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dicembre 2011 & Gabiano e dintorni Il mensile della nostra terra In copertina : Rocca delle Donne - Camino

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dicembre 2011 Gabiano e dintorni Il mensile della nostra terra In copertina : Rocca delle Donne - Camino consta di un campo di gioco di mi- nori dimensioni (dipende dallo spa- zio offerto dalla palestra), ed una pallina più leggera e quindi meno veloce. Presso la palestra di Portacomaro, le ragazze e i ragazzi under 12 del Gabiano serie C femminile: Monferrino Francesca, Monchietto Elisa, Barbieri Emilia, Muzio Jessi- ca, Cabiale Jessica, Sara Bizzotto. 2

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In copertina : Rocca delle Donne - Camino

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Sono incominciati nella metà di ottobre, i vari campionati indoor di tamburello. A differenza della spe-cialità open, la versione “al chiuso”,

consta di un campo di gioco di mi-nori dimensioni (dipende dallo spa-zio offerto dalla palestra), ed una pallina più leggera e quindi meno veloce. Presso la palestra di Portacomaro, le ragazze e i ragazzi under 12 del

Tamburello: al via la stagione indoor

Gabiano under 12 femminile: Muzio Sonia, Cassina Arianna, Bertin Debora, Minchilli Marta, Curletti Elisa, Aurora Mauro, Erika Bione. L’allenatore Francesco Bonando. Gabiano under 12 maschile: Manca Riccardo, Spalasso Riccar-do, Bione Marco, Villani Jacopo, Mazzucchelli Micael, Iermieri Tommaso, Cavallo Michele, Spalasso Valentino,

Gabiano hanno inaugurato il cam-pionato di categoria, giocando ri-spettivamente contro Piea e Tiglio-le. Per entrambe le formazioni ga-bianesi è stato il debutto in una competizione ufficiale. Le giovani atlete, visibilmente emozionate, non si sono di certo fatte intimorire dai più quotati avversari e per giunta tutti ragazzi (il campionato under 12 è unico e congiunge in un unico girone le squadre maschili con quelle femminili). Dopo aver perso il primo gioco, le giovani at-lete hanno offerto una prova di carattere, colpendo la pallina con sicurezza, agguantando un ottimo pareggio ed una conseguente sod-disfazione per il risultato raggiunto.

Per i ragazzi, invece il debutto ha avuto il sapore di una brutta scon-fitta. L’emozione ha tirato un brutto scherzo ai giovani atleti gabianesi, i quali non sono riusciti a dimostrare appieno il proprio valore e rime-diando soli 3 giochi nei confronti del Tigliole. Siamo certi, che consci delle loro qualità tecniche, lavoran-

Gabiano serie C femminile: Monferrino Francesca, Monchietto Elisa, Barbieri Emilia, Muzio Jessi-ca, Cabiale Jessica, Sara Bizzotto.

di Riccardo Bonando

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Da diversi anni ormai, il torneo 3 contro 3 di tamburello, è la manife-stazione che chiude l’annata tam-burellistica nella Valcerrina. Molto apprezzata da giocatori e tifosi, questa specialità, a differen-za del classico 5 contro 5, permette un gioco veloce e meno attendista, data l’assenza dei terzini (i giocato-ri che operano sulla linea di metà campo). Le dimensioni del campo, larghezza e lunghezza non sono modificate, mentre al centro del terreno di gio-co, la linea di mezzeria è sostituita da un incrocio di due linee che danno origine a una zona neutra. Iniziato a metà di settembre, il tor-neo vedeva ai nastri di partenza ben 12 formazioni, suddivise in quattro gironi di qualificazione. In base alla classifica nel proprio rag-gruppamento, le squadre accede-vano alle fasi finali di serie B, C e D. Sabato 29 ottobre alle ore 14:30 presso lo sferisterio “Italo Bosco” di

Cerrina (sede di gioco dell’intero torneo), si svolgeva la finale di se-rie C fra il Cerro Tanato e la forma-zione locale del Real Cerrina. Partita inizialmente a senso unico per la formazione Cerrinese, che si portava addirittura sul 5 a 1 in pro-prio favore. Da quel momento, il maggiore tas-so tecnico degli astigiani, con un ottimo Ferraris, macinava giochi su giochi concludendo vittoriosamente la partita con il risultato in proprio favore di 10 a 6. A seguire, si disputava l’assegna-zione del titolo di serie B fra la for-mazione del Grazzano (Fracchia V. - Monzeglio M. - Gaggiano), proveniente dal muro, e la forma-zione del San Paolo di Cerrina (Andrin A. - Raschio - Mazzo-la). Incontro molto bello, giocato a viso aperto dalle due compagini, con palle tagliate da fondo campo e ottimi recuperi.

Tamburello: assegnati i titoli del 3 contro 3

do sodo negli allenamenti, sapran-no comunque ottenere lusinghieri risultati. Anche le atlete più grandi, hanno giocato la loro prima partita nel campionato di serie C indoor presso la palestra di Cossombrato.

Purtroppo una brutta sconfitta all’e-sordio contro la formazione del Cinaglio. Le astigiane si sono dimo-strate più sicure nel gioco al volo e nelle chiusure ravvicinate, coglien-do la vittoria con un sonoro 13 a 2.

La voglia e la passione comunque non mancano e se sapranno mi-gliorarsi ed affinare la tecnica, po-tranno sicuramente cogliere qual-che vittoria contro squadre alla loro portata.

Il risultato finale di 10 a 8, premia-va il Grazzano, ma una vittoria del San Paolo non avrebbe di certo fatto scalpore, penalizzato sola-mente da qualche episodio sfavore-vole. Domenica 30, ultima finale nel pomeriggio, fra la formazione del Varengo e quella del Vignale per l’assegnazione del titolo di serie D. Anche qui, continuo equilibrio fra le due formazioni in campo, con palleggi profondi e chiusure basse dei centrali. Alla fine, la bravura e la sfrontatez-za dei giovani di Varengo aveva la meglio e si aggiudicavano l’incontro con il punteggio di 10 a 8 in pro-prio favore. Al termine di ogni finale, il Sindaco di Cerrina Aldo Visca, coadiuvato dal Vicesindaco, nonché ottimo interprete delle discipline sferisti-che, Luigino Materozzi e l’assessore Marco Cornaglia, premiava le for-mazioni giunte all’atto finale della manifestazione.

