua gioventù, con tutto il suo cuore pieno d'amore, ha aderito al vangelo della natura buona; il suo Faust fu l'immagine più alta e più ardita dell'uomo di Rousseau, almeno in quanto si doveva rappresentarne la fame cocente di vita, la scontentezza e l'anelito, la sua familiarità con i demoni del cuore. Ma ora si guardi che cosa può scaturire da tutte queste nuvole che si sono addensate — non certo un lampo! E proprio qui si manifesta l'immagine nuova dell'uomo, dell'uomo goethiano. Si potrebbe pensare che Faust fu condotto attraverso la vita, ovunque repressa, come ribelle insaziabile e li­beratore, come forza negatrice per bontà, come vero e proprio genio della rivolta, quasi religioso e demoniaco, all'opposto del suo accompagnatore nient'affatto demoniaco, sebbene non possa liberarsene e debba utilizzare, e disprezzare a un tempo, la sua scettica malvagità e negazione — quanto è tragica la sorte di ogni ribelle e liberatore! Ma ci si sbaglia aspettandosi qualcosa del genere; l'uomo di Goethe qui evita l'uomo di Rousseau; giac­ché egli odia ogni forma di violenza, ogni salto — il che significa però: ogni azione; e così Faust, liberatore del mondo, diventa quasi soltanto uno che viaggia per il mondo. Tutti i regni della vita e della natura, tutte le epo­che passate, le arti, le mitologie, tutte le scienze se lo vedono passare da­vanti, contemplatore insaziabile, la brama più profonda è eccitata e placa­ta, la stessa Elena non lo trattiene a lungo — ed ecco venire il momento che il suo sarcastico accompagnatore aspetta in agguato. — In un punto qua­lunque della terra il volo ha fine, le ali si abbassano, ed ecco qui Mefistofe-le. Se il Tedesco smette di essere Faust non v'è pericolo più grande di quel­lo di diventare un filisteo e cadere in potere del diavolo — solo forze celesti possono salvarlo. L'uomo di Goethe — come ho detto — è l'uomo con­templativo in grande stile che non langue sulla terra solo perché raccoglie per il suo nutrimento tutto ciò che di grande e di memorabile vi è stato e vi è ancora, e così vive, anche se è soltanto un vivere passando da una brama all'altra; egli non è l'uomo attivo: anzi se in qualche luogo si inserisce negli esistenti ordinamenti degli uomini attivi, si può essere certi che non ne ver­rà fuori nulla di buono — come è il caso di tutto lo zelo che Goethe stesso mostrò per il teatro — e soprattutto che nessun «ordinamento» verrà rove­sciato. L'uomo di Goethe è una forza conservatrice e tollerante — con il pericolo però, come ho detto, che degeneri nel filisteo così come l'uomo di Rousseau può facilmente trasformarsi in un catilinario. Un po' più di for­za muscolare e di naturale selvatichezza e tutte le sue virtù sarebbero più grandi. Sembra che Goethe sapesse dove era il pericolo e la debolezza del suo uomo e vi accenna nelle parole che Jarno rivolge a Wilhelm Meister: «Voi siete seccato e amareggiato, e questa è una cosa bella e buona: ma se almeno una volta riusciste ad essere veramente cattivo, allora sarebbe an­cora meglio».

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Dunque, parlando senza perifrasi: è necessario essere una buona volta veramente cattivi, perché sia meglio. A ciò ci deve incoraggiare l'immagine dell'uomo di Schopenhauer. L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità, e questo soffrire gli serve a uccidere la sua propria volontà e preparare così quel completo capovolgimento e rove­sciamento del suo essere, il cui raggiungimento è il senso vero e proprio della vita. Questo affermare francamente la verità appare agli altri uomini come un effetto della malvagità, poiché essi considerano un dovere dell'u­manità conservare le loro sciocchezze e le loro bubbole e pensano che si debba essere malvagi per distruggere così i loro giocattoli. A un tale uomo essi sono tentati di gridare ciò che Faust dice a Mefistofele: «Ecco tu oppo­ni il freddo pugno del diavolo alla potenza sempre viva e salutarmente creatrice»; e chi invece volesse vivere schopenhauerianamente, somiglie-rebbe forse di più a un Mefistofele che a un Faust — proprio per i più de­boli occhi moderni, che nella negazione vedono sempre il marchio del ma­ligno. Ma c'è una modo di negare e di distruggere che è invece proprio l'e­manazione di quel potente anelito alla santificazione e alla salvezza di cui Schopenhauer fu il primo filosofico maestro, tra noi uomini dissacrati e se­colarizzati. Ogni esistenza che può essere negata, merita anche di esserlo; e essere veritiero significa credere ad un'esistenza che non potrebbe essere assolutamente negata e che è essa stessa vera e senza menzogna. Perciò co­lui che è veritiero avverte nella sua attività un significato metafisico, spie­gabile secondo le leggi di una vita diversa e superiore, e, nel senso più pro­fondo, affermativo: anche se tutto ciò che fa appare come un distruggere e un infrangere le leggi di questa vita. In ciò il suo agire deve diventare una continua sofferenza, ma egli sa ciò che anche Meister Eckhart ben sapeva: «l'animale più veloce che ci porta alla perfezione è la sofferenza». Dovrei pensare che a chiunque si ponga davanti all'anima una tale direzione di vi­ta, si allarghi il cuore e nasca in lui un desiderio ardente di essere un tale uomo schopenhaueriano: cioè pure per sé e per il suo personale benessere, di una tranquillità meravigliosa, nella sua conoscenza pieno di fuoco vigo­roso e divoratore e molto lontano dalla fredda e sprezzante neutralità del cosiddetto uomo di scienza, molto al di sopra di una contemplazione tetra e annoiata, pronto sempre a offrire se stesso come prima vittima della veri­tà riconosciuta, e compenetrato nel profondo della consapevolezza di quali dolori e sofferenze debbano nascere dalla sua veridicità. Certo egli distrug­ge la sua felicità terrena con il suo eroismo, deve essere ostile anche verso gli uomini che ama, verso le istituzioni dal cui grembo è uscito; non può ri­sparmiare né uomini né cose, anche se, nel ferirle, soffre con loro; sarà mi­sconosciuto e considerato a lungo alleato di quelle forze che egli più di­sprezza, dovrà, secondo una misura umana della sua visione, essere ingiu­sto, con tutta la sua aspirazione alla giustizia: tuttavia potrà prendere co­raggio e consolazione dalle parole che Schopenhauer, suo grande educato­re, una volta ha usato: «Una vita felice è impossibile, il massimo che l'uo­mo può raggiungere è una vita eroica. Questa è la vita che conduce colui che, per un motivo qualsiasi, combatte tra difficoltà enormi per tutto ciò che, in un modo qualsiasi, sia un bene per gli altri, e alla fine vince, ma in questo è male o per niente ricompensato. Alla fine rimane come il principe del Re corvo di Gozzi: pietrificato, ma in nobile atteggiamento e magnani­mo aspetto. La sua memoria rimane ed è celebrata come quella di un eroe; la sua volontà, mortificata durante tutta la vita da fatica e lavoro, dall'in­successo e dall'ingratutidine del mondo, si dissolve nel Nirvana». Una vita eroica siffatta, unita alle mortificazioni subite nel suo corso, certamente

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ben poco corrisponde al meschino concetto di coloro che vi spendono la maggior parte delle loro parole e celebrano feste in commemorazione dei grandi uomini e pensano che il grande uomo sia appunto grande, come lo­ro sono piccoli, quasi per un dono per proprio piacere, o per un meccani­smo e in cieca obbedienza a questa intima costrizione: così, chi non ha rice­vuto il dono o non avverte la costrizione, avrebbe lo stesso diritto a essere piccolo che ha quello a essere grande. Ma ricevere un dono o essere costret­to sono espressioni disprezzabili, con cui si vuole sfuggire a un avvertimen­to interiore, insulti per coloro che hanno prestato ascolto a questo avveni­mento, quindi per il grande uomo: proprio lui, infatti, meno di tutti, per­mette che gli si faccia un dono o una costrizione — sa bene, quanto un pic­colo uomo, come si possa prendere la vita alla leggera, e quanto morbido sia il letto in cui potrebbe distendersi se si comportasse con se stesso e con i suoi simili con garbo e secondo le consuetudini: e tutti gli ordinamenti del­l'uomo tendono proprio a questo, a far sì che la vita, in una continua di­strazione dei pensieri, non venga avvertita. Perché egli allora vuole con tanta forza il contrario, sentire cioè proprio la vita, vale a dire soffrire del­la vita? Perché egli si accorge che lo si vuole defraudare di se stesso, e che c'è una specie di accordo per strapparlo alla sua caverna. Allora recalcitra, drizza le orecchie e decide: «voglio rimanere mio!». È una decisione terri­bile; e solo poco alla volta se ne accorge. Ora infatti deve tuffarsi nel pro­fondo dell'esistenza con una serie di domande insolite sulle labbra: perché vivo? Quale lezione devo apprendere dalla vita? Come sono diventato così come sono, e perché soffro di questo esser-così? Si tormenta: e vede che nessuno si tormenta così, che le mani dei suoi simili sono appassionata­mente tese ai fantastici avvenimenti che il teatro politico mostra; oppure che essi stessi vanno girando tronfi in cento maschere, come adolescenti, uomini, vecchi, padri, cittadini, preti, impiegati, commercianti — assidua­mente preoccupati della loro comune commedia e niente affatto di se stes­si. Alla domanda «a che scopo vivi?» tutti risponderanno senza esitare e con orgoglio: «per diventare un buon cittadino o un buono studioso o un buono statista», eppure essi sono qualcosa che non può diventare nulla di diverso; e perché sono proprio questo? E, purtroppo, niente di meglio? Chi intende la propria vita solo come un punto nello sviluppo di una gene­razione o di uno Stato o di una scienza e vuole, quindi, appartenere com­pletamente al racconto del divenire, alla storia, non ha compreso la lezione impartitagli dall'esistenza e deve impararla un'altra volta. Questo eterno divenire è un ingannevole teatrino di marionette, per il quale l'uomo di­mentica se stesso; è la vera e propria distrazione che disperde l'individuo a tutti i venti, l'infinito e sciocco giuoco che il tempo, grande fanciullo, giuo-ca davanti a noi e con noi. L'eroismo della veridicità consiste dunque nello smettere un giorno di essere il giocattolo del tempo. Nel divenire tutto è vuoto, ingannevole, piatto e degno del nostro disprezzo; l'enigma che l'uo­mo deve sciogliere, lo può risolvere solo partendo dall'essere, nell'essere così e non in altro modo, in ciò che non è soggetto al trapasso. Ora egli co­mincia a esaminare in quale misura sia concresciuto con il divenire, e in quale misura con l'essere — un compito immane si erge davanti alla sua anima: distruggere tutto ciò che diviene, portare alla luce tutto ciò che vi è di falso nelle cose. Anche egli vuole conoscere tutto, ma lo vuole in modo diverso dall'uomo goethiano, non per una nobile debolezza, per conserva­re se stesso e dilettarsi della molteplicità delle cose; anzi egli stesso è la pri­ma vittima che offre a sé. L'uomo eroico disprezza il suo benessere o il suo malessere, le sue virtù e i suoi vizi e comunque il misurare le cose su se stes-

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so; da se stesso non si aspetta più nulla e in tutte le cose vuole penetrare con lo sguardo fino a raggiungere questo fondo privo di speranza. La sua forza è nel dimenticare se stesso; e se si ricorda di sé, misura la distanza tra il suo sommo fine e se stesso, ed è come se vedesse dietro e sotto di sé un meschino ammasso di scorie. Gli antichi pensatori cercarono con tutte le loro forze la felicità e la verità — ma mai l'uomo troverà ciò che è costretto a cercare, così suona il malvagio principio della natura. Ma per chi cerca in tutte le cose la non verità e volontariamente si fa compagno dell'infelicità, si prepara forse un altro miracolo della delusione: qualcosa di indicibile, di cui felicità e verità non sono che idolatriche imitazioni, gli si avvicina, la terra perde la sua gravità, gli eventi e le forze della terra diventano elementi di un sogno come nelle sere di estate, intorno a lui tutto si trasfigura. Per chi sta a osservare è come se proprio allora cominciasse a svegliarsi, come se ancora le nubi di un sogno che si dilegua giocassero intorno a lui. Ma anche queste saranno dissipate: e allora sarà giorno. —

5.

Tuttavia ho promesso di rappresentare Schopenhauer come educatore secondo le mie esperienze, a tal scopo non basta certo che io dipinga, per di più con espressione imperfetta, quell'uomo ideale che domina dentro e intorno a Schopenhauer, quasi fosse la sua idea platonica. Rimane ancora la cosa più difficile: cioè, come si possa acquisire da questo ideale un nuo­vo ambito di doveri e come ci si possa mettere in relazione con uno scopo così esaltante mediante una attività regolare: dimostrare in breve che quel­l'ideale, appunto, educa. Si potrebbe altrimenti pensare che non si tratti al­tro che di quella visione beatificante e inebriante che alcuni momenti ci ri­servano, per poi, subito dopo, abbandonarci di nuovo e lasciarci in balia di una scontentezza ancor più profonda. È pur certo che così inizia il nostro rapporto con questo ideale, con questi improvvisi stacchi di luce e oscurità, di rapimento e di ripugnanza, ripetendosi così un'esperienza che è antica quanto gli ideali stessi. Ma non dobbiamo indugiare oltre sulla porta, e ve­loci dobbiamo bensì oltrepassare la soglia. E così si deve chiedere con se­rietà e determinazione: è possibile avvicinarsi tanto a quel fine incredibil­mente alto, in modo che esso ci educhi mentre ci innalza? — Affinché in noi non si compia la grande massima di Goethe: «l'uomo è nato per una condizione limitata, riesce a scorgere fini determinati, semplici e vicini, e si abitua a utilizzare i mezzi che gli sono a portata di mano; ma non appena si spinge oltre non sa né quel che vuole né quel che deve, e per lui è del tutto indifferente che sia distratto dalla quantità degli oggetti o che l'altezza e la dignità di questi lo pongano al di fuori di sé. La sua sventura sta sempre nell'essere indotto ad aspirare a qualcosa con cui riesce a collegarsi me­diante un'attività autonoma e regolare». E questo, con una certa parvenza di ragione, si potrebbe obiettare proprio a quell'uomo di Schopenhauer: che la sua dignità e grandezza possono solo porci al di fuori di noi stessi, e quindi al di fuori anche da tutte le società degli uomini attivi; connessione dei doveri, flusso della vita, sono finiti. Forse qualcuno finirà per abituarsi a scindersi a malincuore e a vivere secondo due direttive, cioè in contraddi­zione con se stesso, vagando incerto qua e là, e quindi ogni giorno più de­bole e sterile; mentre qualcun altro rinuncia, addirittura in linea di princi­pio, ad operare con gli altri e a malapena sta ancora a guardare gli altri che agiscono. I pericoli sono sempre grandi quando per l'uomo il compito di­venta troppo difficile ed egli non è più in grado di adempiere ad alcun do-

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vere; anche le nature più forti ne possono essere distrutte, le più deboli e le più numerose sprofondano in una ignavia contemplativa e alla fine, sem­pre per ignavia, perdono anche la capacità di contemplare.

