gs 5,9a.10-12; sal 34; 2cor 5,17-21; lc 15,1-3.11-32 domenica di quaresima c.pdfdal libro di giosuè...

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1 I I V V d d o o m m e e n n i i c c a a d d i i Q Q u u a a r r e e s s i i m m a a C C ( ( L L a a e e t t a a r r e e ) ) Gs 5,9a.10-12; Sal 34; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32 Prima Lettura Gs 5,9-12 Il popolo di Dio, entrato nella terra promessa, celebra la Pasqua. Dal libro di Giosuè In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. Seconda Lettura 2 Cor 5,17-21 Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo. Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Vangelo Lc 15,1-3.11-32 Dal vangelo secondo Luca In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

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Gs 5,9a.10-12; Sal 34; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

Prima Lettura Gs 5,9-12 Il popolo di Dio, entrato nella terra promessa, celebra la Pasqua. Dal libro d i Giosuè In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. Seconda Lettura 2 Cor 5,17-21 Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo. Dalla lettera d i san Paolo apostolo ai Corinzi Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

Vangelo Lc 15,1-3.11-32 Dal vangelo secondo Luca In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

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La pprriimmaa lleettttuurraa (Gs 5,9a.10-12) ci riporta al tempo dell'ingresso nella Terra promessa, quando yühôšùª` Bin-nûn müšärët möšè «Giosuè aiutante di Mosè» (Gs 1,1) pratica la circoncisione a quanti ne erano sprovvisti, celebra la prima Pasqua, dopo aver attraversato il Giordano, e tutti mangiano i prodotti della terra. Il tempo della manna si è concluso. Gs 5,9a: Allora il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». [Quel luogo si chiama Gàlgala fino ad oggi] (wayyöº́ mer yhwh(´ädönäy) ´el-yühôšùª` hayyôm Gallôºtî ´et-HerPat micraºyim më`álêkem [wayyiqrä´ šëm hammäqôm hahû´ GilGäl `ad hayyôm hazzè], lett. «E disse Adonay a Giosuè: Oggi tolsi infamia di Egitto da voi. [E chiamò nome del luogo quello Galgala fino al giorno questo]»). - Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto (hayyôm Gallôºtî ´et-HerPat micraºyim më`álêkem). La HerPâ micraºyim «infamia dell'Egitto» sembra indicare il disonore di non essere circoncisi, cioè disobbedienti. Ciò era probabilmente accaduto alle generazioni che avevano vissuto la schiavitù in Egitto e la peregrinazione nel deserto; in Egitto infatti il rito era riservato ai sacerdoti e proibito agli Israeliti. Perciò Giosuè, su comando di Dio, wayyäºmol ´et-Bünê yiSrä´ël ´el-Gib`at hä`árälôt «circoncise gli Israeliti al colle dei Prepuzi» (Gs 5,3). Il narratore offre qui una spiegazione del toponimo GilGäl «Gàlgala» (cf 4,19), sulla base del verbo Galäl «allontanare, togliere, rimuovere», in riferimento al rito della mûlah «circoncisione». Secondo questa etimologia popolare, GilGäl significherebbe «allontanamento», mentre in verità significa «ruota, cerchio [di pietre]» (cf 4,20). Questa città doveva trovarsi presso l'odierna el-Eteleh, 5 km a est di Tell es-Sultan, a nord-est di Gerico. 5,10: Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico (wayyaHánû bünê|-yiSrä´ël BaGGilGäl wayya`áSû ´et-haPPeºsaH Bü´arBä`â `äSär yôm laHöºdeš Bä`eºreb Bü`a|rbôt yürîHô, lett. «E si accamparono figli di Israele a Galgala e fecero la Pasqua in quattro dieci giorno del mese, nella sera, in steppe di Gerico»). La celebrazione di PeºsaH «Pasqua» (nm.msc. 49x TM) dopo il passaggio del Giordano, è descritta sulla falsariga della celebrazione del PeºsaH «Pasqua», subito dopo il passaggio del Mar Rosso. La celebrazione iniziava la sera del 14 di Nisàn; il passaggio del fiume era avvenuto quattro giorni prima. 5,11: Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno (wayyöº́ külû më`ábûr hä´äºrec mimmo|Hórat haPPeºsaH maccôt wüqälûy Bü`eºcem hayyôm hazzè, lett. «E mangiarono prodotti della terra indomani della Pasqua, azzime e(grano) arrostito in stesso giorno questo»). - mangiarono i prodotti della terra (wayyöº́ külû më`ábûr hä´äºrec). I prodotti della terra non sembrano avere qui un significato prettamente pasquale, quanto piuttosto un significato religioso generico. Il cessare della manna imponeva infatti di iniziare a mangiare i frutti comuni del suolo; iniziare a mangiare questi frutti, in uno stato di santificazione, voleva dire per i figli d'Israele chiedere a Dio una propiziazione su di essi e riconoscerlo padrone non solo della terra, ma anche dei suoi frutti. ´eºrec zäbat Häläb ûdübäš «la terra dove scorre latte e miele» (Gs 5,6; Es 3,8.17; 13,5) è una chiara allusione alla straordinaria fertilità del suolo. 5,12: E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan (wayyišBöt hammän mi|mmoHórät Bü´okläm më`ábûr hä´äºrec wülö´-häºyâ `ôd libnê yiSrä´ël män wayyö´külû miTTübû´at ´eºrec Künaº̀ an Baššänâ hahî´, lett. «E cessò la manna l’indomani, in mangiare di loro da prodotto della terra, e non ci fu più per i figli di Israele manna e mangiarono da prodotto della terra di Canaan nell’anno quello»). - Gli Israeliti non ebbero più manna (wülö´-häºyâ `ôd libnê yiSrä´ël män). Nel fenomeno del män «manna» (nm.msc. 14x TM) che viene a cessare, i figli d'Israele comprendono che era terminato un periodo storico e stava iniziando un altro, nel quale l'assistenza di Dio si sarebbe manifestata in altro modo. Tutto il popolo celebra la Pasqua, non come rito familiare ma come celebrazione nazionale, secondo le norme riportate in Dt 16,1-8. Nello stesso tempo questa Pasqua fa da cornice a tutta la vicenda storica del popolo nella terra, assieme a quella - celebrata secondo lo stesso modello - di yö´šiyyäºhû «Giosia» «Adonay assiste»: Il re ordinò a tutto il popolo: «Celebrate la Pasqua in onore del Signore, vostro Dio, come è scritto nel libro di questa alleanza». […] Soltanto nell'anno diciottesimo del re Giosia questa Pasqua fu celebrata in onore del Signore a Gerusalemme. (2Re

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23,21.23). La cessazione della manna segnala un ulteriore elemento di rottura con la condizione precedente; il deserto è lasciato alle spalle, ora non è più il cibo che viene dal cielo a nutrire, ma i «frutti della terra di Canaan».

Dopo aver attraversato il mare, Israele conosce nel deserto i sussulti del difficile

apprendistato della libertà. Durante questo periodo, il popolo non celebra la Pasqua, ma vi saranno altri pasti attraverso i quali si compirà la sua educazione. La Pasqua verrà celebrata di nuovo dopo l'ingresso nella terra della promessa, secondo quanto aveva stabilito lo stesso Mosè (cf Es 12,25; 13,5). Quindi, dopo aver passato il Giordano sotto la guida di Giosuè, il popolo del Signore ricomincia a celebrare la Pasqua. Secondo l’abate francese G. Auzou, qui termina il «tempo del deserto». Per Luis Alonso Schökel (1920-1998) il racconto dell'uscita dall'Egitto è costante in Gs 5 che riprende tre elementi chiave di Es 3-15: a) In Gs 5,1 il narratore ricorda il prosciugamento delle acque del Giordano e la traversata d'Israele; b) Giosuè circoncide i figli d'Israele nati nel deserto, fatto che permette di celebrare la Pasqua (5,2-12); c) Giosuè incontra un enigmatico capo dell'esercito del Signore (5,14) che probabilmente è Dio stesso.

Giunti al termine dei preliminari della conquista della terra promessa, Israele celebra la sua prima Pasqua nella terra promessa da Dio. Il pasto della libertà è la prima azione che il popolo compie nella terra promessa, com'era stata l'ultima in terra di schiavitù. La Pasqua diventa quindi memoriale del dono ricevuto mediante un pasto. Paul Beauchamp (1924-2001) suggerisce che tutto inizia con il pane senza lievito: maccâ «pane azzimo» (nm.fm. 53x TM: Lv 2,5) consumato a PeºsaH «Pasqua» (nm.msc. 49x TM: Es 12,11). La celebrazione pasquale sarebbe allora il «fare memoria della storia di un pane», associato a un'azione di grazie per la bontà del Signore. È forse questa una delle ragioni che hanno spinto la tradizione giudaica ad associare il salmo 136 alla festa di Pasqua: «Egli dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (Sal 136,25). Per il salmista, il corso delle opere del Signore inizia con la creazione, che è la prima delle sue «meraviglie». Secondo il significato di questa parola, si tratta del primo tra i prodigi che egli ha realizzato nella storia della salvezza, e tra i quali l'uscita dall'Egitto rappresenta il modello.

Se il dono del pane diventa motivo per esprimere la gratitudine nei confronti di Dio, non ci si deve stupire che la salvezza ricevuta da Dio venga celebrata intorno a un pasto, anche al di fuori delle feste pasquali.