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Bonando Francesco, per tutti “Ceco”, porta con disinvoltura i suoi 86 anni. Lo si può incontrare spes-so sulla piazza di Villamiroglio. Cammina lento, ogni tanto si ferma per sentirsi addosso quest’ultimo sole d’inverno. Ha l’aria tranquilla e la sigaretta accesa fra le mani. E’ uno degli ultimi Partigiani rimasti; un Partigiano della “Monferrato”. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia. Mi ha dato appuntamento a casa sua, in compagnia della mo-glie Rosa. Comincia a raccontare, a tornare indietro con la memoria… Tutto comincia nel 1942 a soli di-ciassette anni. Chiamata alle armi, con massimo otto giorni di tempo per presentarsi al comando. Mi mandarono sopra le montagne della Val Sangone vicino Coazze. Nel settembre del 43’ firmato l’ar-mistizio, con l’esercito ormai sban-dato, decidemmo di restare in quel-la zona. Data la poca conoscenza del territorio e la possibilità di esse-re catturati, decisi insieme ad alcu-ni miei compagni di fare ritorno a casa. Giunti a Torino, bisognava attraversare il ponte controllato dai nazifascisti. Per fortuna molta gen-te stava con noi. Ci dissero di an-dare a chiedere ad un commercian-te di bestiame di trasportarci dall’-altra parte. Ci fece mettere nel cas-sone del camion e ci ricoprì di pa-

glia. Verso le quattro del mattino par-timmo, attra-versammo il ponte senza problemi arri-vando fino ad un vicino bo-sco, dove ci fece scendere. Quell’uomo bisognava ve-ramente rin-graziarlo, ma non avevamo niente. In tre notti arrivammo a casa. Figurarsi

la mia famiglia, che da un anno non aveva mie notizie, come mi accolse. Nel frattempo su queste colline, si era costituita la Brigata Autonoma Monferrato. Entrai a farvi parte con il nome di battaglia “Walter”. Il no-stro comandate si chiamava Mario-lino del Pozzo (frazione di Odalen-go Grande ndr); era un uomo giu-sto, guai a noi se ci permettevamo di fare dei torti alla popolazione. Eravamo continuamente in movi-mento. I nostri nascondigli erano a Monte Croce, Sant’Antonio e Oda-lengo Grande. Come in tutte le cose, come in ogni situazione, ci sono buoni e cattivi da qualunque parte. C’era una banda partigiana nella Valcerrina che operava in modo ambiguo, usando la forza con la popolazione civile per avere del cibo ed arrivando perfino ad ucci-dere ingiustamente un uomo. Così un giorno ci dirigemmo a Piancer-reto e circondammo con armi il gruppo di sbandati. Chiedemmo chi era il loro comandante. Ce lo indi-carono. Dicemmo agli altri di tor-narsene a casa. Il Comandante lo arrestammo. Dopo due giorni lo portammo in piazza a Piancerreto e lo fucilammo davanti al plotone di esecuzione con la gente che ci bat-teva le mani. Non potevamo fare diversamente, erano delinquenti, non Partigiani. Le armi e le munizioni ci arrivavo tramite gli aviolanci degli alleati. Avevamo anche bisogno di gasolio per far funzionare i nostri mezzi. Eravamo stati informati che un’au-tobotte carica di carburante sareb-be passata da Crescentino. La fer-mammo sul ponte e la portammo fino in piazza a Villamiroglio, men-tre i due tedeschi che erano sul mezzo, furono internati nella chie-setta di San Michele. Al successivo rastrellamento, decidemmo di libe-rarli per evitare che bruciassero l’abitato. Verso la fine della guerra fu ucciso

Bonando Francesco, Partigiano della Monferrato

Continua a pagina 9

di Riccardo Bonando

...lo fucilammo davanti al plotone di esecuzione con la gente che ci batteva le mani. Non potevamo fare diversamente, erano delinquenti, non Partigiani...

Bonando Francesco

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atte a contenerlo, anfore a due manici per berlo, sostituendo così la comune e quotidiana bevanda, allora ottenuta dai datteri della pal-ma, l’antenata della moderna birra. Siamo arrivati a 5000 anni prima di Cristo, e da come e quanto siano stati rappresentate sia la vite che il vino nella storia (coppe, sculture ecc), sembra proprio un nuovo mi-to, destinato ai più ricchi, e distri-buito al popolo solo in occasioni di feste importanti, negli Egizi quella in onore di Osiride, divinità a cui era dedicato. Disegni e affreschi di calici, anfore e cesti di uva sono stati rinvenuti in tombe di 5/6000 anni or sono e in un affresco particolare viene raffi-gurata tutta la fase, dalla raccolta effettuata su colline artificiali per una più esatta esposizione al sole, addirittura con viti a pergolato, alla vendemmia in grandi ceste di vimi-ni, al rovescio dell’uva in grandi tini, e alla pigiatura, allegoricamen-te rappresentata da figure gioiose e festanti, alla raccolta del mosto fatto passare attraverso grandi pezze di stoffa, forse lino, e raccol-to in anfore più piccole, e messo in orci di pelle per il trasporto. Sia nel Vecchio che nel nuovo Te-stamento si parla di uva, di vite; ricordiamoci delle nozze di Cana, oppure del legame del vino al san-gue di Cristo. Peccato però per i cinesi che con-trariamente al solito, questa volta, e con certezza, nulla hanno potuto con questo “prodotto”. Certamente la civiltà del vino mar-ciò di pari passo con le civiltà egizia e fenicia, la prima per la produzio-ne, e la seconda sia per la produ-zione che per il trasporto con la loro efficientissima flotta. Per gli Egizi il vino era una bevanda quasi sacra, non ne veniva fatto uso nelle libagioni, peraltro scarsis-sime, al contrario della civiltà greca che prevedeva un uso più “leggero”. In effetti negli affreschi Egizi si no-

Il sommelier racconta…… Questo mese raccontiamo un po’ di storia e di curiosità sulla vite e sul vino

Se per l’uovo e gallina e’ secoli che si presenta il problema su chi e’ apparso prima sul pianeta, per l’uo-mo e la vite non si discute: e’ ap-parsa prima quest’ultima, e sembra molti milioni di anni fa. Indubbiamente una pianta molto diversa da quella che abbiamo ora noi sotto gli occhi, piu’ rude, abbar-bicata a qualche albero, sembra con uno o due grappoli molto gros-si. Il primo fossile di vite pare sia stato trovato in Francia, nella zona dello Champagne in un piccolo pae-sino nominato Sezanne, ma l’Italia per non restare indietro ha rinve-nuto nella zona di Verona l’Ampelo-phillum Veronensis. Ai tempi degli ominidi nostri ante-nati, di viti ce n’erano di parecchie specie, fra cui la vitis vinifera, deri-vante da quella selvatica, tanto e’ che fossili di vitis ne sono compar-se in tutta Italia, e qui gli studiosi hanno avuto il loro bel da fare, concordando pero’ sul Quaternario come comparsa. Pero’ quello che possiamo solo sup-porre e’ la nascita del vino. Anche i grappoli d’uva venivano raccolti e si pensa conservati per i momenti difficili, e siccome il pro-cesso di vinificazione e’ un proces-so naturalissimo, niente e nessuno può proibire all’uva di fermentare. Chissa’, forse un grappolo d’uva dimenticato, ripreso ed assaggiato dopo un po’ ha potuto piacere… e allora perche’ non rifarlo voluta-mente? Pare che la culla dell’agricoltura sia stata la zona che oggi si dividono

Iran, Siria, Tur-chia e Armenia, e pare che lì sia iniziata la coltura della vite. Che il vitigno Sirah non sia proprio nato lì ? Sono state sco-perte “cantine” che potevano ospitare fino a 150.000 litri di vino ed anfore

Un po’ di storia della bevanda che da secoli caratterizza le nostre colline: il vino

Continua a pagina 9

di Sergio Ramoino

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Il 17 novembre 1901 la nuova mis-sione parti ufficialmente da Cuya-bà. Dopo due mesi di viaggio giun-gemmo al luogo prestabilito.