A tali obiezioni, ora, voglio opporre solo che il nostro lavoro è appena all'inizio e che, dopo le mie esperienze, solo una cosa vedo e so già con de­terminatezza: partendo da quell'immagine ideale è possibile attaccare sia a me che a te una catena di doveri assolvibili, e alcuni di noi già ne sentono il peso. Ma per esprimere senza esitazioni la formula con cui vorrei riassume­re quella nuova cerchia di doveri, ho bisogno delle seguenti considerazioni preliminari.

Gli uomini più profondi hanno sempre provato compassione per gli ani­mali, perché essi soffrono della vita e tuttavia non possiedono la forza di volgere contro se stessi l'aculeo della sofferenza e intendere la propria esi­stenza metafisicamente; certo vedere la sofferenza insensata, suscita indi­gnazione nel più profondo dell'anima. Perciò nacque, e non in un solo luo­go della terra, la supposizione che le anime degli uomini colpevoli, fossero nascoste in questi corpi animali e che quel dolore senza senso, che al primo sguardo suscita indignazione, acquisti pieno significato alla luce della giu­stizia eterna, cioè come pena e espiazione. È certo una pena ben grave vive­re così, come una bestia, tra fame e cupidigia, e senza giungere mai ad al­cuna consapevolezza di questa vita; né si potrebbe pensare sorte più dura di quella della bestia da preda che è spinta nel deserto da un tormento che la rode al massimo; di rado è appagata, ma se lo è, lo è solo nel momento in cui l'appagamento diventa pena, cioè nella lotta dilaniante con altri ani­mali o per l'avidità e la sazietà più disgustose. Essere così ciecamente e stoltamente attaccati alla vita, senza alcuna prospettiva di un premio supe­riore, ben lontani dal sapere che così si è puniti e perché, bensì anelare a questa pena, come a una felicità con la stoltezza di una orribile brama — questo significa essere una bestia; e se è vero che tutta la natura tende al­l'uomo, essa così ci fa capire che l'uomo è necessario alla sua liberazione dalla condanna della vita bestiale e che, infine, l'esistenza in lui ha dinanzi a sé uno specchio, sul cui fondo la vita non appare più senza senso, ma in tutto il suo significato metafisico. Riflettiamo dunque: dove finisce la be­stia e dove comincia l'uomo? Quell'uomo che solo importa alla natura! Finché si aspira alla vita come a una felicità, non si è ancora sollevato lo sguardo al di sopra dell'orizzonte della bestia, si vuole soltanto con mag­giore consapevolezza ciò che la bestia cerca spinta da cieco istinto. Ma così succede a noi tutti per la maggior parte della vita: in genere non usciamo dalla bestialità, noi stessi siamo le bestie che sembrano soffrire senza sen­so.

Ci sono momenti, però, in cui ce ne rendiamo conto: allora le nuvole si squarciano e vediamo come, insieme con la natura, tendiamo verso l'uo­mo, come verso qualcosa che è al di sopra di noi. Rabbrividendo, in quel­l'improvviso chiarore ci guardiamo indietro e intorno: là corrono le raffi­nate bestie da preda e noi in mezzo a loro. L'immenso agitarsi degli uomini sul grande deserto della terra, il loro fondare città e Stati, il loro guerreg­giare, il loro instancabile adunarsi e disperdersi, il loro correre confusa­mente, il loro apprendere l'uno dall'altro, il loro reciproco ingannarsi e calpestarsi, il loro gridare nella disgrazia e il loro ululare di gioia nella vit­toria — tutto è continuazione della bestialità: come se l'uomo dovesse in­tenzionalmente essere educato alla rovescia ed essere defraudato della sua disposizione metafisica, come se anzi la natura, dopo aver desiderato e la­vorato tanto a lungo per l'uomo, adesso si ritiri tremante da lui e preferisca

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ritornare all'inconsapevolezza dell'istinto. Oh, essa ha bisogno di conosce­re, ma inorridisce davanti alla conoscenza che le è veramente necessaria; così la fiamma vacilla inquieta qua e là, quasi spaventata di se stessa, e af­ferra mille cose prima di afferrare ciò per cui la natura in generale ha biso­gno della conoscenza. Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che le più vaste imprese della nostra vita vengono realizzate solo per sfuggire al no­stro vero compito, e che volentieri nasconderemmo da qualche parte la no­stra testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse co­glierci; che, frettolosamente, doniamo il nostro cuore allo Stato, al guada­gno, alla socievolezza o alla scienza soltanto per non possederlo più, e che ci abbandoniamo al pesante lavoro quotidiano con più impeto e sconside­ratezza di quanto non sia necessario per vivere: perché ci sembra più neces­sario non giungere alla riflessione. Generale è la fretta perché ciascuno è in fuga da se stesso, generale è anche il pavido nascondere questa fretta, per­ché si vorrebbe apparire contenti e ingannare gli osservatori più acuti circa la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole, adornata delle quali la vita dovrebbe ricevere un po' di clamore e solennità. Ognuno di noi conosce quella particolare condizione in cui, improvvisamente, ri­cordi spiacevoli si affollano e noi ci sforziamo, con gesti e suoni violenti, di scacciarli dalla mente: ma i gesti e i suoni della vita comune lasciano indo­vinare che noi tutti ci troviamo sempre in una condizione del genere, nel ti­more del ricordo e dell'interiorizzazione. Ma cos'è che ci aggredisce così spesso, quale zanzara non ci lascia dormire? Intorno a noi c'è un'atmosfe­ra spettrale, ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma noi non voglia­mo ascoltare queste voci di fantasmi. Temiamo, quando siamo soli e in si­lenzio, che qualcosa ci venga bisbigliato all'orecchio e così odiamo il silen­zio e ci stordiamo con la vita in società.

Di tanto in tanto, come ho detto, capiamo tutto questo e ci meraviglia­mo molto di tutta la vertiginosa paura e furia, di tutta la condizione di so­gno della nostra vita, che sembra aver orrore del risveglio e che sogna con tanta più vivacità e inquietudine quanto più si avvicina a questo risveglio. Ma allo stesso tempo sentiamo di essere troppo deboli per sopportare a lungo quei momenti del più profondo raccoglimento e di non essere mai quegli uomini, verso cui tutta la natura tende per la sua redenzione; già è molto se, in qualche modo, riusciamo a emergere un po' con la testa e ci accorgiamo in quale corrente siamo profondamente immersi. Ma anche questo non ci riesce con la nostra propria forza — questo emergere e sve­gliarsi per un fugace momento — dobbiamo bensì essere sollevati — e chi sono coloro che ci sollevano?

Sono quei veri uomini, quei non-più-bestie, i filosofi, gli artisti e i santi; al loro apparire e per il loro apparire, la natura, che non fa mai salti, fa il suo unico salto e cioè un salto di gioia, perché per la prima volta si sente vi­cina alla mèta, là dove, cioè, intende che deve disimparare ad avere mète, e che ha giocato troppo alto il gioco della vita e del divenire. In questa cono­scenza essa si trasfigura ed una soave stanchezza serale, ciò che gli uomini

- chiamano «la bellezza», riposa sul suo volto. Quanto essa ora esprime con questi lineamenti trasfigurati è la grande illuminazione sull'esistenza; e il massimo desiderio, che mai mortali possano avere, è di partecipare di con­tinuo e con orecchie bene aperte a questa illuminazione. Se si riflette, per esempio, a tutto ciò che Schopenhauer, nel corso della sua vita, deve aver udito, si può ben dire dopo a se stessi: «Ah, le tue sorde orecchie, la tua ot­tusa testa, il tuo vacillante intelletto, il tuo cuore raggrinzito, tutto ciò che io chiamo mio! Come lo disprezzo! Non poter volare, ma solo sbattere le

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ali! Ah, veder al di sopra di sé e non potersi innalzare! Conoscere, e quasi intraprendere, il cammino che conduce a quell'incommensurabile libero sguardo del filosofo, ma dopo pochi passi ritornare indietro barcollando! E se esistesse solo un giorno in cui quel gran desiderio si adempisse, quanto volentieri si offrirebbe in cambio il resto della vita! Innalzarsi, quanto mai pensatore si innalzò, fin alla pura aria delle Alpi e dei ghiacciai, là dove non esistono più nebbie o foschie, dove la costituzione fondamentale delle cose si esprime rudemente e rigidamente, ma con inevitabile intellegibilità! Nel solo pensiero di ciò l'anima diventa solitaria e infinita; ma se il suo de­siderio si adempisse, il suo sguardo cadrebbe sulle cose diretto e illuminan­te come un raggio di luce, se morisse la vergogna, la paura e le bramosie — quali parole potrebbero definire la sua condizione, quella nuova e enigma­tica emozione senza eccitazione con la quale essa, come l'anima di Scho­penhauer, riposa e si diffonde sull'immenso ideogramma dell'esistenza, sull'insegnamento pietrificato del divenire, non come notte, ma come luce rovente e vermiglia che inonda il mondo. E quale sorte, al contrario, pre­sentire la destinazione e la beatitudine proprie del filosofo, tanto da inten­dere tutta l'incertezza e l'infelicità del non filosofo e di colui che brama senza speranza! Sapersi come un frutto sull'albero che per la troppa ombra non potrà mai maturare e vedere davanti a sé, vicinissimo, il raggio del so­le, di cui si ha bisogno!».

Questo sarebbe un tormento sufficiente a rendere invidioso e maligno un uomo così malamente dotato, ammesso che possa diventare invidioso e maligno; ma forse finirà per volgere altrove la sua anima, perché non si consumi in un vano anelito e scoprirà quindi una nuova cerchia di doveri.

Eccomi dunque giunto a rispondere all'interrogativo se sia possibile, me­diante una regolare attività autonoma, collegarsi al grande ideale dell'uo­mo di Schopenhauer. Prima di tutto questo è certo: quei nuovi doveri non sono i doveri di un isolato; con loro si è parte integrante di una potente co­munità, che è tenuta insieme non da forme e leggi esteriori, bensì da un pensiero fondamentale. Questo è il pensiero fondamentale della cultura in quanto sa dare a ognuno di noi un compito: favorire il formarsi del filoso­fo, dell'artista e del santo in noi e fuori di noi e così collaborare al perfe­zionamento della natura. Infatti, come la natura ha bisogno del filosofo, così ha bisogno dell'artista, per uno scopo metafisico, e cioè per la propria illuminazione su se stessa, sicché finalmente le si ponga di fronte, come im­magine pura e compiuta, ciò che non riesce a vedere chiaramente nell'irre­quietezza del suo divenire — dunque per l'autoconoscenza. Fu Goethe a far notare, con parole superbamente profonde, come tutti i tentativi serva­no alla natura perché l'artista alla fine ne intuisca il balbettìo e le vada in­contro e esprima ciò che ella, veramente, intende con i suoi tentativi. «L'ho già detto spesso — esclama egli una volta — e lo ripeterò ancora spesso, la causa finalis dell'agire dell'uomo e del mondo è la poesia dram­matica. Altrimenti tutta questa roba è completamente inutilizzabile.» E co­sì, infine, la natura ha bisogno del santo, in cui l'io è completamente fuso e la cui vita sofferente non è più, o non è quasi più avvertita individualmen­te, bensì come un profondo sentimento di eguaglianza, partecipazione e unità con tutto ciò che è vivente: del santo nel quale si manifesta quel mira­colo della metamorfosi, che il gioco del divenire non coglie mai, quel fina­le, supremo processo di umanizzazione a cui tutta la natura tende e incal­za, per la sua redenzione da se stessa. Non c'è dubbio, tutti noi siamo affi­ni e legati col santo così come lo siamo col filosofo e coll'artista; vi sono momenti e quasi scintille del più limpido amoroso fuoco, alla cui luce non in-

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tendiamo più la parola «io»; al di là del nostro essere c'è qualcosa che in quei momenti diventa un al di qua e perciò dal più profondo del cuore noi bramiamo il ponte tra qui e là. Nella nostra condizione abituale non pos­siamo certo contribuire in niente alla generazione dell'uomo redentore, perciò in questa condizione ci odiamo, un odio che è la radice di quel pessi­mismo che solo Schopenhauer doveva insegnare di nuovo nella nostra epo­ca, ma che è antico quanto lo è l'anelito alla cultura. Le sue radici, ma non i suoi bocci, in un certo modo il suo piano più basso, ma non il suo fronto­ne, l'inizio del suo cammino, ma non il suo fine; infatti, in un dato mo­mento, dobbiamo pur imparare a odiare qualche altra cosa, qualcosa di più generale, non più il nostro individuo e la sua misera limitatezza, i suoi mutamenti e la sua inquietudine: in quello stato elevato in cui ameremo an­che qualche cosa diversa da ciò che ora possiamo amare. Solo quando, nel­l'attuale nascita o in una fortuna, noi stessi faremo parte di quel sublime ordine dei filosofi, degli artisti e dei santi, sarà noi dato anche un nuovo scopo al nostro amore e al nostro odio — per il momento noi abbiamo il nostro compito e la nostra cerchia di doveri, il nostro odio e il nostro amo­re. Infatti sappiamo cos'è la cultura. Essa vuole, per applicarla all'uomo di Schopenhauer, che ne prepariamo e ne favoriamo una sempre nuova gene­razione, imparando a distinguere e eliminando dal nostro cammino tutto ciò che le è ostile — in breve vuole che noi combattiamo instancabilmente contro tutto ciò che ci ha fatto perdere il massimo adempimento della no­stra esistenza, impedendoci di divenire uomini schopenhaueriani.

6.