Nel Nuovo Testamento, un pasto spicca tra tutti: il κυριακὸν δεῖπνον «pasto del Signore» (1Cor 11,20), intimamente legato alla liberazione realizzata da Cristo. In 1Cor 10, in un commento midrashico, Paolo evoca la liberazione cristiana attraverso il «battesimo» dei padri «nella nube e nel mare», riferimento evidente al passaggio del mare e alla liberazione degli ebrei. Con lo stesso slancio, egli prosegue parlando di cibo: «Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (1Cor 10,3-4). L'allusione al cibo del popolo nel deserto è chiara e il contesto invita il lettore a metterla in rapporto con il pasto del Signore, nel quale il calice di benedizione e il pane spezzato sono comunione al corpo e al sangue di Cristo (1Cor 10,16-17). Così, Paolo associa strettamente liberazione e cibo eucaristico, anche se qui non si tratta del pasto pasquale. È possibile che l'eucaristia cristiana sia anch'essa legata all'azione di grazie degli ebrei (cf C. Giraudo). Rimane però il fatto che il Nuovo Testamento sembra aver sfruttato soprattutto la simbolica pasquale. La sseeccoonnddaa lleettttuurraa (2Cor 5,17-21) riprende un passo fondamentale della 2Corinzi, definita la lettera della καταλλαγή «riconciliazione», dono gratuito che il Padre ha offerto in Cristo a tutti gli uomini. 2Cor 5,17: [Fratelli,] se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove (εἴ τις ἐν Χριστῷ, καινὴ κτίσις• τὰ ἀρχαῖα παρῆλθεν, ἰδοὺ γέγονεν καινά, lett. «se qualcuno in Cristo, nuova creazione; le cose vecchie sono passate, ecco sono diventate nuove»). Grammatica: Χριστός, οῦ, ὁ «Cristo» (538x NT: 379x Paolo); καινός, ή, όν «nuovo, recente» (42x NT: 7x Paolo); κτίσις, εως, ἡ «creazione» (19x NT: 11x Paolo: 7x Rm +); ἀρχαῖος, αία, αῖον agg. «antico, vecchio»

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(11x NT); aor.ind.di παρέρχομαι «passo da, sorpasso» (30x NT); aor.impt.di ὁράω «vedo» (114x NT: 10x Paolo); prf.ind.di γίνομαι «nasco» (667x NT: 141x Paolo). - se uno è in Cristo (εἴ τις ἐν Χριστῷ). In realtà il sintagma introduce non una condizionale, ma una relativa, così da coincidere con ὅστις «chi». La formula ἐν Χριστῷ «in Cristo» (85x Paolo: 14x Rm; 13x 1Cor; 11x Ef; 10x Gal; 9x Fil; 8x 2Cor; 7x 2Tm; 5x Col; 3x 1Ts; 3x Fl; 2x 1Tm) è tipica di Paolo che la utilizza per indicare la partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. Tale partecipazione si realizza attraverso l'azione dello Spirito di Cristo. Per questo l'essere ἐν Χριστῷ non è diverso dall'essere ἐν πνεύματι «nello Spirito» (cf Rm 8,9). - una nuova creatura (καινὴ κτίσις). L'espressione lett. «nuova creazione» può essere considerata una συνεκδοχή «sineddoche, ricevere insieme», figura retorica che consiste nel trasferire il significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità; nel nostro caso indica «una nuova creatura». La realtà apocalittica della nuova creatura è il frutto della morte e risurrezione di Cristo. L’espressione «nuova creazione» è tipica dei profeti, specie del Secondo e del Terzo Isaia. «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19). «Ecco infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato» (Is 65,17; cf Is 48,6; 66,22). Tuttavia, l'espressione καινὴ κτίσις non è mai utilizzata nell'AT, mentre è presente a Qumran, dove assume una prospettiva escatologica: «Poiché è in uguale misura che Dio li ha posti fino al tempo assegnato e alla nuova creazione» (1QS 4,25). Interessante è anche la testimonianza della letteratura apocrifa dell'AT: «È il Monte Sion che sarà santificato nella nuova creazione per la santificazione della terra» (Giubilei 4,26, II sec. a.C.). Paolo utilizza la formula καινὴ κτίσις solo qui e in Gal 6,15: «Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura». In entrambi i casi, la nuova creazione assume un'accentuazione antropologica, perché quanti sono «in Cristo» si pongono al di là dell'essere giudeo o greco. La «nuova creatura» si è realizzata grazie alla morte e risurrezione di Cristo e non è diversa «dall'uomo interiore che si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4,16) né dall'«uomo nuovo» di cui si parla in Ef 2,15; 4,25. - le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove (τὰ ἀρχαῖα παρῆλθεν, ἰδοὺ γέγονεν καινά). L'aggettivo ἀρχαῖος, αία, αῖον agg. «antico, vecchio» ha qui l'unica occorrenza nelle lettere paoline, mentre l'intera espressione si ritrova come tale soltanto nella Settanta (Sal 88,50 [TM 89,50]; 138,5 [TM 139,5]; 142,5 [TM 143,5]; Sap 8,8; Is 43,18). - Sono passate... sono nate (παρῆλθεν … γέγονεν). Si deve notare che il primo verbo è all'aoristo per indicare un'azione ormai completata, mentre il secondo è al perfetto, descrivendo un'azione passata ma i cui effetti si prolungano nel presente. - Nuove (καινά). L'aggettivo καινός, ή, όν «nuovo» segnala una novità non cronologica come il corrispondente νέος, α, ον «nuovo, giovane» (24x NT: 8x Paolo), ma di natura e di qualità. Paolo non precisa quali siano le realtà vecchie e quali le nuove, ma assicura che l'essere «in Cristo» provoca il passaggio dal vecchio al nuovo. Contrapposizione analoga la troviamo in Rm 7,6b: «siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata». 5,18: Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione (τὰ δὲ πάντα ἐκ τοῦ θεοῦ τοῦ καταλλάξαντος ἡμᾶς ἑαυτῷ διὰ Χριστοῦ καὶ δόντος ἡμῖν τὴν διακονίαν τῆς καταλλαγῆς, lett. «Le però cose tutte (sono) da Dio l’avente riconciliato noi a sé per mezzo di Cristo e avente dato a noi il servizio della riconciliazione»). Grammatica: θεός, οῦ, ὁ «Dio» (1327x NT: 548x Paolo); aor.ptc.di καταλλάσσω «riconcilio» (6x NT: Paolo: 2x Rm; 1x 1Cor; 3x 2Cor); aor.ptc.di δίδωμι «do, affido» (416x NT: 72x Paolo); διακονία, ας, ἡ «servizio, ministero» (34x NT: 22x Paolo); καταλλαγή, ῆς, ἡ «riconciliazione» (4x NT: Rm 5,11; 11,15; 2Cor 5,18.19). - Tutto questo però viene da Dio (τὰ δὲ πάντα ἐκ τοῦ θεοῦ). L'espressione si riferisce al contenuto dei vv. 14-17 e richiama a livello formale Rm 11,36. Paolo inizia a parlare di riconciliazione spostando l'attenzione sull'opera di Dio. Tra gli autori del NT, soltanto Paolo utilizza il vocabolario della riconciliazione. G. Calvino (1509-1564, teologo francese, con M. Lutero fu il massimo riformatore religioso del Cristianesimo europeo degli anni venti e trenta del Cinquecento) definiva questi versi come la sintesi di tutto il pensiero di Paolo. - ci ha riconciliati … riconciliazione (καταλλάξαντος ἡμᾶς … καταλλαγῆς). Il campo semantico della καταλλαγή, ῆς, ἡ «riconciliazione» è esclusivamente paolino nel NT ed eccetto il caso di 1Cor 7,11 ha

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sempre una connotazione teologica. In particolare, il participio aoristo καταλλάξαντος «che ha riconciliato» indica un momento preciso nel tempo che deve essere identificato con la morte in croce di Cristo. I termini καταλλάσσω «riconcilio» (6x NT: Paolo: 2x Rm; 1x 1Cor; 3x 2Cor) e καταλλαγή, ῆς, ἡ «riconciliazione» (4x NT: Rm 5,11; 11,15; 2Cor 5,18.19) sono poco utilizzati nel NT (cf 1Cor 1,18-21; Rm 5,10-11; 11,15). Nell’antichità, il linguaggio della riconciliazione era tipico delle relazioni diplomatiche o politico-militari; in contesti economici, καταλλαγή si riferiva al cambio delle monete; in campo religioso, nell’Iliade, Aiace, cugino di Achille, cerca di riconciliarsi con gli dèi attraverso riti di espiazione. La novità di Paolo deriva dal capovolgimento del modello di riconciliazione. Infatti, mentre nelle religioni antiche sono gli esseri umani a cercare la riconciliazione con Dio, soprattutto attraverso preghiere e riti espiatori, in Paolo (2Cor 5,18-20; Rm 5,8-10) è Dio stesso che decide di riconciliare gli uomini o il mondo con se stesso. In tal senso, salta qualsiasi paradigma diplomatico e resta soltanto l'azione gratuita di Dio, senza attendere la minima risposta dal versante umano. Nell'AT, Mosè è presentato come il καταλλάκτης «riconciliatore» e il μεσίτης, ου, ὁ «mediatore» che ristabilisce la relazione di alleanza tra Dio e il suo popolo. Paolo non si sente mediatore della riconciliazione, ma servitore della riconciliazione. Solo alla luce dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, possiamo cogliere il senso della paradossale riconciliazione di Dio con gli uomini: non si è mai visto un Dio che riconcilia gli uomini e il mondo con se stesso, senza valutare il versante umano della penitenza, del riconoscimento dei peccati e di riti espiatori che lo possano rendere favorevole. Alla luce della sentenza conclusiva del v. 21 potremo comprendere l'origine e la portata della riconciliazione. Di fatto, Dio ci ha riconciliato per mezzo di Cristo; e senza di lui non è concepibile alcuna riconciliazione di Dio con gli uomini e con il mondo. - ha affidato a noi il ministero della riconciliazione (δόντος ἡμῖν τὴν διακονίαν τῆς καταλλαγῆς). Come per τὸν λόγον τῆς καταλλαγῆς «parola della riconciliazione» (v. 19), si tratta di un genitivo oggettivo: la riconciliazione è il contenuto del ministero e della parola. Il ministero, la diaconìa della riconciliazione è una tipica formula di affidamento. Infatti, non è un compito affidato a tutti i credenti bensì a quanti hanno ricevuto il «ministero dello Spirito» (3,8) e «il ministero che porta alla giustizia» (3,9). L'origine della riconciliazione resta l'evento della croce. Perciò è pertinente collocare il vocabolario paolino e soprattutto il ministero della riconciliazione nel paradigma dell'elezione, che sarà sviluppato da K. Barth (Basilea 1886-1968): «L'eletto si deve preoccupare in tutte le circostanze del servizio, del «ministero della riconciliazione» e di null'altro; si tratta del destino che segna la sua vita e che gli è chiesto di vivere» (Dottrina dell'elezione divina, 820). 5,19: Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione (ὡς ὅτι θεὸς ἦν ἐν Χριστῷ κόσμον καταλλάσσων ἑαυτῷ, μὴ λογιζόμενος αὐτοῖς τὰ παραπτώματα αὐτῶν καὶ θέμενος ἐν ἡμῖν τὸν λόγον τῆς καταλλαγῆς, lett. «come (è certo) che Dio era in Cristo mondo riconciliando a se stesso, non computando a loro le mancanze di loro e avendo posto fra noi la parola della riconciliazione»). Grammatica: κόσμος, ου, ὁ «mondo» (186x NT: 47x Paolo); prs.ptc.di καταλλάσσω «riconcilio»; prs.ptc.med.di λογίζομαι «imputo» (41x NT: 35x Paolo: 8x 2Cor); παράπτωμα, ατος, τό «colpa» (21x NT: 16x Paolo); aor.ptc.med.di τίθημι «do, affido» (100x NT: 16x Paolo); λόγος, ου, ὁ «parola» (331x NT: 85x Paolo); καταλλαγή, ῆς, ἡ «riconciliazione» (4x NT: termine escl.di Paolo). - Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo (θεὸς ἦν ἐν Χριστῷ κόσμον καταλλάσσων ἑαυτῷ). Paolo ribadisce l'universale portata della riconciliazione, realizzata da Dio in Cristo. La riconciliazione divina è stata realizzata ἐν Χριστῷ «in Cristo», ossia nell'evento della croce, e non soltanto διὰ Χριστοῦ «mediante Cristo» (v. 18). In tale prospettiva, il κόσμος, ου, ὁ «mondo» (186x NT: 47x Paolo), quale destinatario della riconciliazione di Dio con se stesso, corrisponde a tutti gli esseri umani. - non imputando agli uomini le loro colpe (μὴ λογιζόμενος αὐτοῖς τὰ παραπτώματα αὐτῶν). Il prs.ptc.med.di λογίζομαι indica un atteggiamento continuo di Dio nei confronti degli uomini. Affinché qualsiasi percorso di riconciliazione gratuita diventi possibile è necessario che le colpe o i peccati di tutti non siano tenuti in conto, altrimenti si ricade in un modello di riconciliazione a partire dal basso, ossia dagli stessi esseri umani, e non dall'alto. Per questo, Paolo avverte l'esigenza di precisare che Dio non ha imputato le colpe agli uomini, come evidenziato anche in Col 2,14: «Annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce».