Non so se esultarono tanto i crociati alla vista di Gerusa-lemme! Scelto il luogo più con-veniente, scendemmo tutti di sella, e, inginocchiatici, ba-ciammo quelle vergini zolle, dove con l’aiuto di Dio, doveva sorgere la prima casa e la pri-ma cappella della nuova mis-sione. A giugno, il giorno di S. Giovanni, per festeggiare la ricorrenza si bevette una botti-glia di vino. Eravamo in quat-tordici persone, e fu l’unica che si bevette in cinque mesi. La seconda la bevemmo dopo cin-que anni, ma era vino fatto con l’uva delle viti da noi piantate e quindi non era…barbera. Finalmente dopo tanta attesa il 7 agosto ci fu la tanto sperata notizia Padre, ecco gli indi! Corsi là, donde era venuta la voce e vidi cinque selvaggi ro-busti e forti, tutti nudi e spor-chi con i capelli lunghi, armati di arco e freccia che gridavano: Padre Bororo boa (siamo Boro-ro buoni) A quelle voci Bororo boa, io corsi incontro e li abbracciai, senza paura di sporcarmi al contatto di quei corpi tutti pitturati di urucù e di nero. L’invitai nella nostra ca-panna: Ci siamo stabiliti in questo luogo con l’unico fine di far del bene a voi e difen-

dervi dalle persecuzioni dei civilizzati. Ma i bianchi sono cattivi e ci ammazzano, ribatterono subi-

to. Non accadrà più, i bianchi me l’hanno pro-messo. Li tenni due giorni con noi, m’informai della lo-ro vita, dei compagni e dell’abitazione. Andate a chiamare gli altri e venite tutti ad a-bitare con noi dissi. Che cos’hai tu mangiare qui? Non hai meliga, non

hai mandioca, non hai canna da zucchero e i Bororo mangia-no molto. Avete ragione, risposi ma ne prepareremo. Noi andremo, se è così ritorne-remo dopo tre lune. Diedi loro alcuni regali da por-tare anche agli altri capi e se ne partirono contenti e soddi-sfatti. La rinnovata speranza, l’incontro con gli indigeni, portò all’interno della colonia grande entusiasmo. Passati tre mesi, gli indigeni arriva-rono puntuali alla colonia. Dopo alcuni giorni passati insieme ripartirono e così per svariati mesi ci furon brevi incontri di pochi gior-ni, finché il 15 giugno del 1903 si presentarono alla colonia in tredici tra cui il Cacico maggiore. Essi mi dissero che tutti gli al-tri si trovavano nella selva del Rio Barreiro, distante 4 km. Montai a cavallo e mi recai a visitarli in compagnia dei primi venuti. Arrivati vicino al fiume, il cacico mi fece segno di fer-marmi, e poi, con un grido pro-lungato disse:

Balzola e Malan con indigeni

Villaggio indigeno nella colonia del sacro Cuore

Don Giovanni Balzola da Villamiroglio il contadino Missionario si racconta

La terza e penultima puntata del nostro conterraneo che partì missionario per il Brasile

(* In corsivo grassetto i brani estratti dalle sue lettere)

Don Giovanni Balzola

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È giunto il padre! A quelle parole, risposero come un eco clamorose grida di alle-gria dal mezzo del bosco dove si trovavano accampati. Disce-so da cavallo, volli visitarli, ma per passare il fiume, dovetti abbracciarmi alla schiena di un indio il quale mi trasportò all’-altra parte. Visitai così tutte le famiglie che stavano intorno al fuoco. Tutti mi offrivano qual-cosa: chi un pezzo di tapiro, chi pesce, chi frutta… Io ringra-ziando accettai solo una be-vanda di miele silvestre. Alla fine invitai tutti , per giorno seguente alla colonia. All’interno della colonia, regnava l’entusiasmo ma di certo i problemi non mancavano. Quello che ci addolorava era in non avere il necessario per ve-stirli. Avevamo ricevuto dal collegio di Cuyabà un po’ di stoffa ma era troppo poca per così tanta gente. Tuttavia riu-scimmo a dare una camicia lunga a ciascuno. Anche a que-sto si lavorava intensamente, e man mano che le lunghe cami-cie erano pronte, si distribuiva-no a coloro che non l’avevano ancora ricevuta: tutti la riceve-vano come fosse un tesoro. Un vecchietto ex cacico (comandante) ebbe la sua bra-va camicia, ma mi volle far no-tare che per lui, già cacico, era troppo poco. Io sono capitano. Non avendo ne un paio di cal-zoni, ne una giubba disponibi-le, gli diedi un panciotto ed un paio di mutande. Non si può credere quanto rimase conten-to. Il tempo scorreva fra fatica e conti-

nue soddisfazioni da parte degli indigeni. Seppur inizialmente rilut-tanti al lavoro, impararono a colti-vare la terra, appresero alcune pa-role in Italiano, frequentavano re-golarmente la scuola e gradata-mente abbandonavano i loro riti per avvicinarsi alla fede cristiana.

QUANTI PASSI A metà del 1907 la direzione della Colonia Sacro Cuore passò nelle mani di don Antonio Colbacchini così da permettermi la partenza per nuove escursioni. Alla fine di luglio dovetti la-sciar la colonia per accompa-gnare don Malan nel viaggio d’esplorazione al centro della tribù. Quantunque desiderassi ardentemente il viaggio per essere quello il punto più po-poloso, pure non riuscivo a dis-simulare il dolore per la sepa-razione. Dall’alto della collina della croce, rivolsi indietro il mio ultimo sguardo alla cara colonia. Con occhi pieni di la-crime la salutai per la profonda commozione che provavo nella separazione da tanti affeziona-ti figliuoli e nell’evocazione di tanti cari ricordi. Il 28 luglio la spedizione partì, 260 km fra le selve, in territori ancora inesplorati. Ad ogni colpo di scure o di fal-ce nei rami o nei tronchi degli alberi, era una pioggia abbon-dante e torrenziali di piccoli “carrapatos” sopra le nostre persone. Queste legioni di pic-coli insetti, che sono una vera piaga, erano così numerose che si potevano paragonare alle innumerevoli gocce d’ac-qua allorché piove a catinelle. Ma la differenza era troppo stridente. Quella pioggia di

