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14 HAKOMAGAZINE Artisti indiani

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14HAKOMAGAZINE

Artisti indiani

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HAKOMAGAZINESommario

3 Editoriale 5 I colori musicali della loro

poesia13 Canoa spirito S’Klallam15 Legandosi al sacro17 Intervista a Ken Roemer19 Canto di morte, il mio 66°

compleanno21 Valentina Firewalks23 Arte e autoaffermazione

indiana29 Arte anishinaabe33 Il Café Cultural indiano apre ai

diritti umani35 Censura e politically correct36 Indian Killer38 Uccidete l’Indian Killer41 Plateau43 Wakinyan

[L’arte] indiana fornisce un controtestoalla metanarrativa americana nella qua-le è racchiuso un destino di scomparsa equindi solo con grandi difficoltà e diffiden-za può essere inclusa nel canone ameri-cano. Il cliché di vittima sacrificale su cuiincombe un fosco destino (da Melville aCooper, da Twain a Faulkner) è sostituitoda una galleria di personaggi che hannocomplessità, profondità, contraddizioni,drammi e ambiguità, ossia che definisco-no se stessi nei termini delle idee e dellenecessità sviluppate nel corso della lorostoria più recente (Franco Meli).

Referenze iconiche e bibliograficheFotografie di Sandra Busatta

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N° 14

Editoriale“Non penso all’essere o non essere indiano. Sono un indiano e dipingoe questo è tutto. Preferisco essere considerato un pittore che è indianopiuttosto che un indiano che dipinge”. Non tutti si sono dimostrati d’ac-cordo con R.C. Gorman, navajo: le teocrazie pueblo, per esempio,secondo lui sono “gente di mentalità non molto aperta” e “praticamentedicono all’artista quello che può e non può fare” e i nazionalisti irochesi,come dimostra il catalogo di una recente mostra a Francoforte, oltre aesprimere le stesse censure religiose, si chiedono se esiste non soloun’arte “indiana”, ma addirittura un’arte nazionale “irochese”.I popoli nativi americani non possiedono neppure una parola che espri-ma la nostra idea di arte in nessuna delle loro lingue e i manufatti indi-geni hanno dovuto aspettare Picasso e i primitivisti per diventare og-getti “d’arte” nei musei. L’arte “indiana” moderna, dal canto suo, nasceall’inizio del Novecento, grazie a un pugno di maestrine, alcuni com-mercianti e qualche antropologo e fin da subito si rivolge a un pubblicoeuro-americano, che stabilisce i canoni e definisce cos’è e cosa non è“indiano”. I Tradizionalisti di solito non mettono in dubbio questa visionesentimentale :”…nei miei quadri non c’è assolutamente alcun ricono-scimento – nessuno – della nostra disfatta”, dichiara Blackbear Bosin,Kiowa-Comanche. “Io descrivo l’America come se semplicemente il1492 non fosse mai avvenuto”.Solo negli anni Sessanta vi è una reazione e gli artisti più giovani cerca-no di prendere nelle loro mani le definizioni della loro arte. In questodecennio comincia a svilupparsi un notevole numero di scrittori e, gra-zie anche all’influenza femminista, di scrittrici, che raggiungono unacerta notorietà e, nel caso di Momaday, il premio Pulitzer. Anch’essi,però, hanno un pubblico prevalentemente non indiano e scrivono ininglese. Mentre pittori e scultori non sono ancora riusciti a sfondarepresso le grandi mostre e i critici che contano sulla Costa Orientaledegli Stati Uniti, gli scrittori se la sono cavata meglio e la loro opera trovaormai quasi sempre posto nelle antologie e nelle storie della letteraturaamericana, anche se molte librerie tendono a piazzarli negli scaffali diantropologia. Gli intellettuali rappresentano un commento alla società,con le loro opere, ma gli artisti indiani che operano in un contesto artisti-co neocoloniale, chi rappresentano? In alcune società indiane gli artistihanno provocato un ostracismo violento oppure totale indifferenza, altrihanno preferito restare nella nicchia dell’arte “etnica” e vendere l’arti-gianato più costoso del mondo. Qualcuno ha tentato, con più o menosuccesso, il grande volo del mercato non protetto, ma si è spessoscontrato con l’ottusità dei mercanti d’arte e degli editori, che vogliono ilprodotto commercialmente sicuro dei Panda indiani, in cui l’indianitàdiventa valore aggiunto; altri sono riusciti a sfondare tenendo in sordinala loro origine etnica per essere apprezzati per quel che valevano nellasocietà plurietnica.“Sono un artista”, ha affermato poco prima della morte prematura T.C.Cannon, Caddo-Kiowa. “Ho qualcosa da dire sull’esperienza che vienedall’essere indiano ma è anche molto di più che solo la mia razza. Ha ache fare con la mia mitologia, quella che creo io stesso. Questo è quelloche voglio esprimere nei miei quadri”.

A p. 2: Nampeyo, la ceramista hopi, fo-tografia di Clark C. Vroman.In copertina: Roxanne Swentzell, SantaClara Pueblo, “L’emergere dei clown”,1988, Heard Museum, Phoenix, AZ .

Vaso hopi moderno.

Il pino bianco della Grande Lega degliirochesi sopra il carapace della Tartaru-ga originale leggendaria su cui è rappre-sentato il wampum della Lega. Sculturamoderna simbolica di autore irochese.

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HAKOMAGAZINE

Duane Niatum. Foto di Arlen Sherrill.

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N° 14

Duane Niatum

I. INTRODUZIONE

Questo articolo sulla poesia indianamette in rilievo il fatto che è giunto ilmomento in cui il canone letterarioeuroamericano apra la porta a questipoeti e accetti la loro arte come partelegittima della letteratura prodotta dagliamericani oggi. Per me questa è lamaggiore giustificazione per scriverequesto articolo. E se il lettore euroameri-cano vorrà stare al gioco finirà forse perimparare due cose importanti. La letturapotrà forse mettere in dubbio l’isolamen-to e il narcisismo culturali offrendo disperimentare una cultura in molti modidiversi dai propri. Se vogliamo avvici-narci a queste poesie con il desiderio dicapire e ricevere nel processo un certopiacere, forse comprenderemo qualcosadi nuovo su noi stessi e la società.Fino a poco tempo fa, la maggior partedegli americani non indiani sembravaavere problemi ad accettare la poesia e lestorie indiane perché aveva in qualchemodo perduto la fede nella verità delleproprie parole, soprattutto perchél’individuo è sovraccaricato dai massmedia di parole totalmente commercia-lizzate o inquinate. È questo che senzadubbio ha ispirato il poeta Ted Hughes ascrivere “Supervendute come detergen-ti”, ondeggiano “le loro lunghe code in

pubblico/ con le loro esclamazioni diputtana”.Ma oggi è possibile introdurre questepoesie a un pubblico più vasto, dato chel’arroganza e gli atteggiamenti diimperialismo culturale hanno comincia-to a indebolirsi ed erodersi, anche se nonstanno affatto sparendo completamente.Così è evidente che le varie manifesta-zioni di superiorità culturale, che moltieuropei ed euroamericani nel XIXsecolo e all’inizio del XX secoloritenevano il dettato quasi di un dio,stanno quietamente svanendo in ondatedi de-costruzione.Possiamo ora imparare dalla sua poesiache per un indiano la verità delle paroleè né più né meno della verità rivelata inNatura. Questa fede è legata al fatto che,come poeta tribale, la parola è unoggetto sacro, una forza vitale maschilee femminile e del mondo naturale. Datoche esiste una tradizione orale fino adoggi le parole sono i vettori della culturadalle generazioni passate a quellapresente e da questa a quella futura. Ivalori della tribù sono fusi dentro i cantie le storie. È così perché il poeta tribalecrede che la parola, se usata con rispetto,sia investita di potere e magia.Oltre a ciò, questo senso dell’elementodi potere della parola era così comunetra le tribù del passato che la maggiorparte credeva che la poesia o la storia

avessero quasi vita propria, indipendentedal suo narratore. Ciò non minacciava inalcun modo l’ego di questi poeti, perchésapevano fin dall’inizio che potevanocreare una poesia o una storia perché,semplicemente, erano le corde vocalidell’espressione del loro popolo e cheun potere più alto dava loro il dono direstituire alla gente qualcosa cheavevano perso molto tempo fa sullastrada che seguiamo sempre dentro ilsecolo successivo.La maggior parte dei poeti che traeispirazione dalle tradizioni orali crede diessere solo il custode della sacra ruotadei sogni dell’arte e della musica; se nonaltro il poeta tribale pensa che il canto ola poesia gli dia la possibilità di esserepiù completo, più reale e non viceversa.Perciò, quello che troviamo nelle suepoesie è il modo in cui la parola fadanzare le cose, trasforma la mondanitàin spiritualità. Si scopre che la poesia èun mondo a sé. L’immaginazioneprimaria usa il linguaggio in modo taleche le persone sono intessute nella stoffadella propria arte con la stessa naturalez-za con cui l’ambiente e il mondo fisicosono intessuti nel tessuto poetico. Diconseguenza tutte le creature e le coseche esistono sulla terra sono soggettiadatti per la poesia. Quando guardiamoda vicino l’opera dei migliori artistiindiani attuali, non importa in che forma,

Un importante poeta indiano passa in rassegnala poesia indiana moderna dal suo personalepunto di vista.

