gensini, stefano - -la lingua del moderno- - 1987 copia

3
Il presente documento viene fornito attraverso il servizio NILDE dalla Biblioteca fornitrice, nel rispetto della vigente normativa sul Diritto d’Autore (Legge n.633 del 22/4/1941 modifiche e integrazioni) e delle clausole contrattuali in essere con il titolare dei diritti di proprietà intellettuale. La Biblioteca fornitrice garantisce di aver effettuato copia del presente documento assolvendo direttamente ogni e qualsiasi onere correlato alla realizzazione di detta copi La Biblioteca richiedente garantisce che il documento richiesto è destinato ad un suo utente, che ne farà uso esclusivamente personale per scopi di studio o di ricerca, ed informare adeguatamente i propri utenti circa i limiti di utilizzazione dei documenti forniti mediante il servizio NILDE. La Biblioteca richiedente è tenuta al rispetto della vigente normativa sul Diritto d'Autore e in particolare, ma non solo, a consegnare al richiedente un'unica copia cartacea documento, distruggendo ogni eventuale copia digitale ricevuta. Biblioteca richiedente: Biblioteca Ezio Raimondi del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Data richiesta: 20/04/2015 10:03:58 Biblioteca fornitrice: Biblioteca del Dipartimento di Storia Culture Civiltà - Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico Data evasione: 21/04/2015 13:48:19 Titolo rivista/libro: Rinascita Titolo articolo/sezione: La lingua del moderno” (L'eredità culturale di Gramsci e Leopardi. Lo "Zibaldone" e i "Quaderni del carcere" come modelli di pensiero antidogmati intellettuale e civile italiana) Autore/i: GENSINI ISSN: 0035-5380 DOI: Anno: 1987 Volume: 34 Fascicolo: 5 settembre Editore: Pag. iniziale: 28 Pag. finale: 29

Upload: stef-gens

Post on 03-Dec-2015

8 views

Category:

Documents


3 download

DESCRIPTION

A comparison of Antonio Gramsci's and Giacomo Leopardi's concepts of 'language', with regard to the their political-cultural views of the 'Modern'

TRANSCRIPT

Page 1: Gensini, Stefano - -La Lingua Del Moderno- - 1987 Copia

Il presente documento viene fornito attraverso il servizio NILDE dalla Biblioteca fornitrice, nel rispetto della vigente normativa sul Diritto d’Autore (Legge n.633 del 22/4/1941 e successivemodifiche e integrazioni) e delle clausole contrattuali in essere con il titolare dei diritti di proprietà intellettuale.

La Biblioteca fornitrice garantisce di aver effettuato copia del presente documento assolvendo direttamente ogni e qualsiasi onere correlato alla realizzazione di detta copia.La Biblioteca richiedente garantisce che il documento richiesto è destinato ad un suo utente, che ne farà uso esclusivamente personale per scopi di studio o di ricerca, ed è tenuta adinformare adeguatamente i propri utenti circa i limiti di utilizzazione dei documenti forniti mediante il servizio NILDE.La Biblioteca richiedente è tenuta al rispetto della vigente normativa sul Diritto d'Autore e in particolare, ma non solo, a consegnare al richiedente un'unica copia cartacea del presentedocumento, distruggendo ogni eventuale copia digitale ricevuta.

Biblioteca richiedente: Biblioteca Ezio Raimondi del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica

Data richiesta: 20/04/2015 10:03:58

Biblioteca fornitrice: Biblioteca del Dipartimento di Storia Culture Civiltà - Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico

Data evasione: 21/04/2015 13:48:19

 

Titolo rivista/libro: Rinascita

Titolo articolo/sezione: La lingua del moderno” (L'eredità culturale di Gramsci e Leopardi. Lo "Zibaldone" e i "Quaderni del carcere" come modelli di pensiero antidogmatico nella tradizioneintellettuale e civile italiana)

