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Gabriella Addivinola (University of Warwick): Rispecchiare il mondo: Narciso e le “nominate cose” nel canto III del Paradiso Durante il XII secolo la riflessione teologica tende ad acquisire un carattere sistematico, distinguendosi progressivamente dai commentari biblici. In questo processo la teoria grammaticale svolge un ruolo fondamentale, in quanto l’analisi dei procedimenti di significazione e di espressione del dato rivelato si sviluppa utilizzando proprio i suoi strumenti e attirando, come sottolinea Chenu, “gli stessi anatemi che, nel XX secolo, suscitò il metodo storico”. Le teorizzazioni legate all’impiego del linguagg io umano per trattare delle realtà divine vengono progressivamente elaborate focalizzandosi sull’analisi linguistica di termini e proposizioni e in seguito sulle modalità secondo cui le parole sono create e comprese nell’atto comunicativo, con un passaggio dalla grammatica alla psicologia e alla gnoseologia. Utilizzando questo quadro storico il mio intervento si propone di indagare come le problematiche relative all’esegesi del testo vengano tematizzate attraverso la figura di Narciso nella Divina Commedia, un poema che si presenta al lettore come una visione infusa da Dio e che dunque rivendica le stesse caratteristiche del testo sacro. Nel Medioevo la figura di Narciso è associata non soltanto al tema della sterile ossessione amorosa, ma anche all’immaginazione che stimola l’invenzione poetica. In Paradiso III Dante mette in atto un complesso sistema di rovesciamenti afferma infatti di cadere nell’“error contrario” a quello del personaggio mitologico – la cui analisi permette di mettere in evidenza la complessa relazione che lega visione, rappresentazione e conoscenza nella scrittura dantesca. Per misurare la distanza dell’operazione compiuta dall’Alighieri rispetto a quella dei suoi predecessori è utile comparare il suo impiego della figura di Narciso con quello che ne viene fatto da Alano di Lilla in un altro componimento che si presenta come una visio in somniis, il De Planctu Naturae (1160-1165?). In questo testo Narciso è evocato nella descrizione che Natura fa del pervertimento delle sue leggi da parte degli uomini, che ha come controparte la rottura delle regole grammaticali: la lira di Orfeo delira, e l’uomo non riconoscendo se stesso e amandosi, devia dall’ortografia di Venere e diventa un “sophista falsigraphus”.

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Gabriella Addivinola (University of Warwick): Rispecchiare il mondo: Narciso e le “nominate

cose” nel canto III del Paradiso

Durante il XII secolo la riflessione teologica tende ad acquisire un carattere sistematico,

distinguendosi progressivamente dai commentari biblici. In questo processo la teoria

grammaticale svolge un ruolo fondamentale, in quanto l’analisi dei procedimenti di

significazione e di espressione del dato rivelato si sviluppa utilizzando proprio i suoi strumenti e

attirando, come sottolinea Chenu, “gli stessi anatemi che, nel XX secolo, suscitò il metodo

storico”.

Le teorizzazioni legate all’impiego del linguaggio umano per trattare delle realtà divine vengono

progressivamente elaborate focalizzandosi sull’analisi linguistica di termini e proposizioni e in

seguito sulle modalità secondo cui le parole sono create e comprese nell’atto comunicativo, con

un passaggio dalla grammatica alla psicologia e alla gnoseologia.

Utilizzando questo quadro storico il mio intervento si propone di indagare come le problematiche

relative all’esegesi del testo vengano tematizzate attraverso la figura di Narciso nella Divina

Commedia, un poema che si presenta al lettore come una visione infusa da Dio e che dunque

rivendica le stesse caratteristiche del testo sacro.

Nel Medioevo la figura di Narciso è associata non soltanto al tema della sterile ossessione

amorosa, ma anche all’immaginazione che stimola l’invenzione poetica. In Paradiso III Dante

mette in atto un complesso sistema di rovesciamenti – afferma infatti di cadere nell’“error

contrario” a quello del personaggio mitologico – la cui analisi permette di mettere in evidenza la

complessa relazione che lega visione, rappresentazione e conoscenza nella scrittura dantesca.

Per misurare la distanza dell’operazione compiuta dall’Alighieri rispetto a quella dei suoi

predecessori è utile comparare il suo impiego della figura di Narciso con quello che ne viene

fatto da Alano di Lilla in un altro componimento che si presenta come una visio in somniis, il De

Planctu Naturae (1160-1165?). In questo testo Narciso è evocato nella descrizione che Natura fa

del pervertimento delle sue leggi da parte degli uomini, che ha come controparte la rottura delle

regole grammaticali: la lira di Orfeo delira, e l’uomo non riconoscendo se stesso e amandosi,

devia dall’ortografia di Venere e diventa un “sophista falsigraphus”.

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Rosa Affatato (Universidad Complutense de Madrid): Interpretazione allegorica e orizzonte del reale

nei proemi dei primi commentatori della Commedia

I primi commenti alla Commedia sono i primi mediatori tra l’opera dantesca e il pubblico del

Trecento e del primo Quattrocento. Sono essi stessi il primo “pubblico”, i primi lettori, secondo

quanto scrive S. Bellomo, e quella che trasmettono nei loro commenti è una visione ideologica –

consapevole o no- della realtà che analizzano attraverso il poema. Troviamo degli esempi a

cominciare dai proemi di alcuni dei primi commentatori, attraverso i verbi utilizzati per spiegare

l'allegoria nella Commedia: dimostrare, correspondēre, interpretare o addirittura essere, ognuno dei

quali fa riferimento a un proprio paradigma mentale e apre a un differente orizzonte del reale. Come

intellettuali, i commentatori rivelano l’eterodossia o l’ortodossia del poema dantesco attraverso

quello che potremmo definire l’inconscio letterario della borghesia medievale che sta cercando di

affermare la propria individualità a livello sociale, in una specie di processo di individuazione

collettivo che trova nella Commedia e nella lingua volgare, per richiamare la tesi di R. Imbach,

l’opera comune di riferimento. riferimento.

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Cristina Barbolani (Universidad Complutense de Madrid: Da Petrarca a Dante attraverso il

commento del Landino (una tappa del percorso verso l’ortodossia tridentina)

Nel secondo Quattrocento fiorentino la Commedia, da tempo presente nell’immaginario

collettivo popolare, diventa oggetto di promozione ufficiale nel circolo colto dell’Accademia

ficiniana ad opera di Cristoforo Landino e del suo famoso Comento (1481). Tale recupero del

poeta ingiustamente esiliato, la cui figura viene considerata esemplare accanto a quella del

Petrarca, implicherà una nuova proposta di lettura globale del capolavoro dantesco. Sorvolando

sull’interpretazione allegorica eccessivamente minuziosa dei commenti anteriori, il poema sacro

verrà equiparato all’epica latina e greca, e il Dante theologus nullius dogmatis expers riletto alla

stregua degli autori classici, anch’essi considerati teologi nell’aspirazione umanistica a un

sincretismo culturale pagano-cristiano. Ciò non toglie però che si continui ad insistere sulla

figura di un Dante autore di preghiere e devoto figlio della Chiesa, ribadendone l’ortodossia

cattolica in una prospettiva che, attraverso il concilio tridentino, continuerà fino ai giorni nostri.

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Lorenzo Bartoli (Universidad Autónoma de Madrid): “Tu, cui colpa non condanna”: Dante e la

poetica della colpa.

Il concetto di colpa è plutivettoriale: possiamo affrontarlo dalla prospettiva religiosa, giuridica,

psicologica (e psicolanalitica), antropologica, filosofica; nella dimensione pubblica (o politica) e

in quella privata, come colpa collettiva o individuale, soggettiva o oggettiva.

Dal punto di vista storico culturale, questa complessa rete si va intessendo a partire dall’epoca

appena precedente quella di Dante, ovvero, per esattezza dal Concilio Laterano IV del 1215 nel

quale, sotto l’egida di Innocenzo III, la Chiesa stabilisce, contestualmente, la professione di fede,

l’istituzione della inquisizione, e l’obbligo di confessione. Mentre il diritto recuperava la

centralità della confessione come regina probationum nel Digesto giustinianeo riscoperto nel

1070, e penetrato nel sistema giuridico imperiale attraverso Federico II, la chiesa costruiva un

complesso sitema di exculpazione/incolpazione che, incentrato sulla confessione, conservava

tuttavia uno sfondo dichiaratamente politico-inquisitoriale, a colofón di quella Crociata contro

gli Albigesi che marcò la fine, di fatto, della tradizione trovadorica.

La Commedia di Dante nasce in questo contesto storio-culturale, accentuato e rispecchiato, dalla

sua personale traiettoria biografico-psicologica. La colpa e la condanna dominano lo schema

poetico del testo, costituiscono l’essenza del suo allegorismo, oltre ad informarne la diegesi

stessa. La condanna all’esilio del 1302 e la condanna a morte di Dante Alighieri, del 1315,

riflettono cetamente la situazione politica medioevale, ma sono anche i segni personali

dell’universo biografico, psicoanalitico e creativo di Dante . E il problema della colpa e della sua

confessione, con la complessità allegorica di incolpazione/exculpazione, domina la biografia e la

poetica dantesa della Commedia e particolarmente dell’Inferno: da Francesca a Ugolino.

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Johhanes Bartuschat (Universität Zürich): Dante politico: elementi del pensiero politico dantesco

tra Convivio, Monarchia e Commedia e la fondazione del pensiero politico moderno

La conferenza intende indagare un particolare aspetto del pensiero politico dantesco, quello

relativo alla “civitas” e alla nozione di “cittadinanza”. Questo tema viene analizzato sullo sfondo

dell´aristotelismo politico duecentesco e della diffusione della nozione aristotelica dell´uomo

come “essere politico”. La prima parte pertanto presenta alcune fonti contemporanee, tra cui le

opere di Brunetto Latini e i trattati di Remigio de´ Girolami, in cui il concetto di un legame

naturale tra l´individuo e la società viene elaborata in modo particolarmente pregnante. La

seconda parte, relativa a Dante, cerca di ricostruire il significato e la portata di queste concezioni

nel quarto trattato del Convivio, nella Monarchia e nell´ottavo canto del Paradiso. Pur

prendendo le distanze dal modello comunale propugnato da Brunetto e Remigio de´ Girolami,

Dante continua a sviluppare la sua concezione dell´uomo come cittadino e della città come luogo

necessario alla realizzazione della natura umana. All´interno di questa tematica – di cui si spera

di dimostrare la centralità per la riflessione politica dantesca - un´attenzione particolare sarà

dedicata alla tensione tra la molteplicità (ossia la diversità e pluralità degli individui e dei loro

talenti) e l´unità, intesa come unità politica, garante della pace. La conclusione cercherà di

inserire questa problematica in una prospettiva storica più vasta, quella della nascita del pensiero

politico moderno, tra la fine del Medioevo e il Rinascimento.

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Francesco Benozzo (Università di Bologna): Lo smembramento iniziatico di Dante (riflessioni

eterodosse sulla dantistica ortodossa)

Partendo dall'inquietante considerazione che sono attualmente noti circa 650.000 studi dedicati a

Dante e alla sua opera, questo intervento intende aprire alcune riflessioni sullo stato della

dantistica italiana e internazionale, a partire dall'immagine, di ascendenza iniziatico-sciamanica,

dello smembramento di Dante e dei suoi testi, per arrivare a qualche proposta - in una specie di

anti-decalogo a favore del poeta e contro i suoi vivisettori - che mira a mettere in atto concrete

strategie di tutela dei testi danteschi. Il caso di Dante non rappresenta che l'emblematica punta di

diamante delle ormai proliferanti e insostenibili elucubrazioni autoreferenziali di una critica

sempre meno capace di farsi attraversare dal "grande brivido" (Coomaraswamy) della parola

poetica e letteraria, e sempre più attratta dalla pratica della glossa intertestuali e dl commento

formale.

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Alessandro Bennucci (Université Paris Ouest Nanterre La Défense-Centre de Recherches

Italiennes, CRIX): La Processione santa di Paradiso XXIII : trionfo classico o visione mistica?

La nostra comunicazione si propone di analizzare la descrizione della visione del trionfo di

Cristo che appare a Dante e Beatrice nel primo canto dedicato al cielo delle Stelle Fisse, cioé il

canto XXIII del Paradiso. Nello specifico, il nostro obiettivo è quello di arrivare a una

ricostruzione il più fedele possibile dell’architettura dell’apparizione e della disposizione interna

dei personaggi che vi prendono parte e degli eventi che li coinvolgono, dando particolare rilievo

alla ricchezza semantica dei termini impiegati nella descrizione (campo semantico militare)

Il punto di partenza della nostra indagine è un confronto accurato con l’esegesi antica al canto : i

primi commentatori, infatti, tenendo conto della cospicua presenza di lessico militare (trionfo,

schiera, turbe) sono per lo più concordi nell’attribuire al tripudio di luci che invade la scena le

caratteristiche strutturali proprie di una processione bellica classica ; un trionfo, dunque, come

quelli dell’antica Roma, che continuerebbe a vivere nell’immaginario cristiano medievale (arti

figurative, sermoni) e che traducevano una noto concetto della cristianità, il Cristo trionfatore e

la Chiesa Trionfante.

Ciononostante, si costata come sin da subito la descrizione dell’apparizione si allontani dallo

stereotipo della parata militare per avvicinarsi, invece, a scene tipiche dei raptus estatici e delle

visioni mistiche, comuni in questa cantica : luci, fiamme, lucerne sante formeranno in realtà una

struttura circolare, un « bel giardino / che sotto i raggi di Cristo s’infiora » [Pd. XXIII, 71-72], un

trionfo che diffonde tutto intorno luci e colori.

Di fronte a questa apparente contraddizione, si impone una riconsiderazione degli usi dei termini

militari del canto XXIII del Paradiso

Il nostro compito sarà dunque quello di mettere in luce le sfumature di signficato dei vocaboli

che descrivono l’evento, per valutare il ruolo che svolgono in questa selezione lessicale le

reminiscenze scritturali e patristiche e le suggestioni della mistica medievale. Una tale

operazione ci permetterà nella parte conclusiva di riflettere sul significato della poesia del

Paradiso e in particolare sul generale ripensamento cui Dante sottopone il lessico adoperato

nella descrizione delle ultime meraviglie paradisiache.