I colori musicali della loro poesia

Poesia

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HAKOMAGAZINEriconosciamo che celebrano il quotidia-no della società, i suoi colori, le forme, isuoni, la trama, i sogni e la ragione.Sembra che vogliano trasmetterel’essenza delle loro esperienze particola-ri osservando con acutezza gli eventiquotidiani e le cose del mondo fino aiminimi dettagli. Questi poeti si sforzanodi raggiungere una realtà non percepitasotto la superficie dei luoghi e deglioggetti dove viviamo, lavoriamo e cidivertiamo. Così, quando ci avviciniamoall’arte da questa prospettiva, notiamosubito che la poesia tenta di far luce sulpresente, in modo da permettere alpassato tribale di scintillare in trasparen-za. Per questo motivo il suo punto divista è ciclico. E qualsiasi elemento nellapoesia isoliamo come prova, probabil-mente scopriremo qualche immagine,idea, emozione o percezione della storiadella particolare tribù del poeta. Comeho già detto, questo punto di vista èorganico e racconta la sua storia come lestagioni, il girare della terra, il sole e laluna, l’uomo e la donna, la nube e ilvento. Per esempio, mentre il sole cedeil passo alla luna, l’inverno dà luogo allaprimavera, il seme diventa mirtillo, losperlano cede il passo alla smokehouse.Comunque, ciò non significa che ilpoeta tribale e il suo pubblico non sianoconsapevoli del fatto che l’arte è ancheartificio. Per generazioni e generazioniquesta gente ha scherzato sull’artificiodell’arte, della politica, della religione,della filosofia e della società umana. Làl’umorismo risuona con tamburi satiricie fischi contro l’artista, lo sciamano, ilcapo, il guerriero, il commerciantetroppo seri.Ciò che li distinguerà come poeticontemporanei dai loro antenatisciamani sarà solo il fatto che la loroestetica e il loro punto di vista hannoassorbito una nuova dimensione conl’influenza della “cultura del mondo”sulle radici delle loro culture tribali.Questo elemento di modernità gioca unruolo aggiuntivo a quello che creanocome artisti. Contribuisce alla loroimmaginazione un ulteriore metodo persviluppare l’importantissimo elementodell’equilibrio e della proporzione, unelemento fluido in cui l’immagine-simbolo è aiutata a crescere e a cambia-re. In un certo senso questa leggerafrattura con le proprie radici culturali,mentre entrano nel paesaggio d’esilio

del XX secolo, è in effetti un’immagine-specchio dell’uomo e della donna esiliatiche si trova oggi in tutto il mondo.

Questa frattura tra mente e corponell’euroamericano, il rifiuto che questarelazione contenga la chiave permantenere qualche sembianza dicontinuità e unità tra il sé, i sessi, legenerazioni, la comunità e il mondo,sembra essere il decesso esistenzialedell’individuo urbano che ha sceltolargamente di vivere dentro la propriatesta. Sfortunatamente la fantasia nonancorata in qualche modo all’universofisico ben presto può sorprendere chi viè occupato creando la sua prigioneastratta. Anche Isak Dinesen, veropilastro del racconto visionario, manten-

ne come massima della sua vita e dellasua arte “che non puoi trascurare larealtà mentre cedi ai tuoi sogni”.

Contrariamente a questa visioneeuroamericana che nega il mondoesterno, il poeta tribale abbraccia ilmondo oltre il sé. La terra, il mare, ilcielo, gli uccelli e gli animali, i pesci e lepiante, la pietra e il fiocco di neve.

II. VALORI TRIBALI: CONTINUITÀ

Ora illustrerò con specifiche poesiecome la storia sia utilizzata in vari modida questi poeti. Il buon senso hamostrato ai loro antenati nei secoli che èun metodo sicuro per mantenere lacontinuità tra le generazioni. Un sensoperfetto e un esempio di questo bisogno

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N° 14di continuità tra le generazioni si trovanei versi della poesia di Wendy Rose“Ciò che disse mio padre”. Wendy èHopi/Miwok:Comincia, disse, col restituire;/ mentremangi, essi mangiano/ così non esseremai piena./Non farlo andare facilmen-te./ Ricordali/ pensa a quelli/ che furonoqui prima,/ ricorda/ come ebbero fame,/i loro occhi come ciotole vuote,/ quellecostole sporgenti,/ quelle mani minusco-le1.Prendete anche la stanza mediana di“Tentando di leggere i glifi” di JimBarnes. Questo senso di connessione èpiù antico dei suoi antenati Choctaw.Jim e il volto di pietra si mescolano inun solo essere, ciò che l’arte e lo spiritotrasformatore talvolta sono in grado difare:Mille anni morto, la cascata versa/fuoco secco nei miei occhi, l’acido del/mio sudore solca il volto dipinto che ledita/ scavano. Gli occhi respingono ilmio tocco mentre io/ tiro il glifo a mecome un amante che se ne va./ Sonocorpo per la faccia incisa che nonposso/ leggere. Carne e pietra, la miamente è piena di ossa/ che le cavernenascondono in maglie spesse come neveartica2.

COMPLETEZZA

Un altro valore con origini simili èconnesso a quello già discusso. Riguar-da il modo in cui vediamo noi stessi inrapporto alla natura delle cose, siaanimate che inanimate. Come altri valoridi cui discuteremo presto, si trovanell’arte e nella società dei paesi di tuttoil mondo. È l’idea semplice, maprofonda, che “tutto è uno”. È vero,anche se molti scrittori e artisti del XXsecolo hanno adottato l’atteggiamentoche “l’idea di unità” o “unità tra i viventie le cose” sia una finzione, e “disunità” e“frammentazione” siano i concetti realiche definiscono noi stessi e il mondonaturale. Essi sostituiscono “tutto è uno”con “tutto è frammenti”. DonaldBarthelme3, per esempio fa dire a unpersonaggio in una delle sue storie chela sola cosa che gli sembra reale è ilframmento. E Helen Vendler4, un critico,loda Louise Glück5 per le sue “narrazio-ni criptiche” di tipo minimalista. Masoltanto nella nostra epoca il frammenta-to e il vago è stato considerato seriamen-te come elemento d’arte, a prescindere

dalla forma. Prima degli anni Venti el’apparizione del Surrealismo e delDadaismo, erano considerati “colpi abuon mercato”. Anche se ciò puòrappresentare la visione esteticadell’artista e dell’individuo euroamerica-no, per l’artista indiano e tribale di tuttoil mondo sarebbe un suicidio culturale seaccettasse per sé questo punto di vista.Tale atteggiamento autodistruttivo minaproprio le fondamenta delle proprieeredità tribali. Questo atteggiamento cherinforza il cinismo chic della culturaconsumistica non è naturalmente nuovo.È nell’aria almeno quanto il MovimentoNichilista del XIX secolo. Infatti,parecchie teorie della scienza moderna,nel loro modo obliquo, hanno contribui-to a questa visione mentre servonosempre più la politica e il mercato. Maper la maggioranza degli indiani faiparte di quello che vedi quanto quelloche vedi fa parte di te. Questa visionedel mondo è evidente nella seguentesezione poetica di Jim Barnes. Sonoanni che mi stupisco al suono improvvi-so del ticchettio del flicker, ma non sonomai diventato una cosa sola con questouccello come fa Jim Barnes in questastanza da “Tre canti da un campopetrolifero del Texas”:Nell’ordine dei picchi/ il flicker è re/ delterreno e del tronco:/ vestito in cravattanera/ e panciotto martellato,/ parla conl’autorità/ di un battipalo.6