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- affidando a noi la parola della riconciliazione (θέμενος ἐν ἡμῖν τὸν λόγον τῆς καταλλαγῆς). Il secondo participio, aor.ptc.med.di τίθημι «affido» (100x NT: 16x Paolo), rimanda a un momento preciso del passato, quando Dio ha affidato «la parola della riconciliazione» ai suoi apostoli. La parola è il vangelo che annuncia la riconciliazione realizzata da Dio in Cristo. 5,20: In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (ὑπὲρ Χριστοῦ οὖν πρεσβεύομεν ὡς τοῦ θεοῦ παρακαλοῦντος δι' ἡμῶν• δεόμεθα ὑπὲρ Χριστοῦ, καταλλάγητε τῷ θεῷ, lett. «Per Cristo dunque facciamo l’ambasciata come (essendo) Dio esortante per mezzo di noi: supplichiamo per Cristo: riconciliatevi a Dio»). Grammatica: prs.ind.di πρεσβεύω «sono ambasciatore» (2x NT: 2Cor 5,20; Ef 6,20), vrb.dnm. di πρέσβυς «vecchio»; prs.ptc.di παρακαλέω «esorto» (109x NT: 54x Paolo); prs.ind.di δέομαι «supplico» (22x NT: 6x Paolo); aor.impt.pss.di καταλλάσσω «riconcilio». - In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori (ὑπὲρ Χριστοῦ οὖν πρεσβεύομεν). La preposizione ὑπὲρ può indicare favore o sostituzione, nel nostro contesto tutti e due gli aspetti devono essere compresi, volti a sottolineare l'autorità degli apostoli, derivante da Cristo. - Siamo ambasciatori (πρεσβεύομεν). Il verbo πρεσβεύω «sono ambasciatore» (2x NT: 2Cor 5,20; Ef 6,20), vrb.dnm. di πρέσβυς «vecchio» ricorre soltanto due volte, legato all'annuncio paolino del Vangelo. Nel greco il verbo era usato per gli ambasciatori imperiali o per gli inviati di una città. È proprio degli ambasciatori fare le veci e operare con l'autorità di colui che li manda. - Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (δεόμεθα ὑπὲρ Χριστοῦ, καταλλάγητε τῷ θεῷ). L'imperativo passivo aoristo di καταλλάσσω «riconcilio» indica che l'iniziativa della riconciliazione parte da Dio ma, perché sia efficace, deve essere accolta dall'uomo nella sua vita in un momento preciso. L'esortazione di Paolo diventa intensa e accorata, poiché si accompagna all'implorazione: δεόμεθα «vi supplichiamo». Il contesto apologetico conferma che Paolo è parte in causa: lasciarsi riconciliare con Dio non è diverso dal ristabilire la definitiva riconciliazione con Paolo stesso.

5,21: Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (τὸν μὴ γνόντα ἁμαρτίαν ὑπὲρ ἡμῶν ἁμαρτίαν ἐποίησεν, ἵνα ἡμεῖς γενώμεθα δικαιοσύνη θεοῦ ἐν αὐτῷ, lett. «Il non avente conosciuto peccato per noi peccato ha fatto, affinché noi diventiamo giustizia di Dio»). Grammatica: aor.ptc.di γινώσκω «conosco» (222x NT: 50x Paolo); ἁμαρτία, ας, ἡ «peccato» (173x NT: 64x Paolo); aor.ind.di ποιέω «faccio» (565x NT: 82x Paolo); aor.cgt.di γίνομαι «divento» (667x NT: 141x Paolo); δικαιοσύνη, ης, ἡ «giustizia, giustificazione» (92x NT: 57x Paolo). - Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore (τὸν μὴ γνόντα ἁμαρτίαν ὑπὲρ ἡμῶν ἁμαρτίαν ἐποίησεν). L'espressione «conoscere peccato» si ritrova anche in Rm 3,20; 7,7 e indica qui una conoscenza esperienziale del peccato, effettivamente commesso in un atto e momento preciso. Una sentenza lapidaria e fulminante chiude la dimostrazione del nostro brano. Gesù Cristo è colui che non aveva conosciuto peccato e che Dio stesso rese tale. Qual è il significato del «peccato» che Cristo non «aveva conosciuto»? Notiamo che la congiunzione ὑπὲρ non ha valore vicario o sostitutivo bensì di vantaggio: Gesù non fu reso peccato da Dio al posto nostro, affinché su lui Dio potesse abbattere tutta la propria collera, bensì in nostro favore, «perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio». Mentre la concezione vicaria lascia la situazione umana immutata, quella del vantaggio conferisce agli esseri umani doni che non possedevano in precedenza: la giustizia divina, la ricchezza di Cristo (cf 2Cor 8,9), lo Spirito in quanto promessa (cf Gal 3,14), la figliolanza divina (cf Gal 4,5), la giusta esigenza della Legge (cf Rm 8,4) e la gloria che i gentili rendono a Dio (cf Rm 15,9). La prospettiva vicaria della redenzione, pur presente nel NT (cf Gv 11,50; 1Gv 2,2), è limitante rispetto al paradosso paolino, perché si riduce al ristabilimento di una condizione previa del peccato, mentre i credenti ricevono qualcosa d'inaudito che appartiene soltanto a Cristo. - peccato … giustizia di Dio (ἁμαρτίαν … δικαιοσύνη θεοῦ). In entrambi i casi si fa ricorso alla figura retorica della metonimia utilizzando un astratto al posto del concreto per rendere l'espressione più forte e incisiva. In particolare «giustizia di Dio» è un genitivo di origine che esprime la provenienza da Dio della giustizia. Il parallelo che illumina maggiormente la nostra espressione è quello di 1Cor 1,30: ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, ὃς ἐγενήθη σοφία ἡμῖν ἀπὸ θεοῦ, δικαιοσύνη τε καὶ ἁγιασμὸς καὶ ἀπολύτρωσις «In Cristo

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Gesù che divenne per noi sapienza da parte di Dio, giustizia, santificazione e redenzione». Il genitivo «giustizia di Dio» è soggettivo: non siamo noi ad essere diventati, per nostra iniziativa, giustizia di Dio, ma è soltanto Dio che ci ha resi sua giustizia. Per Paolo non è sufficiente il riconoscimento delle proprie cadute per ottenere la giustizia divina, ma soltanto con l'inserimento «in Cristo» i credenti sono stati giustificati, al punto che anch'essi possono definirsi giustizia o giustificazione divina. Non a caso la 2Corinzi è stata definita la lettera della riconciliazione. L'amore di Cristo non soltanto unisce, sospinge e avvolge ma crea un continuo tormento in noi (v. 14); il tormento per il quale si è obbligati a non relazionarsi più agli altri per tornaconto o per interessi materiali («secondo la carne»), ma permette di non vivere più per se stessi bensì per lui che è morto ed è risorto per noi. La croce si trova all'origine della riconciliazione universale, della nuova creazione e della morte di tutti gli uomini, affinché non soltanto i credenti, ma tutti vivano per Cristo e non più per se stessi. Se volessimo utilizzare la prospettiva vicaria della morte di Cristo, potremmo sostenere che il "prezzo pagato" da Dio a favore degli uomini è stato altissimo: colui che non commise peccato divenne persino peccato a nostro vantaggio. In conclusione:

Il ministero della riconciliazione investe tutta la Chiesa. Qualora un credente riceva il carisma della riconciliazione, questo è per il bene di tutti.

Il contenuto dell’ambasceria divina resta inalterabile: tutti sono stati riconciliati ἐν Χριστῷ «in Cristo». Nella storia della Chiesa spesso questa verità è stata ignorata, provocando l'affermazione di una mentalità individualistica. La gratuità divina viene poco capita. Nella misura in cui ci lasciamo riconciliare con Dio, diveniamo a nostra volta ministri della riconciliazione. Il vvaannggeelloo (Lc 15,1-3.11-32) ci propone la parabola più toccante di Gesù, che rivela il cuore misericordioso del Padre. Il capitolo 15 di Luca si introduce con un'affermazione dei farisei e degli scribi che criticano Gesù, perché «accoglie i peccatori e mangia con loro» (v. 2). Il tema dell'amore misericordioso e generoso di Dio, che è sempre pronto ad abbracciare i peccatori, è illustrato con un tre parabole: «la pecora perduta», «la moneta smarrita», «il figliol prodigo». Le narrazioni hanno il loro vertice non nella perdita ma nel ritrovamento che suscita gioia. Lc 15,1-3a: Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: (Ἦσαν δὲ αὐτῷ ἐγγίζοντες πάντες οἱ τελῶναι καὶ οἱ ἁμαρτωλοὶ ἀκούειν αὐτοῦ. 2καὶ διεγόγγυζον οἱ τε Φαρισαῖοι καὶ οἱ γραμματεῖς λέγοντες ὅτι οὗτος ἁμαρτωλοὺς προσδέχεται καὶ συνεσθίει αὐτοῖς. 3Εἶπεν δὲ πρὸς αὐτοὺς τὴν παραβολῆν ταύτην, lett. «Erano poi a lui avvicinatisi tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltare lui. 2 E mormoravano i farisei e gli scribi dicendo: Questi peccatori accoglie e mangia con loro. 3 Disse allora a loro la parabola questa»). Grammatica: impf.ind.di εἰμί «sono» (2479x NT); prs.ptc.di ἐγγίζω «mi avvicino» (42x NT: 18x Lc); τελώνης, ου, ὁ «esattore delle tasse, pubblicano» (21x NT: 10x Lc +); ἁμαρτωλός, ον agg. «peccatore» (47x NT: 18x Lc +); prs.inf.di ἀκούω «ascolto» (430x NT: 65x Lc; 89x At +); v. 2: impf.ind.di διαγογγύζω «critico, mormoro» (2x NT: Lc 15,2; 19,7); Φαρισαῖος, ου, ὁ «fariseo» (99x NT: 27x Lc); γραμματεύς, έως, ὁ «scriba, segretario, cancelliere» (64x NT: 14x Lc); prs.ptc.di λέγω «dico» (2267x NT: 217x Lc); prs.ind.di προσδέχομαι «accolgo» (14x NT: 5x Lc); prs.ind.di συνεσθίω «mangio insieme» (5x NT: Lc 15,2); v. 3: aor.ind.di λέγω «dico» (2267x NT: 217x Lc); παραβολή, ῆς, ἡ «parabola, detto, proverbio» (50x NT: 17x Mt 13,3; 13x Mc; 18x Lc +). - Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo (Ἦσαν δὲ αὐτῷ ἐγγίζοντες πάντες οἱ τελῶναι καὶ οἱ ἁμαρτωλοὶ ἀκούειν αὐτοῦ). La costruzione perifrastica (verbo εἰμί «sono» + participio ἐγγίζοντες) è tipicamente lucana e sottolinea che l'azione avveniva ripetutamente, era cioè abituale. Luca si introduce constatando che πάντες «tutti» οἱ τελῶναι «gli esattori di tasse» e οἱ ἁμαρτωλοὶ «i peccatori» si avvicinavano αὐτῷ «a lui» ἀκούειν αὐτοῦ «per ascoltarlo». L'avvicinarsi «a lui» deriva da una presa di coscienza del vuoto da colmare e da un'obbedienza che inizia ad apprezzare la Parola. L'unica difficoltà deriva dall'identità sociale o religiosa di questi ascoltatori, ma si tratta di un'identità simbolica. Per Luca, i