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Simone Tarud Bettini (Università di Bologna-Fondazione M. Pellegrino): Memoria,

immaginazione e creazione letteraria nellaa Vita nova

Fin dall'inizio, la Vita nova di Dante appare connotata come un'opera strettamente connessa alla

memoria: dal ricordo di Beatrice e dei fatti della vita del poeta incentrati su di lei nasce il

desiderio di raccontare, la narrazione dell'amore e dei suoi sviluppi, in vita e poi in morte della

donna amata. Memoria e creazione letteraria sono strettamente connesse, e non si darebbe la

seconda senza la prima.

Accanto al ruolo della memoria, è però indispensabile sottolineare all'interno del libello il ruolo

attivo (e creativo) della facoltà immaginativa. Capace di lavorare attivamente sulle immagini

sensoriali (in primo luogo visive) ricevute dal cervello e conservate nella memoria, essa è la

fonte primaria della creazione letteraria dantesca, lo strumento indispensabile, in particolare, per

la trasformazione dei fatti vissuti in prima persona dal poeta (raccontati dalla prosa) in eventi

rivissuti e reinterpretati nella propria interiorità e nella propria memoria alla luce dell'amore per

Beatrice (raccontati dalla poesia). L'uso esperto e attento, da parte di Dante autore, delle

conoscenze del tempo in materia di scientia de anima sull'attività di memoria e facoltà

immaginativa consente alla Vita nova di mettere in scena descrizioni di visioni dirette poi

rielaborate con l'aggiunta di elementi non direttamente presenti nella memoria (ad esempio

l'apparizione di Amore nella cavalcata fuori da Firenze); di descrivere vere e proprie

«ymaginationi» interamente accadute nella mente del poeta, eppure saldamente ancorate alla

realtà della vita e dell’interiorità di Dante, poi trasformate in poesia (ad esempio la visione di

Amore nell’anniversario dell’innamoramento stesso, appunto collocata nella mente di Dante,

seguita dalla comparazione fra Giovanna e Beatrice); di giocare costantemente fra il piano, per

così dire, della realtà storica e il piano dell’immaginazione, facendo sì che al lettore appaia

naturale accettare come connessa agli eventi della prosa la creazione letteraria di poesie scritte in

realtà anteriormente (e magari rielaborate in occasione del libello), e facendo sì che al lettore

appaia veritiero ogni aspetto della vicenda raccontata, proprio perché raccontato dalle e nelle

leggi scientifiche dell’immaginazione.

Il gioco dei rapporti fra memoria, immaginativa e creazione letteraria si fa poi particolarmente

interessante alla conclusione del libello. L’apparizione, al poeta affranto per la morte di lei, di

Beatrice con lo stesso aspetto del primo fatale incontro, in qualità di autentica imago agens

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memoriale, è il motore sia del ritorno all’amore per lei sia della scrittura stessa del libello,

dapprima progettata e limitata al sonetto Lasso, per forza di molti sospiri, poi estesa al recupero

dell’intera vicenda e alla scrittura del libello stesso. La visione dei pellegrini diretti a Roma a

vedere l’immagine del volto di Cristo e non a conoscenza dei fatti di Beatrice è lo stimolo al

desiderio di scrivere, ai pellegrini e a tutti, parole che senz’altro commuoverebbero chi le

ascoltasse, e al pellegrinaggio della mente di Dante, attraverso l’azione fondamentale della

facoltà immaginativa, dalla memoria di Beatrice morta fino alla visione di Beatrice viva

nell’Empireo. Tale visione, nel sonetto Oltre la spera, è una visione nella mente di Dante per

speculum in enigmate secondo l’indicazione di s. Paolo (1Cor. 13, 12), un anticipo della visione

facie ad faciem di Beatrice, da attendersi all’atto del ricongiungimento del poeta con lei.

L’immaginativa agisce da speculum, in maniera analoga alla fede, facendo sì che Dante

contempli ciò che non può vedere; nel finale del libello, essa è poi premiata come la fede sarà

premiata dalla visione, perché a Dante, dopo aver visto nella mente, è consentito di vedere coi

propri occhi la «mirabile visione» di lei nella gloria. Visione che sarà, infine, nuovo stimolo alla

scrittura poetica.

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Lucilla Bonavita (Università di Roma Tor Vergata): Esperienze poetiche eterodosse nel Canto I

del Paradiso

Il presente contributo parte dal presupposto che la nozione ideologica di “sovversivismo” non sia

propriamente utile alla comprensione dell’opera dantesca, poiché si cercherebbe di applicare uno

schema ideologico estraneo al contesto storico-filosofico-culturale nel quale visse il poeta

fiorentino. Dante, scrivendo a partire dalla norma in crisi del suo momento storico, non ne ha

un’altra in base alla quale costruire la sua opera letteraria: non è possibile essere eterodossi

quando non si ha una chiara concezione dell’ortodossia.

Nonostante ciò, si cercherà di esaminare un possibile aspetto eterodosso di Dante di fronte alla

norma letteraria dei nostri tempi sottomessa alla relatività e alla considerazione del testo poetico

come manifestazione degli strati emozionali più oscuri della natura umana: la funzione del senso

letterale avente come scopo principale la trasmissione di una verità oggettiva e razionale.

L’analiticità del senso letterale della Commedia verrà considerato come mezzo di passaggio

verso l’allegoria intesa come modo razionale di usare l’immaginazione e verrà applicata al primo

canto del Paradiso, partendo dalla considerazione che la poesia ha una sua logica (la “logica

poeziei” teorizzata nell’Ottocento da Alexandrum Macedonski e ancor prima da G. Vico che per

primo avrebbe avuto il merito di proporre una “logica poetica”, distinta da quella intellettuale,

capace di considerare la poesia una forma di conoscenza autonoma rispetto alla filosofia) e

ponendo costantemente in dialogo le due linee interpretative di poesia come conoscenza che

crocianamente ha sempre un’intonazione capace di ricondurre il particolare all’universale, il

finito all’infinito e come espressione linguistica. Il passaggio all’espressione verrà considerato

parte di un processo di chiarificazione interiore: sentimenti ed impressioni passano, per virtù

della parola, dalla oscura regione della psiche allo spirito contemplatore. Il proposito sarà quello

di liberare il testo da ogni schema ideologico, ponendo in essere le motivazioni relative alla

difficoltà con la quale oggi risulti complesso capirla. Questo ostacolo è indissolubilmente legato

anche ad un modo di ragionare inconsueto per l’uomo d’oggi che vive di immediatezza, che non

è più preoccupato di ricondurre ad unità i particolari della sua vita, confermando quanto afferma

H.U. von Balthasar, teologo e studioso di Dante riguardo al fatto che siamo divenuti analisti del

mondo e dell’anima e non siamo più in grado di cogliere la totalità. Di fronte alla moderna

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norma letteraria e anche gnoseologica, quello che verrà analizzato può essere considerato un

possibile aspetto eterodosso.

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Paolo Borsa (Università degli studi di Milano): Pastori, greggi e dieci vaselli di latte canoro. Per

un’interpretazione delle egloghe dantesche

È noto che le egloghe dantesche presentano un travestimento pastorale: Titiro è lo stesso Dante,

Mopso Giovanni del Virgilio, nel personaggio di Melibeo è riconoscibile il notaio fiorentino

Dino Perini, in quello di Alfesibeo il concittadino Feduccio de’ Milotti, medico, mentre Iolla

dovrebbe essere Guido Novello da Polenta e Polifemo (forse) Fulcieri da Calboli. Diversi altri

elementi del testo – armenti e greggi, pascoli erbosi e dure cruste, l’ovis gratissima di

Titiro/Dante e la bucula di Mopso/Giovanni, il latte loro, usato per riempire decem vascula... –

sembrano suscettibili di un’interpretazione allegorica, il cui senso complessivo è, però, sempre

apparso sfuggente. Con tutte le cautele del caso, e sulla base dell’identificazione dei diversi

pastori con gli stessi Dante, Giovanni del Virgilio, ser Dino e magister Feduccio, a loro volta

esponenti di diverse categorie professionali, nella comunicazione per il Convegno si intende

proporre una lettura delle egloghe che interpreti le diverse tipologie di bestiame (capelle e forse

anche hirci per Melibeo/Dinus, pecudes mixtaeque capelle per Alfoesibeus/Feduccio e

Titiro/Dante, boves per Mopso/Giovanni) come raffigurazioni di altrettanti gruppi di individui, e

dunque di altrettanti “pubblici”, dotati di differenti competenze linguistiche (volgari e/o latine),

grosso modo corrispondenti ai tre livelli di apprendimento della scuola medievale. Ciò consente

di avanzare una soluzione a due diversi interrogativi: da un lato 1) quali siano le ragioni che

muovono Dante a rifiutare la proposta di Giovanni del Virgilio – che lo aveva invitato a

comporre un carmen vatisonum di materia epica, in lingua latina, che gli meritasse

un’“ortodossa” incoronazione poetica – e ad opporgli la propria fiducia nella possibilità di

un’“eterodossa” incoronazione poetica in grazia di un’opera scritta in lingua volgare (comica

verba che ‘risuonano logore su labbra di donnette’); dall’altro 2) cosa rappresentino i ‘dieci

vaselli’ di latte di pecora che Titiro/Dante manda a Mopso/Giovanni del Virgilio, i quali a questo

punto non identificheranno tanto dei componimenti in lingua latina, quanto piuttosto in lingua

volgare “illustre”. Più precisamente, si tratterebbe di dieci canti del Paradiso; si richiami a

questo proposito Par. XXV 1-9, ove i termini ovile, agnello e vello sono utilizzati in un

passaggio relativo proprio al motivo dell’incoronazione poetica: «Se mai continga che ’l poema

sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ ha fatto per molti anni macro, / vinca la

crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno

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guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo

prenderò ’l cappello».

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Morana Cale (Sveuciliste u Zagrebu): “Quello che può avvenire” (Convivio, III, 1) e la poetica

della supplementazione

Nel Convivio I, iii, Dante sostiene che il suo „comento“ è „ordinato a levar lo difetto de le

canzoni“ redatte all'epoca della Vita Nova, fornendo un supplemento allegorico che ripari quella

manchevolezza dei componimenti precedenti in quanto palesamento della loro „vera sentenza“ e

„movente cagione“ (I, ii); procedendo, cioè, a una delle tante ricostruzioni e rivalutazioni

palinodiche la cui successione nell'ambito dell'opera dantesca mima, a posteriori, l'ascensione al

sommo della verità compiuta dal pellegrino protagonista della Commedia. La causa di tale

„difetto“ si divide in „due ineffabilitadi“ (III, iv): „la debilitade de lo 'ntelletto e la cortezza del

nostro parlare“ (ivi), ambedue condizioni che eccedono la responsabilità individuale dell'autore e

quindi sono esenti da giudizio morale. Poiché l'esame del „nodo“ fra le canzoni e il commento

che costituisce il Convivio mira a farsi „sottile ammaestramento e a così parlare e a così

intendere l'altrui scritture“ (I, ii), il contributo si impegna a dimostrare che „lo difetto“ che

necessita uno o più supplementi in grado di restituire, o piuttosto inventare, almeno una

provvisoria integrità di senso dei componimenti, non è da riferire né alle canzoni, né al loro

autore, bensì all'impossibilità della lettura di cogliere tutta la verità del senso dietro l'apparenza

del testo letterario, nonché di esaurirne in anticipo le potenzialità di „transmutazione“, senza

sospendersi di fronte a „quello che può avvenire“ (III, 1). L'intervento si propone di rileggere

„Amor che ne la mente mi ragiona“ alla luce di tali considerazioni dantesche, rilette

avventurosamente come istruzioni per una poetica e una teoria della supplementazione.

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Corrado Calenda (Università di Napoli “Federico II”): L’ «Amore» e gli amori; la «Donna» e le

donne; «costanzia de la ragione» e «vanitade de li occhi»: significato e valore di un percorso non

lineare.

L’approdo finale, nella Commedia, alla unicità «originaria» di Beatrice, che sarebbe stata

colpevolmente offuscata solo dai provvisori limiti e dalle attitudini viziose del soggetto-amante,

è in realtà l’esito di un percorso molto accidentato e spesso contraddittorio, tra volontaristiche

dichiarazioni di intenti, ammissioni e ripensamenti, proiezioni in avanti e clamorosi passi

indietro. L’analisi e il confronto tra un capitolo-chiave della Vita nuova, un brano del Convivio e

uno dei sonetti di corrispondenza con Cino illustra come, in maniera diretta e argomentativa, o

sotto la copertura dell’invenzione fantastica o della narrazione pseudo-autobiografica, Dante

abbia declinato in più occasione e con più soluzioni questo motivo centrale della sua poetica

prima della definitiva unificazione nella trama del poema.

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Duilio Caocci (Università di Cagliari): Vedere e sapere. Alcune osservazioni sui canti XI e XII

del Paradiso

Con la relazione che propongo, vorrei rileggere l'XI e il XII del Pd oltre che come una

pacificazione tra scientia e sapientia (come ha mostrato anche F. Bausi 2009 e in parte A.

Mazzucchi in un articolo del medesimo anno), anche come una legittimazione del genere della

Commedia. Per dirla con la brevità necessaria in un abstract, Francesco mostrerebbe la via

pragmatica alla salvezza (la medesima modalità per cui Dante personaggio apprende una serie di

fatti perché li vede accadere), Domenico rappresenterebbe la necessità di un impianto teorico

capace di ordinare a sistema i saperi (la medesima funzione che è strutturalmente delegata alle

guide di Dante-personaggio).