nuovo genere, invece di farci piacere, irritavaci la pelle con effetti che duravano molte ore […] intanto nonostante la fru-galità delle nostre refezioni, ogni giorno vedevamo sempre più pulito il fondo delle quattro valigie delle nostre provvigio-ni…il miglior condimento è l’-appetito, dice il proverbio, e noi ne esperimentammo la ve-rità. Dopo tanto peregrinare a fatica, finalmente il 9 di agosto ci fu l’in-contro con gli indigeni; cinquanta-due capì tribù in rappresentanza di oltre duemilaseicento indigeni resi-denti in diversi villaggi ancora ine-splorati. Scambiati gli oggetti e do-po alcuni giorni di sosta, ripren-demmo la via del ritorno fermando-ci a Cuyabà. Il 14 maggio del 1908 ripartimmo alla volta del Rio Vermelho per evi-tare che i nuovi scontri fra bianchi e indigeni sfociassero in un nuovo massacro. “A una cosa assolutamente non avevo pensato per quel viaggio: provvedere armi da fuoco. Non avevo nulla, assolu-tamente nulla, neppure una palla! Io avevo un lungo coltel-laccio alla cintura, indispensa-bile in certi casi per far la pica-da, cioè per aprirci il cammino nelle selve. In tal modo pote-vamo dire davvero che andava-mo a portare la pace e non la guerra, fiduciosi più in Colui che tutto può, che nelle armi. Dopo 25 km, uscimmo per al-cuni istanti dall’oscurità della selva, e ci trovammo in un’al-tura, donde si apriva ai nostri sguardi uno splendido panora-ma. Era una distesa collina. Che vista incantevole! Mi pare-va d’essere sopra le belle colli-ne del Monferrato e m’uscì spontanea l’esclamazione: Che belle vigne si potrebbero far qui. Dopo alcuni giorni di peregrinazio-ne fra le selve, riuscii a raggiunge-re il primo villaggio indigeno, Alcuni indi che ritornavano dal-la pesca, appena ci videro, cor-sero al villaggio gridando Sono arrivati dei bianchi… è arrivato padre Giovanni. Entrati nel villaggio, ci fece in-contro il capitano Candido che m’invitò alla sua capanna.

Don Balzola Malan e Salvetto con i piccoli indigeni

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Chiesi che cosa avessero da offrirmi: se caffè o latte. Messi-si a ridere, mi offersero una bevanda che stavano prepa-rando con meliga pestata nel mortatio… Berne? Ripugnava, perché generalmente quella meliga non solo è fermentata nell’acqua, ma è spremuta sot-to i denti delle indie per provo-carne la fermentazione. Non berne? Ne sarebbero stati offe-si. Quindi accostai il vaso alla bocca e ne presi un sorso che bastò a soddisfarli. Non tardai ad entrare nell’ar-gomento del viaggio: Il Capo dello Stato è molto ben disposto verso di voi, e vi vuole molto bene. Tanto è vero che mandò me a ristabilire la pace, cioè a dire ai bianchi che vi la-scino stare, se no li manderà a prendere dai soldati, ma altret-tanto manda a dire a voi. Egli desidera che vi comportiate

bene, che lasciate di persegui-tare i bianchi. A queste parole tutti approva-rono. In una capanna incontrai il fa-moso Piloto conosciuto nella colonia Teresa Cristina, l’indio cieco da un occhio, basso di statura e sempre terribile, cer-cato a morte dai bianchi per l’uccisione di un uomo, ma con noi sempre galantuomo. Gli parlai dello scopo della mia e-scursione e gli raccomandai di ripeterlo agli altri durante la notte. Il terreno che separava il villaggio dal fiume era palu-doso e pieno di pantani. Non volendo bagnarmi chiesi il sen-tiero più asciutto, e pronto il Piloto alzò la voce sopra tutti e si offrì a compagno per un sen-tiero che credeva il migliore, ma che invece mi condusse sull’orlo di un pantano. Non so dire come pover’uomo ne rima-

nesse mortificato. Mi guardò in faccia e volle a ogni costo cari-carmi sulle spalle. Conobbi che l’avrei disgustato se non l’a-vessi accontentato e mi rasse-gnai. Ma arrivato nel mezzo del pantano, essendo egli basso di statura, mi ritrovai anch’io con i piedi nell’acqua; ove a quan-do a quando mi sentivo immer-gere anche le ginocchia. Il po-co valente ma allegro Piloto cominciò a ridere e a gridare a più non posso. M’attendeva poi una disgrazia. Strada facendo, attraversam-mo altri corsi d’acqua e caso volle che appunto nel guadare un torrentello, la mula che por-tava il bagaglio dell’altare, con la cassa dei paramenti, del vi-no e delle ostie, cadesse in una fossa. Estrassi sull’istante la cassetta dall’acqua, ma le ostie erano già inzuppate e rese in-servibili. Fu quello per me il momento più triste del viaggio. Dopo aver percorso 886 km, il 15 giugno 1908 feci ritorno a Cuyabà provato nel fisico, ma soddisfatto nell’animo per aver evitato un inuti-le massacro di vite umane. I bian-chi ed i selvaggi, nei luoghi visitati, non ebbero più alcuno scontro. (Finisce qui, cari lettori, la terza puntata della storia di Don Balzola, sul prossimo numero, la qurta e ultima puntata con: Il censimento delle tribù; Una nuova avventura; Le mani di un missionario; Senza sosta e la Fine dei passi.)

Indigeno con serpente “Sucury” lungo 4 metri

Missionari in viaggio

Sosta di missionari nella foresta (foto di Don Balzola)

Don Balzola con altri missionari

Corteo nuziale nella colonia Sacro Cuore

Interno di capanna indigena

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tano fanciulle pudiche che versano in una coppa una leggera quantità di “nettare”, mentre negli affreschi e sulle anfore greche sono rappre-sentate quantità più abbondanti, e bevitori non sempre discinti con larghe coppe. Oltre mille anni prima di Cristo la Grecia ha come parte integrante il vino, e ne inizia il commercio con la sua grande flotta mercantile, ma inizia anche il consumo: una parte di vino e tre di acqua, e perche’ no, anche quella salmastra. Indubbiamente il tenore alcoolico di quel vino era talmente alto, trat-tandosi di bevanda ottenuta da uve coltivate al sole pieno in una terra molto al sud, e senza alcuna tecni-ca raffinata per contenere il tenore alcolico. Però, scoperto che da eb-bri la vita aveva un altro aspetto, eccoli organizzare i simposi (molto simili a quelli dei nostri giorni) a dedicarsi al culto di Dionisio (Bacco per noi ) attingendolo con una cop-pa individuale da una grossa broc-ca al centro diluendolo pero’ sola-mente con due parti di acqua: un