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τελῶναι «pubblicani» rappresentano gli uomini separati da Dio perché attaccati ai beni materiali; i ἁμαρτωλοὶ «peccatori» sono coloro che coscientemente si pongono contro i comandamenti di Dio. Queste sono le persone che hanno bisogno di Gesù! - I farisei e gli scribi mormoravano (2καὶ διεγόγγυζον οἱ τε Φαρισαῖοι καὶ οἱ γραμματεῖς). Il verbo impf.ind.di διαγογγύζω «critico, mormoro» (2x NT: Lc 15,2; 19,7) esprime la rivendicazione di un diritto che si presume non venga soddisfatto. L'imperfetto sottolinea la continuità e la reiterazione delle critiche. Nell’AT, le Tülûnnöt «mormorazioni» (nm.fm. 9x TM: Es 16,7) contraddistinguono gli ebrei nel deserto (Es 15-17; Nm 14-17) e i Giudei nei confronti di Gesù (Gv 6,41). Nel NT, il γογγυσμός, οῦ, ὁ «mormorazione» (4x NT: Gv 7,12; At 6,1; Fil 2,14; 1Pt 4,9) contraddistingue i presunti giusti: farisei e scribi. - Costui accoglie i peccatori e mangia con loro (οὗτος ἁμαρτωλοὺς προσδέχεται καὶ συνεσθίει αὐτοῖς). Con un po' di esagerazione è stato affermato che «l'essenza del cristianesimo» consiste nella comunione della mensa (Franz Mussner 1916- ). Di certo, il suo significato simbolico è di primaria importanza per Luca, però piuttosto che parlare di essenza si deve parlare di criterio di verifica (cf šiBBöºlet, «spiga o rivo» Gdc 12,6): praticando o rifiutando la comunanza di mensa la Chiesa si regge in piedi oppure cade. Luca lo riconosce per il popolo d'Israele in questo passo e lo riconoscerà per la Chiesa negli Atti. La comunità di Gerusalemme non tollerava che Pietro mangiasse con i non circoncisi (Cornelio, At 11,3) e solo con fatica accettò l'accoglienza dei gentili (At 11,18), sui quali era sceso lo Spirito Santo (At 11,15). Lc 15 vuole dimostrare la stretta connessione tra comunione di mensa e conversione. Poiché Gesù li raggiunge là dove sono, i peccatori possono raggiungerlo là dove si trova Lui. I vv. 1-2 ricordano le abitudini e le frequentazioni del Gesù storico, ma rispecchiano soprattutto la riflessione teologica di Luca: ciò che conta è ascoltare il Maestro. - 3Ed egli disse loro questa parabola (Εἶπεν δὲ πρὸς αὐτοὺς τὴν παραβολῆν ταύτην). Il termine italiano «parabola» traduce l’ebraico mašal «parabola, proverbio» (nm.msc. 38x TM). La radice verbale mšl ricorre nell'AT con due significati diversi: 1) essere simile, assomigliare, raccontare una parabola, cantare un canto beffardo; 2) dominare, regnare (K.-M. Beyse-H. Gross, in GLAT V, Paideia 2005, coll. 424-433). Il sostantivo mašal può significare: «detto, proverbio, massima sapienziale, metafora, parabola, allegoria». Termini correlati sono: mošel «signore, capo»; mimšal «signoria, il governare»; memšalä «regno, governo». Il mašal resta una delle forme più importanti del midraš «spiegazione» per la lettura del testo biblico. Si tratta di un’esposizione nella quale vengono presentati situazioni e protagonisti di immediata comprensione per il lettore. Un ottimo esempio è rappresentato dai protagonisti del Cantico dei Cantici, intesi come allegoria del rapporto tra Dio e il credente. I rapporti fra di loro devono essere analoghi a quelli a cui si vuole alludere, secondo una logica, per così dire, di allegorizzante (mašal) e allegorizzato (nimšal: forma passiva di mašal). Il plurale mešalim o mišlê šülömò è il nome del libro dei «Proverbi di Salomone» (Amos Luzzatto). 15,11-12: Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze (Εἷπεν δὲ• ἄνθρωπος τις εἶχεν δύο υἱοὺς. 12καὶ εἶπεν ὁ νεώτερος αὐτῶν τῷ πατρί• πάτερ, δός μοι τὸ ἐπιβάλλον μέρος τῆς οὐσίας. ὁ δὲ διεῖλεν αὐτοῖς τὸν βίον, lett. «Disse poi: Uomo un tale aveva due figli. 12 E disse il minore di loro al padre: Padre, da’ a me la spettante parte dei beni. Egli allora spartì loro il patrimonio»). Grammatica: aor.ind.di λέγω «dico» (2267x NT: 217x Lc); impf.ind.di ἔχω «ho» (711x NT: 77x Lc); v. 12: agg.cmp.di νέος, α, ον «nuovo, giovane» (24x NT: 7x Lc +); aor.ind.di δίδωμι «do» (416x NT: 60x Lc); prs.ptc.di ἐπιβάλλω «spetto» (18x NT: 5x Lc +); μέρος, ους, τό «parte» (42x NT: 4x Lc); οὐσία, ας, ἡ «patrimonio» (2x NT: Lc 15,12.13); aor.ind.di διαιρέω «divido» (2x NT: Lc 15,12; 1Cor 12,11); βίος, ου, ὁ «sostanze» (10x NT: 5x Lc +).

Questa lunga parabola, quasi una novella, si trova solo nel Vangelo di Luca. Spiega in maggior dettaglio i concetti contenuti nelle due parabole precedenti: la pecora perduta e la moneta smarrita. Matteo presenta una parabola di «due figli» che ha qualche rassomiglianza tematica con questa (Mt 21,28-31), ma che non può essere considerata una versione parallela. - Il più giovane dei due disse al padre (εἶπεν ὁ νεώτερος αὐτῶν τῷ πατρί). L'aggettivo νεώτερος «più giovane» cmp.di νέος, α, ον «giovane» (24x NT: 7x Lc +), designa nella Chiesa delle origini un nuovo convertito. Malgrado i suoi difetti e i suoi eccessi il più giovane incarna l'elezione divina e riceve la benedizione paterna.