Mi pare interessante, in tale prospettiva, tornare all’impianto delle Parabolae di Bernardo – e

cioè ai testi che stanno all’origine del genere scelto da Dante – e valutare come quei racconti

rappresentino già una forte legittimazione dell’esperienza mondana come premessa della

salvezza. Bernardo di Chiaravalle, del resto, che partecipa da protagonista al virulento dibattito

della prima metà del XII secolo intorno alla conciliabilità di scientia e sapientia (e lo fa, non a

caso, soprattutto nei Sermones super Cantica Canticorum), nella Commedia, è il medium

indispensabile per la più alta conoscenza (rappresentando anche l’occasione per tradurre in

termini umanissimi ciò che altrimenti non si potrebbe «ridire»).

Francesco e Domenico risultano complementari e indispensabili – l’uno «quinci» e l’altro

«quindi» – come sono indispensabili e complementari per Dante l’esperienza del transito

infernale e purgatoriale, da un lato, e, dall’altro lato, la prospettiva teorica delle prolusioni delle

guide.

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Chiara Cappuccio (Universidad Complutense de Madrid): L'eterodossia della muscia delle sfere

La controversia sulla presenza all'interno del Paradiso (Par.I, 76-84) del concetto pitagorico

relativo all'esistenza di un suono prodotto dal movimento delle sfere celesti rappresenta una delle

questioni musicali più discusse all'interno della critica dantesca. La problematicità della

posizione dantesca sull'argomento risalta per un'evidente eterodossia nei confronti delle posizioni

tomistico-aristoteliche sull'argomento. Dante accetta o rifiuta l'idea di un cosmo continuamente e

completamento sonoro? Studiosi di diverse discipline - dalla critica filologica a quella

musicologica fino alla filosofia e alla storia delle idee - si sono posti tale domanda affrontando il

dibattuto argomento. Nella nostra comunicazione ci proponiamo di riesaminare l'articolata

questione alla luce di nuove letture e interpretazioni musicologiche della terza cantica.

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Alberto Casedei (Università di Pisa): L’incipit del Paradiso e l’Epistola a Cangrande

In questa comunicazione verrà esaminato in dettaglio l’attacco del Paradiso, per interpretarne le

implicazioni bibliche e teologiche, in base a un’attenta disamina della lettera dei primi versi,

nonché dei loci paralleli nel poema dantesco.

Sulla base di queste considerazioni, che saranno incentrate soprattutto sull’espressione biblica

della Gloria Domini e sulla sua valenza esatta, sarà proposta un’esegesi che in sostanza contrasta

con quella ricavabile dall’accessus dell’Epistola a Cangrande.

Verranno presentati numerosi motivi esterni e interni al testo per ipotizzare che tale accessus non

sia opera di Dante. Ciò giustificherebbe l’incongruenza tra la lettera e la più plausibile

interpretazione dell’incipit del Paradiso, e la spiegazione offerta nell’epistola.

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Marcello Ciccuto (Università di Pisa): Le istanze antidogmatiche della Commedia a specchio di

temi e immagini del gioachimismo.

Con questo contributo cerco di fare il punto sull'influsso a più livelli esercitato dal profetismo

gioachimita nei confronti del pensiero dantesco più maturo, esaminando tutti i luoghi testuali in

cui più esplicita o evidente si fa la riflessione del poeta attorno al Liber figurarum e alla sua

proposta di considerare le 'figurae' quali elementi integranti e ineludibili del procedimento di

elaborazione di una teologia 'diversa' da quella ufficialmente accreditata.

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Milly Curcio (Pécsi Tudományegyetem): Le short stories dell’ Inferno

L’analisi del testo della prima cantica intende indicare i momenti in cui la narrazione, in modo

diretto o indiretto, delinea i ben noti racconti brevi, sia come enunciazione del personaggio sia

come descrizione del narratore sia come spazio di un personaggio che racconta un altro

personaggio.

Senza trascurare le categorie del ritratto, dell’autoritratto e della confessione, il disegno della

short story dantesca illumina, a volte fulmineamente e a volte dettagliatamente, l’intreccio di

singole esistenze, inserite nella prospettiva dello specifico canto di riferimento.

Queste brevi storie, da Filippo Argenti a Ulisse, possono avere un retroterra fuori dal testo che in

effetti fanno apparire la short story come la parte emergente di una sottintesa e più intrigante

long story: tanto in ambito mitologico, quanto nella storia civile, fino a far affiorare un

insospettabile intreccio urbano dell’epoca di Dante.

La relazione non intende misurarsi con il contesto contemporaneo a Dante ma formalizzare

l’enunciazione delle diverse tipologie di short story nei vari livelli di elaborazione.

Nell’osservare questa specifica consistenza narratologica, si terrà conto della presentazione del

personaggio, ovvero:

1. Del personaggio che entra in scena auto-presentandosi senza essere interpellato;

2. Del personaggio che racconta o si racconta dietro esortazione dei viaggiatori;

3. Del personaggio che presenta un altro personaggio;

4. Del personaggio raccontato esclusivamente da Virgilio.

Uno specifico focus sarà dedicato al modo in cui formalmente è delineata la storia breve:

1. Storia come inserto dipendente dal contesto, con riferimento a vicende complesse;

2. Storia racchiusa nell’esclusivo riferimento al nome di un personaggio;

3. Storia privata completa ed essenziale.

Il risultato di questa analisi porta a chiarire le modalità dell’enunciazione dantesca e l’inferenza

di singoli spazi narrativi sul complesso disegno inventivo e impegno etico della prima cantica.

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Claudia Di Fonzo (Università di Trento): La poesia: crogiolo della riflessione filosofica,

teologica e giuridica

Dalla comparazione tra l’ordinamento cosmologico e quello della societas degli uomini nasce

l’osservazione e la riflessione del Convivio circa il fine dell’uomo, circa la necessità della pace e

dell’imperatore che è l’incarnazione della «Ragione scritta» e per questo legibus solutus e

tuttavia legibus alligatus.

Il secondo trattato del Convivio custodisce il nucleo più significativo del pensiero filosofico

dantesco. È centrale infatti la collocazione della Morale filosofia appena prima della Teologia nel

disegno generale che Dante propone. Se la scuola di Chartres individua una perfetta specularità

tra macrocosmo creato e ordinato da Dio e microcosmo affidato alla libertà dell’uomo e alle

leggi tese a disciplinarlo (allorché l’arbitrio è libero diritto), condizione che Dante disegna sulla

cima del Purgatorio ovvero nel Paradiso terrestre, Giovanni di Salsbury nel suo Policraticus

fonda questo ordinamento sulla legge di natura attingendo a Cicerone e specialmente al De

officiis, fonte comune di Dante e di Giovanni e tramite eccellente insieme al De regimine

principum e all’Ethica Nicomachea di Tommaso del pensiero politico aristotelico. L’Empireo, il

cielo aggiunto dai teologi al cosmo disegnato da Tolomeo e Aristotele, alla conoscenza del quale

è preposta la scienza teologica, è il modello formale dell’ordine naturale impresso da Dio (la

legge di natura). Nel cielo cristallino, al quale corrisponde ed è disposta la Morale filosofia, è

concepito l’ordine a cui è destinata l’humana civilitas attraverso la Morale filosofia. La morale

filosofia è lo spazio di intersezione tra conoscenza e prassi, tra il principio generale della

giustizia divina e il diritto che ne discende e che si incarna nella legge posta dagli uomini per

regolare se stessi (ius), ed è dunque la scienza che ordina tutte le altre scienze e tutte le altre

operazioni conoscitive che ineriscono l’agire dell’uomo nella societas. L’uomo riesce a

contemplare in sé entrambi gli ordinamenti allorché partecipa, in diverso modo e grado, alla vita

contemplativa e dunque teologica (teologia al cui sommo è la mistica) e alla vita attiva per

conoscere e attuare la massima ratio impressa nell’uomo dalla natura che lo vuole creatura e

compagnevole animale: in relazione con Dio e con gli altri uomini.

Una filosofia quella morale che presiede all’agire e che lo ordina e disciplina. La giustizia, quella

superiore, non può che rimanere altro, il diritto è l’ordinamento che tenta di incarnare

l’ordinamento teologico e cosmologico a immagine e somiglianza di quella giustizia che già

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presso i Romani e al tempo di Giustiniano era altro e altrove. Non si può non ipotizzare una

influenza diretta del cristianesimo in questa concezione espressa nel De iustitia et iure.

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Violeta Díaz-Corralejo (Asociación Complutense de Dantología): Heterodoxia hoy, ortodoxia

mañana... y viceversa

Definición y diacronía de los conceptos de ortodoxia y heterodoxia en distintos campos: política,

economía, sociedad y religión. Análisis. Referencias en la Comedia.

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Giovanni Vito Distefano (Università di Cagliari): Il dolce riso. Una lettura di Cv III da Dante a

Leopardi

La teoria dell’amore costituisce non solo una mirabile sintesi della riflessione eudemonistica

classica e medievale, ma, indagata nella sua irriducibile unità di pensiero e poesia, un caso

esemplare di invenzione poetica fondata sulla meditazione attorno alla condizione umana e

sviluppata con grande originalità e forza immaginativa. Tale forza s’irradia in uno spazio non

solo storico ma propriamente poetico, dinamicamente generato dall’evoluzione del sistema

letterario e strutturato secondo rapporti interpoematici di diversa rilevanza ed evidenza.

Percorrendo queste vie, spesso segrete e nascoste, dell’influenza dantesca e dirigendo l’indagine

lungo gli assi principali e le campate portanti del sistema, un contatto di grande interesse da

focalizzare e istituire è quello tra la teoria dell’amore dantesca e la teoria del piacere di Giacomo

Leopardi.

Entro questo generale tema di ricerca, si propone una circostanziata lettura del terzo libro del

Convivio condotta attraverso i rapporti interpoematici che da questo luogo saliente

dell’elaborazione e della scrittura dantesca muovono verso alcuni corrispondenti brani

leopardiani dello Zibaldone e dei Canti. Una lettura intertestuale – è opportuno precisare sul

piano delle premesse teoriche – depurata da ogni residuo di fuorviante “studio delle fonti” e

fondata invece sul riconoscimento dell’essenziale intertestualità dell’invenzione poetica e sulla

conseguente indicazione metodologica per cui «all that matters for interpretation is the

revisionary relationship between poems, as manifested in tropes, images, diction, syntax,

grammar, metric, poetic stance» (Harold Bloom).

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Eszter Draskóczy (Szegedi Tudományegyetem): Metamorfosi dei corpi e della poesia: miti

ovidiani, scienza medica e simbolismo teologico nelle Malebolge (Inf. XXIV-XXV e XXIX-

XXX)

Le metamorfosi infernali, specie quelle delle Malebolge, sono fenomeni nei quali è possibile

osservare la complessità e la ricchezza delle operazioni di trasformazione letteraria e culturale a

cui Dante sottopone le sue fonti. Il concetto di metamorfosi è centrale in diversi ambiti della

cultura antica e medievale: non solo nella poesia ovidiana, ma anche nella scienza medica e nella

letteratura religiosa, dove assume decisivi significati spirituali e opera nella teologia del corpo e

della malattia.

Tutti questi elementi si intrecciano in modo particolarmente interessante nei canti dedicati alle

bolge dei ladri e dei falsari. Questi canti (Inf. XXIV-XXV e XXIX-XXX) costituiscono due

coppie “gemelle”, strettamente collegate fra loro, oltre che dal riuso di materiali culturali affini,

anche da una serie di forti corrispondenze attive nel lessico e nella struttura, nella descrizione del

paesaggio infernale, nella prospettiva narrativa, negli elementi retorici, nella focalizzazione sul

corpo umano e le sue metamorfosi e malattie, nel linguaggio ricco di hapax legomena e attinto

anche alla scienza medica.

Tenendo presente questo complesso intreccio di motivi, possono essere comprese in modi nuovi

le funzioni assegnate alle numerose allusioni alla poesia classica, su cui il poeta richiama

esplicitamente l’attenzione del lettore in più luoghi, per esempio nella celebre sfida ai poeti

antichi delle metamorfosi, Lucano e Ovidio. Del resto, nei canti dei ladri tutte e tre le

metamorfosi sono basate su miti ovidiani (la fenice, Salmace e Ermafrodito, Cadmo e Io).

Nei canti della bolgia dei falsari troviamo molti richiami espliciti a figure e avvenimenti

ovidiani: dalla peste di Egina al volo di Dedalo; dall’incenerimento di Semele alla follia di

Atamante e a quella di Ecuba; sino agli amori folli e agli inganni tragici perpetrati da Mirra e

subiti da Narciso. I paralleli con i canti dei ladri e la fitta rete di allusioni ovidiane accentuano il

carattere metamorfico della pena dei falsari.

Tali allusioni ovidiane svelano però i loro complessi significati solo se lette insieme agli altri

elementi culturali e intertestuali che agiscono in questi canti, come il linguaggio della scienza

medica, l’intertestualità biblica e religiosa, il simbolismo teologico della malattia.

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Enrico Fenzi (Università di Genova): Conoscenza e felicità nel III e IV del Convivio

La relazione torna sul tema del rapporto tra conoscenza e felicità nel Convivio, intorno al quale

esistono già ottimi contributi (si veda da ultimo il volume di Paolo Falzone, Desiderio della

scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante, Bologna, il Mulino, 2010) ma che è

suscettibile di nuove articolazioni e sviluppi sul doppio versante della conoscenza e dei suoi

limiti, e su quello strettamente correlato di una possibile felicità umana. In particolare, attraverso

una lettura ravvicinata di passi del III e IV libro dell’opera, si vuole mostrare come la particolare

dialettica dantesca riesca a rovesciare su un punto fondamentale il tradizionale discorso

sull’imperfezione e la limitatezza del sapere, dal momento che Dante fonda precisamente su tale

limitatezza l’idea affatto opposta della sua possibile e multipla perfezione. Si tratta di un gesto di

tale audacia intellettuale da sovvertire nel profondo gli schemi tradizionali e da inaugurare un

approccio affatto nuovo al problema della conoscenza scientifica, definita per la prima volta

nella sua autonomia e compiutezza.