Autore/i: GENSINI

ISSN: 0035-5380

DOI:

Anno: 1987

Volume: 34

Fascicolo: 5 settembre

Editore:

Pag. iniziale: 28

Pag. finale: 29

Page 2: Gensini, Stefano - -La Lingua Del Moderno- - 1987 Copia

. p. 28 cita • sabato 5 settembre 1987 • o. 34

Sa . ~~~~~~~~------==c~~g10

L'eredità culturale di Gramsci e Leopardi. Lo ''Zibaldone'' e i ''Quaderni del carcere'' come modelli di pensiero antidogmatico nella tradizione intellettuale e civile italiana

La lingua del Inoderno

Il posto centrale della questione linguistica segna una peculiare convergenza nella riflessione dei due autori. Un'alta tensione problematica che si afferma infasi storiche percorse da una forte crisi economica

e ideologica. Dalle considerazioni sui limiti della Rivoluzione francese ai ragionamenti sul fascismo e l'Europa degli anni Trenta. Tra spiritualismo cattolico, idealismo e marxismo volgare, il possibile profilo

di una via di uscita laica. La questione nazionale e le osservazioni sui «Costumi» degli italiani

di STEFANO GENSINI

Molto acutamente, nella relazione che ha aperto, a Napoli, le celebrazioni leopar­

diane (vedila, intanto, ne l'Unità del 19 luglio 1987), Cesare Luporini utilizza la nozione di «movimento» per cogliere l'unità profonda del pensiero di Giaco­mo Leopardi. Se comprendiamo bene, e a rischio di forzare un poco la preziosa indicazione luporiniana, al di là dei singoli temi o contenuti, pure della massi­ma rilevanza, che lo Zibaldone offre ai suoi frequen­tatori, senza innalzare barriere (e spesso senza alcu­na soluzione di continuità) fra antropologia sociale e problema dello stile, fra conflitto natura/ragione e situazione culturale dei maggiori paesi dell'Occiden­te, fra analisi della condizione umana e critica im­pietosa del presente, la ragione più interna della coerenza di quel testo andrebbe ricercata nella atti­tudine a porsi in senso trasversale rispetto ai singoli argomenti e discipline. La sua unità risiederebbe nell'ottica problematica che consente di istituire, passo dopo passo, momenti complessivi di riflessio­ne, senza d'altro canto mai dichiarare esaurito (et pour cause) l'oggetto della riflessione medesima. Se questa chiave di lettura ha un senso, si spiega in via analitica la diffusa osservazione che il grande diario leopardiano includa, in potenza, numerosi libri mai stesi, e insieme ci dà un motivo per cui esso chieda d'essere attraversato e gustato nella sua coerenza testuale d'insieme, anziché tramite segmentazioni contenutistico-disciplinari; desideri percorsi, itine­rari mentali, piuttosto che ritagliamenti oggettuali.

Se, in tempo d'anniversari congiunti, è lecito e utile riavvicinare due grandi componenti della tradi­zione intellettuale italiana, come Leopardi e Gram­sci, si può forse avanzare l'ipotesi che sia proprio nella natura dinamica e sperimentale dei rispettivi procedimenti di pensiero, nella loro trasversalità, abbiam detto, una ragione non estrinseca di confron­to e di raccordo. Certo, diversissimi sono i contesti storici di riferimento; diversissime le esperienze e i bisogni che innescano i due testi: ma non si sfugge all'impressione che Zibaldone e Quaderni del carce­re resistano nella nostra cultura, a rivendichino osti­natamente la propria necessità, in un'ideale bibliote­ca del «moderno», grazie appunto a un modo di co­struire il discorso, a un'epistème profondamente consona ai caratteri di apertura formale oggi attivi in ogni processo intellettuale che si ponga come al­ternativo al pensiero dogmatico. E semmai andrà rilevato come in entrambi gli autori questo modello di ricerca si formi nell'attrito con fasi storiche con­trassegnate da profonde crisi di politiche e di sistemi ideologici: da una parte la Restaurazione, con l'esau-

rirsi dell'esperienza giacobina e l'involversi dell'illu­minismo; dall'altra il fascismo, con la sconfitta della rivoluzione in Occidente e l'imponente riassetto del­lo Stato capitalistico nell'Europa degli anni trenta.