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- Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze (πάτερ, δός μοι τὸ ἐπιβάλλον μέρος τῆς οὐσίας ὁ δὲ διεῖλεν αὐτοῖς τὸν βίον). Giuridicamente si tratta di una separazione di beni fra viventi, con trasferimento immediato della proprietà e dell'uso al figlio che si mette per conto suo. Sir 33,20-24 sconsiglia di alienare la propria ricchezza in vita e induce ad assegnare l'eredità alla fine dei propri giorni. La Legge prescriveva che il primo figlio ricevesse due terzi dell'eredità, sicché al minore ne rimaneva solo un terzo (cf Dt 21,17). Il giovane parla di οὐσία, ας, ἡ «patrimonio» (2x NT: Lc 15,12.13). Il padre divide tra i figli il suo βίος, ου, ὁ «sostanze» (10x NT: 5x Lc +: 15,12.30). Il padre dà dunque al figlio i mezzi per vivere. I principi che fondano le leggi ebraiche sull'eredità si trovano in Lv 27,8-11 e Nm 36,7-9. I rabbini ne parlano in m.Bekhorot «Primogeniture», 8,1-10 e in m.Bava' batra' «Ultima porta» 8,1-9,10. I cavilli legali qui sono subordinati alle esigenze della narrazione. 15,13-14: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno (καὶ μετ’ οὐ πολλὰς ἡμέρας συναγαγὼν πάντα ὁ νεώτερος υἱὸς ἀπεδήμησεν εἰς χώραν μακρὰν καὶ ἐκεῖ διεσκόρπισεν τὴν οὐσίαν αὐτοῦ ζῶν ἀσώτως. 14δαπανήσαντος δὲ αὐτοῦ πάντα ἐγένετο λιμὸς ἰσχυρὰ κατὰ τὴν χώραν ἐκείνην, καὶ αὐτὸς ἤρξατο ὑστερεῖσθαι, lett. «E dopo non molti giorni avendo raccolto tutte le cose il minore figlio partì in viaggio per un paese lontano e là dissipò il patrimonio di lui vivendo dissolutamente. 14 Avendo dilapidato ora egli tutte le cose ci fu una carestia forte nella regione quella ed egli cominciò a essere nell’indigenza»). Grammatica: aor.ptc.di συνάγω «raccolgo» (59x NT: 6x Lc); aor.ind.di ἀποδημέω «parto per un viaggio» (6x NT); χώρα, ας, ἡ «paese» (28x NT: 9x Lc +); μακρός, ά, όν agg. «lontano» (6x NT: 3x Lc +); aor.ind.di διασκορπίζω «sperpero» (9x NT: 3x Lc); prs.ptc.di ζάω «vivo» (140x NT: 9x Lc); ἀσώτως «in modo dissoluto» (hapax NT); v. 14: aor.ptc.di δαπανάω «spendo» (5x NT), vrb.dnm. di δαπάνη -ης, ἡ «costo, spesa»; λιμός, οῦ, ὁ, ἡ «carestia» (12x NT: 4x Lc +); ἰσχυρός, ά, όν agg. «forte, grande» (29x NT: 4x Lc); aor.ind.di ἄρχομαι «comincio» (86x NT: 31x Lc +); prs.inf.di ὑστερέω «vengo a mancare, sono privo» (16x NT: 2x Lc), vrb.dnm. di ὕστερος, α, ον «ultimo, in seguito». - Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì (καὶ μετ’ οὐ πολλὰς ἡμέρας συναγαγὼν πάντα ὁ νεώτερος υἱὸς ἀπεδήμησεν). Il verbo συνάγω «raccolgo» (59x NT: 6x Lc) può essere inteso nell'accezione più tecnica di «raccogliere i beni convertendoli in denaro liquido» (cf Plutarco, Catone bambino 6,7: «Egli convertì in denaro un'eredità ricevuta»). - in modo dissoluto (ἀσώτως). L’avverbio ἀσώτως «in modo dissoluto» (hapax NT) è legato alla prodigalità. Già Aristotele definiva ἀσώτοι «gli intemperanti e gli spendaccioni per la loro licenza. In senso proprio denota il possessore di un unico vizio, cioè quello di distruggere i propri mezzi di sussistenza» (Etica Nicomachea 4,1,4-5). Il torto del figlio minore sta nello sperpero dell'eredità paterna: ζῶν ἀσώτως «vivendo in modo dissoluto»; δαπανήσαντος «avendo dilapidato». Il denaro gioca un ruolo importante nel racconto e la situazione economica scandisce i tempi della narrazione. Il termine ἀσώτως ha il senso di trascuratezza e non di eccessi sessuali, come invece lo interpreta il suo fratello maggiore (15,30). - sopraggiunse in quel paese una grande carestia (ἐγένετο λιμὸς ἰσχυρὰ κατὰ τὴν χώραν ἐκείνην). L'espressione ricorda uno stereotipo ben conosciuto nella Scrittura (cf Gen 12,10; 26,1; 41,54; Rt 1,1). Il racconto del figliol prodigo fa pensare all'impresa di Giuseppe in Egitto (Gn 41) o alla storia di Tobia. La degradazione del figlio prosegue dopo aver dilapidato i suoi beni perché soffre a causa della carestia al punto da sentirsi perduto: ἐγὼ δὲ λιμῷ ὧδε ἀπόλλυμαι «io qui muoio di fame» (v. 17). 15,15-16: Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla (καὶ πορεύθεις ἐκολλήθη ἑνὶ τῶν πολιτῶν τῆς χώρας ἐκείνης, καὶ ἔπεμψεν αὐτὸν εἰς τοὺς ἀγροὺς αὐτοῦ βοσκεῖν χοίρους, 16καὶ ἐπεθύμει χορτασθῆναι ἐκ τῶν κερατίων [γεμίσαι τὴν κοιλίαν αὐτοῦ] ὧν ἤσθιον οἱ χοῖροι καὶ οὐδεὶς ἐδίδου αὐτῷ, lett. «Ed essendo andato si attaccò a uno dei cittadini della regione quella e mandò lui nei campi di lui a pascolare porci. 16 E bramava di sfamarsi dalle carrube che mangiavano i porci e nessuno dava a lui»). Grammatica: aor.ptc.pss.di πορεύομαι «vado» (150x NT: 51x Lc +); aor.ind.pss.di κολλάομαι «mi pongo al servizio» (12x NT: Lc 10,11; 15,15); πολίτης, ου, ὁ «cittadino» (4x NT: Lc 15,15; 19,14); aor.ind.di πέμπω «mando» (79x NT: 10x Lc); ἀγρός, οῦ, ὁ «campo» (35x NT: 9x Lc); prs.inf.di βόσκω «faccio pascolare» (9x NT:

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3x Lc +); χοῖρος, ου, ὁ «porco» (12x NT: 4x Lc); v. 16: impf.ind.di ἐπιθυμέω «bramo» (16x NT: 4x Lc); aor.inf.pss.di χορτάζω «sazio» (16x NT: 4x Lc); [aor.inf.di γεμίζω «sono pieno, sazio» (8x NT: Lc 14,23; 15,16); κοιλία, ας, ἡ «ventre» (23x NT: 8x Lc +]; κεράτιον, ου, τό «carruba» (hapax NT); impf.ind.di φάγω / ἐσθίω «mi nutro» (94 + 65x NT: 21x Lc +); impf.ind.di δίδωμι «do» (416x NT: 60x Lc). - Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione (καὶ πορεύθεις ἐκολλήθη ἑνὶ τῶν πολιτῶν τῆς χώρας ἐκείνης). Il verbo κολλάομαι «mi pongo al servizio» (12x NT: Lc 10,11; 15,15), alla lettera significa «incollarsi, stringersi addosso» al padrone, dedicandosi al suo servizio senza riserve, come uno schiavo. L'ultimo tentativo per sopravvivere del figlio che ha rivendicato la sua totale autonomia è quello di porsi al servizio di uno straniero. - lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci (ἔπεμψεν αὐτὸν εἰς τοὺς ἀγροὺς αὐτοῦ βοσκεῖν χοίρους). La Legge qualifica i suini come animali tarèf «cibo non kashèr, impuro» impedendo sia la consumazione delle loro carni sia il contatto con loro (cf Lv 11,7-8; Dt 14,8; 1Mac 1,47; 2Mac 6,18-28; 7,1-4; Lc 8,26-37: l'indemoniato nel paese dei Geraseni). La custodia dei porci rende l’ebreo †ähôr «impuro». Badare ai porci di un pagano quindi rappresenta il massimo della degradazione che un Giudeo poteva concepire. Nella Mishnah è vietato ai Giudei allevare maiali (m.Bava' qamma' «Prima porta», 7,7). Un detto di rabbì Eliezer (I-II sec. d.C.) mette sullo stesso piano i Samaritani con i porci: «Colui che mangia il pane dei Samaritani è come colui che mangia la carne di maiale» (m.Shevi'it, «Settimo anno», 8,10). C'è stato un rabbino che considerava l'attività del pastore equivalente al «mestiere del ladrone» (m.Qiddushin «Fidanzamenti», 4,14), punto di vista ripreso nella legislazione di m.Bava' qamma' «Prima porta», 10,9.

- Avrebbe voluto saziarsi con le carrube (ἐπεθύμει χορτασθῆναι ἐκ τῶν κερατίων). Il verbo χορτάζω «sazio» (16x NT: 4x Lc) è usato anche nella beatitudine di 6,21: «Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati» e nella moltiplicazione dei pani: «Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste» (9,17). Il termine κεράτιον, ου, τό «carruba» (hapax NT) letteralmente significa «piccolo corno» e indica i frutti della Ceratonia siliqua, una pianta i cui baccelli a forma di cornetti contengono una bacca aspra e immangiabile quando è verde, ma dolciastra quando è essiccata, solitamente riservata agli animali. 15,17: Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! (εἰς ἑαυτὸν δὲ ἐλθὼν ἔφη• πόσοι μίσθιοι τοῦ πατρός μου περισσεύονται ἄρτων, ἐγὼ δὲ λιμῷ ὧδε ἀπόλλυμαι, lett. «In se stesso poi essendo tornato disse: Quanti salariati del padre mio abbondano di pane, io invece per carestia qui muoio»). Grammatica: aor.ptc.di ἔρχομαι «ritorno» (637x NT: 100x Lc); impf.ind.di φημί «dico» (66x NT: 8x Lc); πόσος, η, ον agg.int. «quanto grande? quanto?» (27x NT: 6x Lc); μίσθιος, ου, ὁ agg. «lett. preso in affitto, salariato» (3x NT: Lc 15,17.19.21); prs.ind.di περισσεύω «abbondo» (39x NT: 4x Lc); ἄρτος, ου, ὁ «pane» (97x NT: 15x Lc); λιμός, οῦ, ὁ, ἡ «fame, carestia» (12x NT: 4x Lc +); ὧδε avv. «qui» (62x NT); prs.ind.med.di ἀπόλλυμι «muoio» (90x NT: 27x Lc). - rientrò in se stesso (εἰς ἑαυτὸν δὲ ἐλθὼν). L'espressione non indica «conversione», ma solo autocoscienza. Il parallelo più vicino è un passo del Testamento di Giuseppe: «Compresi che questa donna [la moglie di Potifar] mi trascinava verso la lussuria. Quando l'ebbi realizzato ne fui triste sino alla morte. Una volta uscita, ἦλθον εἰς ἑαυτὸν «rientrai in me stesso» e mi lamentai di lei per molti giorni perché avevo compreso la sua furbizia e il suo inganno» (3,8-9). Questo testo indica la presenza del soggetto a se stesso, la presa di coscienza della situazione, l'avvio di una più ampia riflessione, il mettere giudizio, il ragionare. L'espressione «rientrare in sé» appartiene al lessico religioso e filosofico del tempo. Per il giudaismo ellenistico e il cristianesimo delle origini sta a indicare una tappa decisiva della μετάνοια «conversione», della šûbâ «ritorno, conversione» (nm.fm. 1x TM: Is 30,15) a Dio. - e disse (ἔφη). Il verbo impf.ind.di φημί «dico» (66x NT: 8x Lc) è usato da Luca per avviare un monologo interiore. Questo procedimento letterario consente all'autore di descrivere l'evoluzione spirituale dei personaggi e di dare al racconto una nuova direzione.