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Sabrina Ferrara (Université François Rabelais, Tours): Giustizia e ingiustizia tra umano e divino,

tra individuale e universale nella Commedia

Catalizzatrice di tutte le esperienze precedenti, la Commedia lo è anche per il fondamento

concettuale della giustizia intorno a cui si struttura. Problematica non nuova nel pensiero di

Dante, la nozione di giustizia e del suo contrario l’ingiustizia, acquista nell’opus magnum una

nuova valenza datale dalla perdita, in un certo senso, di taluna astrattezza teorica e dalla

rappresentazione, figurata, della sua attuazione attiva e concreta. Evidentemente la misura di

questa giustizia è lo stesso poeta, ma è proprio l’interpretazione che questi ne dà a stabilire la

portata del messaggio che è trasmesso. La duplice tematica si articola, a sua volta, nella duplice

categoria dell’umano e del divino e dell’individuale e universale e si concentra sul nodo

esistenziale del poeta, la pena ingiusta subita dell’esilio. A partire dall’ “io” poetico l’isotopia

della giustizia si estende all’intera umanità e il discorso prende i toni di un’orazione etica per

quanto riguarda le cause e di un proiezione ottativa per quanto riguarda le soluzioni. Impotente

ad intervenire direttamente per modificare le circostanze storiche in cui si trova a vivere, diventa

allora imperativo procedere per il poeta a una riabilitazione della propria persona. È la missione

che Dante si addossa, a livello autoriale, con la redazione della Commedia e a livello esistenziale

grazie a un doppio dispositivo; da una parte assumendo il ruolo dell’arbitro-autore che dispone, a

proprio piacimento, le anime punendole o salvandole, d’altra parte predisponendo delle figure

ideali, alter ego, dell’autore investite di messaggi programmatici. È questo duplice impianto che

il saggio presente intende seguire e proporre.

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Nicolò Maria Fracasso (Università degli studi di Pavia): Madre e fuoco nella Commedia: legame

innovativo di due tradizioni iconografiche

La Commedia è a pieno titolo definibile sul piano espressivo un crogiolo di immagini, la cui

altissima temperatura inventiva forgia sempre nuove sovrapposizioni mentre procede ad isolare

elementi che una lunga tradizione ha unito; se, ad esempio per quanto riguarda l’immagine della

fonte di luce, assente nella Commedia, di recente Marco Ariani ha messo magistralmente in

rilievo la totale eterodossia dell’inventiva poetica dantesca (Dante e il Fons Lucis, in Accademia

dei Filomartani, L’acqua e i suoi simboli, a cura di G. Rati, Roma, Bulzoni 2011), che rifugge il

nesso codificato confinandolo alla sfera dell’allusione, per quanto riguarda invece il legame tra

immagini ignee e materne nel poema si ha la sensazione di assistere in presa diretta al

procedimento di fissaggio di più tradizioni iconografiche e culturali, che Dante stringe lungo il

dipanarsi dell’opera in un sinolo del tutto originale.

Proprio quindi al legame del tutto eterodosso, tanto stretto quanto ignoto alla critica, tra

immagini materne ed ignee nella Commedia, e alla sua funzione nel dettato del poema, vuole

essere dedicato il mio intervento che partirà anzitutto da un dato testuale: su sedici paragoni di

ambito materno, ben tredici si accompagnano a citazioni e riferimenti evidenti al fuoco.

Il nesso tra madre e fuoco non appare però codificato, nè a livello di fonti letterarie o scritturali

nè sul piano iconografico: per cogliere quindi appieno il meccanismo dell’inventiva ed il

profondo senso dell’espressione dantesca, è necessario isolare le due grandi aree tematiche che il

paragone materno chiama in causa, ossia quella dell’amore genitoriale e quella del nutrimento.

Per il primo ambito si crede di recuperare elementi utili ripercorrendo la storia dell’iconografia

della carità, mentre per il secondo, data la forte sovrapposizione tra nutrimento e apprendimento

linguistico nella Commedia, si prenderà in considerazione l’iconografia della grammatica.

Ripercorrendo a ritroso questi due filoni la sovrapposizione si mostra chiarissima; tanto per

l’ambito della charitas materna, quanto per quello della grammatica, è possibile infatti

identificare un’autentica filiera di fonti che, a partire dal dato scritturale, si articolano lungo i

padri latini e parallelamente lungo l’iconografia gotica pittorica e plastica: fonti in cui appunto si

evidenzia la costante, e per certi versi anche ovvia, sovrapposizione tra i due temi in esame e

l’elemento igneo.

Dante dunque, in perfetta conoscenza di tali sistemi di fonti, sembra operare una originale

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sovrapposizione tra due filoni separati, dando vita ad un agglomerato innovativo e fortemente

eterodosso, sperimentato poi in misura crescente lungo l’intero dettato dell’opera e

massimamente nell’ultima cantica.

Controprova della rilevanza dell’accostamento dantesco sarà ancora una volta da ricercarsi sul

piano iconografico: Giovanni di Balduccio, allievo dei Pisano, scolpisce nel 1338 sull’Arca di

san Pietro martire (chiesa di Sant’Eustorgio, Milano) una carità che somma in sé i classici

attributi della grammatica (nutre al seno un fanciullo, come la grammatica che già per Marziano

Capella «fovet pueros») con quelli propri appunto della carità (la figura femminile ha una

fiamma scolpita sopra il seno); tale iconografia, in palese violazione di quelle delle grammatiche

e delle carità scolpite ad esempio sui pulpiti dei maestri, testimonia sul piano plastico un esito

analogo a quello raggiunto nella Commedia, praticamente coeva. Nulla vieta di supporre anzi che

proprio dal poema dantesco lo scultore abbia tratto ispirazione.

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Giacomo Gambale (Università di Salerno): L’Inferno dei giuristi

«Dante ha commesso un grossolano errore nel porre con un’ingenuità da far paura sulla porta del

suo inferno quell’iscrizione: ‘fecemi l’eterno amore’». Dietro quest’affermazione di Nietzsche,

tratta dalla Genealogia della morale, si nasconde un’intuizione. Le rappresentazioni infernali

inventate dal poeta sono l’esaltazione del concetto di giustizia come ius perpetuum, legge divina

e naturale in grado di rispondere in modo implacabile, attraverso una precisa distribuzione di

punizioni, al peccato commesso dagli individui. Per questo, il concetto entra in conflitto con

l’amore, la cui logica è caratterizzata invece dall’eccedenza e dalla gratuità, in una parola dal

perdono, nei confronti dell’essere al quale esso è destinato. L’interpretazione nietzschiana della

Commedia, anche se a prima vista estemporanea, è degna di essere segnalata, in quanto scopre

nell’opera di Dante il primo delinearsi di alcuni tratti tipici del mondo moderno, per esempio

l’esaltazione della giustizia punitiva e distributiva a scapito di una giustizia che il Cristianesimo

delle origini intende come salvezza.

A partire da questa suggestione si vuole dimostrare, con un approccio al contempo teorico e

storico, come questo aspetto della modernità si evinca con forza dall’esegesi del poema

realizzata nel Trecento dai giureconsulti. L’Inferno, lungi dal rappresentare una giustapposizione

caotica di scene macabre, si rivela una vera Summa, il cui obiettivo è una ricerca scientifica –

alla luce delle categorie giuridico-romane di iniuria e di crimen stellionatus – dei reati che

l’uomo può commettere a danno del proprio simile e della società in cui è inserito. L’inchiesta

sul peccato non riguarda la dimensione intima e spirituale dell’uomo, ma la dimensione

‘esteriore’ e ‘relazionale’ della sua azione: in una parola il diritto, l’infrazione che si commette

contro una lex (divina e umana). I giuristi delineano nella loro originale lettura dell’Inferno – di

pari passo con ciò che in ambito politico è il fenomeno del progressivo accentramento del potere

e il passaggio dal sistema penale accusatorio a quello inquisitorio – alcuni elementi filosofico-

giuridici che risulteranno fondamentali in età moderna: la pubblicizzazione della giustizia, la

dimensione totalizzante e razionale del potere, la personalità della pena, la nascita del reo come

cosa (res) o persona ficta. Ai loro occhi, la Commedia non solo diventa un’autorità vivente (una

vera fonte di diritto) in grado di risolvere di volta in volta problemi ‘pratici’. Allo stesso tempo

diventa un’opera che disegna una nuova (e complessa) concezione di giustizia: statale, laica,

terza, perpetua; capace di sorvegliare e punire in modo razionale, freddo ed efficiente.

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Noemi Ghetti (Roma): Amore e conoscenza nella poesia italiana delle origini

Nella rinascita dopo il Mille in diverse parti d’Europa intrepidi poeti, voltate le spalle al latino

della cultura ecclesiastica, cominciarono a cantare l’amore per la donna, dando origine alle

letterature romanze. La “lingua del sì” nasceva in Sicilia, la grande isola al centro del

Mediterraneo, dove nei secoli secoli si erano avvicendati Fenici, Greci, Romani, Arabi,

Normanni, dal disegno politico laico di Federico II, e cantava la fenomenologia d’amore con gli

strumenti offerti dalla poesia, ma anche dall’ottica, dalla fisiologia e dalla psicologia degli Arabi.

Come avrebbe fatto anche Alfonso X il Saggio in Spagna, Federico II fece inoltre tradurre il

Commento del medico e filosofo andaluso Averroè al De anima di Aristotele, fino ad allora

sconosciuto in Europa, e ne fece dono allo Studio di Bologna. Diffuso nelle università europee,

l’Aristotele arabo apriva alla conoscenza della realtà umana nuovi orizzonti, contribuendo alla

nascita della poesia siciliana e poi stilnovista, che si interrogava sulla natura dell’amore e

sull’origine della fantasia poetica, collocando al centro di una rivoluzionaria cosmologia la

donna, intorno a cui il cuore gentile innamorato ruota, come nella cosmologia tomistica gli angeli

ruotano intorno a Dio.

Mortalità dell’anima individuale, possibilità di compiuta conoscenza senza l’illuminazione della

fede e di realizzazione dell’identità umana nella dialettica amorosa, origine tutta terrena

dell’ispirazione poetica dalla vis cogitativa, fantasia dell’anima sensitiva capace di dedurre dalla

percezione dei sensi i movimenti degli affetti, di creare immagini e di dare un nome alle cose

invisibili della mente erano alcune tra le rivoluzionarie proposizioni dell’averroismo latino che

nel 1277 furono condannate come eretiche a Parigi, insieme alle eversive “regole d’amore” di

Andrea Cappellano, da cui aveva preso le mosse la lirica di Provenza.

La feroce crociata contro i Catari, l’istituzione dell’Inquisizione con i processi e i roghi degli

eretici, la dispersione della civiltà dei trovatori, la scomunica dei filosofi parigini, la sconfitta del

partito ghibellino a Benevento nel 1266 concorsero a determinare alla fine del Duecento la crisi

dei fermenti di umanesimo da cui era percorsa la rinascita. La sintesi di aristotelismo e

cristianesimo operata da Tommaso d’Aquino provvide infine a ricondurre ogni libertà di

pensiero all’ortodossia del ferreo connubio tra religione e ragione.

In questo contesto culturale va collocata la conversione di Dante dall’amore per la donna

all’amore per Dio, dalla filosofia naturale alla teologia, che sta alla radice del drammatico

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dissidio umano, artistico e ideologico con Guido Cavalcanti, ultimo testimone della poesia

dell’amore irrazionale delle origini: uno scontro sanguinoso con il primo amico e maestro di

poesia, che è possibile ricostruire in tutte le sue tappe attraverso la Vita nuova, il Convivio e la

Commedia. L’evento chiave su cui si incardina la crisi, destinato a diventare un topos obbligato

della letteratura e della cultura europea fino alla modernità, è la morte di Beatrice che, spogliata

di ogni carnalità, fatta emblema di grazia illuminante e figura di Cristo, sarà la guida del poeta

del Paradiso.

Nella Commedia la condanna della poesia d’amore come istigazione alla lussuria (Inf., V) e della

conoscenza perseguita senza l’investitura divina (Inf., XXVI) è accompagnata da un lavoro

sistematico di risemantizzazione correttiva in direzione spirituale del lessico poetico dei Siciliani,

di Guinizzelli e di Cavalcanti, derivato dalla filosofia naturale, con una massiccia immissione di

termini latini derivati dalla mistica e dalla teologia scolastica medievale.

Dalla poesia come libera espressione della fantasia interna e conoscenza della realtà umana

nell’amore – il frutto dell’albero proibito del paradiso terrestre – Dante passa alla poesia morale

e profetica, ispirata da Dio per redimere se stesso e l’umanità dal peccato, continuando a fare i

conti fino all’ultimo canto del Paradiso con l’eterodossa esperienza poetica giovanile che lo

aveva portato nella «selva oscura».

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Francesc J. Gómez (Universitat Autònoma de Barcelona): Il senso della poesia: sfida intellettuale

e discrezione ermeneutica

La teoria ermeneutica esposta nel Convivio (II, I, 2-15) e nell’Epistola a Cangrande (VII-VIII, 20-

25) è stata adeguatamente definita come una contaminazione di modelli esegetici eterogenei,

perché fondata da una parte sulla distinzione teologica dei quattro sensi della Scrittura e dall’altra

sulla giustificazione neoplatonica del mito filosofico come narratio fabulosa, integumentum o

involucrum di una verità nascosta. Se nel Convivio però Dante propende per il modello

filosofico, sostituendo l’allegoria poetica alla nozione teologica di allegoria in factis o typologia

e affermando il carattere favoloso de la littera come «bella menzogna», nell’Epistola si poggia

invece sul modello teologico sottolineando la sussistenza di un senso letterale il cui vero

significato è poi anche significante di un altro senso allegorico. Questa diversità è un chiaro

riflesso dell’immenso balzo che separa la finzione storica della Commedia dalle canzoni

allegoriche del Convivio: il senso allegorico della Commedia diventa analogo all’allegoria

teologica perché si fonda, senza sostituirlo né cancellarlo, su un senso letterale che comprende

realtà fisiche e personaggi storici dentro a una cronologia precisa e una cosmografia concreta. In

vece del modello di Alano di Lilla e dell’allegoresi medievale, Dante assorbe il modello

dell’Aeneis virgiliana e lo trascende come cristiano mercé i dati della rivelazione, i quali rendono

possibile che la poesia diventi da razionale a teologica, rivendicando una polisemia analoga a

quella della Scrittura.