2. Credo che la bibliografia accumulatasi, negli ultimi anni, su Gramsci e Leopardi, possa fornire ampia prova delle affermazioni appena fatte. Un terreno certo privilegiato per condurre l'indagine, ma finora poco calcato dalla critica (che ha preferito condurre il raffronto sugli espliciti apprezzamenti di Leopardi da parte di Gramsci) (1), è offerto dalla questione linguistica: questione, appunto, nella sua determinatezza storica, e ottica, nella sua generalità tecnica, quanto mai conformi a quel procedimento «movimentale», trasversale del pensiero di cui an­diamo ricercando i segni. Ma se per Leopardi, da una decina d'anni in qua, è divenuto più facile far opera­re ermeneuticamente il peso dell'occhiale-linguag­gio (2), il ruolo che la linguistica ebbe nella formazio­ne e nella genesi delle centrali categorie teorico­politiche di Gramsci stenta a entrare nel circuito delle ricostruzioni critiche complessive. Da questo punto di vista, ha avuto ragione Franco Lo Piparo (cui si deve il più ampio e compiuto studio sull'argo­mento), di richiamare ultimamente, con una com­prensibile vis polemica, il persistente confinamento «specialistico» subìto da una fetta consistente del lavoro gramsciano, a partire dal fondamentale Qua­derno 29 (3).

Pure, sia in Gramsci sia in Leopardi, l'osservato­rio formato dal linguaggio e dalle lingue attraversa e mette in moto il complesso della materia fatta oggetto di riflessione, come è facile vedere, anche in rapidissima sintesi.

In Leopardi, la facoltà di linguaggio è vista come uno dei canoni costitutivi della natura umana e le lingue che ne derivano, nelle singole comunità socia­li, accompagnano e si dialettizzano con l'instabile equili;.,rio fra natura e ragione attuantesi nelle epo­che storiche. Posta, con Leibniz, Locke e gli idéolo­gues, la funzione condizionante della parola sul pen­siero (cfr. Zib. 1053-54, 1657 ecc.), e posto, all'inver­so, l'influsso che l'insieme dei rapporti materiali di una società esercita sul linguaggio (cfr. ad es. Zib. 1215), le lingue esibiranno volta a volta, fin dentro le loro strutture formali, il livello di libertà immagina­tiva ed espressiva proprio di ciascuna civiltà, ovvero la cogenza della società, con i suoi vincoli politici, economici, culturali, sugli spazi di originalità con­sentiti allo scrittore, ma anche al singolo parlante. Grazie a questo schema concettuale, l'ottica lingui­stica diviene in Leopardi un c<termometro» sensibilis­simo, capace di unificare il sottile rilievo glottologi­co e l'osservazione macrostorica, per articolare la ricerca intorno alle due grandi «Costanti» indicate da Luporini nel testo citato: la condizione umana in ge­nerale e l'epoca di crisi in cui gli toccò vivere. Delu-

sione storica e analisi dei limiti interni della Rivolo· zione francese (che aveva in fin dei conti portato-a una crescente «geometrizzazione» della cultura e del «tuono» sociale), critica della contraddizione antro­pologica inerente all'uomo e utilizzo dell'antinomia ragione-natura come chiave per esplorare la feno­menologia di quella contraddizione, tutte le più note formulazioni leopardiane si intridono di dati lingui· stici e mettono capo a una domanda, insieme filoso­fica e sociale, circa le condizioni di un pieno recupe­ro di humanitas che coincide con la piena estrinseca· zione di facoltà espressive: una lingua appropriata alle idee «moderne», ma che serbi naturalezza; una lingua che attinga alla «conversazione», ma non smarrisca la sua «indole popolare»; una lingua che coniughi il momento «francese» della comunicazione sociale con il momento «italiano» della varietà e li· bertà dei registri e degli stili.