L’IDEA DI LUOGO

L’idea di luogo è un altro modo in cuiquesti poeti tribali si ancorano alla realtàe sognano che ci possa essere undomani. Non possono ignorare ilsentiero ambivalente dell’illusione,dormienti o svegli, ma l’illusione èbilanciata nelle loro poesie dal sentimen-to di breve conoscenza di ciò che il loroluogo attuale oggi nel più grandecontesto delle cose e del mondo è inrealtà. Il tono e la visione della loropoesia definiranno presto il contesto piùampio delle cose e del mondo e comevedono se stessi in rapporto al mondo incui vivono. Scopriamo in questi poetiche la forma è inestricabilmenteconnessa alla melodia e al movimento.Qualunque resa adeguata della loroopera dovrebbe trasmettere in cifrenative i molti sentieri sensoriali e delcapovolgimento del mondo, delristabilimento spirituale e immanente

nell’Unità della natura e la fratellanza diuomo, animale e universo.L’idea di luogo, il suo significato per ilpoeta tribale, si può riconoscerefacilmente nella poesia di N. ScottMomaday “A un bambino che corre conle braccia aperte a Canyon de Chelly”.Momaday è un Kiowa dell’Oklahoma,ma ha vissuto in passato per molti anninella riserva Navajo in Arizona, dove sitrova il Canyon de Chelly:Sei piccolo e intenso/ nel tuo movimen-to, completo,/esprimi piacere,/ alle tuespalle l’immensità;/ cumuli di sabbia si /sfaldano e roteano/ in fessure di luce/ edi ombra. Tu abbracci/ lo spirito diquesto luogo7.La meraviglia nel tornare a cantare leconnessioni della vita ancestrale è comela trama della luce del mattino, chemantiene queste voci separate in un solocerchio. Ciò che si intende per connes-sioni ancestrali è la fede che l’indianonon abbia mai guardato la terra o ilfiume o i laghi o le montagne checircondano il suo villaggio senzavedervi la casa e il sentiero dei suoinonni e delle sue nonne. Così, “cantan-do l’anima del cantore è posta inarmonia con l’essenza essenziale dellecose”8.

III. “I MIEI FIORI NON PERIRANNO/ NÉ I MIEI

CANTI CESSERANNO;/ SI DIFFONDONO SI

SPARPAGLIANO”.Qui voglio menzionare un altro fattostorico. C’è sempre stato un posto per lapoesia nella vita degli indiani. Fin dallanascita della prima tribù c’è stato unsentiero di trasformazione delle espe-rienze della vita in canti. I miti, leleggende e gli scherzi tribali narrano dipersone che cantavano su quasi ognievento della loro vita. Ci sono canti dinascita, morte, fertilità e rinnovamento,gioia e tristezza, lavoro e gioco, sogno,semina e raccolto, caccia e pesca, amoree odio, paura e fiducia. “Gli antichi”(antenati tribali) sentivano che non c’eraesperienza che non potesse esseretrasformata in canto per il respiro e ladanza della gente. Naturalmente ci sonodelle differenze da riconoscere tra leantiche canzoni e le nuove. Le antichecanzoni non erano isolate dal più ampiotessuto sociale e spirituale, per esempio.I canti nei giorni antichi NON eranoconsiderati arte. Oggetti artistici comepoesie, pitture, sculture, vasi, stuoie

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HAKOMAGAZINEerano considerati espressioni dellacomunità nel suo complesso, non comeopere personali, egocentriche. Fare illavoro di artista faceva semplicementeparte integrante della normale routinedella tribù. Arte, lavoro, gioco, religionee società, solo per nominare alcune dellecose che facciamo come gruppo, eranocollegate tra loro come singolo filo diesperienza tribale.Così queste culture erano prive di unoShakespeare, un Keats, una EmilyDickinson. Ciò era dovuto in gran parteal fatto che la maggior parte dei cantierano creati in modo anonimo. In talicomunità l’autoindulgenza e l’egoismoerano considerati una forza distruttiva ein cattiva forma. La volontà individualee l’atto creativo erano soggetti ai bisognie ai desideri della tribù. Come artista cisi aspettava che tenessi un basso profilo.Come ha ben detto N. Scott Momaday:Per comprendere il vero impeto dellacontemporanea/ poesia nativa america-na, è necessario/ capire la natura dellatradizione orale. Fino/ a poco tempo fa,i canti, gli incanti e le preghiere/ delnativo americano – quelli incorporatiesclusivamente/ entro la tradizioneorale; cioè, la loro esistenza/ erainteramente indipendente dallascrittura9.Perciò, se ascoltiamo e leggiamoattentamente la poesia di questi autoricontemporanei, riconosceremo certecredenze e atteggiamenti fondamentaliverso la natura e lo spirito del linguaggioe della letteratura e la continua fededell’uomo e della donna nel sacro poteredelle parole. Natalie Curtis ha detto inThe Indians’ Book «il canto è il respirodello spirito che consacra l’atto di vita».Perciò il valore tribale unificantemaggiormente prevalente che si scoprein poesia è l’anima che canta per lapropria famiglia allargata.Ogni artista indiano che mi ha ispiratoha intessuto questo filo importante nelmateriale dell’opera. “Sogno di rinasci-ta” di Roberta Hill Whiteman, un’onei-da del Wisconsin, dimostra certamente ilvalore della parentela nella forma piùvicina alla tradizione orale, cioè la liricabreve. Gli Oneida provenivano origina-riamente dallo Stato di New York ederano membri della leggendariaConfederazione irochese. Le sue parolemostrano il potere risanatore del canto.Come può diventare un’ala o una

meditazione verso un corpo malato ouno spirito stanco. Questa è la stanzafinale:Ho sognato un assoluto silenzio gliuccelli erano fuggiti./ Il sole, una miserasperanza, era di nuovo sano./ Abbiamobisogno di essere purificati dalla furia./Ancora una volta le aquile saneranno le

nostre preghiere./ Dimenticheremo lastranezza della vostra pietà./ Qualcunoungerà le tombe con polline./ Qualcunodi noi può vegliare privo di vergogna./Qualcuno si alzerà quel chiaro mattinocome le rondini10.C’è un antico canto azteco che dichiarache il vero artista è uno che crea dalcuore e lavora con piacere. Questapoesia di Whiteman echeggia nel suomodo unico quello standard rigoroso. Eparla con sagacia quando dice: “Maniconsunte trasportano i pallidi resti diomicidi dimenticati”, tuttavia riesce allafine a unificare i sé perduti, riguadagna-re il terreno perduto, trasformare ildolore in una visione di risanamento. Èprobabile che entriamo nel suo tessutoverbale perché ella va incontro senzascomporsi alla parte sdrucciolevole dellavita, la disperazione dell’anima del suopopolo e la sua stessa con un senso diimpegno e meraviglia.Nel brano seguente siamo nuovamentetestimoni del forte senso che lei ha delrapporto con la comunità della sua gentee anche con le stelle. Queste sono le

ultime due stanze di “Trapunta a stella”:Trapunta a stella, cucita dalla lucedell’alba da dita/ di pietra, porta viaquei tocchi/ intesi per pelli più curiose,/ungici con erba e aria di crepuscolo,/così possiamo abbracciarci, due radiciamare/ che spingono indietro nellapolvere11.Ma non vediamo alcun senso forzato divalori tribali in questi versi. Qui la forzasta in quanto i valori sono fusi entro latessitura della poesia, come se latrapunta fosse il narratore, comeprobabilmente è. Ella ci dice nelle notedietro il libro che la trapunta a stella erafatta dalle donne indiane delle Pianureper i loro figli e nipoti. Sono cosìimportanti per la gente delle Pianure cheun giovane si porta una di queste copertenella sua ricerca di visione sulle sacremontagne dei suoi antenati. Cosìvediamo come tesse una generazionedentro il tessuto della vita della genera-zione successiva e di tutte quelle cheseguono, dato che molto del suo valorenasce dal passaggio del suo spirito dauna generazione alla seguente.Guardiamo ora come Simon Ortiz, unPueblo Acoma del Sudovest, lega in unsacro fagotto tutti i valori che abbiamodiscusso in questo articolo. La suapoesia “Una storia di come un muro stain piedi”, ci porta un’esperienza in cuisuo padre mostra, mentre lavora con ilfango e la pietra a qualcosa che stacostruendo, come un muro di pietravecchio di quattrocento anni sia il nonnosuo e di suo figlio e come, se uno guardada vicino la sua natura, i più piccolidettagli del suo disegno e della suaforma, possa mostrare come tutte le partistiano insieme in una relazione armonio-sa con la terra intorno e la terra dentro disé. Ecco la prima stanza della poesia:Mio padre, che lavora con la pietra,/ midice: Questa è la sola parte che vedi,/ lepietre che sembrano essere/ soloimpaccate all’esterno”,/ e con le suemani posa la pietra e il fango/ al loroposto. “Sotto/ quello che sembra pietralibera,/c’è una pietra legata insieme”./Intreccia una mano con l’altra,/adattando le ossa della sua mano/ e ledita. “Questo è quello/ che lo tieneinsieme”12.Nel brano seguente di un’altra poesiaOrtiz ci dà il senso di come sia naturaleil sentimento Pueblo di sentirsi fratello osorella con tutte le cose di fronte a noi,

Louise Erdrich.