Questa comunicazione esplora il doppio aspetto sovversivo di tale rivendicazione. Dal punto di

vista teologico, solo Dio è capace di depositare un senso occulto nella storia (significatio rerum),

per cui soltanto la Scrittura sacra ha propriamente tre sensi mistici o spirituali; l’uomo può infatti

depositare un senso occulto nelle figure del linguaggio (significatio vocum), ma questo modus

significandi aspetta al senso letterale, il massimo a cui può aspirare una scrittura umana priva

dell’intervento divino tramite la ispirazione profetica. Le pretensioni polisemiche della

Commedia potevano quindi venire interpretate come un’affermazione eterodossa del carisma

profetico di Dante, e alcune proposte di Guido da Pisa puntano a questa lettura. Più sovversiva

era invece una rinvendicazione del senso letterale tanto accesa come quella de l’Epistola, in cui

l’autoesegeta difende la realtà dell’elevatio intellectus in Deum descritta nel Paradiso: «Vidit

ergo, ut dicit, aliqua que referre nescit et nequit rediens» (XXIX, 83). Cecco d’Ascoli aveva più

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volte deriso la finzione dantesca del descensus ad inferos; l’inquisitore francescano Accursio

Bonfantini ebbe a scusare la finzione della pena dei suicidi (Inf. XIII, 93-108), e molti commenti

eludono gli aspetti più compromessi delle ipotesi dantesche sull’aldilà confinandole alla

condizione di finzione poetica. Pietro Alighieri si occupò particolarmente di questo problema

analizzando minutamente i modi loquendi della Commedia fino a distinguere i sette sensi

risultanti da spiegare il sensus litteralis in quattro categorie diverse. La finzione dei traditori

dannati mentre i loro corpi campano in possesso dei demoni (Inf. XXXIII, 122-135) è uno dei casi

in cui lo schema viene applicato in un modo esemplare.

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Tiago Guerreiro da Silva (Universidade de Lisboa): Dante e la credibilità delle cose scritte

Dante Alighieri era uno scrittore convinto che la verità potesse essere trasmessa tramite la

letteratura e questa convinzione ha accompagnato la stesura della Commedia, dove si trovano

frequenti rivendicazioni dell’autenticità della narrazione e delle verità trasmesse. Questo testo è

uno dei primi tentativi nella letteratura occidentale di combinare poesia con teologia, ovvero, è la

creazione di un testo poetico che si vuole trasmetta delle verità, in particolare delle verità

teologiche.

I testi biblici erano per il pensiero medievale, e per Dante incluso, la principale fonte di verità,

almeno in termini teologici, ed il sommo poeta ha voluto che la sua opera maggiore fosse un

scritto che in un certo senso imitasse gli scritti divini. Nei canti XXIII e XXV del Paradiso il

testo di Dante viene definito dallo stesso autore come "sacrato poema" (Par. XXIII, v. ) e "

poema sacro" (Par XXV, v. ).

L’intento della mia esposizione è di fare vedere che questi versi delimitano una discussione

(sviluppata soprattutto nel Canto XXIV del Paradiso) sulla credibilità del testo biblico e di

conseguenza, come vorrei dimostrare, del poema di Dante. Questo canto, infatti, generalmente

considerato un canto dove viene discussa la fede del pellegrino, con San Pietro come

personaggio centrale, diventa così un canto sulla natura della propria letteratura, dove viene

messo in scena il rapporto tra poesia, finzione e conoscenza. Dante attua un parallelismo tra la

propria scrittura a quella degli “scrittori dello Spirito Santo” provando a mettere sullo stesso

livello i testi biblici e la sua Commedia; l’espediente utilizzato da Dante per giungere a tale

conclusione è di elevare la propria scrittura al sacro e abbassare quella dei sacri scrittori ad un

livello più terreno. Nel Canto XXIV del Paradiso la poesia diventa ancora più teologica che la

teologia stessa ed è allo stesso tempo un esempio della modernità di Dante, per la riflessione e

l’autoriflessione sulla scrittura e sulla letteratura.

Sosterrò anche che il Canto XXIV del Paradiso porta in se un parallelismo tematico con il Canto

XXIV del Purgatorio, Canto emblematicamente letterario della Commedia, dove il pellegrino

incontra l’anima del poeta Bonagiunta di Lucca con il quale discute sulla definizione di poesia,

Canto che il critico Giuseppe Mazzotta definisce come “Il centro drammatico” di una sequenza

ininterrotta di incontri poetici che vanno dal canto XXI al XXVI.

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Interessante sarà constatare anche il perché della scelta dei Canti XXIV per mettere a fuoco

discussioni sulla letteratura e sulla natura della scrittura, il numero 24 ha a mio parere un

rapporto diretto con la figura di Beatrice, quindi tutta la discussione che avviene nei Canti XXIV

del Paradiso e del Purgatorio assume una valenza significativamente simbolica.

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Marcia Guimaraes (Universidade estadual de Maringá): L’Educazione nelle opere di Dante

Alighieri

Dante Alighieri ha agito come mediatore tra la conosenza scolastica e la società che apparteneva

a proporre una pratica sociale in cui i basi erano l’Etica e la Fede, essenze della filosofia

scolastica. Quando usiamo il termine "agire" stiamo affermando che il fiorentino ha veramente

preso una posizione come assistente sociale, perchè ha sviluppato importanti funzioni nella

politica nella sua città natale, Firenze, e anche perchè ha messo nella sua produzione literaria un

punto educazionale, non solo il modello, ma anche dal linguaggio. Sulla base di un'ampia cultura

classica e cristiana, Dante era capace di capire e mostrare ai vostri lettori le molteplici

manifestazioni della vita in società, e convincerli a lasciare dalla "selva oscura", guidato dalla

luce della conoscenza. Ha scritto in latino, come facevano gli intellettuali di quel tempo, e anche

nella lingua della Toscana, Il Toscano, non solo per evidenziare la lingua comune - una delle loro

preoccupazioni, espresse in “De Vulgare Eloqüentia” e nel “Convivio” – ma, soprattutto per

permettere la populazione di partecipare della società, e quindi , di agire criticamente. Dante ha

capito la forza delle lingue vernacolari, e ha condiviso, attraverso di loro, le sue idee. In Toscano

ha scritto in prosa (Convivio) e poesia (La Divina Commedia e la Vita Nuova). In latino, ha

scritto sull'importanza delle lingue comuni: “De Vulgari Eloqüentia”, un trattato sulla scienza e

sul linguaggio. É il primo ad affermare la superiorità intrinseca della vita nelle lingue vernacole

sul latino. È stata espressa in prosa e in versi, nella forma literale e allegorica perché, come lui

spiega nel Convivio, il letterale è più difficile da comprendere e, quindi, si propone di spiegarlo

usando le allegorie. Dante ha capito gli aspetti di variazione e cambiamento relativi alla lingua e

direttamente collegati ai cambiamenti di abitudini, tempo e luogo. Dante non si limita a notare e

studiare le limitazioni che esistono tra i membri della società, ed a osservare criticamente i

cambiamenti che erano in gioco a Firenze nei primi anni del Trecento, ma lui ha anche creato i

procedimenti, le forme, i meccanismi, in modo che l'apprendimento fosse possibile. Lui ha anche

cercato le allegorie e i simbolismi, così importanti nella cultura medievale, l'ispirazione per

educare. I valori morali, i conflitti politici, l'autonomia delle repubbliche; la giustizia e la

prudenza come prerogativa per la pace, per "il buon ordinamento del mondo," erano soggetti dei

suoi pensieri, condivisi in vari modi con i suoi contemporanei, tutti fondati su una profonda base

filosofica e teologica. L ‘obiettivo di questo studio è quello di stabilire, dal punto di vista della

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filosofia scolastica, il rapporto tra il pensiero politico di Dante Alighieri e la formazione di un

cittadino critico sul mondo a cui apparteneva, usando la conosenza formale como uno strumento

prezioso per la comprensione, la critica e l'azione politica. Crediamo che i valori morali ed etici,

mentre cercano la piena attuazione umana e applicate nella dimensione della pratica sociale sono

argomenti rilevanti nella società atuale e, in questo senso, l’opera di Dante si presenta come una

ricca allusione teorica per comprendere l'importanza di questi questioni.

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János Kelemen (Eötvos Loránd Tudományegyetem, Budapest): Autorità, eterodossia e

innovazione in Dante

Dante accentua in diversi luoghi che non è in grado di fare riferimento ad alcuna autorità, vale a

dire, non può fare ricorso a ciò che per gli medievali è il principale mezzo euristico di investigare

la verità („Inquirere intendamus de hiis in quibus nullius autoritate fulcimur”, De vulgari

eloquentia, I, ix; „Desidero et intemptatas ab aliis ostendere veritates”. Monarchia, I, i.). Egli

mette, molte volte, in evidenza anche le sue intenzioni innovatrici, promettendo, addirittura, di

creare una opera che prima di lui non fu mai scritta (“io spero di dicer di lei quello che mai non

fue detto d’alcuna”, Vita nuova, XLII). Da questo nuovo tipo del rapporto con l’autorità e dalle

sue intenzioni consapevolmente innovatrici sono inseparabili quelli contenuti delle sue opere che

possono essere giudicati eterodossi. Oltre ai messaggi positivi ed espliciti, sono i dubbi, le

questioni e i dilemma del poeta che rispecchiano in modo più eloquente le tendenze eterodosse

del suo pensiero. In questa sede saranno analizzati due problemi relativi a Dante eterodosso: il

suo “averroismo” e il modo in cui egli pone la questione della giustizia divina nel caso dei

miscredenti e non cristiani virtuosi.

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Leila M. G. Livraghi (Università di Pisa): Raptus e Deificatio ovidiani nel sistema della

Commedia.

Nel Paradiso, il ricorso al mito è spesso finalizzato a sottolineare lo scarto esistente tra

l’esperienza del poeta-pellegrino e le vicende raccontate nelle storie pagane. Proprio a questo

servono gli exempla delle eroine coinvolte in una relazione amorosa con un dio: in confronto alla

ricerca cristiana del perfezionamento spirituale, il mito ovidiano rappresenta per Dante un

tentativo di deificatio mancata o imperfetta. In Pd. XXI 4-6, la sorte di Semele, folgorata

dall’abbraccio del suo amante divino, è contrapposta a quella di Dante, che viene preparato per

gradi alla visio Dei e a cui non è permesso neanche di ammirare il riso di Beatrice finché non è

pronto. Europa, rapita da Giove mutatosi stavolta in toro, è chiamata a rappresentare uno dei lidi

tra cui è compreso il Mediterraneo e quindi il mondo intero (Pd. XXVII, vv. 83-84); l’altro

estremo è costituito dal «varco / folle» (vv. 84-85) di Ulisse, cosicché lo sguardo che Dante

lancia alla terra, in procinto già di salire all’Empireo, si polarizza su due emblemi dell’errato

avvicendamento tra umano e divino. Nel canto XIII, infine, il doppio cerchio formato dai beati

festanti era stato paragonato alla costellazione della Corona borealis che, secondo il mito, fu

originata dal diadema di Arianna. Dopo molte peripezie, l’eroina avrebbe avuto la sua apoteosi,

giacché il catasterismo della sua corona corrisponde in definitiva a una forma di immortalità

celeste conquistata dalla donna. Dante però avverte che il paragone mitologico non deve sviare

dalla specificità della situazione descritta, cioè il canto intonato non certo a Bacco o ad Apollo,

bensì rivolto all’unico vero Dio («Lì si cantò non Bacco, non Peana» etc.; v. 25 ss.).

In Ovidio, la tela di Aracne polemizza contro le numerose unioni che gli dei avevano avuto con

donne costrette per mezzo dell’inganno e della forza. Certo, Aracne nella Commedia è trattata

come un caso esemplare di superbia, avendo osato sfidate il potere divino; tuttavia, Dante non

disconosce la qualità superiore dell’arte aracnea, capace di dare un’impressione di realismo che

può essere paragonata a quella prodotta dall’opera divina nei quadri di umiltà che corrono lungo

la parete della prima cornice del Purgatorio. Non era stata semplicemente la perizia di Aracne a

provocare l’ira di Minerva, che perciò la trasformò in ragno, ma il fatto che la tela rappresentasse

i «caelestia crimina» (Met. VI, 131). Dante è ben consapevole che i pagani adoravano «dei falsi e

bugiardi» (If. I, v. 72), cioè, in accordo all’opinione medievale, personificazioni di forze naturali

altrimenti misteriose, idealizzazioni di comuni esseri umani, per lo più manifestazioni diaboliche.

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Il raptus cristiano, come quello paolino, si realizza in un’ascesa effettiva, in un reale contatto con

la Divinità. Invece i rapimenti descritti da Ovidio, anche quando si concludono con una sorta di

deificatio del rapito, non producono che una conquista parziale, offuscata da risvolti non sempre

piacevoli. Così connotati sono i due raptus – con connessa deificatio – che circoscrivono il

percorso purgatoriale di Dante: il rapimento di Ganimede (Pg. IX, vv. 22-24) e quello di

Proserpina (Pg. XXVIII, vv. 49-51).