Ecco dunque un caso di quel procedere «problemi· CO» del pensiero, in cui l'ottica assunta consente !'il· luminazione della totalità, ma insieme non la esauri· sce e necessariamente rimanda ad altre ottiche, chiede d'essere integrata con queste. La linguistica leopardiana non è forse che il più nitido degli itinera· ri possibili per rappresentare questa forma, questa metodologia del ragionamento.

3. In Gramsci il linguaggio si presenta, dagli scritti giovanili in cui si risente più dappresso la lezione di Bartoli, alle famose lettere a Tania del 19 marzo 1927 e del 17 novembre 1930, fino ai Quaderni, come chiave d'accesso al «nesso di problemi» che forma l'orizzonte della sua investigazione storico-politica e della sua prospettiva presente. Scompare in Gram· sci ogni implicazione metafisica del tema linguisti· co, mentre ne viene appieno sviluppata la portata cognitiva filosofico-sociale. Quel tema «deve» essere posto «tecnicamente» in primo piano, una volta che la filosofia superi la sua separatezza specialistica e si riqualifichi come operosità collettiva, intellettua· le e materiale, tesa a trasformare il mondo (cfr. Q., pag. 1330 dell'ed. Gerratana). È, dunque, per un ver· so un'ottica ermeneutica necessaria per far risaltare nodi decisivi del rapporto dirigenti-diretti, filosofia· senso comune; per un altro verso, è una frontiera da attraversare per impadroaj_rsi della logica di quel rapporto, per modificarlo, per attivare un proccesso egemonico. Il linguaggio è, in sé, «nome collettivo•, utilizzabile per caratterizzare la fisionomia cultura­le di un individuo come per alludere a una totalità sociale. Ma, una volta speso nel circuito di una filoso­fia della prassi, esso evolve a categoria filosofica e politica per designare il processo di formazione del «conformismo linguistico nazionale unitario» (Q., 2343); illustra come le grammatiche spontanee o im­manenti che operano nei singoli individui o gruppi sociali possono convergere verso una grammatica normativa tesa alla realizzazione di un clima culto-

Saggio

raie diffuso, di morale. In sost. a Gramsci per polare degli in1 con forte atte1 dell'operazione polita nella lel popolari e Stat appieno (per dii si innesta «tecn rio gramsciane le-società poi ecc.) e ne espri namento intera «trasversalei> d• la nostra propc

4. La conver~ stica permette derni si rafforz. meccanismo dE ne concreta d« Gramsci l'ham citate lettere a Quaderno 21 (d stringe intorno caratteri dello della tradiziom non popolarità Ruggero Bongl: questione della

Chi si dia a p4 do d'occhio le t dopo passo, grc 1823-24, ricom1 posizione politi della Francia s capitale che es1 no» sociale e d «società stretta consenta una v i ceti; sulla «sep zionali rispetto levatosi a part popolo»; sulla c 2129) che vieta e lingua scritta so sullo stato p1 tamente attrib1 un nodo conceti ancora, di Gra: sentire familia avendo centro, liano; lascio sté quella della let presso l'altre n pi, è un grandi~ di gusti, costur. solo dentro i li nazioni eziand tutte queste e alla sola mane mente che in I1 italiano deterr solo, ma ciasc1

Ciascuno de quelli utilizzat in una fonte r all'Archivio gl preludere alle l'egemonia dei ma (società c: guistica, ecc.) complessiva s ampio e articc tore del Pci). interrogativi e genze di anall misura esse p forzature, per stanti nel temi società?