- e io qui muoio di fame (ἐγὼ δὲ λιμῷ ὧδε ἀπόλλυμαι). Il giovane non osa nemmeno più pensare alla sua condizione di «figlio». Nella migliore delle ipotesi spera in quella di μίσθιος, ου, ὁ agg. «lett. preso in affitto, salariato» (3x NT: Lc 15,17.19.21), operaio nel podere paterno. 15,18-19: Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (άναστὰς πορεύσομαι πρὸς τὸν πατέρα μου καὶ ἐρῶ αὐτῷ• πάτερ, ἥμαρτον εἰς τὸν οὐρανὸν

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καὶ ἐνώπιον σου. 19οὐκέτι εἰμὶ ἄξιος κληθῆναι υἱός σου• ποίησον με ὡς ἕνα τῶν μισθίων σου, lett. «Essendomi alzato andrò dal padre mio e dirò a lui: Padre, ho peccato verso il cielo e contro di te: 19 non più sono degno di essere chiamato figlio tuo. Fa’ me come uno dei salariati tuoi»). Grammatica: aor.ptc.di ἀνίστημι «faccio alzare» (108x NT: 27x Lc); fut.ind.di πορεύομαι «vado» (150x NT: 51x Lc +); fut.ind.di ἐρεῶ / λέγω «dico» (98x NT: 19x Lc); aor.ind.di ἁμαρτάνω «pecco» (42x NT: 4x Lc); οὐρανός, οῦ, ὁ «cielo» (273x NT: 34x Lc); ἐνώπιον prp. «davanti, al cospetto di, contro» (95x NT); v. 19: οὐκέτι avv.ngt. «non … più, non … già» (49x NT); ἄξιος, ία, ιον agg. «degno» (41x NT: 8x Lc); aor.inf.pss.di καλέω «chiamo per nome» (148x NT: 43x Lc +); υἱός, οῦ, ὁ «figlio» (382x NT: 77x Lc); aor.impt.di ποιέω «faccio» (565x NT: 88x Lc). - Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te (πάτερ, ἥμαρτον εἰς τὸν οὐρανὸν καὶ ἐνώπιον σου). L'espressione «ho peccato verso il Cielo e davanti a te» è biblica e sta a significare che uno stesso gesto può ferire un uomo e colpire Dio. Il ragionamento del giovane perciò coglie bene il rapporto stretto che esiste tra Dio e gli uomini. Mentre il figlio non specifica davanti al padre la natura del suo peccato, il figlio maggiore viola la discrezione che sempre dovrebbe proteggere l'intimità altrui e attribuisce al fratello le accuse che tormentano la sua mente, frutto della rivalità fraterna (15,30). - Trattami come uno dei tuoi salariati (ποίησον με ὡς ἕνα τῶν μισθίων σου). Il contrasto qui è tra un membro della famiglia e un lavoratore salariato. La Torah impone l'obbligo di dare un salario a questi lavoratori (Lv 19,13), ma non quello di stabilire con essi rapporti personali. Il figlio pur chiedendo di essere degradato, comunque si rivolge al πατήρ, ὁ «padre» (418x NT: 56x Lc). Egli riconosce di aver perso l'onore, l'identità, il suo nome di figlio. 15,20: Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (καὶ ἀναστὰς ἦλθεν πρὸς τὸν πατέρα ἑαυτοῦ. Ἔτι δὲ αὐτοῦ μακρὰν ἀπέχοντος εἶδεν αὐτὸν ὁ πατὴρ αὐτοῦ καὶ ἐσπλαγχνίσθη καὶ δραμὼν ἐπέπεσεν ἐπὶ τὸν τράχηλον αὐτοῦ καὶ κατεφίλησεν αὐτόν, lett. «Ed essendosi alzato venne dal padre suo. Ancora ora lui lontano essendo vide lui il padre di lui e si commosse ed essendo corso cadde sopra il collo di lui e baciò lui»). Grammatica: aor.ptc.di ἀνίστημι «faccio alzare» (108x NT: 27x Lc); aor.ind.di ἔρχομαι «vengo, arrivo, giungo» (637x NT: 100x Lc); πατήρ, πατρός, ὁ «padre» (418x NT: 56x Lc); μακρός, ά, όν «lontano» (6x NT: 3x Lc +); prs.ptc.di ἀπέχω «sono lontano» (19x NT: 4x Lc); aor.ind.di ὁράω «vedo» (114x NT: 14x Lc); aor.ind.pss.di σπλαγχνίζομαι «ho compassione» (12x NT: 3x Lc); aor.ptc.di τρέχω «corro» (20x NT: 2x Lc); aor.ind.di ἐπιπίπτω «mi getto» (11x NT: Lc 1,12; 15,20); τράχηλος, ου, ὁ «collo» (7x NT: Lc 15,20; 17,2); aor.ind.di καταφιλέω «bacio (affettuosamente)» (6x NT: Mt 26,49; Mc 14,45; 3x Lc +). - ebbe compassione (ἐσπλαγχνίσθη). Luca usa il verbo σπλαγχνίζομαι «ho compassione» (12x NT: 3x Lc) già attribuito a Gesù che va incontro alla vedova di Nain (7,13) e al buon Samaritano (10,33). Ora qualifica l'iniziativa del padre della parabola, che vede, si commuove, corre, abbraccia e bacia il figlio - gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (δραμὼν ἐπέπεσεν ἐπὶ τὸν τράχηλον αὐτοῦ καὶ κατεφίλησεν αὐτόν). I gesti appartengono alla scena-tipo del ritrovamento di familiari: Esaù incontra Giacobbe (Gn 33,4); Giuseppe abbraccia e bacia suo fratello Beniamino (Gn 45,14-15); Giuseppe saluta suo padre Giacobbe (Gn 46,29); Anna corre incontro al figlio Tobia (Tb 11,9). Gli stessi gesti si ripetono tra Paolo e gli anziani di Efeso (At 20,37). Luca segnalerà gesti analoghi verso il figlio maggiore; nel v. 28 il padre uscirà incontro al figlio primogenito e avrà per lui parole di incoraggiamento.

15,21: Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (εἶπεν δὲ ὁ υἱὸς αὐτῷ• πάτερ ἥμαρτον εἰς τὸν οὐρανὸν καὶ ἐνώπιον σου, οὐκέτι εἰμὶ ἄξιος κληθῆναι υἱὸς σου, lett. «Disse allora il figlio a lui: Padre, ho peccato verso il cielo e contro di te, non più sono degno di essere chiamato figlio tuo»). - Padre, ho peccato (πάτερ ἥμαρτον). La confessione del peccato è una pratica molto presente in tutta la Bibbia e si fonda sulla certezza della misericordia di Dio. L'umile riconoscimento dei propri «debiti» conduce al condono certo da parte del yhwh(´ädönäy) ´ël raHûm wüHannûn «Signore, Dio pietoso e misericordioso» (Es 34,6; cf Dn 3,35.42; Gio 3; Mt 18,23-35). 15,22-24: Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è

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tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa (εἶπεν δὲ ὁ πατὴρ πρὸς τοὺς δούλους αὐτοῦ• ταχὺ ἐξενέγκατε στολὴν τὴν πρώτην καὶ ἐνδύσατε αὐτὸν, καὶ δότε δακτύλιον εἰς τὴν χεῖρα αὐτοῦ καὶ ὑποδήματα εἰς τοὺς πόδας, 23καὶ φέρετε τὸν μόσχον τὸν σιτευτόν, θύσατε, καὶ φαγόντες εὐφρανθῶμεν, 24ὅτι οὗτος ὁ υἱός μου νεκρὸς ἦν καὶ ανέζησεν, ἦν ἀπολωλὼς καὶ εὑρέθη. καὶ ἤρξαντο εὐφραίνεσθαι, lett. «Disse poi il padre agli schiavi suoi: Presto portate veste quella migliore e rivestite lui, e date anello nella mano sua e sandali ai piedi, 23 e portate il vitello quello ingrassato, uccidete e mangiando facciamo festa, 24 perché questo figlio mio morto era ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato; e cominciarono a far festa»). Grammatica: δοῦλος, ου, ὁ «servo» (124x NT: 26x Lc); ταχύ avv. «presto» (12x NT: Lc 15,22); aor.impt.di ἐκφέρω «prendo fuori» (8x NT: Lc 15,22); στολή, ῆς, ἡ «veste lussuosa» (9x NT: 2x Lc), sst.dvb. di στέλλω «adorno»; πρῶτος, η, ον agg. «primo, migliore» (100x NT: 10x Lc); aor.impt.di ἐνδύω «indosso» (28x NT: 4x Lc); aor.impt.di δίδωμι «do» (416x NT: 60x Lc); δακτύλιος, ου, ὁ «anello» (hapax NT); χείρ, χειρός, ἡ «mano» (179x NT: 26x Lc); ὑπόδημα, ατος, τό «sandalo» (10x NT: 4x Lc); πούς, ποδός, ὁ «piede» (93x NT: 19x Lc +); v. 23: prs.impt.di φέρω «prendo» (66x NT: 4x Lc); μόσχος, ου, ὁ, ἡ «vitello» (6x NT: 3x Lc +); σιτευτός, ή, όν «ingrassato, grasso» (3x NT: Lc 15,23.27.30); aor.impt.di θύω «immolo, sacrifico, uccido» (14x NT: 4x Lc +); aor.ptc.di φάγω / ἐσθίω «mangio» (94 + 65x NT: 21x Lc +); aor.cgt.pss.di εὐφραίνω «rallegro, allieto» (14x NT: 6x Lc +); v. 24: νεκρός, ά, όν agg. «morto» (130x NT: 14x Lc); aor.ind.di ἀναζάω «torno a vivere, acquisto vita» (2x NT: Lc 15,24; Rm 7,9); prf.ptc.di ἀπόλλυμι «perdo» (90x NT: 27x Lc); aor.ind.pss.di εὑρίσκω «trovo» (176x NT: 45x Lc +); aor.ind.med.di ἄρχομαι «comincio» (86x NT: 31x Lc +); prs.inf.med.di εὐφραίνω «far festa».

- vestito... anello... sandali (στολὴν … δακτύλιον … ὑποδήματα). Nei tre oggetti donati al figlio minore v'è la decisione paterna di reintegrarlo interamente: il vestito rivela l'identità della persona; l'anello (o sigillo) è l'emblema del potere (cf Gen 41,42); i sandali in casa segnalano chi è il proprietario, mentre agli ospiti è chiesto di lasciarli fuori.