Dante è trasportato sulla soglia del Purgatorio vero e proprio da quella che in sogno gli appare

come un’aquila e che in realtà è Santa Lucia; allo stesso modo, Ganimede era stato rapito da

Giove e portato sull’Olimpo, ma al prezzo di abbandonare la sua famiglia e diventare amante del

dio. Conclusa la scalata e ormai approdato nel Paradiso terrestre, Dante descrive Matelda,

dicendo che era tale e quale a Proserpina nel momento in cui fu ghermita da Plutone. Da Ovidio,

il mito di Proserpina è narrato sia nelle Metamorfosi sia nei Fasti, fonti entrambi dell’episodio

purgatoriale. Proserpina ricompare inoltre nel catalogo esemplificato da Aracne, a dimostrazione

che la condanna aracnea della libidine olimpica assume nella Commedia una funzione

programmatica. Infatti, secondo quest’ulteriore versione del mito, Proserpina sarebbe stata

sedotta da Giove trasformatosi in serpente. Dopo aver fatto riferimento al peccato originale nella

sacra rappresentazione di Pg. VIII e più volte nella cornice dei golosi, nell’Eden Dante preferisce

dipingere un paesaggio bloccato a prima della corruzione, alludendo soltanto indirettamente alla

tentazione in cui caddero i nostri progenitori. L’eterodossia, ovvero la novità, di Dante sta nel

contemplare un range molto più vasto di racconti mitologici e di loro variazioni. Il messaggio

sotteso, ricostruibile attraverso l’esegesi allegorica e figurale, è ortodosso, cristiano; la differenza

decisiva è che Dante non riduce tutto al senso morale, ma lo rende auto evidente in immagini di

straordinaria pregnanza narrativa e fantastica, che nulla tolgono alla fonte classica.

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Carlos López Cortezo (Universidad Complutense de Madrid): Papa e antipapa all’Inferno

Sulla base della ambiguità grammaticale di Pg. XX, 87 (“e nel vicario suo Cristo esser catto”), si

arriva a una nuova lettura del passo più accorde con la diatriba di san Pietro in Paradiso XXVII,

19-27), intesa non solo in chiave morale, ma pure canonica. Per Dante, infatti, l’elezione di

Bonifacio VIII fu illegittima perché illegittima fu anche la rinuncia di Celestino V, come si

evince dall’analisi di Inferno III, 60.

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Nicolò Maldina (University of Leeds): Tra invettiva e profezia. L'immagine dei Mendicanti nella

Commedia di Dante

I numerosi riferimenti agli ordini Mendicanti nella Commedia di Dante costituiscono una

costante nelle tre cantiche e si collocano al centro di importanti snodi concettuali e poetici del

poema. La relazione intende passarne in rassegna i contenuti, le forme e i possibili antecedenti

presenti alla memoria poetica dell'Alighieri per ricostruire non solo l'immagine dei Mendicanti

che Dante ha assunto e promosso, ma anche il suo ruolo nell'economia complessiva del poema,

con una particolare attenzione per il ruolo della polemica contro la degenerazione degli ordini

religiosi in riferimento alla definizione dell'identità profetica del poeta.

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Maria Maslanka-Soro (Uniwersytet Jagiellónski, Cracovia): “Quella materia ond’io son fatto

scriba”: La non ortodossa ortodossia dantesca nei confronti della “scriptura paganorum” nella

Commedia

L’ossimoro presente nel titolo non è un gioco di parole: non si addirebbe a Dante come poeta “di

cose”. L’epiteto non ortodossa riferisco al metodo ermeneutico dell’Alighieri di utilizzare le

fonti classiche, in particolare quelle epiche, che si contrappone a quello solitamente applicato

nella sua epoca alla poesia di Virgilio (Eneide) e ancora di più a quella di Ovidio (Metamorfosi).

Il termine ortodossia, invece, riguarda i significati di questa poesia, i quali sul piano etico-

religioso si rivestono nella riscrittura dantesca di valore cristiano.

È risaputo che la tecnica interpretativa diffusa nell’aetas vergiliana nonché nell’aetas ovidiana è

quella allegorica. Nonostante la prima allusione medievale alla lettura allegorica dei poeti pagani

sia quella di Teodulfo nel IX secolo, quell’approccio viene praticato incidentalmente già da

Servio (IV sec.) e da Fulgenzio (V/VI sec.) nei loro commenti a Virgilio. Ma solo Bernardo

Silvestre, il cui Comentum super sex libros Eneidos Vergilii è conosciuto a Dante, utilizza quel

metodo in maniera sistematica. Per quanto riguarda, invece, Ovidius maior, sulla scia dell’opera

di Arnolfo d’Orléans, intitolata Allegoriae super Ovidii Metamorphosin (del XII secolo), i miti

ovidiani vengono trattati come un falso “velo” sotto cui si nasconde la verità (e quindi le

transformationes sono di tipo mutatio moralis). Un’altra posizione ermeneutica, più “radicale”

della prima, si potrebbe chiamare moralisatio e comporta lo scarto e la condanna delle favole

ovidiane, assieme alla loro sostituzione da una glossa esplicativa che contiene una verità

cristiana. Si tratta del famoso Ovide moralisé, composto agli inizi del XIV secolo.

Se all’altezza del Convivio Dante sembra ancora in parte influenzato da quel tipo di esegesi (e la

prova ne abbiamo p.e. nel CV IV, XXIV), nella “poesia forte” (per usare l’espressione di F.

Spera) del poema sacro il suo rapporto con i maggiori poeti epici latini subisce un cambiamento

radicale (caratterizzandosi appunto della “non ortodossia”) e sfocia in una aemulatio priscorum,

benché fondamentalmente diversa da quella degli scrittori umanisti. L’atteggiamento emulativo,

indipendentemente dalle sue forme particolari, è presente fin dall’inizio nel piano generale

dell’opus magnum che è al tempo stesso un poema che racconta il viaggio iniziatico ed un poema

delle metamorfosi.

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Trattando gli episodi virgiliani e i miti ovidiani come verità storicche, Dante ne opera una

riscrittura, accompagnata spesso da un dialogo attivo (per lo più implicito), non di rado

polemico, con gli auctores. Non negando a priori il valore semantico dei loro testi, nei quali anzi

scopre germi di verità rivelata, ne propone una versione “corretta” e definitiva. Giustamente

chiamato da Peter Hawkins mythmaker, Alighieri crea la mitologia cristiana, autorizzato dal suo

ruolo di scriba Dei, stabilendo nel contempo (come notato da M. Picone) un rapporto tipologico-

figurativo tra l’Eneide e la Commedia, nonché tra Metamorfosi e la Commedia. E così ad

esempio le transformationes spirituales della anime (per limitarci al procedimento assai diffuso

nelle tre cantiche) avvengono come effetto dell’adempimento della loro figura terrena. Diversi

episodi sono stati esaminati in questa chiave dalla critica. Nel presente intervento il mio modesto

contributo consisterebbe tra l’altro nella dimostrazione che l’interpretazione dantesca dei miti,

tramandati dai loro autori nella forma “incompleta” o “distorta”, ha come punto di partenza il

cambiato rapporto tra divino e umano. L’approccio proposto mi permetterà anche di analizzare in

questa prospettivsa il rapporto falso/vero, tanto importante nella Commedia.

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Norbert Matyus (Pázmany Péter Katolikus Egyetem, Budapest): Gli appelli di Dante al lettore

Il quesito dell’ortodossia e/o eterodossia dantesca sul livello retorico si presenta soprattutto come

problema di fonti e di adesione alle diverse tradizioni retoriche. La novità o eterodossia di Dante

sotto quest’aspetto pare più ravvisabile nella contaminazione delle fonti e meno in un

rinnovamento degli espedienti retorici usati.

L’intervento proposto tenta appunto di mostrare un caso contrario, cioè la forte indole

rinnovatrice dell’Alighieri per quanto riguarda un’unica figura rettorica: l’appello al lettore.

Dopo una breve e sommaria rassegna sugli studi finora eseguiti sull’argomento (Gmelin,

Auerbach, Spitzer, Russo, Ledda) vengono innanzitutto discusse le caratteristiche generali degli

appelli. Ammettendo la validità dei criteri morfosintattici e stilistici rilevati dalla critica,

l’intervento propone un ulteriore aspetto da studiare, quello narratologico. Se è vero che ogni

tipo di apostrofe interrompendo il flusso della narrazione introduce una netta distinzione tra il

tempo della narrazione e il tempo narrato, è altrettanto vero che la peculiarità degli appelli al

lettore consiste nell’introdurre un’ulteriore distinzione nell’ordine temporale della narrazione:

ogni appello al lettore infatti fa un chiaro riferimento al tempo della fruizione del testo.

Da tale premessa consegue che l’intervento dovrà proporre alcune modifiche su: 1) i criteri in

base ai quali vengono stabiliti gli aspetti generali degli appelli al lettore nelle opere dantesche; 2)

il corpus degli appelli nella Commedia; 3) il significato e il ruolo degli appelli

nell’interpretazione del testi danteschi.

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Gibson Monteiro (Universidade estadual de Pernambuco): Homo viator nella Divina Commedia

Questo lavoro analizza la Divina commedia partendo dalla definizione di “Homo viator”. Per

questo il nostro studio si è concentrato sulla percezione dell’evoluzione del viaggiatore, che è

anche il protagonista dell’opera. Questo viaggiatore fittizio è concepito secondo un fascio di

relazioni che Dante-autore crea nel comporre le loro opere, di modo che abbiamo focalizzato

alcuni di questi elementi, per esempio: la presenza della nozione di esodo biblico, oltre a quella

di viaggiatore nautico greco-latino nella caratterizzazione di questo viaggiatore. Per analizzare

questi elementi, ci riferiamo a postulati della critica letteraria, alla teoria degli archetipi e a quella

della metafisica platonica. Inoltre, questo studio ha lo scopo di presentare il “Homo viator” come

metafora dell’instancabile ricerca umana della verità che arriva dal medioevo alla

contemporaneità.

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József Nagy (Eötvos Loránd Tudományegyetem, Budapest): L’ideale dell’Impero Universale

nella Monarchia e nella Commedia

L’autore, rilevando le argomentazioni teleologiche della Monarchia e comparando queste con i

riferimenti all’Impero Universale nella Commedia, inoltre per mezzo della ricostruzione critica

delle interpretazioni di Kantorowicz, di Kelsen e di altri studiosi, analizza alcuni aspetti

fondamentali del contesto culturale-religioso-politico in cui Dante ha formulato le proprie idee

etico-politiche, come anche le presupposizioni teorico-giuridiche che potevano influenzare

Alighieri nella stesura della Monarchia e della Commedia.

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Giuliana Nuvoli (Università degli studi di Milano): Virtù civili ed etica politica in Dante

L’etica di Dante ha, sino all’esilio, una dimensione squisitamente privata che gli deriva, in

particolare, dai Padri della Chiesa. A partire dall’inizio dell’esilio prende forma un’etica

pubblica per la quale l’individuo deve regolare i suoi comportamenti sul “bene comune”. In

questa seconda fase l’autore di riferimento è Cicerone, in particolare il De officiis, testo ben noto

anche in ambito cristiano per l’adattamento omonimo che ne aveva fatto Sant’Ambrogio.

L’intervento prende in esame questa trasformazione, partendo dalla Vita Nova e arrivando

all’inizio della scrittura della Commedia. Centrale è il Convivio che, combinazione di testi scritti

prima e dopo l’allontanamento da Firenze, mostra come il passaggio sia chiaro e inequivocabile

e si compia proprio nel quarto libro del trattato. La res publica terrena, il perno attorno al quale

ruotava l’etica ciceroniana, diventa la res publica celeste; né Firenze, né altri luoghi della

penisola italiana possono rappresentare lo Stato. Dante sposta, allora, il baricentro in una

dimensione ultraterrena: a questa egli si riferisce, a questa devono tendere – da ultimo - le virtù

civili dell’uomo.

L’etica pubblica di cui parlavamo, così, diventa universalmente valida: per ogni res publica, per

ogni Stato, per tuto il genere umano senza distinzione di spazio e di tempo.

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Raffaele Pinto (Universitat de Barcelona): Eterodossia e modernità: le immagini-movimento

nella Commedia.

La rappresentazione iconografica del gesto è oggi un importante terreno di ricerca per gli storici

del cinema, che nella esplorazione sulla genealogia del suo linguaggio fanno risalire le origini

della estetica cinematografica ad un mutamento di paradigma relativo alla rappresentazione di

immagini non più statiche e fisse, come negli oggetti di culto religioso, e, in generale, nella

concezione antica dell’arte, ma dinamiche e in movimento. In particolare Gilles Deleuze ha

descritto l’immagine-movimento, densamente impregnata di temporalità, come cellula originaria

e costitutiva del linguaggio cinematografico e ne ha indicato la primitiva formulazione

nell’ambito della nascita del pensiero scientifico moderno, che attribuisce al tempo un rango

teorico di prim’ordine, sconosciuto alla scienza antica.

L’ipotesi che mi propongo di verificare con la mia analisi è che tale primato della temporalità

venga acquisito alla cultura europea già in ambito poetico, nel quadro delle poetiche del

desiderio che dai trovatori a Petrarca trasformano la cultura letteraria, collocando l’immagine

mentalmente riprodotta al centro della vita morale del soggetto e determinando così il passaggio

dalla estetica antica a quella moderna. In tale prospettiva, la Commedia appare come il primo

testo letterario d’Occidente in cui l’immagine viene rappresentata nel suo dinamismo e descritta

nella prospettiva di una percezione soggettiva che ne coglie e valorizza non la collocazione

‘cultica’ nello spazio ma il suo divenire ‘esistenziale’ nel tempo. Verranno analizzati esempi di

tale “cinematograficità” immanente alla immagine rappresentata, che fanno della poesia di Dante

uno snodo essenziale verso la estetica moderna che celebrerà il suo trionfo nella tecnologia del

cinema.

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Diana Mary RAMÍREZ LÓPEZ, (Universidad de Los Andes Mérida-Venezuela): La visión de la

materia en el Infierno, Purgatorio y Paraíso en la Comedia de Dante Alighieri.

Uno de los rasgos que hace distinguir a Dante Alighieri es la fuerza del Lenguaje que plasma en

sus versos, aunada no a una simple elocuencia, sino a profundos conocimientos.