5. Secondo ' (del resto non periodo del ca: le assonanze diversificata < sia Leopardi, me tributari E chissima di ri con Muratori, Baretti e De11 con Foscolo e li, aveva nei 1

specifico del quentia i nodi un'aula politil

Page 3: Gensini, Stefano - -La Lingua Del Moderno- - 1987 Copia

''

na

i ca e

ifilo

l:::~u,; ra e del

antro-

a; una a non

ua che azione tà e li-

arzo come

ver­ltare

sofia­ra da quel

cesso tiVO», tura­alità

iloso­ica e e del

(Q., oim­uppi

a tic a ultu-

Saggio

raie diffuso, di una comune tensione intellettuale e morale. In sostanza, la «quistione della lingua» serve a Gramsci per riscrivere la storia non nazionale po­polare degli intellettuali italiani e per prospettare, con forte attenzione agli strumenti anche tecnici dell'operazione, la riconversione di quel ceto cosmo­polita nella leva di un inedito intreccio fra masse popolari e Stato: la quistione della lingua è dunque appieno (per dirla con Lo Piparo) «metafora sociale», si innesta «tecnicamente» ai poli principali dell'idea­rio gramsciano (intellettuali-egemonia-società civi­le-società politica-Stato-senso comune-filosofia, ecc.) e ne esprime, da ogni angolo visuale, il funzio­namento interattivo. Si ripresenta quella condizione •trasversale» del ragionamento che forma l'asse del­la nostra proposta interpretativa.

4. La convergenza <<epistemica» che l'ottica lingui­stica permette di cogliere tra lo Zibaldone e i Qua­derni si rafforza se dalla considerazione generale del meccanismo del linguaggio passiamo alla discussio­ne concreta del «Caso italiano», come Leopardi e Gramsci l'hanno esaminato nei loro scritti. Fra le citate lettere a Tania e un fondamentale passo del Quaderno 21 (del 1934-35), il «nesso» gramsciano si stringe intorno a una serie di nuclei problematici: i caratteri dello «spirito pubblico italiano», con l'idea della tradizionale separatezza degli intellettuali; la non popolarità della letteratura (secondo lo slogan di Ruggero Bonghi); l'assenza di un teatro nazionale; la questione della lingua da Manzoni in poi, ecc.

Chi si dia a percorrere il diario di Leopardi, tenen­do d'occhio le tessere di tale intreccio, vedrà, passo dopo passo, grosso modo fra l'autunno del 1821 e il 1823-24, ricomporsi il mosaico. Leopardi gioca l'op­posizione politico-linguistico-culturale dell'Italia e della Francia sull'assenza, nel nostro paese, di una capitale che esprima una norma di costume, di «tuo­no» sociale e di linguaggio; sull'inesistenza di una «società stretta» a livello delle classi dirigenti che consenta una vera «conversazione» fra le città e fra i ceti; sulla «Separazione» degli affari politici e istitu­zionali rispetto al popolo e alla nazione, sul «muro» levatosi a partire dal Seicento «fra i letterati e il popolo»; sulla carenza di «società civile» (così in Zib. 2129) che vieta un reale rapporto fra lingua parlata e lingua scritta. E, nell'ancora poco studiato Discor­so sullo stato presente dei costumi degli italiani, soli­tamente attribuito al 1824, Leopardi fissa i tratti di un nodo concettuale che i lettori di Gramsci e, prima ancora, di Graziadio Isaia Ascoli, non potranno non sentire familiare: «Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico ita­liano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura nazionale moderna, la quale presso l'altre nazioni, massime in questi ultimi tem­pi, è un grandissimo mezzo di conformità di opinioni, di gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente [ ... ]. Ma lasciando tutte queste e quelle (sci/. cagioni), e ristringendosi alla sola mancanza di società, questa opera natural­mente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato( ... ]. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé».