Il padre interrompe subito il discorso del figlio impedendogli di completare la sua confessione: «Trattami come uno dei tuoi salariati». Il padre non esita a manifestare premura, affetto, σπλάγχνα «compassione» (ebr. raHámim). Sono bastate due parole: πατήρ «padre», υἱός «figlio» per fare commuovere il cuore del padre che non esita a reintegrare prontamente suo figlio. - il vitello grasso (τὸν μόσχον τὸν σιτευτόν). La macellazione del μόσχος, ου, ὁ, ἡ «vitello» (6x NT: 3x Lc +) σιτευτός, ή, όν «ingrassato, grasso» (3x NT: Lc 15,23.27.30) avveniva solo in occasione di particolari feste (cf Gdc 6,25.28; Ger 46,21). - mangiamo e facciamo festa (φαγόντες εὐφρανθῶμεν). Il verbo εὐφραίνω «rallegro, allieto, faccio festa» (14x NT: 6x Lc +), usato al passivo, ritorna tre volte nella parabola (15,24.29.32). La festa è associata al banchetto. - era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (νεκρὸς ἦν καὶ ανέζησεν, ἦν ἀπολωλὼς καὶ εὑρέθη). Il simbolismo della perdita-ritrovamento che sta per morte-risurrezione era già presente nell'episodio del ritrovamento di Gesù nel Tempio (Lc 2,46). Questo tema caratterizza le due parabole precedenti: la pecora e la moneta ritrovate (15,6.9). 15,25-27: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo” (Ἦν δὲ ὁ υἱὸς αὐτοῦ ὁ πρεσβύτερος ἐν ἀγρῷ• καὶ ὡς ἐρχόμενος ἤγγισεν τῇ οἰκίᾳ, ἤκουσεν συμφωνίας καὶ χορῶν, 26καὶ προσκαλεσάμενος ἕνα τῶν παίδων ἐπυνθάνετο τί ἂν εἴη ταῦτα. 27ὁ δὲ εἶπεν αὐτῷ ὅτι ὁ ἀδελφός σου ἥκει, καὶ ἔθυσεν ὁ πατήρ σου τὸν μόσχον τὸν σιτευτόν, ὅτι ὑγιαίνοντα αὐτὸν ἀπέλαβεν, lett. «Era poi il figlio suo il più vecchio nel campo; e quando venendo si avvicinò alla casa, udì musica e danze, 26 e avendo chiamato a sé uno dei servi si informava cosa fossero queste cose. 27 Egli allora disse a lui: Il fratello tuo è venuto e ha ucciso il padre tuo il vitello quello ingrassato, perché sano lui ha riavuto»). Grammatica: πρεσβύτερος, α, ον agg.cmp.di πρέσβυς «più vecchio, maggiore» (66x NT: 5x Lc); ἀγρός, οῦ, ὁ «campo» (35x NT: 9x Lc); prs.ptc.di ἔρχομαι «vengo» (637x NT: 100x Lc); aor.ind.di ἐγγίζω «mi avvicino» (42x NT: 18x Lc); οἰκία, ας, ἡ «casa» (95x NT: 25x Lc); aor.ind.di ἀκούω «ascolto» (430x NT: 65x Lc); συμφωνία, ας, ἡ «musica, melodia, suono di strumenti» (hapax NT); χορός, οῦ, ὁ «coro» (hapax NT); v. 26: aor.ptc.med.di προσκαλέω «chiamo a me» (29x NT: 4x Lc); παῖς, παιδός, ὁ, ἡ «servo» (24x NT: 9x Lc); impf.ind.di πυνθάνομαι «domando» (12x NT: 2x Lc); prs.ott.di εἰμί «sono» (2479x NT); v. 27: aor.ind.di θύω «uccido»

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(14x NT: 4x Lc +); prs.ptc.di ὑγιαίνω «sono sano» (12x NT: 3x Lc); aor.ind.di ἀπολαμβάνω «ricevo» (10x NT: 5x Lc). - Il figlio maggiore (ὁ υἱὸς αὐτοῦ ὁ πρεσβύτερος). Il figlio maggiore incarna la legalità rigida di una religiosità che non conosce la misericordia e le esigenze dell'amore. Egli riflette il comportamento dei farisei che διεγόγγυζον «mormoravano» (15,2) contro Gesù per la sua accoglienza dei peccatori. - perché lo ha riavuto sano e salvo (ὅτι ὑγιαίνοντα αὐτὸν ἀπέλαβεν, lett. «perché sano lui ha riavuto»). Il verbo ὑγιαίνω «sono sano» (12x NT: 3x Lc) segnala la buona salute del figlio e perciò consente al padre di gioire del ritorno del figlio, di cui potrà prendersi cura personalmente. 15,28: Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo (ὠργίσθη δὲ καὶ οὐκ ἤθελεν εἰσελθεῖν, ὁ δὲ πατὴρ αὐτοῦ ἐξελθὼν παρεκάλει αὐτόν). Grammatica: aor.ind.pss.di ὀργίζω «mi indigno» (8x NT: 2x Lc); impf.ind.di θέλω «voglio» (209x NT: 28x Lc); aor.inf.di εἰσέρχομαι «entro» (194x NT: 50x Lc +); aor.ptc.di ἐξέρχομαι «esco» (218x NT: 44x Lc +); impf.ind.di παρακαλέω «supplico» (109x NT: 7x Lc). - Egli si indignò, e non voleva entrare (ὠργίσθη δὲ καὶ οὐκ ἤθελεν εἰσελθεῖν). La parabola caratterizza il primogenito come colui che ὠργίσθη «si indignò». Stridente è il contrasto: il primo figlio ribolle d'ira, il padre invece è profondamente e felicemente commosso. L'indignazione del fratello maggiore si manifesta con il rifiuto di entrare in casa, mentre l'amore spinge il padre a uscire per andare incontro anche a questo figlio che mormora. L'AT conosce l’aP, aph «ira, rabbia, sdegno, collera» (nm.msc. 276x TM) di Samuele in occasione del rigetto di Saul (1Sam 15,11); di Davide alla morte di Uzzà (2Sam 6,8); di Giobbe di fronte al suo destino (Gb 18,4); di Giona contro Dio, perché misericordioso verso gli abitanti di Ninive (Gio 4,1.4.9); dei giusti di fronte ai successi dei malvagi (Sal 37,1.7; Pr 3,31-32). Già criticate nell'AT, la qin´â «gelosia» (nm.fm. 44x TM), gr. ζῆλος «gelosia» e l’aP, aph «ira, sdegno» (nm.msc. 276x TM), gr. ὀργή «ira» sono condannate dal NT (cf Mt 5,22; Gc 1,20). Sorprende come gli studi sull'ira di Dio sono più numerosi di quelli sulla collera degli uomini. L'espressione ´ël qannä´ «(sono) un Dio geloso» (Es 20,5; Dt 5,9; Es 35,14) significa che non condivide con alcuno la sua divinità in Israele e per Israele e che afferma con passione la propria sovranità. La sapienza ebraica ci mette in guardia, facendo dire a Dio: «Io domino la gelosia, ma la gelosia non domina me» (Mekiltà 20,5). Ma cosa vuol dire ´ël qannä´? Quando Dio è soggetto della qin´â «gelosia» significa che egli chiede un'adorazione esclusiva. Si tratta dell'amore appassionato e ardente del Signore per il suo popolo, amore che lo porta a correggere Israele quando si rende infedele, (cf Ez 5,13; 16,42; 23,25; 38,19; Sof 3,8), ma soprattutto lo porta a procurargli la salvezza (cf Is 9,6; 26,11; 42,13; Ez 36,6; Gl 2,18; Zc 1,14; 8,2). yhwh(´ädönäy) non è geloso degli altri dèi, bensì del suo popolo, cioè è appassionatamente attaccato al suo popolo; questa relazione si è stipulata con l'alleanza. Andando oltre la lettera, si potrebbe dire che «il Signore non è indifferente a ciò che Israele fa della libertà ricevuta. Egli è "geloso" della libertà del suo partner perché essa è essenziale all'alleanza alla quale il Signore tiene» (A. Wénin 1953- biblista belga). Quindi se Dio è geloso non lo è nel senso distruttivo e infantile che ha questo termine, bensì nel senso di appartenenza relazionale. In sintesi: la gelosia è una patologia che lega, mentre l'appartenenza è un sentimento che libera; la gelosia incatena, l'appartenenza rende responsabili; la gelosia non è mai sazia e tende a fagocitare, l'appartenenza è cura appassionata e rispettosa per il reale; la gelosia incatena e crea dipendenza, l'appartenenza favorisce l'autonomia e la comunione nelle relazioni. - uscì a supplicarlo (ἐξελθὼν παρεκάλει αὐτόν). Il verbo παρακαλέω «supplico» (109x NT: 7x Lc) all'imperfetto indica i ripetuti sforzi per persuadere il figlio: da una parte esso ha il senso di «invitare», dall'altra ha il senso di «esortare» (Lc 3,18; At 14,22), «pregare» (7,4; 8,31), «consolare, confortare» (16,25; At 20,2). 15,29-30: Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso” (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν τῷ πατρὶ αὐτοῦ• ἰδοὺ τοσαῦτα ἔτη δουλεύω σοι καὶ ουδέποτε ἐντολήν σου παρῆλθον, καὶ ἐμοὶ ουδέποτε ἔδωκας ἔριφον ἵνα μετὰ τῶν φίλων μου εὐφρανθῶ• 30ὅτε δὲ ὁ υἱός σου οὗτος ὁ καταφαγών σου τὸν βίον μετὰ πορνῶν ἦλθεν, ἔθυσας αὐτῷ τὸν σιτευτὸν μόσχον, lett. «Egli ma rispondendo disse al padre: Ecco tanti anni servo te e mai un comando tuo ho trasgredito e a me mai hai dato un capretto perché con gli amici miei facessi festa. 30 Quando ma il figlio questo l’avente divorato tuo patrimonio con prostitute è venuto, uccidesti per lui l’ingrassato vitello»).

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Grammatica: aor.ptc.pss.di ἀποκρίνομαι «rispondo» (231x NT: 46x Lc); aor.ind.di λέγω «dico» (2267x NT: 217x Lc); ἔτος, ους, τό «anno» (49x NT: 15x Lc +); prs.ind.di δουλεύω «servo» (25x NT: 3x Lc); ἐντολή, ῆς, ἡ «comando» (68x NT: 4x Lc); aor.ind.di παρέρχομαι «trasgredisco» (30x NT: 9x Lc); οὐδέποτε avv.ngt. «mai» (16x NT); aor.ind.di δίδωμι «do» (416x NT: 60x Lc); ἔριφος, ου, ὁ «capro» (2x NT: Mt 25,32; Lc 15,29); φίλος, η, ον agg. «amico» (29x NT: 15x Lc +); aor.cgt.pss.di εὐφραίνω «rallegro, allieto» (14x NT: 6x Lc +); v. 30: aor.ptc.di κατεσθίω «divoro» (15x NT: 3x Lc); βίος, ου, ὁ «sostanze» (10x NT: 5x Lc +); πόρνη, ης, ἡ «prostituta» (12x NT: Lc 15,30); aor.ind.di ἔρχομαι «vengo, torno» (637x NT: 100x Lc); aor.ind.di θύω «uccido» (14x NT: 4x Lc +).