El estudio comienza percibiendo que, en el siglo XIII, Dante nos especifica la existencia de una

energía –en nuestra visión actual- distinta en el Infierno, el Purgatorio y el Paraíso. La materia

es atraída hacia el centro de la tierra, mas en los círculos estrechos y profundos del infierno

donde se anima una impresionante oscuridad, el poeta nos describe un aumento en la masa de

los cuerpos y a medida que los observamos en una escala macroscópica, innegable la

separación entre ellos, no sólo se mueven más despacio, produciendo un gran ruido al cambiar

de posición, sino que, tal cual como lo expresa Dante, nos muestra una dilación en el tiempo,

éste transcurre y se adapta a esa escala. Dante le llega a conferir a dicha materia, condiciones

de dureza, lo cual nos lo manifiesta al abrir un paralelo entre el derrumbe de una montaña y el

pesado desplazamiento de los demonios. La forma como Dante nos presenta a Dite es

comprimido sobre sí mismo; lo que en nuestro siglo se entiende como una forma densa de

materia: la energía congelada, pensamos, por ello, el hielo. Sabemos actualmente, que el frío

atenúa el movimiento de los átomos, ¿cómo podríamos entonces imaginar el tiempo?. Dante,

nos explica el estatismo de cualquier expresión de discernimiento, disminuyendo la capacidad

de percibir y de comprender. Cuando Virgilio le sugiere tener el coraje de ver al que un día fue

un bello ángel, y en el ahora, sufre la carencia del Amor divino, las palabras del poeta también

nos asombran: ¿cómo se podría privar de la vida y de la muerte?. Nos afirma de su poca

capacidad para escribirlo.

Hemos pasado al canto III del Purgatorio, la acción de las almas que vienen, pero que no

avanzan como si estuvieran suspendidas… y por el contrario, en el canto V, él abre la

comparación con la rapidez de la luz, a través de vapores… y la velocidad que de ella se

apoderan las almas para cruzar distancias. El predominio de la luz nos indica el descenso de la

acción gravitatoria concebida como venimos de apreciarla en el infierno.

Y así, llegamos al Paraíso, haciéndonos entrar en una verdadera realidad cuántica: ¿qué

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significado tienen esos impulsos –que logran los saltos a una velocidad, en su momento, tan

desconocida-, que hacen trasladar a Dante y a Beatriz por las distintas esferas?. A nuestro

inmortal poeta se le hizo difícil explicarlo.

Ed io era con lui; mal del salire

Non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, 35

Anzi il primo pensier, del suo venire.

É Beatrice quella che si scorge

Di bene in meglio si subitamente,

Che l’atto suo per tempo non si sporge.

E se le fantasie nostre son basse46

A tanta altezza, non é maraviglia,

Chè sovra il Sol non fu occhio ch’andasse

¿Disolvió Dante, la materia en el Paraíso?. El poeta nos muestra que la masa se convierte en

energía…

En conclusión, hemos pensado que estamos rezagados en comparación con la realidad de

Dante. Él tuvo percepciones de la naturaleza, que captó e intentó transmitirlas, no fue un

científico que las pudo haber reducido a las matemáticas, sino un poeta tocado por los dioses:

O buono Apollo, all’ultimo lavoro

Fammi del tuo valor sì fatto vaso,

Come dimandi a dar l’amato alloro

Además, al girar Virgilio, y estar en otra posición, ya que se presenta otro lugar distinto al que

se venía confrontando; porque tomando en consideración las palabras del poeta-guía, a la vista

de Dante, existe una posición que se le presenta en forma distinta; no sucede como lo pensaba

Dante, ¿o sólo lo percibe Dante?...”¿Dónde está el hielo?”. Podemos afirmar que el poeta

florentino ubicó a Dite, en el más bajo nivel de energía. Virgilio le dice: “Imaginaste todavía

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estar en la parte allá del centro donde me así yo al pelo del potervo monstruo que traspasa el

mundo. Estuviste allí todo el tiempo que tardé en bajar, más cuando me volví, penetraste por el

punto que de una y otra parte atrae así la gravedad del globo. Ahora estás bajo el hemisferio

contrapuesto…” ¿No queda como si se patentiza ¿“el llegar a estar”?, entendiéndose ¿cómo si

él hubiese fluctuado entre dos lugares y momentos distintos?. Acaso, ¿es una realidad que se

asemeja a la superposición de estados? ¿Él está o no está consciente de el estar vivo y el estar

muerto?.

Asimismo, cuando el poeta se refiere a las almas que están casi impresas en el hielo, prisioneras

en su propio estado de conciencia, que lo cataloga como “falta de inteligencia”, esboza la

duración de este estado como larga, sin luz, la acción gravitatoria se intensifica, perdiendo las

almas la facultad de comprender el verdadero sentido de la totalidad.

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Irène Rosier-Catach (Centre National per la Recherche Scientifique): L'uomo nobile e il volgare

illustre : paralleli tra la struttura del Convivio e quella del De vulgari eloquentia

Spesso sono state opposte la nobilità del latino, affermata nel Convivio, e la nobiltà del volgare,

vantata nel De vulgari eloquentia. Si tratta di una contraddizione soltanto apparente, che

poggia su due accezioni diverse di nobiltà. Cosa più importante, la nobiltà del volgare naturale è

molto differente dalla nobiltà del volgare illustre, esposta soprattutto nel secondo libro del De

vulgari eloquentia. E quest'ultima corrisponde invece alla nobilità definità in Convivio IV.

Partendo da questa constatazione si possono mettere in parallelo la costruzione dell'uomo

nobile e del volgare illustre, del Convivio e del De vulgari eloquentia: desiderio di sapere e

desiderio di ben parlare; constatazione che non tutti gli uomini realizzano questi desideri nella

stessa misura; diseguguaglianza che viene spiegata dalla presenza di una grazia particolare;

dovere che spetta a coloro che possiedono questa grazia di governare e guidare gli altri;

necessità che coloro che hanno ricevuto questa grazia la coltivino perché essa possa dare i suoi

frutti; responsabilità assunta da Dante di insegnare loro come coltivare questo seme, proietto

del Convivio per il sapere, e del De vulgare eloquentia per la lingua, cemente de la vita sociale.

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Nuria Sánchez Madrid (Universidad Complutense de Madrid): La nobiltà del poeta. Una lettura

del Convivio di Dante in chiave poetico-politica

La comunicazione partirà dall’apologia del volgare contenuta nel libro I del Convivio,

intendendo principalmente identificare le ragioni per le quali Dante ritiene necesario procedere

a una sorta di personificazione etica di una lingua vernacola come il toscano. Le proprietà della

nobiltà di una semantica e una sintassi sigillate dalla soavità e l’amore in tanto che motori di

conoscenza svolgono un importante ruolo nel progetto poetico-politico del nostro poeta.

Cercheremo di segnalare, in primo luogo, che secondo il Convivio una lingua naturale più che

artificiale, in grado di comunicare elevate tesi dottrinali agli uomini, non dovrebbe lasciarsi

sedurre dalle trappole del guadagno e dell’avarizia, cause della rovina sociale della struttura

comunale. In secondo luogo, sosterremo che il poeta che si esprima abilmente in una lingua

purificata dai vizi della koiné della teologia e della filosofia medievali assumerà il compito

proprio di un nuovo Nembroto, il cui «coto» non sarà più la costruzione di una torre che

scommetta in potere con la divinità, ma bensì un’attualizzazione delle potenze espressive insite

nella lingua naturale o phùsei, cioè, quella con cui il poeta ha «tutto [suo] tempo usato». Per

ultimo, ci occuperemo di determinare se Il Convivio potrebbe considerarsi un saggio germinale

di un programa poetico-politico materializzato finalmente nell’opera magna che rappresenta

La divina Commedia, che non a caso sovrasta per vari aspetti la prima.

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Rosario Scrimieri (Universidad Complutense de Madrid): De la heterodoxia a la ortodoxia en el

personaje de Beatriz: Vita nova e Commedia

¿La Beatriz de la Vida Nueva, aquella sobre la que Dante se propuso decir “quello che mai fu

detto d’alcuna”, va más allá de la Beatriz de la Commedia? ¿Podría considerarse comprendida

también dentro de esta “alcuna” la figura de la Virgen María, última presencia femenina del

Paraíso? Tratar de contestar a estas preguntas pone de manifiesto el espacio entre ortodoxia y

heterodoxia en que se mueve Dante en su obra juvenil pues la intuición de Dante sobre Beatriz

al concluir la Vida Nueva parece que sobrepasa lo que explícitamente dirá de ella en los tres

últimos cantos del Paraíso.

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Luigi Tassoni (Pécsi Tudományegyetem): L’immagine del pensiero e il pensiero come immagine

nel De vulgari eloquentia

Lo studio affronta il tracciato della retorica del discorso di Dante come percorso intorno al tema,

osservando il modello di costruzione progressiva e quello di regressione comparata con la

problematica delle origini, e complicata da una serie di digressioni, opposizioni, biforcazioni,

annullamenti, eccezioni, exempla. Nei punti fermi di questo tracciato di senso si indicano le

tappe di un pensiero che si sviluppa nel farsi della scrittura del testo. Inoltre l’analisi della

scrittura del De vulgari eloquentia si apre a dimostrazione dei processi creativi del linguaggio

testuale, come appare dalle gerarchie messe in atto per la comprensione selettiva e orientativa

della locutio in quanto enunciazione elementare del dire da un piano di non necessità a uno di

necessità del dire comunicando, e fino alla nobiltà del vocare poetando, insomma della parola

della poesia come discorso alto.

Parallelamente lo studio mette in rilievo la qualità del parlare nobile e di quello non nobile, tra

istanze di molteplicità e istanze di unità, tra «imitatio soni nostrae vocis» e il silenzio locutorio

concesso agli angeli, con la posizione mediana dell’ (umana) elaborazione rimico-ritmica del

suono come parola sceltissima della dulcedo, nonché tra immutabilità delle locutiones e

differenze molteplici della percezione umana.

Momento centrale di attribuzione di referenti specifici è naturalmente quello che delimita i campi

semantici pertinenti e oscillanti, là dove si diversificano i sinonimi di eloquium, ydioma, lingua e

sermone. Qui, come in altri sèmi fondamentali del trattato, si motiva la posizione di Dante come

voce del testo che identifica se stesso come ricettore, testimone, rielaboratore, nuovo inizio,

riguardo al pensiero del linguaggio, sul linguaggio e dentro il linguaggio (poetico). Che cos’è la

poesia? In che misura essa comunica? E in che relazione Dante la pone con il «dire» elementare?

A questo scopo la piccola autoantologia dantesca indica un interessante percorso di senso fra le

rime. La tipologia selettiva di un linguaggio alto e adatto alla scrittura poetica, esemplificato

nell’ autoriferimento a precisi testi poetici dello stesso Dante, non è un percorso chiuso ma un

percorso emblematico del dire, del parlare, dello spazio necessario, insostituibile e primario della

poesia sia come forma della dulcedo enunciata sia come concatenazione e combinazione

progressiva del senso.

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Natascia Tonelli (Università degli studi di Siena): Dante lirico fra tradizione e innovazione:

l’invenzione del Canzoniere moderno

Dato per acquisito il presupposto dell'autorialità della serie di canzoni dantesche così come

restituita dall'edizione critica di De Robertis, l'intervento si propone di indagare quali siano gli

elementi di novità di tale macrostruttura rispetto alle precedenti modalità autoriali di trasmissione

di liriche; e di quale possa esser stato lo specifico contributo di tale raccolta al costituirsi di

quello che sarà il 'canzoniere' (in senso moderno) per antonomasia, il canzonierepetrarchesco.

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Maria Rita Traina (Università degli studi di Siena): Il volgibile cor di Cino da Pistoia: l’auto-

ostentazione dell’antietica amorosa e la percezione dell’esperienza poetica individuale come

grande narrazione.

Negli ultimi tempi il dibattito intorno alla corrispondenza intercorsa tra Cino da Pistoia e Dante è

particolarmente acceso. Alla ricerca delle possibili ragioni che hanno indotto diversi dei suoi

corrispondenti, tra i quali l’Alighieri, ad accusarlo di falsità e volubilità amorosa, s’è addirittura

ipotizzato che alla realtà extraletteraria si dovesse fare appello per trovare un fondamento ai

rimproveri dei corrispondenti (Giunta). È però possibile dimostrare che i rimproveri mossi a

Cino trovano la loro ragion d’essere all’interno della produzione poetica del pistoiese e solo in

essa. A cominciare da Dante, i cui avvertimenti – a parte in Io mi credea – tengono sempre dietro

a delle precedenti auto-rappresentazioni ciniane di amori sempre nuovi e diversi: la donna verde,

la donna in drappo scuro o la Mala spina; finché la strenua fedeltà a un’etica anticortese e non

monogama approderà all’orgoglioso ribadimento (poetico innanzitutto) delle mille donne sparte

di Poi ch’i’ fui Dante. Che le accuse rivolte a Cino siano diretta conseguenza di un suo

comportamento poetico emerge anche dalle altre corrispondenze in cui quelle vengono reiterate,

anche se dal coacervo tradizionale va esclusa la corrispondenza con Cacciamonte da Bologna

(che verte su altre questioni che non hanno nulla a che vedere con la doppiezza in amore). Va

riletta con attenzione anche la corrispondenza con Guelfo Taviani il quale accusa Cino di

doppiezza e falsità in toni aggressivi e in un dettato ‘comico’. Infatti, i presunti missivi ciniani

nulla hanno che formalmente li renda testi di corrispondenza (si risolvono in una variazione sul

tema dell’ennesima donna: Teccia-cavaliere, costituendo ciclo a sé stante); in secondo luogo –

ed è ciò che qui importa – il Taviani tira in ballo Selvaggia (tradita, quindi), altrimenti taciuta da

Cino e affatto estranea alla corrispondenza (la catacresi della coppia è petrarchesca e si trova nel

Triumphus cupidinis). È probabile che Guelfo abbia scritto i sonetti a latere. La coerenza

richiesta a Cino è una coerenza a tutto tondo, giustificata con un occhio alla sua intera (o a gran

parte) produzione poetica. Se la corrispondenza in sei battute con Gherarduccio non pone

problemi quanto al suo statuto, anche qui le accuse di doppiezza travalicano l’occasione dello

scambio perché il bolognese rimprovera Cino di amare contemporaneamente l’anonima donna

dei missivi e una certa pola (anche in questo caso, né allusa, né mai nominata da Cino nella

corrispondenza), dietro la quale sembra ragionevole intravedere la merla che avvinghia il poeta

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nell’ennesimo ciclo (quello del Cino lussurioso, come notato recentemente da Marrani). Al ciclo

della merla e al ciclo di Teccia-cavaliere va aggiunto anche lo sviluppo vitanovistico del tema

del doppio amore convogliato nella serie dei sonetti del Marciano (Venezia, Biblioteca

Nazionale Marciana, Italiano IX 529) e riconosciuto da Marrani recentemente.