Ciascuno dei termini leopardiani, come del resto quelli utilizzati dal grande linguista goriziano Ascoli in una fonte riconosciuta di Gramsci, il «Proemio» all'Archivio glottologico italiano del 1873, sembrano preludere alle categorie concettuali della teoria del­l'egemonia dei Quaderni, ove beninteso ciascun lem­ma (società civile, nazione-popolo, conformità lin­guisticà, ecc.) tornerà risemantizzato in un'ottica complessiva squisitamente politica (nel senso assai ampio e articolato che questa parola ha per il fonda­tore del Pci). Non si sfugge comunque a un paio di interrogativi di fondo: come si spiegano tali conver­genze di analisi e persino di terminologia? In che misura esse possono raccordare e unificare, senza forzature, pensieri e progetti intellettuali così di­stanti nel tempo e così diversamente atteggiati nella società?

5. Secondo chi scrive più che ragioni filologiche (del resto non facilmente adducibili, almeno per il periodo del carcere) (4), occorre invocare, a spiegare le assonanze tra i due testi, una ben più lunga e diversificata catena di pensiero, di cui sia Gramsci sia Leopardi, e in piena indipendenza, furono insie­me tributari e partecipi. Alludo a quella trama ric­chissima di riflessioni che da Dante al Settecento, con Muratori, Genovesi e Algarotti, con Beccaria e Baretti e Denina, per giungere al secolo seguente, con Foscolo e Manzoni, con Cattaneo e Tenca e Asco­li, aveva nei secoli definito in modo inequivoco lo specifico del caso italiano: fin dal De vulgari elo­quentia i nodi critici di quel caso - l'assenza di un'aula politico-statale e la conseguente disgrega-

o. 34 • sabato 5 settembre 1987 • Rinascita p. 29

zione del ceto intellettuale - erano stati messi in viva luce; e in ogni fase della questione della lingua, come del resto Gramsci riafferma lucidamente, si era riproposto con energia il problema di identità delle classi colte, si erano riaffacciate le incognite della loro collocazione rispetto alle popolazioni «mi­nute» come rispetto al potere politico, agli strumenti istituzionali della comunicazione e della cultura.

Sarebbe facile (e in parte è stato fatto, nelle ricer­che degli ultimi anni) allineare le concordanze di questo coro intellettuale: che si dispone, vale la pena aggiungere, a dare corposità e immagine a una vera e propria linea di riflessione filosofico-linguistica italiana, in cui il ragionamento sulle dinamiche ge­nerali delle lingue (il meccanismo semantico, il fon­damento sociale e storico, la dialettica di conserva­zione e innovazione permanente in ogni assetto co­municativo) si intreccia a fondo con un'impietosa diagnosi della dislocazione del nostro paese in Euro­pa, della frattura fra scritto e parlato, della separa­tezza endemica degli intellettuali, delle difficili pro­spettive di riconversione politica dello strumento linguistico. Di questa linea Leopardi e Gramsci sono parte integrante, così come molti altri che hanno incontrato il tema linguistico in forme non professio­nali, ma, forse proprio per ciò, fecondamente criti­che, e ne hanno fatto una specola decisiva per la propria ricerca. Non è un caso se le correnti storiche della linguistica (viziate spesso da un resistente limi­te di accademismo) hanno ignorato figure del gene­re, limitando la portata della «scuola italiana» alla diatriba linguistico-letteraria aperta da Bembo e so­prattutto senza valorizzare la portata precisamente filosofica del pensiero non solo di Gramsci e Leopar­di, ma di Vico e Genovesi e tanti altri in fatto di lingue e linguaggi.

Non è neanche un caso se, con imbarazzo di qual­cuno, Tullio De Mauro ha potuto a buona ragione concludere che lo specifico di questa corrente di pen­siero sta proprio nella sua vocazione a intrecciare l'ottica linguistica con quella civile e politica (5), a esibire i livelli necessari di intersezione che, al soli­to, «attraversano» le discipline e ne rimodellano gli oggetti senza lasciarsene intieramente assorbire.