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N° 14che sia terra, acqua o animale. Ortiz ècon suo fratello nel loro campo di mais.Il titolo è “La canzone di mio fratello” equeste sono la terza e quarta stanza:Mio padre si è fermato a un certo punto/per mostrarmi una zolla rivoltata;/l’aratro aveva scoperchiato/ la buca delnido di un topo/ nella soffice sabbiaumida./ Molto gentilmente, tirò via iminuscoli animali rosa/ nel palmo dellasua mano/ e mi disse di toccarli./ Liportammo sull’orlo/del campo e limettemmo all’ombra/ di un’umida zolladi sabbia13. Da queste stanze vediamocome il poeta non stia solo parlando persé, la sua famiglia e la sua tribù, ma perogni cosa intorno a lui, compresa unacreatura così minuscola come un topo dicampagna e i suoi neonati.Prima di discutere altre idee sul suolavoro, vorrei tornare a qualche branodella Whiteman. In un’intervista con JoeBruchac ella afferma che il poeta chescrive una poesia è molto simile a unadonna che cuce una trapunta; la suascrittura tratta i misteri della vita e tentadi capire e apprezzare meglio quellarelazione. Per lei come artista è moltoimportante essere e sapere di essereOneida. Per inciso, questo ricorda quelloche hanno detto molti altri artisti indiani.L’attrazione è come una patria e ciò cheoffre questa connessione. Ella confermaciò che hanno detto molti altri scrittori eartisti sulla forte sensazione di esserebanditi e sull’importanza di tentare dirimettere tutto insieme. Come per moltialtri scrittori, la prima esperienza e lasensazione dell’esilio nella propria terrasi sperimenta nell’infanzia.Ma in “La giocatrice di semi” siamotestimoni di un’altra dimensione dellasua arte: qui la poetessa ci mostra loscambio meraviglioso che può avveniretra due arti. In questa poesia ella traespunto da un quadro dell’artista LakotaOscar Howe. È in qualche modo unapoesia descrittiva nella sua narrazione,mentre si concentra sulla giocatrice disemi in una danza vorticosa mentrelancia i suoi semi. Ha la sensazione chela vita sia rinata e la sua danza è rivelatanelle parole della poesia:Quando l’ombra corrente diventaserpente/ la sua cura è come la monta-gna s’erge/ al di là della sua linea didolore. Allora,/ schizzando i suoi semi,ella ordina/ alla rondine di volare sulleondulate colline14.

La poetessa ci offre simbolicamente ledue polarità che continuano a farcimeravigliare di noi stessi e del mondo,cioè del modo in cui il serpente a sonaglidella terra e la rondine del cielo, i duepoli della carne e dello spirito sonomessi insieme in una nuova unità. Inalcuni versi successivi ella parladirettamente all’artista:Hai detto che nessuno ha mai compiutol’intero cerchio,/dalla passione attraver-so il disegno e ritorno/ verso ciottoliumidi di luce lunare15. La consapevolez-za della nostra finitezza ci fa volare ostrisciare per sempre. Desideriamoardentemente credere che esista un’unitàtra la vita e la morte, la terra e il cielo,ma sappiamo troppo bene che nessuno ètornato dalla morte per dirci se è vero opossibile. Ma in altri versi ella ci mostrala fonte risanatrice per questo desiderionell’arte, che ella vede nella natura:Quanto facilmente la pioggia cuce apunto croce/ un fiore sul parabrezza,velocemente/ tira i fili, variando lariga16.Dovremmo apprezzare quello che leiforse intende e può darsi che nel nostropiccolo lo facciamo, come suggerisconoquesti versi:La polvere leggera come una foglia e lasua mano ferma/ Concede alla miavolontà il suo angolo di quiete17.Louise Erdrich, poetessa e romanziera, èmembro della Turtle Mountain Band ofChippewa del North Dakota. Ha detto inun’intervista che è importante che quelliche leggono la sua opera ricordino cheella proviene da una cultura e daun’origine molto meticcia, che certa-mente comprende i Chippewa, i tedeschie i francesi. Questo è vero anche di altriautori indiani, come Leslie MarmonSilko, N. Scott Momaday, Wendy Rose,Paula Gunn Allen e Maurice Kenny, peresempio. Questo fatto, ci assicura, haun’influenza immensa su di lei comepersona e come scrittrice. Spesso dettacome e cosa scrive. Afferma di nontentare mai di controllare consapevol-mente ciò che scrive, ma di lasciarlofluire come se avesse una volontàpropria e paragona un poeta o unoscrittore a un medium durante unaseduta spiritica. Lasci che la voce deituoi personaggi parli attraverso di te. Cidice quello che molti altri scrittori tribalici hanno detto in altro modo. Cioè, se seiun sanguemisto, non ti è mai permesso

di dimenticare che sei un emarginato, unalieno che vive nella società americana.Le forze di questa società non sistancano mai di dire a un sangue mistoche non si adatta entro i loro schemisociali. Come lei dice, la voce più forteche guida la tua arte può davvero esserela voce dei tuoi antenati tribali a causa diquesto paradosso.“Collegi indiani: i fuggitivi” è unabuona introduzione alla sua poesia,perché simboleggia una realtà ingabbia-ta con cui tutti i giovani studenti indianidelle scuole medie e delle superioridevono venire a patti durante la lorogiovane vita. In generale, tutte le scuoledell’Ufficio Affari Indiani (BIA) delpaese sono a centinaia, se non a migliaiadi miglia di distanza dalle terre tribalidegli studenti [Entrambi parlano persentito dire, dato che quei collegi sonostati chiusi intorno agli anni Venti eTrenta e, comunque almeno metà deglistudenti indiani, come i medici-scrittoriCharles Eastman e Carlos Montezuma,li ha apprezzati, N.d.T.]. Come conse-guenza, gli studenti sono sradicati dailoro sistemi di solidarietà tribali efamiliari a un’età molto impressionabile.La poesia riflette anche un tipo di fugacompletamente diverso da quello chesperimentano i giovani bianchi. Ibambini bianchi fuggono dalle case deiloro genitori, mentre i bambini indianifuggono dall’ambiente impersonale esterile delle scuole del BIA verso le casedei genitori e il territorio amico. (Questescuole comprendono sia le scuoleresidenziali che quelle religiose cheallontanano i bambini dalle loro case edalle loro culture). È una vecchia tecnicaper costringere gli studenti all’accultura-zione. Come dice la Erdrich nella suapoesia, disperati alcuni studenti indianiriconoscono che devono agire per contoproprio se devono liberarsi dellatrappola del collegio:Vagoni merci che incespicano versonord in sogni/ che non aspettano noi. Liafferriamo al volo18.Scopriamo presto che i nostri sforzi perraggiungere la libertà sono senzasperanza, il fatto è che la fuga è sempredi breve durata:Osserviamo attraverso le fessure nelletavole/ mentre la terra comincia aondeggiare, ondeggiare finché fa male/essere qui, al freddo negli abiti daregolamento./ Sappiamo che lo sceriffo

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HAKOMAGAZINEsta aspettando a metà corsa/ perportarci indietro. La sua auto è muta ecalda19.Nella macchina dello sceriffo durante ilritorno a scuola questi studenti imparanoqualcos’altro sulla vita, il duro mododella routine dell’alienazione:L’autostrada non rolla,mormora soltanto/ comeun’ala di lunghi insulti. Leconsunte verghe/ di antichepunizioni vanno avanti eindietro20.Ma con l’occhio freddodell’ironia, un altro insegnan-te della strada che ci faabbassare la cresta, questigiovani imparano la sopravvi-venza a prescindere da quantevolte sono stati catturati infuga e riportati a scuola.Imparano in fretta che ildolore guadagnato sullastrada è un maestro miglioredi quelli che si trovano ascuola. Questi giovaniimparano trasformando queldolore in fuga mentre ciparlano nella poesia, mentresfregano i marciapiedi:Le nostre spazzole tagliano lapietra in archi acquosi/ e nelbagnato fragili profilitremano chiari/ per unmomento, cose noi ragazzi pressammosullo scuro/ volto prima che indurisse,pallido, ricordando/delicate vecchieingiurie, le spine di nomi e foglie21.“Jacklight” illustra quanto facilmente unindiano in armonia con le proprietradizioni tribali possa assumere la vocedi un animale, una ghiandaia azzurra oun ruscello e convincerci della natura-lezza dell’atto di trasformazione:Siamo giunti all’orlo dei boschi/ fuoridall’erba bruna dove dormimmo, nonvisti,/ fuori dai rametti intrecciati, fuoridalle foglie chiuse a fatica,/ fuori dalnascondiglio22.Siamo sorpresi di scoprire che questinon sono uomini che cacciano nellaforesta, ma gli animali che sono cacciati.I versi successivi lo confermano:Sentiamo l’odore del rozzo acciaio dellecanne dei loro fucili,/ olio di visone sucuoio, le loro lingue d’orzo acerbo23.Ma sembra evidente che questi animalisono giunti all’orlo della foresta per unoscopo, dato che veniamo a sapere che

sono giunti a questo limitare per troppotempo ora ed è tempo di cambiare:Tocca a loro ora/ tocca a loro seguirci.Ascolta/ posano il loro equipaggiamen-to./…/ E ora compiono i loro primipassi, non sapendo/ quanto sia profondala foresta e senza luce24.