Il sommelier racconta… (da pagina 5)

po’ come cominciare con un delica-to “rosè” e terminare con un vino di Marsala. Qualsiasi vino bevessero e qualsiasi quantità avevano già appurato che il vino è un alimento, è corroboran-te, tonico, vasodilatatore. Ma non solo nei simposi veniva

un partigiano ed altri fatti prigionie-ri, ma non erano della nostra squa-dra. Quel giorno nevicava. Mia ma-dre si accorse che da Vallegioliti stava salendo una colonna di nazi-fascisti con le fiaccole accese. Fui avvertito e scappai sulla collina che guardava sullo stradone. Avrei po-tuto sparare verso di loro, ma ero solo ed avrei causato un inutile ritorsione contro la popolazione. In una stalla dietro alla piazza dormi-vano un gruppo di partigiani. Mi dispiace dirlo, ma li è stata colpa del loro comandante. Non avevano nessuno di guardia. Noi, nella nostra squadra ci dava-mo il cambio affinché ci fosse sem-pre uno di guardia. Quando i parti-giani si accorsero dell’arrivo dei nazifascisti ormai era troppo tardi. Cominciò una sparatoria. Lino Cover per permettere agli altri di scappare, comincio a sparare al-l’impazzata contro la colonna nemi-

utilizzato il vino: in tutti i riti appa-re, come appare quale nutrimento, fino alla morte di Alessandro Ma-gno, che segnò la fine della civiltà ellenica. Sarà già stato consigliato dagli an-tesignani dei nostri luminari della dietetica ?

ca. Quando finì le munizioni, fece il disperato tentativo di scappare giù dalla riva. Non ci riuscì. Fu ucciso e sulla neve c’era il suo sangue. Gli sarebbero bastati ancora pochi me-tri e si sarebbe salvato. C’è una lapide dov’è stato ucciso. Alla liberazione, non cercammo vendetta. Al podestà furono tolti i poteri ma non fu ucciso come av-venne in altri paesi. E’ bello sentirlo raccontare. Parla sicuro. Si dispera per i ricordi andati perduti dalla sua vecchia memoria. Accende una sigaretta, magari che non gli venga in mente qualcos’altro. Sembra che non abbia mai smesso di essere Partigiano. Scherza un po’ sulla sua vecchiaia, sul tempo pas-sato. Mi lascia con un ultimo ricor-do. Un giorno alla Piagera si facevano vecchi discorsi. Si parlava della guerra e di tutto

quello che c’era stato. Un signore disse che tutti i Partigiani erano stati dei ladri. Presi fuoco. Gli dissi che c’erano stati alcuni Partigiani che si erano comportati in malo modo, ma la maggior parte aveva sempre aiutato la gente. In quel periodo c’era poco tempo per pen-sare, bisognava decidere. O stare da una parte o dall’altra. Io scelsi di essere Partigiano.

(Quello che avete appena letto, è un riassunto della lunga in-tervista rilasciatami dal Parti-giano Bonando Francesco. Per motivi di spazio e di fluidità narrativa, il testo è stato ta-gliato e revisionato in maniera tale da essere maggiormente discorsivo e di facile lettura, senza però modificarne il con-tenuto. I fatti avvenuti e le persone menzionate sono inte-ramente veritieri).

Partigiano del Monferrato (da pagina 4)

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Una affermazione che qualcuno fa risalire, nientepopodimenochè, a Lao-Tzè filosofo cinese che nel VI secolo Avanti Cristo sentenziò: “Un popolo senza passato non ha pre-sente e un popolo senza presente non ha futuro”. Ma che c’entra il fondatore del Tao-simo, religione diffusa in estremo oriente, con noi Monferrini che vi-viamo all’altro capo del mondo? C’entra, c’entra; il collegamento l’ha procurato la prima cittadina, di una contrada delle nostre amate colline: Gabriella Paletti da Alfiano Natta. L’attivissima sindachessa ha con-dotto a termine un progetto non facile, quello di raccogliere in un tomo, che alla fine risulterà di ben 568 pagine, la storia passata del suo paese e dei suoi compaesani che ha come titolo appunto: Senza Passato non c’è Futuro. Il libro raccoglie informazioni sele-zionate in un lavoro durato 6 anni da parte della Commissione Cultura ambiente e turismo del Comune, ed è stato donato a tutte le fami-glie del paese. Nella prefazione si citano Clara Lo-renzina e Elisa Franceschet come curatrici sia della raccolta dell’impo-nente mole di informazioni che del testo. Il lavoro è stato articolato in una dozzina di capitoli che vanno dalla storia, ai personaggi illustri, alla cultura popolare del mondo conta-dino, all’ambiente. L’importanza di libri come questi è racchiusa nella definizione stessa di storia. Basta ricordare le prime lezioni del-la terza elementare quando i mae-stri spiegavano che la differenza fra storia e preistoria è sostanzialmen-te la… scrittura. E’ grazie alla scrittura che oggi sap-piamo cosa accadde migliaia di an-ni fa, grazie ad essa conosciamo personaggi e gesta, ma anche la semplice vita delle persone che vissero un tempo. Tutto ciò che accadde prima che qualcuno cominciasse a incidere una tavola d’argilla o a scrivere su un foglio di papiro o su una pelle di

animale conciata si è irrimediabil-mente perso. Volete un’altra prova più vicina a noi dell’importanza della scrittura? Provate a recarvi nelle canoniche delle chiese, se siete fortunati sono ancora conservati i libri su cui, pri-ma dell’Unità d’Italia, venivano tra-scritte nascite, morti, matrimoni. Vi vengono citate persone, famiglie, date, titoli, impieghi, parentele. Nell’epoca della globalizzazione, del grande rimescolamento di popoli e persone sarebbe interessante sal-vare la memoria di chi da secoli sulle nostre colline è nato, cresciu-to, ha lavorato, ha messo su fami-glia ed infine è trapassato. Proba-bilmente ci scopriremmo tutti pa-

renti, sarebbe la prova provata che siamo una Comunità che è qualco-sa di più dell’insieme di tante per-sone che abitano un paese, una frazione o un territorio. Scopriremo anche che i proverbi, le vite, i racconti, le abitudini, le cre-denze, i modi di dire, di fare di pensare sono gli stessi degli altri paesi monferrini. Ebbene il libro della Paletti (consentiteci di chiamarlo così, ap-parentemente in modo improprio) è un consistente tassello in questo grande mosaico di storie passate che sta lentamente scomparendo per la sostanziale indifferenza ge-nerale, anche e soprattutto delle istituzioni prese troppo spesso a

gestire solo le contingenze. Dnas ca fassa noeuit ossia prima che sopraggiunga la notte della dimenticanza qualcuno ha raccolto informazioni scritte ma soprattutto orali dei vecchi del paese e le ha stampate in qualche migliaio di copie di cui, siam certi, anche fra qualche lustro ci sarà qualcuno che saprà farne tesoro. Una iniziativa che dovrebbero far propria tutti i Comuni e le istituzioni, sarebbe il modo migliore per dare un’anima comune alle nostre collettività ed anche alla nostra “civiltà”, la civiltà contadina che per millenni è stata il fulcro di società e nazioni. Cominciamo con la descrizione che Cesare Vicrobio dà dei Monferrini:

Daremo ora un altro cenno estratto dal libro per consentire ai nostri lettori di farsi una idea di ciò che esso raccoglie e suggerendo gli stessi, se interessati, a richieder il libro al Comune, sperando ne di-sponga ancora di qualche copia. Il passaggio che riportiamo riguar-da un “rito” un tempo presente in tutte le comunità piccole o grandi del Monferrato e non solo: la cottu-ra del pane al forno comune. Ecco come ci viene descritto.