Talvolta è più difficile ammettere un fatto che comprenderlo; ed è ap­punto quanto può accadere a molti che riflettono sulla frase: «l'umanità deve adoperarsi di continuo per generare singoli grandi uomini — questo e nessun altro è il suo compito». Quanto volentieri si vorrebbe applicare alla società e ai suoi scopi un insegnamento, che si può ricavare dall'osserva­zione di una qualsiasi specie del regno animale o vegetale, che, cioè, in que­sta specie ciò che importa è soltanto il singolo esemplare superiore, più straordinario, potente, complicato e fecondo — quanto sarebbe bello tutto ciò, se illusorie idee, inculcate con l'educazione, sulle finalità della società, non vi si opponessero con tenacia! In verità è facile comprendere che là, dove una specie giunge ai suoi confini e al suo trapassare in una specie su­periore, c'è lo scopo del suo sviluppo, non però nella massa degli esemplari e del loro benessere, o addirittura negli esemplari che, in ordine di tempo, sono gli ultimi, bensì, proprio in quelle esistenze apparentemente disperse e casuali che, talvolta, in condizioni favorevoli si realizzano qua e là: e al­trettanto di facile comprensione dovrebbe essere anche l'esigenza che l'u­manità, per giungere a essere consapevole del proprio fine, deve ricercare e produrre quelle condizioni propizie, in cui possono nascere quei grandi uomini redentori. Ma non so quante cose si oppongono a ciò: qui que­st'ultimo fine dovrebbe trovarsi nella felicità di tutti o dei più, là nello sviluppo di grandi collettività; e così colui che velocemente si decide a sacrificare la propria vita, ad esempio, a uno Stato, si comporterebbe inve­ce con lentezza e cautela se tale sacrificio lo pretendesse non uno Stato ma un singolo. Sembra una cosa insensata che un uomo possa esistere per un altro uomo: «piuttosto per tutti gli altri, o almeno per il maggior numero possibile!». O galantuomo! come se fosse più sensato far decidere al nu­mero, laddove si tratta di valore e di significato! Il problema infatti è: co-

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me può la tua vita, vita di un singolo, acquistare il valore supremo e il si­gnificato più profondo? In che modo può essere meno sprecata? Certo vi­vendo soltanto a vantaggio degli esemplari più rari e più preziosi e non a vantaggio dei più, degli esemplari cioè che, singolarmente presi, hanno mi­nor valore. Proprio questa determinazione dovrebbe essere inculcata e col­tivata in un giovane in modo che intenda se stesso quasi come opera mal riuscita della natura, ma allo stesso tempo come testimonianza delle mag­giori e più meravigliose intenzioni di questo artista: questa volta l'opera le è riuscita male — dovrebbe dirsi — ma voglio far onore alla sua grande in­tenzione, mettendomi al suo servizio perché possa riuscire un'altra volta.

Con questo proposito egli si pone nell'ambito della cultura', essa infatti è figlia dell'autoconoscenza di ogni singolo e dell'insoddisfazione di sé. Co­lui che le si riconosce devoto, si esprime così: «sopra di me vedo qualcosa di più elevato e più umano di quanto io stesso sono, aiutatemi tutti a rag­giungerlo, così come io voglio aiutare chiunque conosca la stessa cosa e ugualmente ne soffra: affinché finalmente risorga l'uomo, che sente se stesso pieno e infinito nel conoscere e nell'amare, nel contemplare e nel po­tere, e che in tutta la sua totalità si affida e confida nella natura, come giu­dice e misura del valore delle cose». È difficile porre qualcuno in questa condizione di intrepida autoconoscenza, perché è impossibile insegnare l'a­more: solo nell'amore infatti l'anima acquista, non solo quello sguardo chiaro, analizzatore e sprezzante per se stessa, ma anche quella brama di guardare oltre sé e cercare con tutte le energie un se stesso superiore, anco­ra nascosto da qualche parte. Pertanto solo chi con il suo cuore è attaccato a un grande uomo riceve la prima consacrazione della cultura; ne è segno il vergognarsi di sé senza malumore, l'odio verso la propria ristrettezza e mi­seria, la simpatia per il genio, che è riuscito sempre di nuovo a strapparsi da questa nostra tetraggine e aridità, il presentimento di tutti coloro che verranno e combatteranno, e la più profonda convinzione di incontrare quasi ovunque la natura nella sua condizione di bisogno, mentre urge ver­so l'uomo; mentre sente dolorosamente fallire ancora una volta la sua ope­ra, mentre, tuttavia, ovunque le riescono gli spunti e i lineamenti e le forme più mirabili: così che gli uomini con cui viviamo sono simili a un campo di macerie dei più preziosi abbozzi figurativi, in cui tutto grida verso di noi: venite, aiutateci, completate, riunite ciò che deve stare insieme, ci struggia­mo immensamente di divenire un tutto.

L'insieme di questi stati d'animo interiori è ciò che io ho chiamato la prima consacrazione della cultura; ora però debbo descrivere gli effetti del­la seconda consacrazione e so bene che il mio compito si fa più difficile. Infatti ora si deve compiere il passaggio dall'accadimento interiore al giu­dizio sull'accadimento esteriore, lo sguardo deve spingersi fuori per ritro­vare nel grande, movimentato mondo, quella brama di cultura, che egli co­nosce dalle sue prime esperienze; il singolo deve utilizzare le sue lotte e il suo anelito come l'alfabeto con cui egli può ora decifrare le aspirazioni de­gli uomini. Ma anche qui non gli è lecito fermarsi, da questo gradino deve salire a quello superiore, la cultura pretende da lui non solo quell'esperien­za intima, non solo il giudizio sul mondo esterno che scorre intorno a lui, ma, infine e soprattutto, l'azione, cioè la lotta per la cultura e una presa di posizione ostile verso influenze, abitudini, leggi, istituzioni in cui non rico­nosce la sua mèta: la generazione de! genio.

Chi riesce a salire al secondo gradino è colpito innanzitutto da quanto straordinariamente limitato e raro sia il sapere di quel fine e come invece generale sia il darsi da fare per la cultura e quanto indicibilmente grande

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sia la massa delle energie che si consumano al suo servizio. Ci si chiede stu­piti: forse questo sapere non è affatto necessario? Forse la natura raggiun­ge anche così il suo fine, anche se, cioè, i più sbagliano nel porre uno scopo al loro proprio affannarsi? Chi si è abituato ad avere una grande conside­razione della finalità inconsapevole della natura, potrà forse rispondere senza alcuna esitazione: «Sì, e così! Lasciate che gli uomini pensino e dica­no ciò che vogliono sul loro ultimo fine, nel loro oscuro impulso però ben sanno qual è la retta via!». Per poter qui controbattere, bisogna avere vis­suto qualcosa; chi però è realmente convinto che scopo della cultura sia fa­vorire la nascita dei veri uomini e niente altro, e ora osservi a paragone co­me, ancor oggi, nonostante tutto lo sfarzo e lo sfoggio di cultura, la nasci­ta di tali uomini sia poco diversa da un maltrattamento continuo di anima­li, troverà di massima necessità che, in luogo di queh"«oscuro impulso», sia posta una volontà consapevole. E questo anche per un secondo motivo: perché non sia più possibile adoperare questo istinto impreciso circa la sua finalità, cioè quel famoso oscuro impulso, per scopi di tutt'altro genere e indirizzarlo su strade che mai condurranno al raggiungimento di quel som­mo fine: la generazione del genio. Esiste infatti un tipo di cultura abusata e asservita — basta guardarsi intorno! E proprio le potenze che, con mag­gior zelo, ora favoriscono la cultura, lo fanno con secondi fini e non la praticano con sentimenti puri e disinteressati.

Vi è in primo luogo l'egoismo degli affaristi che ha bisogno del sostegno della cultura e che, per ringraziamento, a sua volta l'aiuta ma in pari tem­po vorrebbe, in ciò, prescriverle sia lo scopo che la misura. Da questa parte deriva quell'affermazione e quella concatenazione di concetti, oggi molto in voga, che più o meno dice così: quanta più conoscenza e istruzione pos­sibili, e quindi quanto più bisogno possibile, e quindi quanta più produzio­ne possibile, e quindi quanto più guadagno e felicità possibili — così suona la formuletta tentatrice. L'educazione verrebbe definita dai suoi stessi so­stenitori come quel discernimento per cui si diventa completamente attuali, nei bisogni e nella loro soddisfazione, con cui, però allo stesso tempo, si può disporre di tutti i mezzi e di tutte le vie per guadagnare denaro nel mo­do più facile possibile. Formare il maggior numero possibile di uomini courant, nel senso in cui diciamo courant di una moneta, sarebbe dunque lo scopo, e un popolo, stando a questa concezione, sarà tanto più felice quanti più uomini courant possiede. Perciò l'intento dei moderni istituti di istruzione deve senz'altro consistere nell'incoraggiare ognuno, per quello che è nella sua natura, a divenire courant, nell'educare ognuno in maniera tale che abbia dal proprio grado di conoscenza e sapere la massima misura possibile di felicita e di guadagno. Il singolo dovrebbe, così si pretende, con l'aiuto di una tale istruzione generale, saper valutare esattamente se stesso, per sapere ciò che deve esigere dalla vita; e infine si afferma che esi­ste un'alleanza naturale e necessaria tra «intelligenza e possesso» tra «ric­chezza e cultura», anzi, ancor di più, che questa alleanza è una necessità morale. Così ogni educazione che isoli, che ponga dei fini al di là del dena­ro e del profitto, che consumi molto tempo, è esecrata; si è soliti, anzi, vi­tuperare questi più seri tipi di educazione come «un più sottile egoismo», come «un immorale epicureismo educativo». Certo, secondo la moralità attualmente in vigore, è apprezzato proprio il contrario, cioè una istruzio­ne rapida per diventare presto un essere che guadagna denaro, e tuttavia un'educazione approfondita quel tanto sufficiente a diventare un essere che guadagna moltissimo denaro. All'uomo si concede quel tanto di cultu­ra quanto è nell'interesse del profitto generale e del commercio mondiale,

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ma altrettanto se ne pretende da lui. In breve «l'uomo possiede una aspira­zione necessaria alla felicità terrena, perciò l'educazione è necessaria, ma soltanto perciò»!

In secondo luogo vi è l'egoismo di Stato che a sua volta aspira alla più ampia possibile diffusione e generalizzazione della cultura e dispone degli strumenti più efficaci per soddisfare i suoi desideri. Premesso che si consi­deri abbastanza forte non solo per liberare ma anche per mettere, al mo­mento giusto, sotto il giogo, premesso che le sue fondamenta siano abba­stanza solide e larghe per poter sostenere tutta la volta della cultura, la dif­fusione dell'istruzione tra i suoi cittadini torna sempre a suo vantaggio nel­la gara con gli altri stati. Ovunque oggi si parla di «Stato di cultura», si ve­de che gli è posto il compito di liberare le forze spirituali di una generazio­ne in modo che esse possano servire ed essere di vantaggio alle istituzioni esistenti: ma anche solo in questa misura; come un ruscello boschivo viene in parte deviato con dighe e argini, per far girare la sua forza, così diminui­ta, i mulini — mentre tutta la sua piena forza sarebbe per il mulino più dannosa che utile. Quella liberazione è allo stesso tempo e ancor più un gettare in catene. Basta pensare cosa è divenuto il Cristianesimo, poco alla volta, sotto l'egoismo dello Stato. Il Cristianesimo è certo una delle più pu­re rivelazioni di quella spinta verso la cultura e più precisamente in direzio­ne di una sempre rinnovata generazione del Santo; poiché, però, esso fu utilizzato, in cento derivazioni, per spingere i mulini dei poteri statali, len­tamente si è ammalato fino al midollo, è divenuto ipocrita, falso e degene­rato fino a contraddire il suo fine originario. Persino l'ultimo suo evento, la Riforma tedesca, non sarebbe stato niente più che una improvvisa fiam­mata subito spenta, se non avesse attinto dalla lotta e dall'incendio degli Stati nuove energie e fiamme.

In terzo luogo la cultura viene favorita da tutti coloro che, consapevoli di un contenuto brutto e noioso vogliono nasconderlo con la cosiddetta «bella forma». Con l'esteriorità, la parola, il gesto, la raffinatezza, il lus­so, la manieratezza, l'osservatore dovrebbe essere indotto ad una conclu­sione sbagliata sul contenuto: nel presupposto che si sia abituati a giudica­re l'interno dall'esterno. Mi sembra, talvolta, che gli uomini moderni si an­noino smisuratamente l'un l'altro e che alla fine trovino necessario render­si interessanti con l'aiuto di tutte le arti. Allora si fanno servire dai loro ar­tisti cibi stuzzicanti e forti, si cospargono con tutte le droghe dell'Oriente e dell'Occidente, e, certo, ora emanano un odore molto interessante, l'odore appunto di tutto l'Oriente e l'Occidente. Si preparano allora a soddisfare tutti i gusti; e ognuno deve essere servito, sia che desideri un qualcosa di profumato o di maleolente, di sublime o di contadinescamente grossolano, di greco e di cinese, sia che ami le tragedie o le sconcezze messe in dramma. I più famosi cuochi di questi uomini moderni, che vogliono essere ad ogni costo interessanti e interessati, è noto, si trovano tra i Francesi, i peggiori tra i Tedeschi. Il che, in fondo, per questi ultimi è più consolante che per i primi; non prendiamocela, quindi, troppo se i Francesi si fanno beffe di noi proprio per la mancanza di cose interessanti ed eleganti, se il singolo Tedesco, con il suo desiderio di eleganza e buone maniere, li fa pensare al­l'Indiano che desidera un anello al naso e grida per essere tatuato.