Questi animali potrebbero forsemostrare a noi e ai cacciatori che sono lanostra famiglia perduta, quello che noitutti abbiamo cercato, il sentiero diritorno da dove siamo venuti?

IV. DOPO TUTTO, COS’È LO SCRIVERE SE NON

SOGNO CONTROLLATO? (BORGES)Quando sei costretto a sopravviveresocialmente, economicamente espiritualmente alla mercé assoluta di unacultura dominante e predatoria che faancora tutto quello che può per spezzareulteriormente le tue fonti di potere,saresti uno sciocco a non continuare latradizione di sognare un sentiero ditrasformazione al di là del paradossodella tua prigione fisica. Così nonsorprenderà che ciascuna regioneculturale dell’America indiana abbiauno schema di sogno che usa cometrampolino di lancio verso la libertà.Ciascuno trova quel trampolinovolgendosi alle fonti inesauste delleproprie immagini tribali e ai simboli,

antichi e moderni. Questa è una potentemedicina perché l’immagine-simbolocon un’anima e un corpo, quello cherespira da dentro e da fuori la sua forma,ci trascina, non importa se veniamodalla California, lo stato di Washington,la Francia, il Sudafrica, il Perù, l’Olanda,l’Ohio o la Cina. Quello che gli artistihanno scoperto durante gli ultimicentocinquant’anni, e la scienzamoderna conferma, è che esiste solo unfluido cerchio di connessioni attraversoil quale i molti piani dell’essere e delfare, del sentire e del pensare, del vederee del sognare, del vivere e del morire,sono raggi collegati sulla singola notadell’esperienza. Questa è la luce doratatra i nostri mondi. Ci mostra comepossiamo vedere l’altro, uomo o donna,bambino, pesce, montagna, pietra, piùche come un estraneo, un tipo. Questaidea di visione unificata è caratteristicadell’opera di quasi tutti gli artisti indianiche ho incontrato. Come i cercatori divisione del Primo Popolo, questi poeticontemporanei aggiungono i loro cantialla ruota dei sogni degli anziani ecantano per la sopravvivenza e ilrinnovamento.Dato che le tribù hanno sempre tentatodi vivere in armonia con le leggi fisichedella Natura, il senso del tempo è statovisto in termini del modo in cui èsperimentato nel mondo naturale.Questa parentela è ancora importanteper la gente. Al contrario, sembra unpunto di vista che i loro contemporaneieuroamericani hanno respinto o neganoche esista. È questa una delle ragioni percui Santayana, il filosofo americanomoderno, ha detto molti anni fa “quelliche non riescono a ricordare il passatosono i primi a ripeterlo?”Ma è ugualmente importante sottolinea-re i vari modi in cui usano lo spirito: puòessere il loro maggiore modo diespressione, non importa in che arte. EVasily Kandisnsky, nel 1912, uno deimaggiori innovatori dell’arte occidentalemoderna, non ha fatto questo commentosullo spirituale in arte?Parlare di mistero in termini di mistero,/non è questo contenuto? Non è questolo/ scopo conscio o inconscio/ dell’ur-genza obbligatoria a creare?25

Il mio scopo principale però è statoquello di mostrarvi come questi poetirivelino gli illimitati modi in cui lospirito si esprime in un popolo e come i

Simon Ortiz.

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N° 14Mohawk, i Pueblo, i Blackfeet, gliOneida, i Choctaw, gli Hopi e i Miwok emolte altre tribù provenienti dal primofuoco del mattino abbiano miracolosa-mente unito il mondo fisico e spiritualenello stesso spazio e nello stessomomento nel tempo. Questa centralità eintegrazione di opposti contrastanti, ipiani di luce e ombra della realtà,continuano ad essere la tela più vastadella loro arte e ciò che può dimostraredi essere il legame più solido nel sacroanello della loro immaginazione.Infine, possiamo scoprire ancora unavolta come questi poeti sfidino i lorocritici euroamericani che sostengono chele culture e gli spiriti degli indiani sonosolo un piccolo filo spezzato nel passatodel Nordamerica, al di là del riconosci-mento e destinate all’estinzione. Perchése scegliamo, possiamo con certezzasentire la cadenza unica di questi poeti e,con quella che chiamo una visioneaperta, attiva, vedere le parole del loro

sangue danzare ancora e ancora inqueste poesie più pieno e profondo diqualsiasi fiume d’estate.

Note1 Rose, The Half-Breed Chronicles, Los An-geles, West End Press, 1985.2 Barnes, La Plata Cantata, West Lafayette,Purdue University Press, 1989.3 Romanziere e autore di racconti, consideratoda alcuni critici uno degli scrittori americanipiù innovativi dagli anni Sessanta in poi.4 Post nuova critica americana, la supposta con-troparte femminile di Harold Bloom.5 Poetessa americana.6 Barnes, La Plata Cantata.7 Niatum ed., Carrriers of the Dream Wheel,New York, Harper & Row 1975; trad. FrancoMeli.8 Mary Austin, dalla sua introduzione ad Ame-rican Indian Poetry, curata da George W.Cronyn, XIV, New York, Ballantine Books1972.9 Momaday, Carriers.10 Whiteman, Star Quilt, Minneapolis, HolyCow Press 1984.11 ibidem.

12 Niatum ed., Harper’s Anthology of TwentiethCentury Native American Poetry, San Franci-sco, Harper & Row 1988.13 ibidem.14 Whiteman, Star Quilt, pag. 74.15 ibidem.16 ibidem.17 ibidem.18 Harper’s Anthology, p. 334.19 ibidem. 20 ibidem.21 ibidem.22 ibidem.23 ibidem.24 ibidem.25 Highwater, The Sweet Grass Lives On, NewYork, Lippincott & Crowell 1980.

Esibizione dei Chilkat Dancers al Chilkat Center for the Arts in Haines, Alaska, presentati dall’Alaska Indian Arts, Inc., un’as-sociazione no-profit dedicata al revival e alla conservazione dell’arte e delle culture delle tribù della Costa Nordovest. Più di 25anni fa, Carl W. Heinmiller, un ex maggiore dell’esercito e hobbysta, incoraggiò i vecchi chilkat a far rivivere la loro cultura. Ichilkat di Haines e dell’area di Klukwan erano i capi di guerra dei tlingit e organizzavano spedizioni fino all’attuale Seattle everso l’interno fino allo Yukon. Tra gli oggetti più pregiati erano le chilkat blanket (coperte chilkat) dai motivi rituali, alcunedelle quali sono ancora usate nelle rappresentazioni. Attraverso queste opere teatrali appositamente rimaneggiate dalla tradi-zione, la cultura viene conservata per i giovani, che ricevono una paga come attori, senza tuttavia tradire il segreto cerimoniale.

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Canoa S’Klallam. Foto di Philip H. Red Eagle.

Canoa di guerra S’Klallam. Foto di Philip H. Red Eagle.

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N° 14

Duane Niatum, Luna dell’Erba Secca(pubblicato in “Raven’s Chronicles”, trad. S. Busatta)

Canoa Spirito S’Klallam

La mia pagaia mantiene il percorso del sole,mi riporta a casa verso il mare,il mio sangue sui suoi viaggi verso le turbinose profondità.Da poppa a prua la nostra canoa cade e sorge,abbraccia ciascuna cavità purificatadalla famiglia che canta da falesie costiere.Ci uniamo ai nostri fratelli e sorellein canoe da altri villagginel cerchio di kelp e schiuma,foca e balena; cavalchiamo le mobili colline,scivoliamo di lato e in basso, poi dritta,ogni pagaia che tocca il cielo.

Il battito di tamburo scivola sotto la corrente,risuonando dai geni a prua,ritorna a fuoco e forma ancestraliemergendo dalla scia di tagliamare.Dall’alba alla notte siamo le costoledi avi, ci ergiamo come cormoranisulla cresta verde; offriamo ai nostri figliun sogno più forte e audace della rabbia o la guerra.Il sale che asciuga sui volti e le mani intrecciai nostri corpi in spirali di crepuscolo,stella serotina e Via Lattea, ci affilaper l’ostacolo spaccato mentre parliamocon tessitori notturni come d’antica crescitala voce del cedro rosso che s’immerge nella luceche rispecchia la nostra storia di ritorno a casa.