I Forni C’era un tempo in cui ogni frazione aveva il suo forno dove tutte le fami-glie andavano a cuocere il pane una o due volta alla settimana. In gene-re, si portava la legna da casa e si

Senza passato non c’è futuro Alfiano Natta - storia di un Comune

In Mounfrin Soun al tipo dal Mounfrin, coeur countent e saouta ciouendi.

Quand’ch’a y hoeu ‘n boun bicer d’vin ciam se l’mund a l’e da vendi. Quand hoeu pinna la cardensa a tranquila la coussiensa

Soun al re dal mi-‘m-nou-‘n-fout che i fastidi ‘s campa sout

Un Monferrino Sono il tipo del Monferrino, cuor contento e salta chiudende*

Quando dispongo di un buon bicchiere di vino chiedo se il mondo è in vendita Quando ho piena la dispensa e la coscienza tranquilla

Sono il re del “me ne frego” che i fastidi si butta alle spalle * la trasposizione italiana di ciouendi è impropria e difficilmente la troverete sul vocabolario. Si tratta di tipiche costruzioni di canne incrociate usate per delimitare proprietà, aree di orto, giardino o come spalliere per rampicanti. Per qualcuno sauta ciouendi è anche la metafora di chi cambia facilmente idea.

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Il 30 novembre si è conclu-so il concorso fotografico:

Gliele faccio vedere io...

Ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato e quanto prima comunichere-mo i nomi dei vincitori e dei premi che verranno pubbli-cati sul sito : www.gabianoedintorni.net Dove abbiamo pubblicato anche le fotografie perve-nute.

La Redazione di G&d ringrazia tutti i collabora-tori e i nostri lettori che ci hanno sostenuto facendo

conoscere la nostra Rivista. Augura a tutti

Buon Natale e un

Felice 2012

pagava una somma per la cottura. In molti casi il forno era di proprietà del fornaio del paese. Nel XII secolo, dipendendo da Ton-co, Alfiano non aveva il diritto di costruire molini, ma gli abitanti, op-ponendosi alla soggezione, riotten-nero tale facoltà nel 1473. Come detto, in passato, il forno ser-viva alla stragrande maggioranza delle famiglie per cuocere il pane: in genere, la cottura era effettuata una volta alla settimana in inverno, due volte nel periodo estivo. La sera precedente al giorno stabilito per le infornate, si preparava il sent, a base per la pasta. Si ammollava in acqua tiepida la necessaria dose di lievito di birra e lo si integrava con farina di grano tenero 00'. Al mattino presto si aggiungeva la giusta quantità di farina, si bagnava con altra acqua e con l'unico condi-mento, il sale marino, e quindi si impastava il tutto nella madia. Si lasciava lievitare l'impasto per un'ora circa, dopodiché lo si trasferi-va avvolto in un telo bianco dentro alla cavagna, la classica cesta di ra-metti di salice intrecciato e si porta-va al forno. Giunti al forno, la pasta lievitata veniva nuovamente rimpa-stata su di un lungo tavolone addos-sato alla parete. Le massaie, in grup-pi di cinque, lavoravano affiancate avendo a disposizione un metro circa di ripiano; prelevavano dal blocco di pasta dei pezzi e li model-lavano uno dopo l'altro per ottenere “le munfrine”. Pronte per essere infornate, at-tendevano che il forno fosse pre-disposto alla loro introduzione. II braciere delle fascine veniva spo-stato sul lato destro della came-ra di cottura, con uno straccio bagnato, fissato su di una perti-ca, il fertas, si lavava ripetuta-mente il piano del forno per ri-muovere i residui della combu-stione. Il fornaio testava se la tempera-tura era giusta mediante l'intro-duzione di una piccola focaccia; dal tempo impiegato per la cot-tura e dal colore raggiunto si stabiliva il momento per la cocia. A turno, le donne trasferivano le pagnotte sulla grossa pala che il fornaio appoggiava al bancone, la pala così ricolma veniva avvicinata alla bocca del forno. Quando andavano al forno, le donne spesso avevano al seguito

i bambini piccoli che non potevano lasciare a casa da soli; era così l'occasione per i piccoli di ottenere dalle mamme la preparazione di un dolce semplice e spartano, la schiciola, pasta di pane cosparsa dì zucchero della forma di una focac-cia. Dalla relazione di Monica Parola: “Di proprietà della comunità sono anche tre forni situati, uno nel luogo di Alfiano, uno nel cantone di Casarello e l'altro nel cantone di Sanico. I tre forni vengono annualmente affittati dai partico-lari dei rispettivi cantoni. Coloro che utilizzano i forni versano co-me pagamento “due pani di libre una caduno ed una fogassa per ogni cotta oltre la legna necessaria per la medesima cotta”. Il reddito dei forni viene ceduto dai particolari, nel capoluogo di Alfiano, al cappellano come onora-rio per l'insegnamento nella scuo-la, nel cantone di Casarello, ai priori della chiesa di San Rocco di detto cantone e, nei cantone di Sanico, a favore dei priori della compagnia del Santissimo Sacra-mento, eretta nella chiesa parroc-chiale di detto cantone. Circa il possesso dei forni il marchese Pie-tro Antonio Natta rivendica lire 44 per diritti sui forni di detto luogo e dei suoi cantoni, per que-sta lite vi è una causa presso il Real Senato (A.S.T.C., Ricavo de' redditizi quelle comunità, misura de tenitori e de' beni antichi e moderni e notizie diverse, s.d., ma 1760-1769)”.

Forno sociale di Sanico frazione di Alfiano Natta

da Castelletto Merli

La signora Degiovanni Lide e Pier Luigi Verrua (badante) ringraziando per l’encomiabile lavoro svolto la Guardia medica di Cerrina: un vero e proprio punto di riferimento nei momenti di difficoltà, augurano a tutti loro un buon Natale.

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Don Bosco, Santo dei giovani. E' di comune conoscenza la sua vita spesa per togliere i giovani dalla strada, educarli e trovare loro un lavoro. Durante l'estate, gli studen-ti più meritevoli ricevevano, come premio dell’impegno dimostrato durante l’anno scolastico, un po’ di meritato riposo ai Becchi di Castel-nuovo Don Bosco. Con questi giovani, Don Bosco compiva alcune brevi escursioni nei dintorni e così progressivamente consolidò l’idea delle passeggiate autunnali, che aveva già maturato nelle sue personali escursioni degli anni precedenti. Normalmente erano fatte a piedi, con adeguate tappe, con mete di-verse e di durata variabile. Dal 1847 in avanti Don Bosco prende l’abitudine, nel mese di ottobre, di portare i suoi ragazzi per alcuni giorni in giro per il Piemonte. Molto spesso la meta sono i colli monfer-rini. Visitano diversi paesi: Alfiano, Castelletto Merli, Ponzano, Crea, Casale, Mirabello, Vignale, Lu, San Salvatore, Montemagno, Grana, Calliano. Ancora oggi molti di que-sti paesi ricordano il passaggio del Santo. Ovunque arrivasse Don Bo-sco godeva dell’ospitalità da parte di amici, parroci oppure nobili si-gnori e benefattori dell’Oratorio.