Lo studio è volto quindi a suggerire una nuova possibilità di lettura per i testi in cui si declina la

celeberrima volubilità di cuore di Cino – in primis quelli in cui è direttamente coinvolto Dante –

assumendo come punto di partenza un’analisi ‘intra-generica’, dal momento che queste accuse

vengono palesate unicamente nei testi di corrispondenza, luoghi in cui il rimatore pistoiese

mostra l’incorreggibile tendenza a ‘mettersi avanti’ in prima persona con la sua esperienza,

anche quando il contesto (una questione più generica, ad esempio) non lo richiede (è il caso di

alcuni resposivi). Questa ricercata esibizione investe soprattutto le auto-rappresentazioni ciniane

in sede di dialogo in versi: è agli interlocutori che Cino esprime il suo bisogno di conferme, la

ricerca di consigli o la speranza del semplice compatimento. La vicenda intima (nelle sue

multiformi sfaccettature) diviene mezzo di ostentazione principale delle proprie avventure

amorose (il soggettivismo lirico venendo a coincidere, nei fatti, con la possibilità stessa di fare

poesia) e l’individualità sentimentale coacervo di possibilità poetiche.

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Silvia Tranfaglia (Università di Bologna): Per una poetica dell’immanenza: natura e arte

nelle ‘petrose’ dantesche

Con le ‘petrose’ Dante apre il discorso poetico a prospettive del tutto inedite rispetto al dire di

Amore così come si era andato configurando alla nascita di una lirica moderna in volgare di sì.

Proposito di questo intervento è quello di mostrare come l’estrema complicazione della forma

delle quattro canzoni dantesche in nome di ‘Petra’ leghi il problema cruciale della significatività

della forma a una ricerca che è essenzialmente una volontà di esplorazione conoscitiva.

Lo scavo nelle potenzialità espressive della parola poetica e nei meccanismi che regolano la

costruzione del metron restituiscono infatti la chiave di accesso a una novitas che è “novità di

visione delle cose”.

Una novità che è perseguita attraverso la sapientia dei classici: Virgilio, Ovidio, Lucano, ma

anche Seneca offrono a Dante l’occasione di sperimentare un linguaggio capace di descrizioni di

estrema precisione, che, lontane da ogni intento di puro didatticismo, muovono intorno a un

ritrovato rapporto parola-realtà. La parola, veicolo di Amore per eccellenza nella poesia delle

Origini, diventa, nell’esattezza terminologica delle petrose, accessus alla realtà che si disvela

nella molteplicità degli elementi. Ed è una parola che ritrova la sua aderenza al reale non in uno

sforzo mimetico-descrittivo, ma nell’evidenza di un’intima corrispondenza dell’espressione

all’immagine rappresentata.

Arte e scienza (scienza della natura in specimen) sono i poli dialoganti di una poesia che

scaturisce dalla tensione, sempre viva in Dante, a rinnovare gli orizzonti gnoseologici di una

riflessione che è poetica e esistenziale insieme.

La struttura formale della repetitio (che diventa suggestivo jeu des constantes et des variables

nella sestina, incalzante riproposizione di un tema dato in Io son venuto al punto de la rota,

tentativo di una sistematica explicatio delle ragioni e delle conseguenze di Amore in Amor, tu

vedi ben che questa donna) traduce sul piano strutturale l’estrema esperienza di un amore chiuso

nella immanenza mortifera di un presente assoluto.

Unico scarto possibile di fronte al pericolo di un canto poetico serrato nella ‘dura petra’ è il

convergere di ‘dire’ e ‘agire’ teorizzato in Così nel mio parlar voglio esser aspro, dove l’azione

si fa parola, la canzone saetta. Ma questa nuova dimensione della parola poetica sarà

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compiutamente realizzata solo nella Commedia, laddove l’impresa del viaggio coincide con la

scrittura del libro.

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Paola Ureni (City University of New York-College of Staten Island): Medicina e pensiero

radicale. La presenza del pensiero galenico nella Commedia.

Il pensiero medico medievale contribuisce in profondità al più ampio dibattito filosofico sulla

definizione di anima individuale, e in particolare sulle relazioni fra attività sensitive e intellettive

dell’anima. Sulla base della supremazia attribuita alla dimensione corporale, emerge la

possibilità di investigare ulteriori connessioni fra il cosiddetto pensiero radicale e la medicina

medievale. La presenza, accreditata dalla critica, del sapere medico attraverso l’opera dantesca,

solleva questioni di natura filosofica e teologica, secondo un’intersezione dei campi di pensiero

che rende la medicina partecipe di nodi cruciali nella dialettica, propria del dibattito del tempo,

fra prospettive intellettuali ortodosse e eterodosse. Focali per la discussione intellettuale in

genere, e la scienza medica in particolare, sono questioni quali l’interazione fra le dimensioni

corporale e razionale, e, ancora più nello specifico, la natura dell’intellezione umana, la sua sede,

i suoi eventuali limiti. Linee di pensiero considerate pericolose (perchè eterodosse) penetrano nel

dibattito del XIII secolo anche attraverso l’approccio scientifico, clinico, quasi deterministico,

del sapere medico. Owsei Temkin sottolinea come “Galenic basic medical science, i.e., his

doctrines of Nature and of the elements, qualities, and tissues, together with his doctrine of

research presupposed the validity of the Aristotelian approach to nature and to knowledge”; sulla

base di un approccio scientifico che trova convalida in un metodo dimostrativo, la rinnovata

diffusione di testi sia galenici che aristotelici caratterizza il XIII secolo e procede su binari/linee

parallele e a tratti in relazione. Nancy Siraisi documenta la riscoperta del sapere galenico da parte

del circolo bolognese che fa capo a Taddeo Alderotti: Bologna, centro di discussione e sviluppo

del pensiero aristotelico radicale, accoglie anche la riscoperta e la rinnovata attenzione per altri

testi passibili di contenuti eterodossi, quelli medici della tradizione galenica. La supremazia

accordata da Galeno alla teoria della complessione corporea e dunque alla dimensione corporale,

determina anche una dipendenza dell’anima dal corpo che suggerisce lo studio di possibili

relazioni fra galenismo e epicureismo. Sulla base del rinnovato interesse per i testi galenici nel

XIII secolo, questa comunicazione considera aspetti radicali del pensiero medico e

specificamente galenico, e, sulla base di tale prospettiva, propone di investigare e rileggere la

presenza di una traccia gelenica (radicale o no) attraverso la scrittura dantesca con particolare

attenzione alla Commedia.

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Juan Varela-Portas de Orduña (Universidad Complutense de Madrid): Il corpo eterodosso di

Dante Alighieri

La pretesa di verosimiglianza è una caratteristica schiettamente sovversiva nella Divina

Commedia. Il fatto che un laico affermi di essere salito fino all’Empireo, come Paolo, ed essere

ritornato con gli “affetti sani” per raccontar la propria esperienza, e tutto ciò in virtù di una

missione divina assegnata direttamente a lui, fu senz’altro difficile da accettare per le autorità

ecclesiastiche e per la mentalità più strettamente feudale. Ma per dotare di tale carattere

verosimile il racconto, Dante dovette risolvere dei problemi non trascurabili. Abbiamo già

parlato in altra sede della risorsa del sogno come modo per collegare gli “affetti” di Dante

visionario e Dante visionato. Ma questa risorsa non servirebbe a nulla se Dante visionario non

fosse salito in cielo con il corpo o almeno con i sensi e l’immaginazione completamente in grado

di agire. L’intervento esaminerà come Dante risolve nel Paradiso la questione del corpo e come

articola letterariamente –ma anche gnoseologicamente e teologicamente– quel nonsense che

presuppone l'essere nell’Empireo, luogo non materiale per eccellenza, con la propria materialità

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Marco Veglia (Università di Bologna): La conversione di Beatrice

L'immagine di Beatrice, prima della Commedia, è almeno duplice, se consideriamo ciò che entra

e ciò che esce, o non entra affatto, nel libello giovanile. Diventa triplice se, come credo, alcuni

tratti della Pietra, e perfino della Pargoletta, vanno riferiti alla multiforme natura della figlia di

Folco Portinari. Il rischio di non cogliere la conversione di Beatrice si traduce nel rischio di non

comprendere esattamente la conversione di Dante. L'attenzione, allora, va portata più da vicino

sul principio del poema e in particolare sui canti I-II. La durezza di Beatrice, la sua indifferenza

allo smarrimento di Dante, portano a un rimprovero celeste: Lucia, "nimica di ciascun crudele",

redarguisce Beatrice e questa si affretta a persuadere Virgilio a intervenire per la salvezza del

poeta. L'ingranaggio del poema prevede allora che la conversione di Dante, il suo viaggio verso

Beatrice, cominci con l'insolita, prodigiosa conversione di Beatrice.

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Éva Vígh (Szegedi Tudományegyetem): La «doppia fiera». La lettura del grifone tra Medioevo

ed età moderna

Il codice interpretativo dei vari animali nell’opera dantesca ricalca, da una parte, le concezioni

radicate nei vari bestiari, dall’altra, dimostra la fantasia e l’osservazione acuta di Dante nei

confronti del mondo animale. L’esegesi simbolica degli animali può rappresentare un valido

strumento per poter operare un raffronto con la produzione letteraria anteriore, contemporanea e

posteriore alla Commedia, produzione alquanto ricca di simbologie animali. Ora, considerando

una delle linee proposte del convegno (La questione della conoscenza: filosofia, sapienza, fede,

immaginazione), mi accingo a percorrere brevemente la descrizione e la natura allegorica del

grifone nelle fonti antiche presumibilmente note a Dante e in alcuni testi della prima età moderna

per accentuare l’ingegnosa idea del nostro poeta nell’immaginare, al timone del carro nella

processione nel Paradiso terrestre, la «fiera / ch’è sola una persona in due nature».

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Eduard Vilella (Universitat Autònoma de Barcelona): “La mente ov’io la porto” (RimeV, 34):

l’io lirico fra eterodossia e ortodossia?”

Sono diversi i fronti vincolati all’espressione della soggettività nell’opera di Dante che è solito

indicare quali elementi rilevanti nella storia della letteratura, un discorso sviluppato in speciale

dalla Vita Nuova e dalla Commedia, ma per il quale l’ambito delle Rime offre ovviamente

numerosi spunti. Il mio proposito è la lettura in questo senso di versi di Amor che movi

osservandone le loro particolarità in quanto “ultimo esito del motivo siciliano della pintura”

(Contini), dalla prospettiva di un’eventuale incipiente costruzione dell’io lirico.

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Raffaela Zanni (Università di Roma La Sapienza- Université Lille 3 “Charles de Gaulle”): Tra

curialitas e cortesia nel pensiero dantesco: una ricognizione (e una proposta) per Dve I, xviii, 4.

La comunicazione intende proporre un affondo sul concetto medievale di cortesia nel pensiero

dantesco, che esula dal più comune retaggio (e vagheggiamento) delle antiche virtù cavalleresche

(fino ad ora assai indagate dal punto di vista dantesco), e che si inserisce invece in un ambito

speculativo e di azione preminentemente politica. Si intende quindi dimostrare come un tale

campo di tensioni possa aver orientato, sulla scorta di una indiscussa fonte del pensiero politico

medievale (e dantesco) come Egidio Romano, la scelta dell'epiteto curiale per il volgare da parte

di Dante De vulgati eloquentia. Un sorprendente corto-circuito linguistico-semantico tra il

termine latino curialitas e il corrispettivo romanzo ‘cortesia’ (in una filiera para-etimologica

sulla base dell'assai precoce assimilazione da parte del latino curia e derivati dell'originale cohors

- che sopravvive come etimo negli esiti romanzi) si riscontra parallelamente in contesti assai

differenti, che hanno entrambi indubbiamente influenzato il farsi del pensiero dantesco: la

trattatistica erotica cortese del De amore e suoi volgarizzamenti toscani, da un lato, ma

soprattutto il pensiero filosofico-politico espresso nel De regimine principum da Egidio Romano,

tra redazione originale e suoi volgarizzamenti romanzi (antico-francese e toscano, praticamente

coevi all'originale). La resa volgare di curialitas con cortesia opera una sovrapposizione di campi

semantici arrivando sostanzialmente ad un unico concetto ; curialitas/ cortesia costituisce per

Egidio la virtù per eccellenza dell'essere nobile, un complesso valoriale sommo e misurato di

potenziamento in atto della nobiltà e di esercizio della stessa (da parte di colui che in quanto

nobile è preposto al governo della res pubblica, sia esso il principe, il sovrano ecc. - ma anche il

podestà forestiero nella riflessione di Brunetto): ciò raggiunge l’Alighieri al momento dell’esilio,

nella composizione del De vulgari e del Convivio ove il letterato e l'intellettuale si interroga

profondamente (a livello filosofico e nella sua ricaduta pragmatica) sul proprio rapporto con le

istituzioni e sulla propria collocazione al di fuori o dentro di esse (quella tensione irrisolta che

diventerà paradigmatica nel modello intellettuale proposto da Petrarca), sul concetto di nobiltà

(di sclatta e di core), e sul ruolo non solo poetico, ma politico della locutio volgare. La

trasposizione intatta di tale campo di tensioni nella Commedia permette di comprendere meglio,

sotto tale rispetto, gli esempi di magnanimità cittadina e il richiamo alla nobiltà e cortesia del

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buon tempo antico operato da Dante, nonché l’investitura poetico-politica da parte del nobile avo

Cacciaguida.