My paddle keeps to the sun’s path,pulls back home to sea,

my blood on its travels to the whirling depths.From bow to stern our canoe drops and rises,

embraces each trough cleansedby family singing from coastal cliffs.

We join our brothers and sistersin canoes from other villages

in the circle of kelp and spray,seal and whale; ride the moving hills,

slide sideways and down, then straight up,each paddle touching the sky.

The drumbeat slips beneath the current,rattling from genes to prow,

returns to ancestral fire and formemerging from the trail of cutwater.From dawn to night we are the ribs

of great grandparents, soar like cormorantson the green crest; offer our children

a dream stronger and bolder than rage or war.Salt drying on our face and hands braids

our bodies into spirals of dusk,evening star and Milky Way, honesus for the split hurdle as we speak

with night weavers like the old growthvoice of red cedar dipping into light

who mirrors our coming-home story.

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Jean Musser

Il revival della tradizione di costruzionedelle grandi canoe e i rituali connessiebbe vita tra gli indiani della CostaNordovest durante il Centenario dellostato di Washington nel luglio 1989,quando le tribù di Washington compiro-no l’ormai famosa Regata a Seattle.Quattro anni dopo, nel 1993, settecanoe provenienti dalle nazionidell’Olympic Peninsula e del PugetSound si unirono a venti canoe dellePrime Nazioni canadesi per la Regataverso Bella Coola, sulla costa centroset-tentrionale della Columbia Britanni-ca, un viaggio di 1200 miglia. TomHeidlebaugh, scrittore, storyteller eantropologo di Tacoma, rappresentòuna forza trainante nel revival dellacultura della Grande Canoa. Dopomolti incontri con gli anziani, i sosteni-tori della canoa e le comunità coinvol-te, la nazione suguamish invitò aintraprendere un viaggio circolare, cheavrebbe avvicinato la gente e coinvolto igiovani di tutte le tribù. Fu tenuto nelluglio 1995 e iniziò allo Twanoh StatePark sul Canale Hood, dove gliskokomish celebrarono una festa. Dopoessere sbarcati a Port Gamble, ci furono

Un’intervista al poeta Duane Niatum, partecipedel grande revival delle canoe da guerra dellaCosta Nordovest

Legandosi al sacro

Navigazioni

Duane Niatum e la canoa. Foto di JeanMusser.

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N° 14altre feste offerte dai S’Klallam, che siunirono con una loro canoa per ilviaggio di ritorno a suguamish, dovevennero celebrate un’altra festa e lecerimonie di chiusura. Anche seHeidlebaugh ora è morto, le cerimoniedella Grande Canoa sono diventateparte integrante della cultura indianadella Costa Nordovest. Alla fine di luglioe l’inizio di agosto 1997, un gruppoancora più numeroso, che comprendevacanoe tribali provenienti dal Canada,ha preso parte a un viaggio cerimo-niale in canoa, che si terrà ora ogniquattro anni.Duane Niatum, un poeta di famanazionale, ha preso parte al viaggio del1997. Era la sua prima esperienza delgenere, l’ho intervistato il 5 agosto1997, due giorni dopo il suo ritorno dalviaggio in canoa e un’altra volta il 21settembre 1997, durante una breveescursione a Bly e Fort Hadlock, perfotografare la canoa di Jamestown e illuogo di importanti ricordi infantili.Niatum è un discendente del primo capoS’Klallam a Tsetsibus.

5 agosto 1997Mi sento come se stessi ancorarollando dopo due giorni che holasciato la canoa. Questa mattinamentre mi radevo ho quasi persol’equilibrio. Per me è sembrato unlungo viaggio, anche se, dato che misono unito tardi, ho fatto solo 25 delle35 miglia da S’Klallam Bay a NeahBay e di là fino a La Push.D: Quali scoperte hai fatto mentre erisull’acqua?R: Quando guardi il mare da una certadistanza, sembra piatto. Ma quandovai fuori a trenta nodi di vento puoivedere la canoa di fronte a te svanirecompletamente per qualche secondo,finché non riaffiora dall’altra partedell’onda. La canoa scolpisce l’acqua.Cavalca bene il mare, com’era stataprogettata fare con le sue belle linee.Impari che il mare è un paesaggio dicolline ondeggianti. Ha i suoi ritmiche sono molto polifonici. È una bellacosa da sperimentare; so che non lodimenticherò mai, me lo porterò nellatomba.D: Quali sono i pericoli?R: Le canoe possono capovolgersi;per questo motivo ciascuna ha unabarca appoggio. Su a nord, prima che

mi unissi al gruppo, c’era un diabeticoin una canoa che si è rovesciata. Eramolto sensibile al freddo e la barcaappoggio lo tirò fuori dall’acqua infretta.D: Ha fatto qualche differenza il fattoche eri un nuovo arrivato? Che eri piùvecchio?R: No, sono stato trattato comechiunque altro. Tutti si davano unamano. Di notte si cantava e si danzavamolto. E c’erano molti ringraziamenti,una tribù verso l’altra e c’erano cantiper onorare i visitatori e canti peronorare gli ospiti. La vita tribale èaltamente ritualizzata e stratificata ein ogni momento si pratica il proto-collo. Dopo i festeggiamenti, comun-que, cominciavano i canti e le danze,che duravano spesso fino all’una ol’una e mezza del mattino.D: Da quanto lontano veniva questagente?R: Qualcuno veniva dal Canada;erano in acqua da tre settimane eavevano fatto circa 1200 miglia. Devicapire che non venivano in linea retta.Si è unito a noi anche un gruppo dallaCalifornia, anche se non erano capacidi governare una canoa. Comunque,ne avevano costruita una da unagrande sequoia. In mezzo a questogruppo c’era una bella donna indiana.(Niatum ha preso un frammento diconchiglia abalone dalla tasca, lo hastudiato e me lo ha porto. Opalescen-te. Un lato verde blu liscio, l’altro piùrozzo, bianco e gessoso). Uno deicaliforniani me l’ha data.D: È stato difficile adeguarsi allafatica fisica?R: Durante i primi due giorni misembrava che pagaiassimo tutto ilgiorno e lavassimo i vestiti per metàdella notte. Eravamo esausti. Unodegli anziani russava come untricheco, ma non se ne preoccupava;riusciva a dormire dappertutto.Partivamo al mattino molto presto,alzandoci alle quattro in modo daprendere la marea. E’ davvero unproblema andarci contro, dovevamosemplicemente farlo subito. Fuori daS’Klallam Bay usavamo per un po’una vela; alcuni pagaiavano più omeno per quindici ore. Rientravamoverso le cinque del pomeriggio.Eravamo l’ultima canoa. C’eranoquattro canoe con viaggiatori molto

disciplinati; conoscevano la rotta ealla fine rimorchiavano gli ultimi duedi noi a mezzo miglio dalla spiaggia.Poi noi completavamo la distanzamancante con le pagaie. Qualchevolta la gente era così stanca che nonriusciva a ricordarsi le cose e diceva:“Chiedimelo domani”. Era qualcosache cominciavi a capire. Anche nelbreve periodo in cui sono stato abordo, spesso ero stanco morto. Eraveramente faticoso, ma tutti eranofelici di essere in viaggio.D: Sono curiosa di saperne di piùsulle canoe. Quelle di questa regionesono tutte scavate nel cedro rosso?R: No. Bill Reid, il famoso scultoreHaida, ha progettato il “Souke”, che èfatto di fibra di vetro e cemento. Pesa2800 libbre e contiene 22 membridell’equipaggio più il capitano. Comele altre canoe scivola sull’acqua comese fosse stata creata per essere là.Queste antiche forme sembravanoessere create dal mare per esserefigure marine. Ma tradizionalmente lecanoe con l’anima sono scavate dacedri rossi di vecchia crescita daicinquecento ai mille anni. Sulla CostaOccidentale ci sono sei diversimodelli di canoa. La maggior partesono modellati sulle canoe di guerra,ma ci sono anche canoe da pescad’alto mare e canoe fluviali.D: Che genere di animali hai incon-trato?R: Una mattina mi sono svegliato alsuono di “tap, tap, tap” e ho visto unaghiandaia azzurra che picchiava su unalbero di nocciolo. E ho visto duebalene grigie, una vicino al territoriodei Makah e l’altra vicino a La Push.Poi foche varie volte, prima a NeahBay, poi alla foce del Quileute.D: Ho sentito che la canoa in cui haiviaggiato era la canoa di Jamestown,per via della tua eredità S’Klallam.R: Il suo nome è Laxaynam. E’ unacanoa nera con un lupo marinodipinto in rosso su ciascun latocontornato in turchese. Tradizional-mente le canoe dovevano esserericavate da un cedro di vecchiacrescita, dato che erano i soli alberilarghi abbastanza. Questa, scavatanell’area di Sequim da Rick Hoskins,è stata fabbricata ricavandola da uncedro rosso di quattrocento-seicentoanni, alberi che, come sai, stanno