Castelletto Merli La passeggiata 2011

Quest’anno si è voluto ripercorrere le strade del comune di Castelletto Merli sui cui camminò Don Bosco, 170 anni fa e precisamente il 14 ottobre 1841. L'associazione cultu-rale “Io Vivo Castelletto” ha orga-nizzato, il 2 ottobre, una passeg-giata: “Sulle orme di Don Bosco”, con tappe corrispondenti alle soste del santo. La preparazione di que-sta giornata ha richiesto molto la-voro: sopralluoghi sull'itinerario, pulizia dalla vegetazione con la pre-parazione dei sentieri poi percorsi dagli intervenuti. Sul percorso è stata apposta segnaletica di pan-nelli con foto e scritti esplicativi nei punti di sosta per dare il massimo dell'informazione ai partecipanti. La storia cui gli organizzatori si so-

no è ispirati è la seguente: Don Bosco, poco dopo esser stato ordi-nato sacerdote, riceve una lettera di Don Lacqua (suo maestro ele-mentare) che, con insistenza, lo invita in Ponzano, con sua madre, a fargli visita. Il 14 ottobre del 1841, Don Bosco partì, senza sua madre, da Montal-do Torinese al mattino, e dopo a-ver pranzato col Parroco di Cocco-nato, con un compagno di viaggio riprese il cammino alla volta di Pon-zano. È da presumersi che, almeno da Cocconato, il viaggio si sia svol-to interamente a piedi. Da Cocco-

nato a Ponzano, in linea d'aria vi sono 20 chilometri! Il racconto è tratto dalle Memorie di Don Bosco. È uno dei tipici e-sempi di documentazione diretta di Don Lemoyne (biografo del santo), il quale premette che narrerà “minutamente” la singolare vicenda avendola “udita dalle stesse labbra di Don Bosco, il quale era felicissi-mo in queste narrazioni e nel ricor-dare ogni più piccola circostanza di esse”. L'oscurità, data la stagione autunnale, era scesa presto, e per di più accompagnata da un violento temporale. I due viandanti si smar-rirono nei boschi, senza sapere dove fossero e senza trovare anima viva. Finalmente, nei pressi di un forno in frazione Costamezzana di Castelletto Merli, trovarono le pri-me persone, ma queste fuggirono spaventate per timore di incontrarsi con un omicida latitante e ricercato che, nella notte precedente, aveva ucciso un uomo. Quando poi, vinto lo spavento, al-

A spasso con il Santo ovvero le passeggiate autunnali di Don Bosco rivisitate oggi

di Stanislao Manzini

Le notizie storiche e i testi sono stati estratti da : L.Deambrogio “Le passeggiate autunnali di Don Bosco per i colli monferrini”

Don Bosco

Don Bosco il santo che amava le colline Monferrine in cui nacque

Castello dei Merli

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cuni accettarono di scambiar qual-che parola, armati di falcetti e for-coni, li accompagnarono al signore di un non lontano castello, il quale, pur senza conoscerli, li ospitò con generosità, dando loro indumenti asciutti, cena, e camere per la not-te. All'indomani Don Bosco, su invito del padrone del castello, celebrò la Santa Messa nella cappella del ca-stello stesso e, dopo il pranzo, che quel signore volle offrire ad ogni costo, i due viandanti, accompa-gnati per un buon tratto dal loro benefattore, proseguirono per Pon-zano, ormai visibile e non molto lontana. Quel castello era il Castello dei Merli di Castelletto Merli, e del generoso ospite Don Bosco ci tra-smise il nome, sig. Moioglio, spe-ziale, col quale contrasse e conser-vò viva amicizia. Il Santo scrisse poi all'amico teologo Borel nel 1846 dicendo che il Castello dei Merli sorge “nel posto più bello del Mon-ferrato”. Possiamo dire che se non è il più bello, è certamente uno dei più belli. La vista è veramente stu-penda e l'orizzonte sconfinato. Chi volesse ripercorrere i luoghi visitati dal santo, oggi, può usufrui-re di strade asfaltate, che esistono solo a sud delle collina. Dal fondo valle, bisogna deviare a destra nel-la direzione della frazione di Ter-fangato. La stradetta, si innalza fra campi, vigne e casolari, fino alla rampa non asfaltata, che, con ripi-de e strette curve, fiancheggiate da ombrosi viali, balza sul piazzale del castello.

Le pendici nord della collina del castello e di quelle formanti la sua catena, costituiscono una vasta zona estremamente boscosa, che si estende fino ai paesi di Piancerre-to, Montaldo Cerrina e Casalino. Le pendici sud e sud-ovest, pur non essendo del tutto boscose, sono infatti in più tratti coltivate a campi e vigne, presentano a tut-t'oggi numerosi boschi, talvolta anche molto fitti e di disagevole accesso. Ai tempi del sacerdote, anche i versanti sud e sud-ovest, erano ammantati di boschi assai più che nei tempi presenti. Presso il Castello dei Merli, al crina-le ovest, resistono ancora i muri di Casa Carpignano (o Tobia),

Il Castello dei Merli Oggi è molto diverso da quello che Don Bosco descriveva al Borel nella lettera del 16 settembre 1846: og-gi, oltre all'essere stato quasi com-pletamente trasformato, è quasi del tutto disabitato e porta evidenti i segni dell'abbandono. Di antico rimane solamente il muro di mez-zanotte, quello verso il bel parco ancora esistente. A questo muro è fissata una lapide singolare, in lati-no, che porta la data del 1743. L'i-scrizione che troviamo è la seguen-te: “BE.TE VIR.ES QUE IN. DNO.MOR. (Q) VAR.UM CORPORA HIC. REQUIESCUNT”, che tradotta ci dà: Beate Vergini (monache, suore?) che muoiono nel Signore i cui corpi qui riposano. Non abbia-mo oggi spiegazioni riguardo la lapide e meno ancora sulla presen-za di ecclesiastici con relativo luogo