A questo punto nulla mi trattiene dal fare una disgressione. Dall'ultima guerra con la Francia qualcosa si è cambiato e spostato in Germania e si può vedere che anche per la cultura tedesca nuove aspirazioni sono state importate. Quella guerra per molti fu il primo viaggio nella parte più ele­gante del mondo; che magnificenza è la disinvoltura del vincitore che non

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si vergogna di imparare un po' di cultura del vinto! Soprattutto il mestiere dell'arte è sempre di nuovo spinto alla gara con il vicino più colto, l'arre­damento della casa tedesca deve essere assimilato a quello francese, la stes­sa lingua tedesca, grazie ad una accademia fondata sul modello francese, deve appropriarsi del «sano gusto» e annullare la pericolosa influenza eser­citata su dì lei da Goethe — secondo quanto ha sentenziato recentemente l'accademico berlinese Dubois-Reymond. I nostri teatri già da tempo, in tutto silenzio e decoro, hanno perseguito lo stesso fine, già si è inventato perfino l'elegante erudito tedesco — dunque c'è ormai da aspettarsi, anzi, che tutto ciò che finora non voleva a ragione adattarsi a quella legge di ele­ganza — la musica, la tragedia e la filosofia tedesca — sia d'ora in poi messo da parte come non tedesco. — In verità, però, non ci sarebbe da muovere neppure un dito in favore della cultura tedesca, se il Tedesco con il termine cultura, che ancora gli manca e che ora dovrebbe cercare di rag­giungere, non intendesse altro che le arti e le buone maniere che abbellisco­no la vita, inclusa tutta l'inventiva dei maestri di danza e dei tappezzieri; se volesse, anche nella lingua, preoccuparsi solo di regole sancite dall'accade­mia e di una certa manieratezza generale. Tuttavia quest'ultima guerra e il personale confronto con i Francesi non sembra aver suscitato maggiori ambizioni, anzi sempre più mi viene il sospetto che il Tedesco adesso voglia con forza sottrarsi a quegli antichi obblighi, impostigli dal suo straordina­rio talento, dal senso di profondità e serietà proprio della sua natura. Egli preferirebbe giocherellare, scimmiottare, imparare maniere ed arti con cui rendere divertente la vita. Maggior offesa non si potrebbe fare allo spirito tedesco di quanto non si faccia trattandolo come se fosse di cera, e si po­tesse, un bel giorno, impastarlo d'eleganza. E anche se, purtroppo, è vero che una buona parte dei Tedeschi, di buon grado, si lascia modellare e for­giare, contro di ciò ancor più spesso si deve ripetere, fino a farsi sentire: in voi non ha più dimora quell'antica maniera tedesca, che è sì dura, ruvida e resistente, ma che tuttavia è il materiale più prezioso sul quale solo i massi­mi scultori possono lavorare, perché essi soli ne sono all'altezza. Ciò che invece c'è in voi è un materiale molle e papposo, fatene ciò che volete, fate­ne pupazzi eleganti e interessanti idoli — e ancora una volta sarà valido ciò che Richard Wagner dice: «Il Tedesco è angoloso e impacciato quando vuole apparire manierato; ma è sublime e superiore a tutti quando prende fuoco». E hanno ben ragione gli eleganti a guardarsi da questo fuoco tede­sco, un giorno potrebbe divorarli, con tutti i loro pupazzi e i loro idoli di cera. — Certo quella tendenza predominante in Germania alla «bella for­ma» si può derivare anche diversamente, ed in modo più profondo, da quella fretta, quell'affannoso afferrare l'attimo, da quella precipitazione che spezza dal ramo tutti i frutti ancora troppo verdi, da quel continuo correre e cacciare, che oggi scava dei solchi nel volto degli uomini e quasi vi imprime, come un tatuaggio, i segni di tutto ciò che fanno. Quasi agisse dentro di loro un filtro che non li lascia più respirare tranquillamente,

. avanzano tumultuosi con indecorosa premura come i tormentati schiavi delle tre M: il momento, la mentalità e la moda; sicché la mancanza di di­gnità e decoro salta davvero agli occhi, in modo anche troppo penoso, ren­dendo di nuovo necessaria una menzognera eleganza con cui poter masche­rare la malattia della fretta più indecorosa. Infatti la avidità, oggi di moda, per la bella forma è in relazione col brutto contenuto dell'uomo attuale: quella deve nascondere, questo deve essere nascosto. Essere colto significa dunque: non lasciare capire la propria miseria e la propria cattiveria, la propria rapacità nell'aspirazione, la propria insaziabilità nell'accumulare il

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proprio egoismo e la propria spudoratezza nel godere. Più volte a me che mettevo davanti agli occhi di qualcuno l'assenza di una cultura tedesca è stato ribattuto: «ma questa assenza è del tutto naturale perché finora i Te­deschi sono stati troppo poveri e modesti. Lasci che i nostri compatrioti di­ventino ricchi e consapevoli e allora avrà anche una cultura!». Ammesso pure che la fede renda beati, questo tipo di fede mi danna, poiché sento che quella cultura tedesca nel cui futuro qui si crede — cioè quella della ric­chezza, della raffinatezza, della manierata finzione — è il più ostile oppo­sto di quella cultura tedesca in cui io credo. Certo, chi deve vivere tra i Te­deschi, soffre molto per il famigerato grigiore della loro vita e dei loro sen­timenti, per la mancanza di forma, per la sordità e ottusità, per la grossola­nità nei rapporti più delicati, e ancor più per una certa animosità e per una certa furtività e impurità del carattere; soffre e l'offende il radicato piacere per il falso e l'autentico, per le cose imitate e male imitate, per la traduzio­ne di buone cose straniere in un brutto linguaggio nostrano; ora però che si sono aggiunte come le peggiori sofferenze anche quella irrequietezza feb­brile, quella ricerca di successo e di guadagno, quella sopravvalutazione del momento, ci si ribella profondamente al pensiero che tutti questi ma­lanni e debolezze non saranno mai fondamentalmente guariti ma solo co­perti di belletto — mediante appunto una tal «cultura della forma interes­sante!». E questo in un popolo che ha prodotto Schopenhauer e Wagner. E ancora dovrà produrre! O ci illudiamo nel modo più sconfortante? Co­loro che abbiamo appena nominato non sarebbero, forse, più una garanzia che forze come le loro sono ancora disponibili nello spirito e nel sentimen­to dei Tedeschi? Costituirebbero essi delle eccezioni, quasi gli ultimi ram­polli e discendenti di qualità che una volta si consideravano tedesche? A questo punto non so cosa dire e torno quindi sulla via della mia considera­zione generale da cui, anche troppo spesso, dubbi pieni di preoccupazione mi vogliono distogliere. Ancora non sono state elencate tutte quelle poten­ze, dalle quali viene certo favorita la cultura, senza che tuttavia se ne rico­nosca il fine, e cioè la generazione del genio; tre le abbiamo dette: l'egoi­smo degli affaristi, l'egoismo dello Stato e l'egoismo di tutti coloro che hanno motivo di fingere e di nascondersi mediante la forma. In quarto luo­go indico Vegoismo della scienza e la natura tutta particolare dei suoi servi­tori, gli scienziati.

La scienza sta alla saggezza come la virtuosità alla santificazione: essa è fredda e asciutta, non ha amore e non sa nulla di un sentimento profondo di insoddisfazione e nostalgia. Essa è tanto più utile a se stessa quanto è nociva per i suoi servi, in quanto trasferisce su di loro il proprio carattere e, per così dire, ne fossilizza l'umanità. Finché come cultura si intenderà essenzialmente l'incremento della scienza, essa passerà impietosa e fredda davanti agli uomini sofferenti perché la scienza vede ovunque solo proble­mi di conoscenza, e perché il dolore nel suo mondo è qualcosa di inappro­priato e incomprensibile, e, al massimo, è ancora un altro problema.

Ma basta abituarsi a tradurre ogni esperienza in un gioco dialettico di domanda e risposta e in un fatto puramente intellettuale ed è strabiliante in quanto breve tempo l'uomo con un'attività del genere si inaridisca e rapi­damente si riduca a un mucchio di ossa scricchiolanti. Chiunque lo sa e lo vede: come è dunque possibile che ciononostante i giovani non indietreggi* no inorriditi di fronte a questi uomini ossificati, e continuino ad abbando­narsi ciecamente, senza scelta e senza misura, alle scienze? Ciò non può certo derivare da un presunto «impulso alla verità»: come potrebbe infatti esistere un impulso per la conoscenza fredda, pura e priva di conseguenze!

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Quali siano invece le vere e proprie forze motrici nei servitori della scienza appare anche troppo chiaramente allo sguardo spregiudicato: ed è molto consigliabile analizzare e sezionare anche gli studiosi dopo che essi stessi si sono abituati a maneggiare sfacciatamente e a scomporre tutto ciò che è al mondo, anche ciò che vi è di più nobile. Se devo esprimere ciò che penso, dirò: lo scienziato è fatto di un complicato intreccio di stimoli assai diversi, è un metallo assolutamente impuro. Si consideri, dunque, prima di tutto una forte e sempre più acuita bramosia di novità, il desiderio di avventure della conoscenza, la forza sempre stimolante del nuovo e del raro in oppo­sizione al vecchio e noioso. A ciò si aggiunga un certo istinto dialettico per l'indagine e il gioco, il piacere del cacciatore per astute mosse volpine del pensiero, così che in realtà non si ricerca la verità ma il ricercare in sé, il piacere principale consiste nell'astuto avvicinarsi strisciando, nell'accer-chiare, nell'uccidere a regola d'arte. A questo si aggiunga ancora l'impulso alla contraddizione; la personalità vuole, contro tutti gli altri, sentire se stessa e farsi sentire; la lotta diventa piacere e il fine è la vittoria personale, mentre la lotta per la verità ne è solo un pretesto. Per una buona parte, an­cora, nello scienziato è mescolato l'impulso a trovare determinate «veri­tà», cioè per sudditanza rispetto a persone, caste, opinioni, chiese e gover­ni dominanti perché avverte di giovare a se stesso portando la «verità» dal­la loro parte. Con minor frequenza, ma tuttavia abbastanza spesso, nello scienziato si manifestano le seguenti qualità. In primo luogo, onestà e sen­so di semplicità, che debbono apprezzarsi moltissimo se non sono soltanto mancanza di duttilità e di perizia nella finzione, per la quale del resto oc­corre un certo spirito. Infatti, ovunque lo spirito e la duttilità danno molto nell'occhio, bisogna stare attenti e dubitare un po' della rettitudine del ca­rattere. D'altra parte, per lo più, quell'onestà è di poco valore e anche per la scienza solo di rado feconda, poiché essa è attaccata a ciò che è abituale ed è solita dire la verità soltanto a proposito di cose semplici o in adiapho-ris; infatti in questo caso, corrisponde più all'accidia dire la verità che ta­cerla. E poiché tutto ciò che è nuovo rende necessario l'imparar daccapo, l'onestà, quando in qualche modo è possibile, rende onore all'antica opi­nione e rimprovera a chi annuncia il nuovo la mancanza di sensus recti. Perciò oppose resistenza alla dottrina di Copernico, perché aveva dalla sua l'apparenza e l'abitudine. L'odio molto frequente degli scienziati nei con­fronti della filosofia è soprattutto odio verso le lunghe concatenazioni di concetti e la ricercatezza delle dimostrazioni. In fondo ogni generazione di scienziati ha una inconsapevole misura dell'acume permessole', ciò che va oltre questa misura è messo in dubbio e quasi utilizzato come motivo di so­spetto nei confronti dell'onestà. — In secondo luogo, l'acutezza dello sguardo per le cose vicine legata a una grande miopia per le cose lontane e per ciò che è generale. Il suo campo visivo è in genere molto limitato, i suoi occhi devono rimanere assai vicini all'oggetto. Se uno scienziato vuole spo­stare la sua attenzione da un punto appena studiato a un altro, fa conver­gere tutto il suo apparato visivo su quel punto. Scompone un'immagine in vere e proprie zone, come chi adopera il binocolo da teatro per vedere la scena ed ora vede una testa ora un pezzo di costume ma non riesce ad ab­bracciare il tutto con lo sguardo. Non riesce a vedere mai quella singola zo­na nella sua connessione, ma ne rende soltanto accessibile il contesto; per­ciò, di fronte a tutto ciò che è generale, non ha alcuna forte impressione. Non potendolo valutare nella sua totalità, giudica, ad esempio, uno scritto da alcuni brani o frasi o errori; sarebbe indotto ad affermare che un dipin­to ad olio è un selvaggio guazzabuglio di scarabocchi. — In terzo luogo, la

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moderazione e la mediocrità della sua natura nelle inclinazioni e avversio­ni. Con questa qualità egli ha particolare fortuna nella ricerca storica, in quanto va sulle tracce dei motivi degli uomini passati sulla base dei motivi a lui noti. Una talpa si trova bene più di tutto in una tana di talpa. Così è protetto da tutte le ipotesi artificiose e eccessive; se è tenace, scava tutti i banali motivi del passato perché li sente affini. Certo, è per lo più incapa­ce, proprio per questo, a valutare e capire ciò che è raro, importante e in­consueto. — In quarto luogo, la povertà di sentimenti e aridità. Essa lo abilita proprio alla vivisezione. Non immagina il dolore, che un tipo di co­noscenza comporta, e non teme di avanzare in campi dove ad altri trema il cuore. È freddo e perciò appare facilmente spietato. Alcuni lo considerano temerario, ma non lo è, proprio come il mulo che non sa cosa siano le ver­tigini. — In quinto luogo, una limitata considerazione di se stesso, anzi la modestia. Benché costretti in un misero cantuccio, non sentono affatto di essere sacrificati, sprecati, spesso sembra che sappiano nel loro intimo di non essere animali alati ma striscianti. Con questa qualità essi appaiono perfino commoventi. — In sesto luogo, fedeltà ai loro maestri e guide. Li vogliono aiutare con tutto il cuore, e ben sanno che li aiutano nel modo migliore con la verità. Infatti sono disposti alla gratitudine, perché solo grazie a loro hanno potuto accedere nei nobili atri della scienza, dove non sarebbero mai giunti per strade proprie. Chi al giorno nostro, come mae­stro, è in grado di schiudere un campo in cui anche le teste più limitate pos­sono lavorare con un certo successo, diventa in brevissimo tempo un uomo famoso: tanto è grande la folla che subito si accalca intorno a lui. Certo chiunque tra questi fedeli e riconoscenti è una calamità per il maestro, per­ché tutti costoro lo imitano, e proprio le sue magagne appaiono ora smisu­ratamente grandi ed esagerate, perché spiccano in individui così limitati, mentre, al contrario, le virtù del maestro appaiono rimpicciolite, nella stes­sa proporzione, nello stesso individuo. — In settimo luogo, il procedere per abitudine nella strada su cui lo scienziato è stato avviato, il senso della verità per mancanza di idee, secondo l'abitudine acquisita una volta. Tali nature sono quelle di collezionisti, illustratori, compilatori di indices e di erbari; studiano e ricercano in un campo solo perché non hanno mai pen­sato che esistono altri campi. La loro diligenza ha qualcosa dell'immensa stupidità della forza gravitazionale: motivo per cui, spesso, realizzano molto. — In ottavo luogo, la fuga dalla noia. Mentre il vero pensatore non aspira ad altro che all'ozio, lo scienziato comune rifugge da esso, perché non sa come utilizzarlo. I suoi consolatori sono i libri: cioè ascolta come qualcuno pensa qualcosa di diverso e così si fa intrattenere per tutto il lun­go giorno. In particolare sceglie libri in cui in qualche modo venga solleci­tata la sua partecipazione personale, dove egli possa, per inclinazione o av­versione, provare qualche affetto: libri cioè in cui lui stesso o il suo ceto è fatto oggetto di osservazione, la sua dottrina politica o estetica, oppure an­che soltanto grammaticale: se possiede una propria scienza non gli man­cheranno mai i mezzi di intrattenimento e scacciamosche contro la noia. — In nono luogo, il movente del procacciarsi il pane, in sostanza cioè i famosi «borborigmi di uno stomaco che langue». Si serve la verità se essa è in con­dizione di favorire direttamente stipendi o posizioni più elevate, o almeno di assicurarsi i favori di coloro che debbono elargire pane e onori. Ma si serve solo questa verità; perciò si traccia un confine tra le verità vantaggio­se, a cui molti servono, e le verità non vantaggiose: a queste ultime solo po­chissimi si dedicano perché per esse non vale il principio «ingenii largitor venter». — In decimo luogo, il rispetto verso i colleghi, la paura del loro di-