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HAKOMAGAZINEdiventando sempre più scarsi. Lacanoa di Jamestown è lunga 37 piedi,con sedili per 12 uomini più un postoa poppa per il capitano, Paul Bowlby.Il compito del capitano è di guidare la

canoa usando la sua pagaia come untimone. Le pagaie sono intagliate amano con cura e ogni rematore ne hadue in caso una si spezzi, come fannoqualche volta se si colpisce unoscoglio.D: C’erano altre canoe S’Klallam?R: Sì, storicamente c’erano undicivillaggi dei S’Klallam e ciascunoaveva il suo capo. Oltre a Jamestown,ci sono la canoa di Port Gamble equella del Lower Elwha che ilcapitano Al Charles ha scavato dipersona. Si chiama “Il Guerriero”. Ilcapo Balch ebbe la preveggenza diacquistare terra per la tribù e così latribù S’Klallam è diventata relativa-mente benestante. A Blyn c’è ora un

grazioso edificio in legno che ospitauna galleria d’arte indiana e gli ufficidei servizi sociali e sanitari, ammini-strati congiuntamente da presidentinativi americani con il Bureau of

Indian Affairs. La canoa di Jame-stown ora è custodita sotto una tettoiapresso questo complesso di edifici,dove sta al riparo dalle intemperie. Èentrata in acqua per la prima voltapresso quella località.

21 settembre 1997Avvicinandosi a Port Hadlock, che inprecedenza era stata chiamataTsetsibus, voltammo giù per unastrada oltre un campo di alti cardisecchi. Sulla destra Niatum segnalòuna casetta di legno gialla, doveviveva il suo prozio. La casa di suononno era giusto di fronte a quella disuo fratello. Alla fine della strada sitrova il vecchio impianto di alcol, un

tempo quasi in rovina, che ora ospitaun hotel, graziosamente restauratocon stucco leggero e tegole rosse euna spiaggetta attrezzata.D: Qualcuno dei tuoi parenti abitaancora qui?R: No, e ti dirò come è successo. OldPatsy, il mio trisavolo, viveva propriosull’acqua. Young Patsy, il miobisnonno, viveva dietro di lui. Poi,ogni generazione ha abitato semprepiù lontano dalla spiaggia. Ora là nonc’è nessuno; si sono tutti trasferiti incittà grandi e piccole. Il viaggio incanoa a quanto pare mi ha ricollegatoagli elementi da cui mi ero estraniatosenza accorgermene.Scendemmo a piedi in quella partedella spiaggia che sta di fronte aSkunk Island; qui c’era abbondanzadi salmoni, granchi, ostriche escorpioni di mare. All’estremità dellapunta una volta c’era un negozio doveun Niatum bambino si recava spessoa piedi quando c’era la bassa marea.C’era la stessa erba anguilla vicinoall’acqua; sopra il campo tardosettembrino era pieno di frutti falsi dirosa, ciliegie selvatiche e qualchecespuglio di palle di neve, dove teledi ragno raggiate pendevano dai ramiilluminati dal sole. Niatum mostrò trecedri rossi occidentali che sporgevanodi fronte all’acqua in cima a un bancoargilloso: da bambino si arrampicavasu quegli alberi. Girandoci attorno, ciportò attraverso i rovi verso unospiazzo erboso. Qui c’era la casa diYoung Patsy; era circondata da unboschetto di alberi da frutto cosìdenso che nelle notti d’inverno ivisitatori venivano giù con le lanternea olio. Il 4 luglio 1891, quando suopadre era capo, su questa spiaggiavenne tenuto un grande potlatch.Giunsero ventisette canoe, ognuna inrappresentanza di una diversa tribù.Guardando nello spazio vuoto pressol’orlo dell’acqua vedemmo unmovimento e ci fermammo a guardaredue grandi aironi blu alzarsi dall’erbae volare sull’acqua.

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N° 14

Il prof. Roemer è apprezzato criticoletterario e autore, tra l’altro, di NativeAmerican Writers of the United States,1997.Hako: Qual è l’atteggiamento dei criticie dei professori di letteratura verso gliscrittori indiani?R.: Penso che i critici e i professorid’inglese tendano a porre testi indiani inun contesto euro-americano perchéquesti lettori vogliono trovare contestifamiliari per le loro discussioni evogliono poter comunicare le loro ideeai colleghi. Ci possono essere problemigravi quando vengono ignorati partico-lari punti di vista tribali o pantribali. C’èstato un convegno MLA su questoargomento. Credo che il presidente fosseKim Blaeser.Hako.: Chi sono i lettori degli scrittoriindiani?R.: Jack Forbes ha probabilmenteragione: i principali lettori sono studentiuniversitari, per lo più non indiani.Alcuni autori, come la Erdrich hanno unpubblico più vasto. D’altro canto moltidei saggi e il giornalismo, per esempio ilgiornale Indian Country Today, proba-bilmente hanno un forte numero dilettori indiani. Naturalmente queste sonosolo supposizioni.Hako: Pensa che scrivere su temi indianipossa limitare la letteratura indianaall’interno dei confini regionali e/oetnici?R.: Sarebbe certamente limitante se gliautori indiani potessero scrivere solo su

argomenti “indiani”, anche se questiargomenti possono essere enormi ecoprire il globo. Molta parte del nuovoromanzo di Welch è ambientato inFrancia. La “trappola” è che un testo“indiano” su un argomento “indiano” hapiù “autorità” di un testo indiano su unargomento non indiano. Questoatteggiamento può essere moltosbagliato, ma è forte tra i lettori,compresi gli editori.Hako: Pensa che gli scrittori indianisiano solo un altro tipo di scrittoriamericani etnici o siano speciali perqualche ragione?R.: Quello che distingue la poesia e laprosa nativa americana moderna è forseil profondo senso di una lunga “storia”storica che, durante il tardo XIX secoloha quasi incluso la distruzione dellapopolazione indiana, scesa fino a circa200.000 persone. Inoltre per alcuniautori l’importanza della tradizione oralee il senso del luogo insieme allequestioni storiche della sopravvivenza edella sovranità.Hako: Pensa che i testi di letteraturaamericana debbano cominciare con gliscritti dei primi coloni o con testi oraliindiani?R.: Io inizio i miei libri di letteratura conle letterature orali native, anche se moltedelle prime traduzioni avvengono dopoil periodo coloniale.Hako: Pensa che questi testi tradizionaliorali possano essere chiamati letteraturanel senso di solito attribuito a questa

parola?R.: Si, io uso il termine “letteratura” perle narrazioni e le esecuzioni orali, mapasso un mucchio di tempo a indicarecome questa “letteratura”, e specialmen-te le sue funzioni, differiscano dalleconcezioni di letteratura scritta.Hako: Esiste una letteratura indianamoderna in una lingua indiana? Checosa ne pensa?R.: I testi moderni non in inglese checonosco sono quelli in cheyenne diLance Henson e il lavoro in meskwakidi Ray Young Bear. Dato che nonconosco nessuna delle due lingue, nonposso giudicarne la qualità.Hako: Che cosa pensa degli scrittori nonindiani che scelgono di mettere deipersonaggi indiani nei loro libri? Pensache solo gli indiani possano scriveresugli indiani oppure pensa che questosia un punto di vista nazionalistaestremista?R.: Si, i non indiani dovrebbero essereliberi di descrivere personaggi indianinei loro romanzi e di scrivere commentisu testi indiani. È, però, un problemaserio quando uno scrittore non indianoimplicitamente o esplicitamente dichiaradi parlare come indiano o per gli indiani.In questo caso ci sono dei gravi proble-mi etici.

Gli scrittori indiani fanno parte della letteraturaamericana, compresa quella delle origini.

Intervista a Ken Roemer

Opinioni

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“One Indian and Two Chiefs”, antologia di racconti di Ralph Salisbury pubblicato dalla Navajo Community College Press;copertina di Linnea Gentry.A p. 19: Ralph Salisbury.