- Ecco, io ti servo da tanti anni (ἰδοὺ τοσαῦτα ἔτη δουλεύω σοι). Il maggiore non si considera al pari di un μίσθιος, ου, ὁ agg. «salariato» (3x NT: Lc 15,17.19.21) che, per quanto dedito a un duro lavoro, ha diritto a una giusta ricompensa, bensì al pari di un δοῦλος, ου, ὁ «schiavo» (124x NT: 26x Lc), i cui diritti sono ben più ridotti. Il presente del verbo δουλεύω «servo» (25x NT: 3x Lc) dà l'idea che il figlio sta ancora lavorando per il padre sentendosi uno schiavo e rivela una sua profonda amarezza e senso di inferiorità. - non ho mai trasgredito un tuo comando (καὶ ουδέποτε ἐντολήν σου παρῆλθον). Il figlio maggiore rappresenta bene i «giusti che non hanno bisogno di conversione» (15,7). - non mi hai dato mai un capretto (καὶ ἐμοὶ ουδέποτε ἔδωκας ἔριφον). Il figlio maggiore persiste nel suo risentimento che lo spinge a piangersi addosso. Da notare un altro contrasto tra gli animali messi in campo nel racconto: μόσχος σιτευτός «vitello grasso» ed ἔριφος, ου, ὁ «capretto». Il figlio rancoroso si sente messo da parte anche se è stato sempre in casa! - questo tuo figlio (ὁ υἱός σου οὗτος). Il pronome οὗτος «questo» esprime un tono spregiativo e segnala l'evidente presa di distanza da parte di chi ha rinunciato al rapporto di fratellanza a causa dell'invidia. Il disprezzo dai rabbini è equiparato all'omicidio. Rabbì Jehòshua (I-II sec. d.C.) dice: «L’occhio cattivo, l’impulso del male e il disprezzo delle creature fanno uscire l’uomo dal mondo» (Pirqè Avot 14). - ha divorato i tuoi averi con le prostitute (ὁ καταφαγών σου τὸν βίον μετὰ πορνῶν). Ciò che più colpisce qui è l'interpretazione negativa che il figlio maggiore ha elaborato dentro di sé, rivelando così i segreti del suo cuore maligno. La versione sordida che offre della vita del fratello non è confermata dal racconto. Forse in questo si può ravvisare un'eco dell'accusa mossa contro Gesù di far comunella con gente del genere (7,34.39). Il primogenito concepisce la sua vita come una fatica, una sottomissione. Il suo rapporto con il padre è segnato dal dovere più che dall'affetto. Si sente non riconosciuto, non gratificato. Rifiuta di chiamare «fratello» colui che è tornato, accontentandosi di citarlo come «tuo figlio».

15,31-32: Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”» (ὁ δὲ εἶπεν αὐτῷ• τέκνον, σὺ πάντοτε μετ’ ἐμοῦ εἶ, καὶ πάντα τἁ ἐμὰ σά ἐστιν• 32εὐφρανθῆναι δὲ καὶ χαρῆναι ἔδει, ὅτι ὁ ἀδελφός σου οὗτος νεκρὸς ἦν καὶ ἔζησεν, καὶ ἀπολωλὼς καὶ εὑρέθη, lett. «Egli allora disse a lui: Figlio, tu sempre con me sei e tutte le cose mie tue sono, 32 far festa ma e rallegrarsi bisognava, perché il fratello tuo questo morto era ed è rivissuto e perduto ed è stato trovato»). Grammatica: τέκνον, ου, τό «figlio» (99x NT: 14x Lc); πάντοτε «sempre» (41x NT: 2x Lc); v. 32: aor.inf.pss.di εὐφραίνω «far festa»; aor.inf.pss.di χαίρω «mi rallegro» (74x NT: 12x Lc +); impf.ind.di δεῖ vrb.ips. «bisogna» (104x NT: 18x Lc; 22x At +); aor.ind.di ζάω «vivo» (140x NT: 9x Lc); prf.ptc.di ἀπόλλυμι «perdo» (90x NT: 27x Lc); aor.ind.pss.di εὑρίσκω «trovo» (176x NT: 45x Lc +).

- Figlio, tu sei sempre con me (τέκνον, σὺ πάντοτε μετ’ ἐμοῦ εἶ). Per riconoscere l'identità del maggiore, il padre non utilizza un aggettivo ma un complemento di compagnia μετ’ ἐμοῦ «con me», segno della sua volontà di riallacciare la relazione con il figlio ribelle. Il padre anche in questo caso non rinuncia al linguaggio della tenerezza. Aristotele considera la famiglia come una «comunità di beni» (Politica 1257a; cf At 4,32). La tradizione rabbinica non sempre ha apprezzato la comunione dei beni; nei Pirqè Avot «Capitoli dei padri», (redatti a metà del III sec. e.v.), sono descritti quattro tipi di persone. Colui che afferma: «Il mio è tuo e il tuo è mio» (5,10) è considerato «ignorante».

- tutto ciò che è mio è tuo (πάντα τἁ ἐμὰ σά ἐστιν). A livello giuridico, dopo la richiesta del minore, il maggiore disponeva dei beni a lui destinati (benché formalmente ancora proprietà del padre); invece, a livello affettivo, le parole del padre sono un invito a sentirsi libero.

- ma bisognava far festa (εὐφρανθῆναι δὲ … ἔδει). Il verbo altrove indica la necessità della passione (cf 9,22; 33). Se l'itinerario di Gesù, passando per la necessità della passione, non ha altra spiegazione che il suo

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amore fedele sino alla fine, così è pure l'appassionato amore del padre della parabola. Fare festa è un bisogno irrinunciabile per sconfiggere la tristezza e vivere secondo il cuore del Padre. Il riconoscimento dei bisogni e delle esigenze altrui è più importante del rispetto formale della Legge. - e rallegrarsi (καὶ χαρῆναι). Il verbo χαίρω «mi rallegro» (74x NT: 12x Lc +) lega ancora una volta questo episodio al «rallegrarsi» delle prime due parabole (15,5.10). L'espressione usata dal padre: ὁ ἀδελφός σου οὗτος «questo tuo fratello» rappresenta una correzione di ὁ υἱός σου οὗτος «questo tuo figlio». La replica del padre è commovente, ma insufficiente: commovente per l'impiego del vocativo affettuoso τέκνον «figlio»;

insoddisfacente agli occhi del primogenito che non ha tratto profitto alcuno da questa comunione di beni. L'espressione «tutto ciò che è mio è tuo» può essere letta su due piani: sul piano giuridico significa che, in considerazione della richiesta del figlio minore, il resto dei beni del padre è destinato al primogenito; sul piano affettivo è come se il padre dicesse al figlio di sentirsi libero in casa sua.

Tre parabole della misericordia (15,1-32). Luca compone uno dei capitoli più famosi del suo

vangelo, utilizzando materiale di cui disponeva e materiale proprio. A un'introduzione redazionale (vv. 1-3) seguono due similitudini gemelle: quella della pecora perduta (vv. 4-7) e quella della dracma perduta (vv. 8-10). Poi Luca aggiunge una lunga ed elaborata parabola (vv. 11-32), detta del figliol prodigo o del padre misericordioso o del padre prodigo d'amore. Le cornici delle due similitudini e della parabola sono caratterizzate da comunanza di vocabolario e di temi. Nei tre racconti fittizi v'è una progressione: un conto è una pecora o una dracma, un conto è un figlio. Così pure la proporzione decresce: si è persa una pecora su cento, una dracma su dieci, un figlio su due.

Destinatari delle parabole sono i farisei e gli scribi, gli esattori e i peccatori: entrambe le categorie debbono aprirsi alla novità di Dio.

Il triangolo drammatico. L'introduzione è caratterizzata da una struttura triangolare a motivo della

presenza di tre categorie di personaggi: Gesù, gli esattori con i peccatori, i farisei con gli scribi. Gesù richiede ai suoi interlocutori un parere a proposito degli esempi portati.

La parabola del padre misericordioso (vv. 11-32) mette in gioco il triangolo drammatico che vede protagonisti un padre e i suoi due figli. La relazione fra il figlio minore e i peccatori, fra il figlio maggiore e i farisei che mormorano è evidente. La parabola parla ai cosiddetti giusti e ai peccatori, chiedendo agli uni e agli altri di cambiare in modo decisivo il proprio punto di vista.

L'intreccio. La parabola del padre misericordioso inizia con una richiesta del figlio, a cui fa seguito la

decisione paterna (v. 12). Poi la narrazione è dominata da una serie di scelte e circostanze che conducono il minore quasi alla soglia della morte: il registro dominante è legato al «fare». Il monologo interiore è un programma d'azione e l'ultimo imperativo: ποίησον με ὡς ἕνα τῶν μισθίων σου, lett. «Fa’ di me come uno dei salariati tuoi» (v. 19b) si pone esplicitamente a livello pragmatico. Il ritorno del minore (v. 20a) crea una grande attesa. Se la reazione paterna (v. 20b) è davvero singolare, stupiscono ancora di più la festa e l'investitura del figlio, gesti fortemente simbolici e sorprendenti. Dalle parole del genitore (vv. 22-24), il lettore non solo apprende come finisce la vicenda del minore, ma conosce pure lo status del figlio e scopre la tenerezza del padre. In questo modo si passa dal livello pragmatico a quello della rivelazione.

Il ritorno in scena del figlio maggiore (v. 25) provoca di nuovo lo scadimento sul piano pragmatico: il suo discorso è tutto incentrato sul confronto fra quanto egli ha fatto per il padre e quanto il padre gli ha dato. La risposta del padre cambia modalità: essa si configura come una nuova rivelazione, che fa scoprire al maggiore sia la verità della propria identità filiale, sia la logica di gratuità che presiede al comportamento del padre verso entrambi i figli (vv. 31-32).

Due figli persi. Le parole che il minore dice fra sé e sé (vv. 18-19) non rappresentano una

conversione, ma un tentativo di sopravvivenza. «Il non comprendere che in quella casa potrà esserci un posto in più di salariato per tanti altri ma non per lui, che per lui in quella casa o c'è un posto di figlio o non può essercene alcuno, va visto come sintomo di scarsa lucidità» (V. Fusco).

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Anche il discorso del maggiore (vv. 29-30) è tutto improntato su una relazione col padre in termini di dare-avere, prestazione-ricompensa: lui al padre ha dato tanto e ha diritto di ricevere; l'altro non ha dato nulla, perciò nulla deve ricevere (giustizia retributiva). In tal modo si scopre che la relazione col genitore è fondato sul piano retributivo. Fra questa visione, interamente centrata sul rapporto di scambio, e quella economica del minore non v'è una grande differenza.

Un finale aperto. L'opposizione fra i due figli ricalca quella delle due similitudini: la pecora, infatti,

si smarrisce nel deserto, fuori; la dracma invece è smarrita in casa, dentro. Lo stesso capita ai due figli: il prodigo si smarrisce allontanandosi dalla casa, il maggiore rimanendo in casa. Se la pecora e la dracma sono ritrovate rispettivamente dal pastore e dalla donna, anche i due figli sono ritrovati dal padre buono. La terza parabola, tuttavia, rimane aperta. Il lettore non sa se il figlio maggiore abbia accettato l'invito entrando alla festa oppure si sia rifiutato. Una così marcata reticenza narrativa non è priva di effetti, in quanto obbliga a pensare. Luca non ha «inventato» la parabola del padre misericordioso, eppure essa appartiene alle più belle pagine del terzo evangelista, insieme alla parabola del samaritano e al racconto dei discepoli di Emmaus.