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sprezzo; un movente più raro ma più elevato del precedente, ma sempre molto frequente. Tutti i membri della corporazione si sorvegliano recipro­camente con la massima gelosia, affinché la verità da cui tanto dipende, — pane, cariche, onori, — venga realmente battezzata col nome di chi l'ha trovata. Rigorosamente si fa tributo all'altro del proprio rispetto per la ve­rità che ha scoperto, per pretendere, a nostra volta, un tale tributo nel caso che si dovesse trovare una verità. La falsità, l'errore viene fatto esplodere con frastuono, affinché il numero dei concorrenti non diventi troppo ele­vato; tuttavia qua e là, ogni tanto, anche la vera verità viene fatta esplode­re per far posto, almeno per un po' di tempo, agli errori più tenaci e sfac­ciati; del resto ovunque, e anche qui, non mancano gli «idiotismi morali», che altrimenti sono chiamati «bricconate». — In undicesimo luogo, lo scienziato per vanità, una specie che è già più rara. Questo, se possibile, vuole un campo tutto per sé e perciò sceglie curiosità, soprattutto se queste rendono necessarie spese insolite, viaggi, scavi, numerosi collegamenti in diversi paesi. Si accontenta per lo più dell'onore di essere considerato egli stesso come una curiosità e non pensa di guadagnarsi il pane per mezzo dei suoi studi eruditi. — In dodicesimo luogo, lo studioso per gioco. Il suo di­vertimento consiste nel cercare, nelle scienze, dei piccoli nodi e di scioglier­li; e in questo non si vuole affaticar troppo, per non perdere il sapore del gioco. Perciò non va diritto in profondità, e tuttavia, spesso, coglie cose che colui che fa lo studioso per vivere, non vede mai col suo sguardo fati­cosamente strisciante. — Se infine indico, in tredicesimo luogo, come mo­tivazione dello scienziato l'impulso alla giustizia, mi si potrebbe contrap­porre che questo impulso nobile, anzi già da intendersi in senso metafisico è difficilmente distinguibile dagli altri e in fondo inafferrabile e indetermi­nabile per l'occhio umano; perciò aggiungo questo ultimo motivo. Col pio desiderio che tale impulso possa essere tra gli studiosi più frequente e più efficace di quanto non sia visibile. Infatti una scintilla del fuoco della giu­stizia, caduta nell'anima di uno studioso, è sufficiente a rendere incande­scente e a consumare tutta la sua vita e le sue aspirazioni purificandole, co­sì che egli non ha più pace e si libera per sempre dallo stato d'animo acci­dioso o freddo in cui i comuni studiosi svolgono la loro attività quotidiana.

Si pensino, dunque, tutti questi elementi, nella loro pluralità o singolar­mente, fortemente mescolati e agitati insieme: così si ottiene la nascita del servitore della verità. È molto strano che a vantaggio di un fatto in sostan­za extra e sovraumano, cioè il conoscere puro e senza conseguenze e quindi anche privo di impulsi, si fondano insieme una quantità di piccoli o picco­lissimi istinti assai umani, per dar luogo a una combinazione chimica e che il risultato, cioè lo scienziato, nella luce di quel fatto ultraterreno, alto e as­solutamente puro, appare così trasfigurato, da far dimenticare il sovrap­porsi e il mescolarsi di elementi, che sono stati necessari per generarlo. Ep­pure vi sono momenti in cui bisogna pensarci e ricordarlo: cioè proprio quando ci si chiede l'importanza dello scienziato nella cultura. Chi sa os­servare, nota, infatti, che lo studioso secondo la sua essenza è infecondo — una conseguenza della sua nascita! — e che nutre un certo odio naturale per gli uomini fecondi; perciò in tutti i tempi i genii e gli studiosi sono stati in conflitto. Questi ultimi vogliono uccidere la natura, sezionarla e com­prenderla, i primi invece vogliono accrescere la natura con una nuova na­tura vivente; e così c'è un conflitto di intenzioni e di attività. Tempi del tut­to felici non hanno avuto bisogno dello scienziato e non lo hanno cono­sciuto, epoche completamente malate e svogliate lo hanno apprezzato co­me l'uomo migliore e più degno, dandogli il primo posto.

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Quali siano le condizioni della nostra epoca, se sia sana o malata, chi sa­rebbe abbastanza medico da saperlo? Certo anche oggi in molte cose la considerazione di cui gode lo scienziato è troppo alta e quindi ha effetti dannosi, soprattutto per tutto ciò che concerne il divenire del genio. Per le necessità del genio Io scienziato non ha affatto cuore, e lo liquida parlan­done con voce fredda e aspra, e anche troppo velocemente, scrolla le spal­le, come di fronte a un palazzo originale e per cui non ha né tempo né inte­resse. Neppure in lui si trova la consapevolezza del fine della cultura.

Ma, infine, da tutte queste considerazioni che cosa ci si è chiarito? Che ovunque, dove ora la cultura sembra essere incoraggiata con maggiore ala­crità, non si sa nulla di quel fine. Per quanto lo Stato faccia valere ad alta voce i suoi meriti verso la cultura, la promuove per promuovere se stesso e non comprende un fine che sia superiore al suo benessere e alla sua esisten­za. Ciò che gli affaristi vogliono quando incessantemente chiedono istru­zione e cultura, è alla fin fine proprio un affare. Se coloro che hanno biso­gno delle forme si ascrivono il vero e proprio lavoro per la cultura e, per esempio, credono che tutta l'arte sia cosa loro e debba servire alle loro esi­genze, è chiaro allora che essi, nel momento in cui affermano la cultura, affermano solo se stessi: e cioè neppure loro sono usciti da un equivoco. Dello scienziato è stato parlato abbastanza. Per quanto zelo le quattro po­tenze dimostrino nel riflettere tra loro su come giovare a se stesse con l'aiu­to della cultura, altrettanto fiacche e prive di idee si dimostrano quando non viene eccitato questo loro interesse. Questo è il motivo per cui nell'e­poca moderna non si sono migliorate le condizioni per la nascita del genio, mentre l'ostilità nei confronti degli uomini originali è aumentata talmente che Socrate tra noi non avrebbe potuto vivere, e in ogni caso non avrebbe raggiunto i settanta anni.

Adesso voglio ricordare ciò che ho detto nel terzo capitolo: tutto il no­stro mondo moderno ha un'apparenza nient'affatto solida e duratura tan­to che si possa profetizzare al suo concetto di cultura una esistenza eterna. Si deve addirittura ritener verosimile che il prossimo millennio avrà un paio di nuove idee, per le quali a ogni vivente di oggi gli si rizzerebbero i capelli in testa. La fede in un significato metafisico della cultura alla fine non sarebbe poi tanto terrificante: ma certo alcune conseguenze si potreb­bero trarre per l'educazione e l'istituzione scolastica.

È necessario compiere uno straordinario sforzo di riflessione, distoglien­do una buona volta lo sguardo dalle attuali istituzioni educative e guardare oltre, verso istituzioni di genere del tutto diverso ed estraneo, quali forse appariranno necessarie a una seconda o terza generazione. Mentre infatti con gli sforzi degli attuali educatori accademici si produce o lo scienziato o il funzionario statale, o l'affarista, o il filisteo della cultura o infine e di so­lito una mescolanza di tutti questi, quelle istituzioni, ancora da scoprire, avrebbero certo un compito più difficile — in verità non più difficile in sé, poiché sarebbe comunque il compito più naturale e in quanto tale anche più semplice; e per esempio può qualcosa essere più difficile dell'ammae­strare contro natura, come accade oggi, un giovane per farne un erudito? Ma per gli uomini la difficoltà consiste nell'imparare daccapo e porsi un nuovo fine; e costerà fatica indicibile cambiare con una nuova idea fonda­mentale i princìpi del nostro attuale sistema educativo, che ha le sue radici nel medioevo e che vede, come scopo della perfetta educazione, proprio il dotto medioevale. Già ora è tempo di porsi davanti agli occhi questi con­trasti; infatti una generazione dovrà pure cominciare la lotta nella quale

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una generazione successiva vincerà. Già oggi il singolo che ha inteso quella nuova idea fondamentale della cultura, è posto di fronte ad un bivio: per­correndo una strada è ben accetto alla sua epoca, non gli mancheranno co­rone e ricompense, potenti partiti lo sosterranno e alle sue spalle, come da­vanti a sé, vi saranno tanti che la pensano allo stesso modo, e quando il ca­pofila pronuncia la parola d'ordine, essa riecheggia in tutte le file. Il primo dovere qui è: «combattere allineati», il secondo, trattare come nemici colo­ro che non vogliono allinearsi. L'altra strada gli offre più rari compagni di viaggio, è più ardua, contorta, ripida: coloro che percorrono la prima Io deridono perché là avanza con più fatica e spesso si trova in pericolo, e tentano di attirarlo sul loro cammino. Se le due strade si incrociano, egli viene maltrattato, gettato da parte, oppure isolato con un timoroso trarsi da parte. Che significa dunque per questi diversi viandanti delle due strade una istituzione della cultura? Quella enorme folla che sulla prima strada preme verso il suo fine, intende per cultura istituzioni e leggi, grazie a cui essa stessa è mantenuta in ordine e può avanzare, e per cui tutti i ribelli so­litari, tutti coloro che guardano a fini superiori e più lontani, sono messi al bando. Per quest'altra più piccola schiera una istituzione dovrebbe cer­to adempiere a uno scopo del tutto diverso: essa stessa vuole prevenire, al riparo di una salda organizzazione, di essere sopraffatta e dispersa da quella folla, vuole che i suoi singoli individui non vengano meno per un precoce esaurimento o siano sviati dal loro grande compito. Questi singoli devono compiere la loro opera — questo è il senso della loro coesione; e tutti coloro che partecipano alla istituzione devono adoperarsi con una continua purificazione e con una reciproca premura a preparare, in sé e at­torno a sé, la nascita del genio e la maturazione della sua opera. Non po­chi, anche tra coloro che sono dotati di un talento di secondo o terzo ordi­ne, sono destinati a coadiuvare, e solo assoggettandosi a questa destina­zione, giungono a sentire di vivere per un dovere e di vivere con uno scopo e un significato. Ma adesso proprio questi talenti vengono distolti dalla lo­ro strada proprio dalle voci tentatrici della «cultura» alla moda e resi estranei al loro istinto; questa tentazione si rivolge alle loro tendenze egoi­stiche, alle loro debolezze e vanità; lo spirito del tempo sussurra loro con insinuante assiduità: «Seguitemi e non andate là! Infatti lì siete servi sol­tanto, aiuti, strumenti, offuscati da nature superiori, mai contenti della vostra personalità, tirati per il filo, messi in catene, come schiavi, anzi au­tomi; con me invece voi godete, da padroni, la vostra libera personalità, le vostre doti possono risplendere per se stesse, voi stessi potrete stare nelle prime file, un grandissimo seguito vi corteggerà e l'acclamazione della pubblica opinione dovrebbe rallegrarvi assai più dell'approvazione aristo­cratica elargita dalla fredda, eterea sommità del gemo». A tali seduzioni perfino i migliori soggiacciono: e qui in fondo decide poco la varietà e la forza dell'inclinazione, ma l'influenza di una certa fondamentale disposi­zione eroica e il grado di intima affinità e congenialità con il genio. Ci so­no uomini infatti che, quando vedono il genio lottare con fatica e col ri­schio di distruggersi, o quando le sue opere vengono messe da parte con indifferenza dall'egoismo miope dello Stato, dalla superficialità degli affa­risti, o dall'arida sufficienza degli scienziati, sentono tutto ciò come la propria disgrazia: e così spero che esista anche qualcuno in grado di com­prendere ciò che voglio dire presentando la sorte di Schopenhauer e a che cosa, secondo la mia rappresentazione, Schopenhauer come educatore de­ve propriamente educare.

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7.

Ma lasciando da parte, per una volta, tutti i pensieri di un lontano futu­ro e di un possibile rovesciamento del sistema educativo, che cosa si do­vrebbe attualmente augurare e, in caso di necessità, procurare a chi diventa filosofo, affinché possa almeno respirare e, nel caso più favorevole, giunga almeno all'esistenza, certo non facile, ma almeno possibile di Schopen­hauer? Che cosa inoltre si dovrebbe trovare per rendere più probabile la sua influenza sui contemporanei? E quali ostacoli dovrebbero essere ri­mossi, affinché il modello raggiunga prima di tutto una piena efficacia e il filosofo educhi altri filosofi? A questo punto la nostra considerazione si svia in ciò che è pratico e urtante.

La natura vuole sempre essere di utilità comune, ma non è in grado di trovare, a questo scopo, i mezzi e gli strumenti migliori e più adatti. Questa è la sua grande sofferenza, e perciò è malinconica. Che volesse, con la ge­nerazione e del filosofo e dell'artista, rendere l'esistenza agli uomini chiara e significativa è certo, dato il suo impulso assetato di redenzione; ma quan­to incerto, quando debole e opaco è l'effetto che essa per lo più ottiene con i filosofi e gli artisti! Quanto di rado, in generale, giunge a un effetto! So­prattutto rispetto al filosofo grande è il suo imbarazzo nell'utilizzarlo a vantaggio della comunità; i suoi mezzi appaiono come tentativi disorienta­ti, idee casuali, così come innumerevoli volte fallisce nella sua intenzione e la maggior parte dei filosofi non divengono di utilità comune. Il procedi­mento della natura ha l'aspetto di uno spreco; tuttavia non è lo spreco di una oltraggiosa abbondanza, ma dell'inesperienza; si deve ammettere che se essa fosse un uomo non riuscirebbe a superare la stizza per sé e per la propria inettitudine. La natura scaglia il filosofo tra gli uomini come una freccia, non prende la mira, ma spera che la freccia rimanga infissa da qualche parte. Moltissime volte però si sbaglia e se ne indispettisce. Con Io stesso spreco si comporta nel campo della cultura, come nel piantare e se­minare. Adempie ai suoi scopi in un modo generico e goffo, sacrificando in ciò troppe energie. L'artista e, dall'altra parte, i conoscitori e gli appas­sionati della sua arte, stanno tra loro nello stesso rapporto di un grossola­no pezzo di artiglieria e uno sciame di passeri. È opera di semplicioneria spostare una grande slavina per spazzar via un po' di neve, uccidere un uo­mo per colpire la mosca sul suo naso. L'artista e il filosofo sono prove contro la finalità della natura nei suoi mezzi, pur essendo allo stesso tempo la miglior prova della saggezza dei suoi fini. Essi riescono a centrare solo pochi, mentre dovrebbero centrare tutti — ma anche questi pochi non ven­gono colpiti con la forza con cui filosofo e artista sparano il loro colpo. È triste dover valutare in modo così diverso l'arte come causa e l'arte come effetto: quanto immensa essa è come causa tanto è paralizzata e fievole co­me effetto! L'artista compie la sua opera secondo la volontà della natura per il bene degli altri uomini, su questo non c'è dubbio alcuno: tuttavia sa che, a sua volta, nessuno di questi uomini saprà intendere e amare la sua opera come lui l'ama e l'intende. Quell'alto e unico grado di amore e di comprensione è necessario, secondo la disposizione maldestra della natura, perché vi sia un grado inferiore; e il più grande e il più nobile è usato come mezzo per la nascita del minore e dell'ignobile. La natura non governa con saggezza, le sue spese sono molto maggiori del profitto che ricava: con tut­ta la sua ricchezza, a un certo momento dovrà andare in rovina. Molto più saggiamente si sarebbe organizzata se la regola della sua amministrazione