In questo quadro, far notare gli aspetti di continui­tà e oggettiva convergenza tra personaggi certa­mente distanti, come Leopardi e Gramsci, non do­vrebbe - crediamo - indurre a paventare forzate «gramscizzazioni», che sarebbero poi motivate da gretti interessi di parte, anzi di partito (comunista), di intellettuali «europei» e «tragici» come il recanate­se. È questa la critica che ci muove Antonio Negri in un libro recente, Lenta ginestra (Sugarco, Milano 1987), peraltro interessante e disposto a comprende­re il carattere non settoriale ma teorico-complessi­vo della riflessione linguistica in Leopardi. Ben al contrario di quanto (con accenti un po' velenosi) scri­ve il Negri, l'intento è esattamente quello di rilevare la portata autonomamente critica della concezione linguistica di Leopardi (e altrettanto si potrebbe fare con Dante, con Manzoni o, poniamo, Pasolini!) nel quadro di un filo di pensiero plurisecolare. Su questa linea d'uso della questione della lingua come rivela­trice dei nodi storici della cultura italiana, con buona pace del Negri, si colloca, con una personalissima capacità di torsione teorica, anche Antonio Gramsci. Piuttosto, chi oggi di Gramsci voglia raccogliere l'e­redità, deve porsi il problema di capire quanto della sua lezione sia stato tralasciato ad esempio relativa­mente al ruolo ((di primo piano» che, volendo trasfor­mare una società, occorre riservare alla questione linguistica.

6. Avendo lavorato fin qui sulle analogie del ((movi­mento» di pensiero che si esercita nello Zibaldone e nei Quaderni, sarà necessario indicare il punto in cui i percorsi cominciano a dividersi. Come è stato am­piamente illustrato dal Carpi, Leopardi costruisce la sua analisi della situazione italiana in margine al sofferto rapporto con la cultura borghese del suo tempo, e in particolare con l'offerta di integrazione professionale fattagli dal Vieusseux. Ma mentre que­sti tende a impegnare il lavoro intellettuale sui limi­ti storici della cultura nazionale per dare loro solu­zioni organizzative e strumentali, Leopardi (che pu­re lucidamente disvela quei limiti) mira a ricercare, nella società nuova che emerge, gli spazi e le condi­zioni della originalità e libertà linguistica. Certo, nulla di populistico in Giacomo (basti pensare allo scarsissimo interesse per i dialetti), nessuna conces­sione a scorciatoie fra «intendenti» e «popolo»; ma insieme, ed è pur sempre questo un passaggio da valorizzare, la percezione del rischio di omologazio­ne culturale e linguistica (uniformazione, schiavitù, geometrizzazione, com'egli si esprime) connesso al­l'affermarsi della forma borghese (aggiungerei: mo­derato-borghese) di organizzazione sociale. Di qui la

sua insistenza sulla «Varietà» del linguaggio, nel tem­po e nello spazio, nella disponibilità stilistica dello scrittore come nella immaginatività e metaforicità espressiva delle lingue comuni: un'insistenza che non può non tornare di grande attualità (indipendente­mente dal Leopardi storico) in un'epoca in cui nel concreto si pone la necessità di salvaguardare la gamma straordinaria di individualità storiche e lin­guistiche aggredite dalla moderna società tardo- o post-industriale.

All'altro polo, almeno come direzione di pensiero, Gramsci: il cui modello di «conformazione» linguisti­ca muove permanentemente, nella fase matura, dal­lo spontaneo per giungere al cosciente, dal moltepli­ce per giungere all'unità, dalla grammatica imma­nente per giungere a quella normativa, intesa come «atto di politica culturale». C'è anzi probabilmente da registrare un'evoluzione, uno spostamento d'ac­cento, fra il Gramsci giovane, antimanzoniano e filo­pascoliano, tutto proteso sulla poliedricità della so­cietà civile, e il Gramsci dei Quaderni, in cui il pro­blema linguistico si riscrive al livello dello Stato e l'obiettivo della riforma intellettuale di massa sug­gerisce di studiare i tramiti di una convergenza tra i processi spontanei del sociale e l'intervento pedago­gico ed egemonico del partito o della società politica nel suo insieme. E anche in Gramsci, come in Leo­pardi, con una più netta sottolineatura politico-cul­turale, si avvertono una valutazione limitativa dello spazio del dialetto e una sfiducia verso una possibile autonomia delle forme espressive popolari che, mentre risultano perfettamente omogenee al suo schema teorico, rischiano di attagliarsi con difficol­tà allo specifico del «caso italianoi>.