di sepoltura sotto l'edificio. Come ogni castello che si rispetti, anche dentro al passato del maniero ca-stellettese, si celano antiche storie; alcune riguardano la presenza di cunicoli segreti che collegherebbe-ro, tramite passaggi sotterranei, il castello dei Merli al castello di Pon-zano o addirittura al Sacro Monte di Crea. E' più ragionevole pensare che il cunicolo, la cui entrata è visi-bile dall'infernotto del castello, sia una semplice scappatoia che porta-va in qualche casa della frazione di Terfangato. Altre storie sono relati-ve al pozzo, detto “delle taglie”; così profondo da non vedersi il fon-do e, secondo alcuni racconti, sulle pareti sarebbero state collocate e fissate lame taglienti, che farebbe-ro pensare ad altri usi, più macabri rispetto alla conservazione delle acque pluviali. Ritornando ai giorni nostri, concludiamo la passeggiata discendendo a valle lungo la strada che costeggia la frazione Terfengo, lasciando i boschi alle spalle e at-traversando vigne che caratterizza-no il declivio. “Sulle orme di Don Bosco” ha ricevuto tale gradimento che è stata richiesta dai partecipan-ti una replica per l'anno prossimo (è già allo studio!). Questo pensiamo possa incoraggia-re tutti noi a riscoprire e guardare con occhi diversi il nostro territorio, per creare un turismo basato sulle risorse naturali, su valori e tradizio-ni culturali che esaltino la nostra comunità e il comprensorio e così riscoprire l'orgoglio di essere mon-ferrini.

Foto di Castelletto Merli da: L'Assiolo aperiodico dell'associazione -Io vivo Castelletto-

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Carabinieri: la caserma storica di Camino

Le iniziative nelle nostre colline non finiscono mai di stupire. Nei numeri scorsi avevamo fatto cenno al museo degli Alpini che si trova a Cantavenna di Gabiano e sul quale torneremo nei prossimi mesi. Qui scriveremo invece di un altro museo realizzato non a Gabia-no, ma lì vicino, a Camino: è il mu-seo dei Carabinieri. Realizzato da Fiorenzo Bertiglia che per una vita ha raccolto una gran quantità di materiali e pezzi unici scovati nei mercatini dell’usato o direttamente nelle caserme e che ha poi portato nella sua casa in via Villanova 4, a due passi dal Munici-pio. Con lui collaborano la prof.ssa Maria Melotti, Patrizia Bossina Gianni Granziera e Pierluciano Bigi-nelli. Circa dieci anni fa Fiorenzo ha deci-so di rendere pubblica questa rac-colta che riempie sei stanze dispo-ste su due piani della vecchia casa rurale. La Caserma Storica è dedi-cata al generale Francesco Brovida come riconoscimento ai suoi fami-liari che hanno contribuito all’am-pliamento della collezione donando numerosi e importanti cimeli. Lì potrete trovare 42 manichini con le diverse uniformi dei carabinieri, da quelle più recenti a quelle colo-niali, utilizzate in Africa, talvolta disposti in modo da ricreare gli am-bienti militari tipici della caserme come le camerate con le brande, gli armadi e le suppellettili, piutto-sto che un ufficio con tanto di citta-dina che sta verosimilmente denun-ciando qualche reato. Queste divise sono state oggetto di

diverse mostre tematiche anche internazionali co-me quella tenuta-si a Canberra in Australia su ri-chiesta del Co-mando Generale dell’Arma dei Ca-rabinieri. Fanno parte della raccolta anche una gran quantità di documenti, congedi, tesserini,

verbali redatti da militari in servizio, ad esempio in uno del 1844, si ri-porta lo scontro fra due carri trai-nati dai cavalli. Poi ancora tante fotografie, oltre trecento, di appar-tenenti all’arma del circondario ca-salese a partire dalla seconda metà dell’ottocento. Ogni immagine è corredata dall'indicazione delle ge-neralità ed anche del grado rag-giunto nel corso della carriera. Se avete avuto parenti carabinieri qui c’è l'opportunità di individuare l'identità del proprio congiunto. Fra queste la raccolta con tanto di nome, data di nascita, numero di matricola di tutti i carabinieri pro-venienti da Camino. Sono 70 ed il primo Boetti si arruo-lò il 10 luglio 1814 con numero di matricola 211. A molti questo dato non suggerisce molto, ma se vi diciamo che l’arma dei carabinieri fu costituita il 13 luglio 1814, cioè tre giorni dopo, che pensate?. Non è un errore, semplicemente prima venne organizzata tutta al struttura e solo dopo venne ufficia-lizzata l’arma con la sua costituzio-ne formale. Fiorenzo ha anche raccolto quasi tutte le fotografie dei 70 Caminesi, è stata una ricerca impegnativa nella quale ha dovuto contattare i discendenti dei militari o recarsi a visionare gli atti e i documenti ar-chiviati nelle caserme sfogliando 200 ruoli matricolari. Mancano an-cora le fotografie di 8 compaesani di cui purtroppo non risultano pa-renti, ma non per questo la ricerca si fermerà… Sono presenti le fotografie di cen-tocinquanta soldati Caminesi della seconda guerra mondiale. Tra di essi, ventotto hanno preso parte alla Campagna d'Africa. Fra i pezzi unici Fiorenzo cita una fotografia originale di Chiaffredo Bergia che ha dato il nome alla sede del Comando Regione Carabi-nieri Piemonte e Valle d'Aosta a Torino, stabile ove è stato fondato il corpo. Basta pensare che nem-meno la caserma dispone delle foto del capitano e che ha provveduto lui stesso a fornire una copia del

Fiorenzo Bertiglia (il secondo da sinistra) con gli amici davanti alla caserma

Un omaggio alla storia e alla memoria della prima arma e di tutti coloro che oggi come in passato ne hanno fatto parte

di Enzo Gino

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quadro. Un altro “pezzo” importante della collezione è il modello della Alfa Romeo Giulia con le tipiche insegne ed il colore blu con tettuccio bianco che per tanti anni fu l’emblema dei carabinieri. E poi i piatti adottati dalla Legione Carabinieri Reali di Torino, armi d’epoca fra cui spicca un fucile ad avancarica con tanto di baionetta del 1843 analogo a quello utilizzato nell’impresa dei 1000 o una pistola del 1848. Ma le sorprese non si “limitano”, si fa per dire, a tutta questa grazia. Il “nostro” Fiorenzo che ha fatto il servizio militare nell’-arma: 15 mesi a Milano, ha raccol-to anche molte altre “cose” interes-santi, magari non strettamente legate alla sua Caserma storica, ma altrettanto belle e intriganti. Come una serie di motociclette d’e-poca, fra cui quella targata AL 1.

Bertiglia con la carabina del 1843

Poi in un altro locale, se gli siete simpatici, Fiorenzo può anche farvi vedere alcune auto d’epoca perfet-tamente conservate. Un museo veramente unico nel suo genere, che ha anche un sito che vi segnaliamo: www.carabinieri-casermastorica.it, se volete visitar-lo sentite diret-tamente Bertiglia al 339.6187400. E prima di andar via non dimenti-cate di firmare l’album dei visi-tatori come han-no fatto tanti altri, fra cui molti stranieri.

E' consultabile dai visitatori il diario del soldato Bertiglia Paolo, che narra la vita quotidiana della spedizione in Africa.

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