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fosse stata: pochi costi e ricavi centuplicati; se per esempio vi fossero sol­tanto pochi artisti e questi fossero di più deboli energie, ma, in compenso, numerosi coloro capaci di accogliere e ricevere l'arte e, proprio questi di tempra più forte e potente di quella degli artisti stessi: cosicché l'effetto dell'opera d'arte, in rapporto con la causa, sarebbe un'eco cento volte am­plificato. O ci si dovrebbe aspettare che almeno causa e effetto fossero di uguale forza: ma quanto la natura delude questa aspettativa! Spesso sem­bra che un artista o, ancor più un filosofo, capiti per caso nel suo tempo, come eremita o come un viandante disperso o rimasto indietro. Si provi so­lo a sentire veramente con il cuore quanto grande, in tutta la sua persona e in tutto, è Schopenhauer — e quanto piccolo e assurdo il suo effetto! Per un uomo di questo tempo che sia onesto nulla può essere più mortificante del rendersi conto di quanto sia casuale l'apparizione di Schopenhauer in questa epoca e da quali forze e non forze sia dipeso, sinora, che il suo ef­fetto sia stato tanto limitato. Per prima cosa, e a lungo, gli fu ostile la mancanza di lettori — il che sia di perenne vergogna per la nostra epoca letteraria! —, poi, quando i lettori vennero, l'inadeguatezza dei suoi primi pubblici seguaci: ancor più, come mi sembra, l'ottusità di tutti gli uomini moderni verso libri, che essi non vogliono assolutamente più prendere sul serio; inoltre, a poco a poco, si è aggiunto un nuovo pericolo, nato dai vari tentativi di adattare Schopenhauer alla debolezza dell'epoca e di usarlo co­me si usa una droga stupefacente e eccitante, quasi come una specie di pepe metafisico. E così, pian piano, è certamente divenuto noto e famoso e cre­do che già oggi vi siano più persone che conoscono il suo nome di quante conoscono quello di Hegel: ciò nonostante è ancora un eremita, e il suo ef­fetto ancora non si è avvertito! Meno di tutti, i veri e propri oppositori let­terari e coloro che abbaiano contro di lui, hanno l'onore di aver impedito finora questo effetto: in primo luogo, perché ci sono pochi uomini che sopportano di leggerli e, in secondo luogo, perché essi portano colui che riesce a leggerli immediatamente a Schopenhauer; infatti chi si farà convin­cere da un asinaio a non montare un bel cavallo per quanto questo esalti il suo asino ai danni del cavallo?

Chi dunque ha riconosciuto l'irragionevolezza nella natura di questa epoca, dovrà pensare ai mezzi per porvi qualche rimedio; il suo compito sarà allora di far conoscere Schopenhauer agli spiriti liberi, a coloro che profondamente soffrono per il nostro tempo, di riunirli e con loro creare una corrente con la cui forza si dovrà superare l'inettitudine che la natura, di solito e anche oggi, mostra nell'utilizzare il filosofo. Tali uomini si ren­deranno conto che sono gli stessi ostacoli, quelli che impediscono l'effetto di una grande filosofia e che si oppongono alla generazione di un grande filosofo; ecco perché devono stabilire come loro fine di preparare la rina­scita di Schopenhauer, cioè del genio filosofico. Ma ciò che fin dal princi­pio si oppose all'effetto e alla diffusione della sua dottrina, ciò che infine con tutti mezzi tenta di rendere vana anche una tale rinascita del filosofo è, per dirla in breve, la stortura della natura umana attuale: perciò tutti colo­ro che diventano grandi uomini debbono sprecare un'energia incredibile solo per salvare se stessi da questa stortura. Il mondo, in cui oggi fanno il loro ingresso, è avvolto nelle fandonie: non necessariamente dogmi religio­si, ma anche concetti bubboleschi come «progresso», «educazione univer­sale», «nazionale», «Stato moderno», «Kulturkampf»: si può dire anzi che tutte le parole generali oggi portano in sé un addobbo artificioso e in­naturale; pertanto una posterità più illuminata rimprovererà al nostro tem­po soprattutto di essere contorto e deforme — per quanto andiamo così su-

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perbi della nostra «salute». La bellezza degli antichi vasi — dice Schopen­hauer — deriva dal fatto che essi esprimono in modo così ingenuo la loro funzione e la loro essenza, e lo stesso vale per tutti gli altri strumenti del­l'antichità; si ha l'impressione che se la natura avesse prodotto vasi, anfo­re, lampade, tavoli, sedie, elmi, scudi, corazze ecc., quello sarebbe stato il loro aspetto. Al contrario, chi oggi osserva come quasi tutti armeggiano con l'arte, lo Stato, la religione, la cultura — per tacere, per ovvi motivi dei nostri «vasi» — trova gli uomini abbandonati ad un arbitrio quasi bar­barico e in un eccesso di espressioni e il maggior ostacolo per il divenire del genio sta nel fatto che nel suo tempo siano di moda concetti così strampa­lati ed esigenze così capricciose da costituire quel peso di piombo che spes­so, non visto e inspiegabile, blocca la sua mano, che vuole condurre l'ara­tro. E così anche le sue opere maggiori, poiché sono state ottenute con la violenza, debbono portare con sé in una certa misura l'espressione di que­sta violenza.

Se cerco ora di riassumere tutte le condizioni, con l'aiuto delle quali, nel caso più felice, un filosofo nato almeno non venga schiacciato dalla stortu­ra dell'epoca ora descritta, osservo qualcosa di strano: in parte, almeno da un punto di vista generale, si tratta proprio delle condizioni in cui Scho­penhauer stesso crebbe. Certo non gliene mancarono di condizioni contra­rie: ad esempio in sua madre vanitosa e amante delle belle lettere, la stortu­ra dell'epoca gli fu paurosamente vicina. Ma il carattere fiero e di libero re­pubblicano del padre lo salvò, per così dire, dalla madre e gli diede la pri­ma cosa di cui un filosofo ha bisogno: una virilità rude e inflessibile. Que­sto padre non era né un funzionario né uno scienziato; col figlio adolescen­te viaggiò più volte in paesi stranieri — tutto ciò costituisce una condizione fortemente favorevole per chi deve conoscere non libri ma uomini e deve onorare non un governo ma la verità. Ben presto egli divenne insensibile alle grettezze nazionali o anche troppo sensibile: visse in Inghilterra, in Francia e in Italia non diversamente da come avrebbe vissuto nel suo paese e nutrì una non piccola simpatia per lo spirito spagnolo. Insomma non considerava un onore l'essere nato proprio tra i Tedeschi: e non so se l'a­vrebbe pensata diversamente nelle nuove condizioni politiche. Dello Stato — come è noto — pensava che i suoi unici scopi fossero la difesa verso l'e­sterno, la difesa verso l'interno e la difesa dai difensori, e che se qualcuno gli voleva attribuire altre finalità oltre quella della difesa, ciò avrebbe po­tuto compromettere seriamente il suo vero scopo —: perciò lasciò, con grande scandalo di tutti i cosiddetti liberali, il suo patrimonio ai familiari dei soldati prussiani caduti nel 1848 nella lotta per l'ordine. È probabile che d'ora in poi sarà sempre più segno di superiorità spirituale, se qualcu­no saprà intendere in maniera semplice lo Stato e i suoi doveri: infatti colui che ha in corpo il furor phiiosophicus non troverà mai il tempo per il furor politicus e saggiamente si guarderà dal leggere ogni giorno i giornali o ad­dirittura dal servire un partito: pur non esitando un momento, nel caso di reale necessità della patria, ad essere al suo posto. Tutti gli Stati infatti in cui, oltre agli uomini politici, altri si debbono occupare di politica, sono male organizzati e meritano, proprio a causa dei numerosi politicanti, di andare in malora.

Schopenhauer ebbe anche un altro grande vantaggio: non fu, fin dall'i­nizio, destinato ed educato per essere uno studioso, ma lavorò realmente per un po' di tempo, anche se malvolentieri, in un ufficio commerciale e, comunque, per tutto il tempo della sua gioventù respirò l'aria più libera di una grande ditta commerciale. Uno studioso non può mai diventare un fi-

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losofo, lo stesso Kant non ci riuscì, ma, fino alla fine, rimase, nonostante l'innato impeto del suo genio, quasi nello stato di una crisalide. Chi pensa che io con queste parole faccio torto a Kant, non sa che cosa è un filosofo, e cioè non solo un grande pensatore, ma anche un vero uomo; e quando mai da uno studioso si sarebbe sviluppato un vero uomo? Chi lascia che tra se stesso e le cose si frappongano concetti, opinioni, antichità, libri, chi in­somma è nato, nel senso più ampio, per la storia, non vedrà mai le cose per la prima volta, né sarà mai egli stesso una tale cosa vista per la prima volta. Tutti e due gli aspetti sono invece certamente presenti nel filosofo, poiché egli deve trarre da se stesso la maggior parte degli insegnamenti e poiché serve a se stesso come immagine e compendio di tutto il mondo. Se qualcu­no si osserva servendosi di opinioni altrui, non c'è da meravigliarsi se in sé non vedrà altro che opinioni altrui! Così sono, vedono e vivono gli studio­si. Schopenhauer ebbe invece l'indescrivibile fortuna, non solo di osservare da vicino il genio in sé, ma anche al di fuori di sé, in Goethe: mediante questo duplice rispecchiamento, egli fu radicalmente istruito e reso saggio su tutte le culture e le finalità degli studiosi. Grazie a questa esperienza sa­peva come deve essere fatto l'uomo forte e libero, a cui aspira ogni cultura artistica; poteva mai, dopo questa visione, avere ancora molta voglia di oc­cuparsi della cosiddetta «arte» alla maniera dotta o ipocrita dell'uomo mo­derno? Inoltre aveva visto qualcosa di più elevato: una terribile scena ul­tramondana del Giudizio in cui ogni vita, anche la più alta e perfetta, era pesata e trovata troppo leggera: aveva visto il Santo come giudice dell'esi­stenza. Non si può affatto stabilire quanto precocemente Schopenhauer debba aver contemplato questa immagine della vita, quale tentò, più tardi, di riprodurre in tutti i suoi scritti; si può dimostrare che l'adolescente, e, si potrebbe credere, già il fanciullo, abbia avuto questa tremenda visione. Tutto ciò che poi egli apprese dalla vita e dai libri, da tutti i campi della scienza, per lui fu quasi soltanto colore e mezzo espressivo; la stessa filoso­fia kantiana fu da lui utilizzata soprattutto come uno straordinario stru­mento retorico, grazie a cui credeva di potersi esprimere in modo ancor più chiaro su quell'immagine: così come, allo stesso scopo, occasionalmente si servì anche della mitologia buddhista e cristiana. Per lui esisteva un solo compito e centomila mezzi per adempierlo: un solo significato e innumere­voli geroglifici per esprimerlo.

Faceva parte delle splendide condizioni della sua esistenza il fatto che potè veramente vivere per questo compito secondo la sua massima: vitam impendere vero e che nessuna delle vere e proprie volgarità della miseria della vita l'abbia prostrato: — è noto quanto, per questo, fosse grande la sua gratitudine verso il padre — mentre in Germania l'uomo teoretico at­tua la sua destinazione scientifica per lo più a spese della purezza del suo carattere, come uno «straccione pieno di riguardi», avido di posti e di ono­ri, cauto e duttile, adulatore verso le persone influenti e i superiori. Pur­troppo niente ha più offeso gli scienziati del fatto che Schopenhauer non somigliasse a loro.

8.

Così abbiamo elencato alcune condizioni in cui il genio filosofico, nella nostra epoca può, nonostante i nocivi effetti contrari, almeno nascere: la franca virilità del carattere, una precoce conoscenza degli uomini, niente educazione dotta, nessuna grettezza patriottica, nessuna costrizione a gua­dagnarsi il pane, nessun rapporto con lo Stato — in breve libertà e ancora

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libertà: lo stesso meraviglioso e pericoloso elemento in cui i filosofi greci poterono crescere. Chi vuole rimproverargli ciò che Niebhuhr rimprovera­va a Platone, di essere stato un cattivo cittadino, lo faccia e si limiti a esse­re lui un buon cittadino: così sarà nel giusto lui e anche Platone. Un altro interpreterà quella grande libertà come presunzione: anche questo ha ra­gione, poiché egli stesso non è in grado di far nulla di buono con quella li­bertà e, nel caso che la pretendesse per sé, sarebbe certamente assai presun­tuoso. Quella libertà è realmente una grave colpa e si può scontare solo con grandi azioni. In verità ogni figlio comune della terra ha il diritto di guar­dare con astio ad una persona favorita in cotal misura: possa un dio pre­servarlo dall'essere altrettanto favorito, cioè così terribilmente obbligato. Per la sua libertà e per la sua solitudine andrebbe subito in rovina e diven­terebbe pazzo, un pazzo cattivo, per la noia.

Da quanto è stato detto finora qualche padre forse può imparare qual­cosa e utilizzarlo in qualche modo per l'educazione privata di suo figlio; benché, in verità, non c'è da aspettarsi che i padri desiderino proprio avere per figli soltanto dei filosofi. Probabilmente in tutti i tempi i padri saranno coloro che più si opporranno all'inclinazione filosofica dei loro figli come contro la più grande pazzia. Socrate — si sa — fu vittima dell'ira dei padri per «la corruzione della gioventù», e Platone, per gli stessi motivi, conside­rava necessaria l'edificazione di uno Stato del tutto nuovo, per rendere au­tonomo il nascere dei filosofi dall'irragionevolezza dei padri. Sembra quasi che Platone abbia raggiunto realmente qualcosa. Infatti lo Stato moderno considera oggi tra i suoi compiti l'incremento della filosofia e in ogni tem­po cerca di regalare a un certo numero di uomini quella «libertà», che per noi rappresenta la condizione essenziale per la genesi del filosofo. Ma Pla­tone ha avuto nella storia una singolare sfortuna: non appena sorgeva un organismo che corrispondeva essenzialmente alle sue proposte, si trattava sempre, ad una osservazione più attenta, del figlio di un coboldo sostituito a quello vero, di un odioso mostriciattolo: come, ad esempio, lo Stato me­dievale dei preti a paragone del dominio dei «figli degli Dèi» da lui vagheg­giato. Lo Stato moderno, è certo il più lontano possibile dal voler fare dei filosofi i sovrani. — Dio sia lodato! aggiungerà ogni buon cristiano —: ma bisognerebbe, almeno una volta, vedere se lo Stato intende l'incremento della filosofia in senso platonico; voglio dire: con tanta serietà e onestà, come se il suo fine sommo fosse di generare nuovi Platoni. Se di solito il fi­losofo appare nella sua epoca come per caso — ora lo Stato si prefigge realmente il compito di tradurre questa casualità in necessità, e aiutare in questo la natura?