Chi si proponga di ripensare in termini attuali que­sti due modelli teorici o loro singole parti li troverà probabilmente diversamente disponibili alle doman­de dell'oggi. Ciò si spiega, e non deve, a mio avviso, costituire un problema. L'importante è che il «prelie­vo», comunque fatto, sia attento alla complessità e all'unità delle forme di pensiero in cui ogni singola affermazione si collocò.

In tal senso, non credo sia utile, come a proposito di Gramsci propone l'amico Lo Piparo, cercare di liberare la sua formazione liberal-linguistica dalla «superficialissima crosta» marxista (6). Mi pare (re­stando ai termini di un noto saggio di Badaloni) che non si apprezzi Gramsci senza capire la ((sintesi delle fonti» ch'egli cercò, angolandola attraverso una pro­spettiva genialmente trasversale, tutta mirata al compito politico di lungo periodo che gli stava di fronte, in cui non a caso la componente linguistica trova ampi spazi di fungibilità. Semmai, è tutto da valorizzare un marxismo che, nel contesto di una durissima crisi strategica, interna e internazionale, si ri-forma rendendo operanti e reciprocamente in­tegrabili ottiche problemiche diverse, solo misurabi­li sulla analisi della realtà e sulla possibilità di inter­venire efficacemente in essa.

Il discorso potrebbe ripetersi, a maggior ragione, per Leopardi: ogni attualizzazione spiccia, ogni uni­direzionale enfatizzazione tematica (oggi è di moda quella «francofortese») sarebbe riduttiva di quella capacità di investimento globale, pervasivo, delle tematiche che si regge sull'ipotesi conoscitiva, sul segno unitario e trasversale del suo pensiero, matu­rato anch'esso in un tempo di crisi, dinanzi allo scac­co dell'illuminismo e alla sclerosi aggressiva dei mo­delli culturali aristocratico-feudali.

Si trattava, in entrambi i casi, di trovare una via d'uscita da modi diversi di pensiero dogmatico: quel­lo cattolico-spiritualista (ma anche astrattamente razionalista) nel caso di Leopardi; quello idealista e marxistico-volgare nel caso di Gramsci; una via d'u­scita laica da forme «forti» di filosofia, senza tenta­zione alcuna di cedimenti irrazionalistici.

(I) Vedi soprattutto U. Carpi, fl poeta e la politica. Leo­pardi, Belli, Montale, Liguori, Napoli 1978, pp. 261 segg. e S. Timpanaro, Antileopardiani e neomodera ti nella sini­stra italiana, ETS, Pisa 1982, pp. 287 segg.

(2) Per un quadro, anche bibliografico, d'insieme mi permetto di rimandare alla mia Linguistica leopardiana, Il Mulino, Bologna 1984, spec. pp. 13 segg.

(3) Vedi lo scritto Studio del linguaggio e teoria gram­sciana, in «Critica marxista», 25, 1987, 2-3, pp. 167 segg. Le tesi del Lo Piparo sono esposte e ampiamente documenta­te in Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, pref. di T. De Mauro, Laterza, Bari 1979.

(4) Cfr. Timpanaro, op. cit. , p. 288. (5) In Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana,

Il Mulino, Bologna 1980, spec. pp. 5-25. (6) Studio del linguaggio, cit., p. 175.