L'esperienza purtroppo ci informa meglio — o peggio: ci dice che per quanto riguarda i grandi filosofi per natura, nulla si oppone alla loro crea­zione e propagazione e più dei cattivi filosofi per grazia dello Stato. Argo­mento penoso, non è vero? — quello stesso, come è noto, su cui Schopen­hauer per primo ha attirato l'attenzione nel suo famoso trattato sulla filo­sofia delle università. E io ci ritorno sopra: perché bisogna costringere gli uomini a prenderlo sul serio, cioè a lasciarsi indurre, mediante esso, ad un'azione e ritengo scritta inutilmente ogni parola dietro la quale non vi sia un tale invito all'azione; in ogni caso è bene dimostrare che le proposizioni di Schopenhauer, valide per sempre, lo sono ancora una volta e proprio in relazione ai nostri contemporanei più prossimi, perché un ingenuo potreb­be pensare che, dal tempo delle pesanti accuse di Schopenhauer, tutto in Germania si sia volto al meglio. Neppure su questo punto per quanto insi­gnificante, la sua opera è compiuta.

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Osservata più da vicino quella «libertà» di cui lo Stato ora, come ho det­to, fa grazia ad alcuni uomini in favore della filosofia, in realtà non è liber­tà, ma un ufficio che nutre il suo uomo. L'incremento della filosofia dun­que consiste solo nel fatto che al giorno d'oggi almeno un certo numero di uomini è messo in condizione dallo Stato di vivere della propria filosofia, potendo con essa guadagnarsi il pane; mentre gli antichi saggi della Grecia non erano stipendiati dallo Stato, ma al massimo furono una volta, come Zenone, onorati con una corona d'oro e con un monumento funebre sul Ceramico. Se così si serve la verità, mostrando cioè una via per trarre so­stentamento da essa, non sono in grado di affermarlo in generale, perché qui tutto dipende dalla natura e bontà del singolo, a cui si indica questo cammino. Io potrei immaginarmi benissimo un grado di orgoglio e di au­toconsiderazione per cui un uomo dica ai suoi simili: pensate voi a me, per­ché io ho di meglio da fare, cioè pensare a voi. In Platone e Schopenhauer una tale magnanimità di intenti e di espressioni non dovrebbe stupire; per­ché essi potrebbero essere perfino filosofi di università, come del resto Pla­tone fu, per qualche tempo filosofo di corte, senza mortificare la dignità della filosofia. Ma già Kant fu, come noi studiosi di solito siamo, pieno di riguardi, ossequioso e privo di grandezza nel suo rapporto verso lo Stato, in modo tale che comunque, se la filosofia dell'università dovesse essere messa sotto accusa, non potrebbe giustificarsi. Se esistono però nature in grado di farlo — appunto nature come quella di Schopenhauer e Platone — uno solo è il mio timore: non ne avranno mai l'opportunità, perché mai uno Stato oserebbe favorire tali uomini e metterli in quelle posizioni. Per­ché poi? Perché ogni Stato li teme, e favorirà sempre quei filosofi da cui non teme nulla. Succede, infatti, che lo Stato ha comunque paura della fi­losofia e, se cosi stanno le cose, cercherà di attirare a sé quanti più filosofi gli è possibile, che gli diano la parvenza di avere la filosofia dalla sua parte — perché così ha al suo fianco questi uomini che ne portano il nome e, tut­tavia, non incutono alcun timore. Ma se dovesse comparire un uomo che faccia veramente atto di affrontare tutto con il coltello della verità, anche lo Stato, allora Io Stato, poiché prima di tutto afferma la propria esisten­za, è in diritto di escludere da sé un tipo simile e di trattarlo come nemico; proprio allo stesso modo in cui esclude una religione e la tratta come ele­mento ostile, quando questa si ponga al di sopra di lui e ne voglia essere giudice. Se qualcuno, dunque, sopporta di essere filosofo per grazia dello Stato, deve anche sopportare di essere considerato dallo Stato come se avesse rinunciato a perseguire la verità in ogni angolo più nascosto. Alme­no finché è favorito e ha un posto, deve riconoscere al di sopra della verità qualcosa di più elevato, lo Stato. E non solo quello, ma tutto ciò che lo Stato richiede per il suo bene: ad esempio una determinata forma della reli­gione, dell'ordinamento sociale, dell'organizzazione militare — su tutte queste cose c'è scritto noli me tangere. È mai accaduto che un filosofo di università abbia compreso con chiarezza tutta l'estensione dei suoi doveri e delle sue limitazioni? Non lo so; se qualcuno l'ha fatto, rimanendo ugual­mente funzionario statale, è certo come minimo un cattivo amico della ve­rità; se non l'ha mai fatto — allora, dovrei pensare, anche in questo caso non è un amico della verità.

Questa è la perplessità più generale, ma, certo, in quanto tale è per uo­mini come quelli di adesso, la più debole e la più indifferente. Ai più baste­rà alzare le spalle e dire: «come se qualcosa di grande e puro abbia potuto mai dimorare e consolidarsi sulla terra senza fare concessioni alla bassezza umana! Volete dunque che lo Stato perseguiti il filosofo piuttosto che sti-

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pendiarlo e prenderlo al suo servizio?». Senza rispondere già adesso a que­sta domanda, aggiungo solo che queste concessioni della filosofia allo Sta­to sono attualmente molto ampie. In primo luogo, lo Stato si sceglie i suoi servi filosofici e cioè tanti quanti gliene servono per le sue istituzioni; dan­dosi quindi l'aria di poter scegliere fra filosofi buoni e cattivi, anzi, ancora di più, presupponendo che ve ne siano sempre a sufficienza di buoni per occupare tutte le sue cattedre. Si arroga così l'autorità non solo per la bon­tà, ma anche per il numero necessario dei filosofi buoni. In secondo luogo: lo Stato costringe quelli che si è scelto a soggiornare in un luogo determina­to, in mezzo a uomini determinati, per una determinata attività; essi devo­no istruire ogni rampollo accademico che ne ha voglia, e ciò quotidiana­mente a ore stabilite. Domanda: può veramente un filosofo impegnarsi con buona coscienza ad avere ogni giorno qualcosa da insegnare? E insegnarlo a chiunque voglia ascoltare? Non deve forse fare dare l'impressione di sa­pere più di quanto sa? Non deve parlare davanti a un uditorio sconosciuto, di cose di cui potrebbe parlare, senza pericolo, solo con gli amici più pros­simi? E soprattutto: non si priva così della sua splendida libertà — di se­guire il suo genio quando questo chiama e nella direzione che indica — da­to che a ore stabilite è obbligato a pensare in pubblico su cose precedente­mente stabilite? E tutto ciò davanti ai giovani! Un tal modo non è per così dire, a priori svirilizzato? Che succederebbe se un bel giorno egli sentisse: «oggi non posso pensare, non mi viene in mente nulla di sensato» — e tut­tavia dovesse mettersi in cattedra e dare l'impressione di pensare?

Ma, mi si opporrà, non c'è affatto bisogno che sia un pensatore, ma al massimo uno che riflette e che rielabora, soprattutto però un dotto cono­scitore di tutti i pensatori precedenti, dei quali potrà sempre raccontare ai suoi scolari qualcosa che non sanno. — Questa è appunto la terza e perico­losissima concessione della filosofia allo Stato: quando si impegna a pre­sentarsi in primo luogo e principalmente come erudizione. Soprattutto co­me conoscenza della storia della filosofia: mentre per il genio che, simile al poeta, guarda alle cose con purezza e amore e non può immergersi mai ab­bastanza a fondo, il frugare tra opinioni estranee e distorte è forse l'attivi­tà più ripugnante e più fastidiosa. La storia erudita del passato non fu mai compito di un vero filosofo, né in India né in Grecia; e un professore di fi­losofia se si occupa di un lavoro simile, deve accontentarsi che di lui si di­ca, nel migliore dei casi, è un valente filologo, antiquario, linguista, stori­co, ma mai: è un filosofo. E questo, come ho detto, solo nel migliore dei casi: perché per la maggior parte dei lavori eruditi fatti da filosofi delle università, un filologo avverte che sono fatti male, senza rigore scientifico e, per lo più, di una noia odiosa. Chi libererà, ad esempio, la storia dei fi­losofi greci da quell'alone soporifero che vi hanno soffuso i lavori «erudi­ti», ma non del tutto scientifici, e purtroppo anche assai noiosi di Ritter, Brandis e Zeller? Per quanto mi riguarda preferisco leggere Diogene Laer­zio che Zeller, perché in lui almeno vive Io spirito degli antichi filosofi, in questo non c'è né quello né un altro spirito qualsiasi. E, infine, per tutti i diavoli: che cosa gliene importa ai nostri giovani della storia della filoso­fia? Forse la confusione delle opinione deve scoraggiarli dall'avere opinio­ni proprie? Debbono imparare a unire la propria voce al giubilo per i nostri magnifici progressi? O devono forse addirittura imparare a odiare la filo­sofia e a disprezzarla? Si sarebbe indotti a pensare a quest'ultima possibili­tà, considerando quale martirio è per gli studenti, nei loro esami di filoso­fia, imprimere nel loro povero cervello le idee più sottili e più folli dello spiri­to umano, accanto a quelle più grandi e più difficili da comprendere. L'unica

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critica di una filosofia, che è possibile e che dimostra anche qualcosa, cioè il tentare se si possa vivere secondo essa, non è stata insegnata nelle univer­sità: ma, sempre, la critica delle parole alle parole. Ed ora si pensi ad una giovane mente con poca esperienza nella vita, in cui vengono immagazzi­nati cinquanta sistemi ridotti a parole e cinquanta critiche dei medesimi, l'uno accanto all'altro e l'uno confuso con l'altro — che desolazione, che imbarbarimento, quale sprezzo per una educazione alla filosofia! In effetti il giovane, come pure si ammette, non è affatto educato alla filosofia, ben­sì ad un esame filosofico: il cui esito di solito è, com'è noto, che l'esamina­to — anche troppo esaminato! — confessa a se stesso con un sospiro di sollievo: «Dio sia lodato, non sono un filosofo, ma un cristiano e un citta­dino del mio Stato!».

E se questo sospiro di sollievo, fosse, appunto, l'intenzione dello Stato e P«educazione alla filosofia» solo un modo per allontanare dalla filosofia? È una domanda da porsi. — Ma se le cose stessero così, ci sarebbe da teme­re soltanto che la gioventù finisse per rendersi conto del perché la filosofia venga così maltrattata. Ciò che vi è di più alto, la generazione del genio fi­losofico, non sarebbe nient'altro che un pretesto? Lo scopo, forse, impe­dirne proprio la generazione? Il senso stravolto nel controsenso? Allora, guai a tutto il complesso della furberia statale e professorale! —

Forse qualcosa del genere è già di pubblico dominio? Non lo so; comun­que la filosofia delle università è caduta nel disprezzo e nel sospetto gene­rale. In parte ciò dipende dal fatto che, attualmente, una generazione de-boluccia occupa le cattedre; e Schopenhauer, se dovesse scrivere ora il suo trattato sulla filosofia delle università, non avrebbe più bisogno della cla­va, ma vincerebbe con una canna di giunco. Sono gli eredi e gli epigoni di quegli pseudopensatori sulle cui teste troppo contorte si abbatteranno i suoi colpi; essi si comportano come lattanti e nanerottoli quanto basta per ricordare il detto indiano: «gli uomini, secondo le loro azioni, vengono ge­nerati stupidi, sordi, muti o deformi». Quei padri meritano una tale di­scendenza secondo le loro «azioni», come afferma quel detto. Non v'è dubbio alcuno, perciò, che i giovani accademici faranno ben presto a meno di quella filosofia che viene insegnata loro nella università, e che gli uomi­ni, al di fuori dell'ambito accademico, già ora se la cavano senza. Basti pensare ai tempi in cui eravamo studenti; per me, ad esempio, i filosofi ac­cademici erano delle persone assolutamente indifferenti e mi parevano gen­te intenta a rimestare qualcosa per sé dai risultati delle altre scienze, perso­ne che nelle ore di ozio leggevano o andavano ai concerti e che, del resto, venivano trattati dagli stessi compagni di accademia con una disistima cor­tesemente mascherata. Di loro si pensava che sapevano poco e che erano sempre pronti a ricorrere a un oscuro giro di parole per nascondere questa mancanza di sapere. Preferivano perciò trattenersi in quei luoghi crepusco­lari, dove un uomo dallo sguardo chiaro non resiste a lungo. Uno rimpro­verava alle scienze naturali: nessuno può pienamente spiegarmi il più sem­plice divenire, che cosa mi importa dunque di tutte quante? Un altro dice­va della storia: «a chi ha idee, essa non dice nulla di nuovo» — in breve es­si trovano sempre argomenti per cui sarebbe più filosofico non sapere nul­la che imparare qualcosa. Se si dedicavano allo studio, loro impulso comu­ne era sfuggire alle scienze e fondare un regno tenebroso in qualche loro la­cuna o in qualche campo rimasto non illuminato. Così precorrevano le scienze soltanto nel senso in cui la selvaggina precorre i cacciatori che la in­seguono. Ultimamente si compiacciono di affermare di essere solo le guar­die di confine e i controllori delle scienze; per ciò è loro particolarmente

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utile la dottrina kantiana, che si adoperano a trasformare in un apatico scetticismo, di cui ben presto nessuno si preoccuperà più. Qua e là, ogni tanto, qualcuno di loro si lancia in una piccola metafisica, con le abituali conseguenze, cioè capogiro, dolor di testa e sangue dal naso. Dopo aver tante volte fallito in questo viaggio nella nebbia e nelle nuvole, dopo che qualche discepolo della vera scienza, rude e testardo, non ha fatto altro che prenderli per il ciuffo e tirarli giù, il loro volto assume l'espressione con­sueta di affettazione di chi è stato sbugiardato. Essi hanno perduto del tut­to la fiducia gioiosa, tanto che nessuno vive più, neppure un tantino, per la sua filosofia. Un tempo alcuni di loro credevano di poter inventare nuove religioni, o di poter sostituire con i loro sistemi le vecchie; ora tale presun­zione li ha abbandonati, sono per lo più gente pia, timida e oscura, mai co­raggiosa come Lucrezio, e mai incolleriti per l'oppressione che grava sugli uomini. Da loro neppure il pensiero logico si può più imparare, e, in una naturale stima delle proprie forze, hanno abolito perfino i consueti esercizi dialettici. Senza dubbio ora nelle singole scienze si è più logici, più cauti, più modesti, più ingegnosi, in breve si procede più filosoficamente in que­sti campi di quanto non procedano i cosiddetti filosofi nel proprio: sicché chiunque sarà d'accordo con quello spregiudicato inglese che è Bagehot, il quale, degli attuali costruttori di sistemi, dice: «Chi non è quasi anticipata­mente convinto che le loro premesse sono una strana mescolanza di verità ed errore e che perciò non vale la pena di meditare sulle conseguenze? L'a­spetto conchiuso di questi sistemi forse attira la gioventù e fa effetto sugli inesperti, ma uomini maturi non se ne lasciano abbagliare. Essi sono sem­pre pronti ad accogliere favorevolmente indicazioni e supposizioni e la più piccola verità è per loro benvenuta — ma un grosso libro di filosofia de­duttiva invece suscita diffidenza. Innumerevoli principi astratti e non di­mostrati vengono precipitosamente raccolti da queste persone sanguigne e accuratamente diluiti in libri e teorie per chiarire per mezzo loro tutto il mondo. Ma il mondo non si preoccupa di queste astrazioni e non c'è da meravigliarsi, giacché queste sono tra loro contraddittorie». Se un tempo, soprattutto in Germania, il filosofo era immerso in così profonde riflessio­ni da essere sempre in pericolo di sbattere la testa in ogni trave, oggi, come Swift racconta dei Lapuziani, è assistito da un'intera schiera di battitori, che, al momento buono gli danno un dolce colpo sugli occhi o altrove. Di tanto in tanto questi colpi possono essere anche troppo forti, allora i «fuo­ri dal mondo» si dimenticano di se stessi e picchiano a loro volta, il che pe­rò va sempre a finire con loro vergogna. «Ma non vedi la trave, minchione che non sei altro?» dice allora il battitore; e effettivamente il filosofo vede la trave e si rabbonisce. Questi battitori sono le scienze naturali e la storia; esse, un poco alla volta, hanno così intimidito quella sorta di pasticcio te­desco tra sogno e pensiero, scambiato per tanto tempo con la filosofia, che quei pensatorucoli rinuncerebbero anche troppo volentieri al tentativo di procedere autonomamente; ma se, inavvertitamente, cadono nelle braccia di quei battitori, o se vogliono legar loro delle dande per esser guidati essi stessi, quelli allora subito strepitano il più paurosamente possibile, come se volessero dire: «ci mancava soltanto che un pensatore da quattro soldi ci imbrattasse le scienze naturali e la storia! Fuori!». Allora, traballando, ri­tornano alla loro insicurezza e perplessità: assolutamente vogliono avere tra le mani un po' di scienza naturale, qualcosa tipo la psicologia empirica, come gli herbartiani, e ad ogni costo anche un po' di storia —così infatti, almeno pubblicamente, darsi le arie di avere un'occupazione scientifica,

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anche se nel loro intimo mandano al diavolo tutta la filosofia e la scien­za—.

Ma ammesso che questa schiera di cattivi filosofi è ridicola — e chi non lo ammetterebbe? — fino a che punto sono anche dannosil Per rispondere brevemente: lo sono perché rendono ridicola la filosofia. Finché durerà questo pseudo modo di pensare, riconosciuto dallo Stato, ogni grandioso effetto di una vera filosofia sarà vanificato o, almeno, ostacolato e da niente altro se non dalla maledizione del ridicolo, che i rappresentanti di quella grande cosa hanno attirato su di sé ma che colpisce la cosa stessa. Perciò io dico che è un'esigenza della cultura sottrarre alla filosofia qual­siasi riconoscimento statale o accademico e esonerare lo Stato e l'accade­mia da quel compito per loro inassolvibile, di distinguere tra filosofia vera e apparente. Lasciate, comunque, che i filosofi crescano selvaggiamente, negate loro ogni prospettiva di un posto e di un inserimento nelle profes­sioni borghesi, non sollecitateli più con stipendi, anzi ancor di più: perse­guitateli, siate maldisposti nei loro confronti — e vedrete cose meraviglio­se! Allora quei poveri filosofi apparenti si disperderanno e cercheranno qua e là un tetto: qui si apre una parrocchia, lì una scuola, questo si rifugia in una redazione di giornale, quello scrive manuali per scuole femminili su­periori, il più ragionevole di loro afferra l'aratro, e il più vanesio va a cor­te. Improvvisamente tutto è vuoto, il nido è abbandonato: è facile infatti liberarsi dai cattivi filosofi, basta non favorirli più. E ciò è certo più consi­gliabile che patrocinare pubblicamente, attraverso lo Stato, una filosofia, qualunque essa sia.

Lo Stato non si è mai preoccupato della verità, ma solo di quella verità che gli è utile, o, per essere più esatti, di tutto ciò che gli è utile, sia esso ve­rità, mezza verità o errore. Un'alleanza tra filosofia e Stato ha, dunque, senso solo se la filosofia può impegnarsi ad essere incondizionatamente utile allo Stato, il che significa stimare l'utilità dello Stato più importante della verità. Certo, per lo Stato sarebbe magnifico avere al suo servizio e al suo stipendio anche la verità; ma sa molto bene che è proprio dell''essenza della verità non essere mai a servizio, e non prendere mai mercede. Quindi in ciò che ha, lo Stato possiede solo la falsa «verità», una persona con una maschera; ma questa, purtroppo, non può certo fornirgli ciò che tanto anela dalla autentica verità: la sua legittimazione e santificazione. Se un principe medievale voleva essere incoronato, ma non riusciva a ottenerlo dal papa, nominava un antipapa che gli rendeva questo servigio. Il che, fi­no a un certo punto, poteva anche andare: non va però che lo Stato moder­no nomini un'antifilosofia da cui vuole essere legittimato; avrà, infatti, sempre contro di sé, come prima e anzi più di prima, la vera filosofia. In tutta serietà credo che gli sia più utile non occuparsi proprio della filosofia, non chiederle nulla e lasciarla stare, finché è possibile, come qualcosa di indifferente. Se non si riesce a mantenere l'indifferenza e la filosofia diven­ta pericolosa e aggressiva per lo Stato, allora la perseguiti pure. — Dato che lo Stato non può avere per l'università altro interesse che quello di edu­care mediante essa cittadini sottomessi e utili, dovrebbe preoccuparsi di non mettere in pericolo questa sottomissione e questa utilità pretendendo dai giovani un esame di filosofia: certo pensando alle teste neghittose e po­co dotate può anche essere il giusto deterrente dallo studio della filosofia farne, appunto, uno spauracchio da esame; ma un tale profitto non basta a compensare i danni che questa stessa forzata occupazione può provocare in giovani temerari e inquieti: essi vengono a contatto con libri proibiti e cominciano a criticare i loro maestri e finiscono per comprendere lo scopo

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della filosofia delle università e di quegli esami — per non parlare poi delle perplessità in cui possono cadere giovani teologi in tale occasione, e di con­seguenza estinguersi in Germania, come gli stambecchi nel Tirolo. — So bene quali potevano essere le obiezioni dello Stato a quanto ho appena det­to, finché la bella hegelianeria lussureggiava verde su tutti i prati; ma dopo che la grandine ha bruciato questo raccolto e, di tutto quanto ci si attende­va da questa filosofia, nulla si è adempiuto e tutti i granai sono rimasti vuoti — è meglio non ribattere nulla e distogliere l'interesse dalla filosofia. Ora si ha il potere; allora, al tempo di Hegel, si voleva averlo — questa è una grande differenza. Ormai lo Stato non ha più bisogno della sanzione della filosofia e perciò essa gli è divenuta superflua. Se Io Stato non man­terrà più le sue cattedre, o, come presumo che succederà in un prossimo fu­turo, lo farà solo apparentemente e con trascuratezza, ne avrà la sua utilità — tuttavia mi sembra più importante che anche l'università ci veda un pro­prio vantaggio. Almeno dovrei pensare che un luogo di vera scienza do­vrebbe sentirsi favorito dall'essere liberato dalla promiscuità con scienze che sono tali solo per metà o per un quarto. Inoltre la rispettabilità delle università è diventata qualcosa di troppo raro, per non doversi augurare in linea di principio l'abolizione di quelle discipline che gli stessi accademici non stimano. I non accademici, infatti, hanno buoni motivi per un certo disprezzo generale verso le università; essi rimproverano loro di essere vili, che le piccole temono le grandi, e che le grandi temono l'opinione pubbli­ca, che in tutte le questioni di cultura superiore non sono all'avanguardia, ma seguono zoppicando lentamente e in ritardo; che non è perfino più ri­spettata la direttiva fondamentale di autorevoli scienze.

Per esempio non ci si è mai così alacremente curati di studi linguistici co­me oggi, senza però considerare necessaria per se stessi una severa educa­zione allo scrivere e al parlare. L'antichità indiana ci ha aperto le sue por­te, e i suoi conoscitori hanno con le opere immortali degli Indiani e con la loro filosofia un rapporto poco diverso da quello degli animali con la lira; sebbene Schopenhauer reputasse la conoscenza della filosofia indiana uno dei maggiori vantaggi che il nostro secolo aveva sugli altri. L'antichità classica è diventata un'antichità qualsiasi e non agisce più come classica ed esemplare; come lo dimostrano i suoi seguaci, che, certo, non sono uomini esemplari. Dove è finito lo spirito di Friedrich August Wolf, di cui Franz Passow poteva dire che sembrava un puro spirito autenticamente patriotti­co e umano, che avrebbe avuto la forza di mettere in fermento e in fiamme un continente — dov'è questo spirito? Di contro lo spirito dei giornalisti si insinua sempre più nelle università e spesso sotto il nome della filosofia: una esposizione piana e abbellita, Faust e Nathan il Saggio sulle labbra, il linguaggio e le opinioni dei nostri ributtanti giornali letterari, di recente anche chiacchiere sulla nostra sacra musica tedesca, e perfino la richiesta di cattedre per Goethe e Schiller — tutti segni questi che indicano come lo spirito dell'università continui a confondersi con lo spirito del tempo. Per­ciò mi sembra del massimo valore che al di fuori delle accademie sorga un tribunale superiore, che sorvegli e giudichi anche queste istituzioni in rela­zione al tipo di educazione che esse promuovono; e non appena la filosofia abbandonerà le università, purificandosi così da tutti gli indegni scrupoli e mascherature, essa non potrà essere altro che un simile tribunale: senza po­tere statale, senza stipendi e onori, saprà rendere il suo servizio libera dallo spirito del tempo e dalla paura di questo, per dirla in breve, vivendo come Schopenhauer, quale giudice della cosiddetta cultura che lo circondava.

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Così il filosofo può essere utile anche all'università se non si mescola ad es­sa, ma la guarda da una certa, dignitosa distanza.

Ma alla fine — a che ci serve l'esistenza di uno Stato, l'incremento delle università, se è innanzitutto in gioco l'esistenza della filosofia sulla terra! o — per non lasciare più alcun dubbio su ciò che intendo — quando importa indicibilmente di più che sulla terra nasca un filosofo, piuttosto che conti­nuino ad esistere uno Stato o un'università. Nella misura in cui l'asservi­mento alle opinioni pubbliche e il pericolo per la libertà aumentano, può elevarsi la dignità della filosofia; essa raggiunse il suo apice durante il ter­remoto della repubblica romana morente o nell'epoca imperiale in cui il suo nome e quello della storia divennero ingrata princibus nomina. Bruto testimonia più di Platone per la sua dignità; sono queste le epoche in cui l'etica smise di contenere luoghi comuni. Se oggi la filosofia non è molto rispettata, ci si chieda soltanto come mai nessun grande condottiero o uo­mo di Stato si proclami oggi suo seguace — soltanto perché quando la cer­cò gli si fece incontro solo un fantasma infiacchito col nome di filosofia, quella erudita saggezza e circospezione della cattedra, insomma perché, ben presto, per lui la filosofia diventò una cosa ridicola. Mentre avrebbe dovuto essere una cosa terribile; e gli uomini che sono chiamati a cercare il potere dovrebbero sapere quale fonte di eroismo scorra in essa. Un ameri­cano può dir loro che cosa significa un grande pensatore che venga su que­sta terra come un centro di forze immense: «State bene attenti — dice Emerson — quando il gran Dio fa scendere sul nostro pianeta un pensato­re! Tutto allora è in pericolo. È come se sia scoppiato un incendio in una grande città, dove nessuno sa sicuramente che cosa sia e quando finirà. Al­lora non c'è nulla nella scienza che non possa domani essere capovolto, non vale più alcuna reputazione letteraria e tanto meno le cosiddette cele­brità eterne: tutto ciò che è caro e prezioso per l'uomo in quel momento lo è solo in base alle idee che si sono affermate sul suo orizzonte spirituale e che sono la causa dell'attuale ordinamento delle cose, così come un albero porta i suoi frutti. Un nuovo grado di cultura sottoporrebbe in un attimo a un rovesciamento l'intero sistema delle aspirazioni umane». Dunque, se questi pensatori sono pericolosi, allora è certamente chiaro perché i loro pensieri crescono così pacificamente nella tradizione, come soltanto un al­bero ha portato i suoi frutti; essi non incutono timore, essi non scardina­no; e di tutto il loro darsi da fare si dovrebbe dire ciò che Diogene da parte sua obiettò, una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: «Che cosa di grande può mai mostrare, se da tanto si occupa di filosofia, e non ha an­cora turbato nessuno?». Proprio così si dovrebbe scrivere sulla lapide della filosofia delle università: «Non ha turbato nessuno». Ma questa è più la lo­de di una anziana donna che di una dea della verità, e non c'è da stupirsi se coloro che conoscono questa dea solo come una vecchietta sono essi stessi poco uomini e perciò, a buon diritto, non vengono più tenuti in alcuna considerazione dagli uomini del potere.

Ma se questa è la situazione nel nostro tempo, allora la dignità della filo­sofia è calpestata nella polvere: sembra che essa stessa sia diventata qual­cosa di ridicolo o indifferente: cosicché tutti i suoi veri amici sono tenuti a render testimonianza contro questo equivoco o, per lo meno, a mostrare che soltanto quei falsi servitori e quegli indegni rappresentanti della filoso­fia sono ridicoli e indifferenti. Meglio ancora se con l'azione dimostrano che l'amore per la verità è qualcosa di terribile e violento.

Questo e quello dimostrò Schopenhauer — e lo dimostrerà ogni giorno di più.