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Quando morirò, il tempo sarà ancoralo stesso per tuttiquelli che mi amaronoe per tutti gli altri. La mia salita,al Grande Spirito nel cielo,non sembrerà ulteriore precipitarsi delle stelle,nessun razzo sparato verso la luna,ma solo lancio di ciottolo in una pozza,quelli che baciavo, con cui scherzavo,coccolavo – o tentavo, ancora, di uccidere –increspature piene di sole piacevolmente ombreggiate,una finale, debole erosione che tocca la riva.

When I die, time will be stillthe same for all

who loved meand for all. My climb,

to the Great Spirit in the sky,will seem no further hurtling of the stars,

no rocket shot toward the moon,but only toss of pebble into pool,

those I would kiss, joke with,cuddle – or try, again, to kill –

beautifully shadowed ripples filled with sun,a final, faint erosion touching shore.

Ralph Salisbury

Più che essere legato a un qualche evento minaccioso, Canto di Morte cerca di esprimere la consapevolezza della vecchiaia e ditrovarsi di fronte alla mortalità. I canti di morte erano una tradizione della mia gente Cherokee e potevano evocare la propriaeredità spirituale di fronte alla morte oppure potevano evocare la propria consapevolezza di far parte di una tribù o un clan. Lamia poesia è, penso, personale, ma cerca di essere in armonia con l’universale realtà della mortalità. La rivista The New Renais-sance è l’editore americano di Canto di Morte e, sì, penso che i curatori della rivista diano qualche credito all’Italia per il loronome (trad. S. Busatta).

Canto di morte, il mio 66° compleanno

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Valentina Firewalks e Wes Studi sul set.

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Daniele Bolelli

Se è vero che i nomi indiani diconoqualcosa su chi li porta, c’è da stareattenti. Firewalks è un nomeimpegnativo, ma Valentina Lopez-Firewalks non ne sembra minima-mente spaventata. «Come artista, ilfuoco è quello che cerco di semina-re nel cuore della gente. Piccolescintille di passione che ispirino lepersone a scoprire la propriacreatività». Di scintille, Valentina nesprizza da tutti i pori. Il desiderio diesprimere grandi visioni attraversoil suo lavoro è chiaro a chiunqueparli con lei per più di un minuto.Secondo Valentina, creare non èuno svago artistico. La secondavolta che l’ho incontrata, a Milano,durante una pausa-pranzo delfestival Frontiere, dove lei eravenuta a presentare l’anteprima diun suo film, le ho chiesto che cosadesiderasse creare con il suo lavoro.«Cambiare il mondo -ha risposto leicandidamente- Che altro potreivolere?» In questa risposta sta tuttala filosofia artistica di ValentinaFirewalks, una delle attrici escrittrici emergenti del nuovocinema indiano.Firewalks è una apache mescalerodel New Mexico, che è però

cresciuta un po’ dovunque, in giroper gli Stati Uniti. Suo padre,infatti,era medico nell’esercito, per cui icambi di casa e di stato eranoall’ordine del giorno ogni volta chelui veniva trasferito da una baseall’altra. La vocazione paterna aguarire la gente inizialmente spinseValentina a dedicarsi alla scienza e aiscriversi alla facoltà di Biochimicadell’Università della California aLos Angeles (UCLA). Ma dopoqualche tempo, la vita nella grandecittà, a pochi passi da Hollywood,cominciò a sabotare i piani diemulare la carriera del padre.La biochimica scivolò in secondopiano mentre cinema e danzapresero il sopravvento tra i suoiinteressi. «La mia medicina chiede-va di essere espressa in altri modi.Non come medico, ma come artista.Così pur continuando i miei studi,cominciai a lavorare in produzionidi danza e come comparsa per ilcinema e per la televisione». Dopola laurea divenne assolutamentechiaro che i giorni passati inlaboratorio erano finiti e che altresfide attendevano questa determina-tissima mescalero.Cercare di entrare nell’industria delcinema dicendo di voler usare l’artecome medicina per lo spirito è però

come sanguinare davanti ad unosqualo. Hollywood non è mai statatenera con gli idealisti. Se ValentinaFirewalks voleva cercarsi una sfidadavvero dura, l’ha certamentetrovata. Holly-wood è un mondo disquali disposti a passare su qualun-que cosa pur di guadagnarsi unposto sotto la luce dei riflettori.Quasi ogni cameriera e commessanell’intera contea di Los Angelespassa ore della propria giornatacercando di sfondare nel cinema. Ilnumero di aspiranti attrici e dipersone con una sceneggiaturapronta nel cassetto è incredibile. Inquesto clima di competizione e dilotta senza quartiere per ottenere unbriciolo di attenzione da parte diproduttori importanti, è moltodifficile non lasciar perdere ognivelleità idealista lungo la via evendersi l’anima. Tenendosi l’animaben stretta, Valentina Firewalks haottenuto parecchi lavori comecomparsa. Anche se per le comparsei soldi erano pochi e la soddisfazio-ne artistica era pari a zero, Valentinateneva gli occhi bene aperti sul setper imparare quanto più possibilesull’arte di fare film. «Non era cosìmale, - dice lei- in fondo mi venivadata l’occasione di imparare molto edi essere pure pagata per farlo».

Valentina Firewalks

Cinema

Un’attrice apache nel mondo di Hollywood.

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Poi, è arrivata una parte in uncortometraggio interpretato quasiesclusivamente da indiani, YellowWooden Ring. Ma il primo grandecolpo nella carriera di Valentina èarrivato recentemente, quando unodegli attori indiani più famosi, WesStudi (Balla coi Lupi, L’Ultimo deiMohicani, Geronimo) ha sceltoproprio lei come attrice protagonistadel primo film che vedeva ildebutto di Studi alla regia, BonnieLooksaway’s Iron Art Wagon. Lastoria segue una giovane studentes-sa di arte in un viaggio alla scopertadell’arte indiana e in particolare delruolo delle donne nell’arte indiana.Commentando la parte di Valentinanel film, Studi ha dichiarato: «Hauna totale sintonia con la macchinada presa e con gli altri attori. Il filmè il suo show dall’inizio alla fine.Valentina ha talento da vendere emerita di continuare a lavorare nelcinema in ruoli sempre più di primopiano. Lei è questo film».Sebbene Bonnie Looksaway’s IronArt Wagon fosse una produzionerelativamente piccola, il film è statoproiettato al Sundance Film Festival

di Robert Redford, la vera Meccadel cinema indipendente americano.La notorietà ottenuta grazie al filmha portato Valentina anche in Italia,dove ha tenuto una presentazionedel nuovo cinema indiano al festivalFrontiere tenutosi al CastelloSforzesco di Milano lo scorsomaggio.Tra gli altri lavori di Valentina c’èSweat, un cortometraggio da leiscritto, diretto e prodotto. Il film èispirato a fatti realmente accadutinella prigione di stato del NewMexico, dove il direttore del carcerefaceva dare ai prigionieri indiani dellegno trattato chimicamente per lacerimonia religiosa della sweatlodge, poiché sperava di fareammalare i detenuti e di poter cosìchiudere per mancanza di parteci-panti il programma di religionetradizionale indiana. Il film diValentina ha però attratto l’attenzio-ne della stampa e del pubblico alpunto che, per evitare uno scandalo,il direttore della prigione si èdimesso.In questo momento, Valentina stalavorando alla sceneggiatura di un

film sul ritorno della mitologicaDonna Bisonte Bianco dei lakotanel mondo moderno. «Mi piacereb-be che questo film servisse adabbattere gli stereotipi che moltagente ha riguardo alla spiritualitàindiana - dice Valentina - È unprogetto ambizioso, perché cercaredi narrare le storie tradizionaliindiane secondo un formato occi-dentale, come sono i film, è unasfida nuova, mai provata prima. Ilcinema indiano non è ancora nato.Questa generazione di attori,scrittori e registi indiani è unagenerazione di pionieri che aprirà leporte per le generazioni future. Senoi abbiamo successo, apriremoscuole di cinema per giovani autoriindiani e daremo grande ispirazionealla nostra gente. E chi lo sa, forsepotremmo anche mostrare aHollywood un diverso modo dilavorare, basato non sulla competi-zione, ma sulla condivisione esull’aiuto reciproco». La sfida piùgrande, infatti, Valentina Firewalksla deve affrontare fuori dalloschermo. Mantenere saldi cuore evisioni nel mezzo del mondo delloshow business, dove ipocrisia edegocentrismo regnano incontrastati.Questo è forse il vero esempio dicui andare fieri che Valentinapotrebbe dare alla gente indiana.

Valentina e il noto pittore navajo R. C. Gorman della “Scuola Contemporanea”.A p. 23: “Senza titolo”, acrilico di Tom Poolew, kiowa-delaware.

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N° 14

Bernd Peyer

Lo sviluppo o il movimento, nell’arteindiana, sono connessi con il complessorapporto tra le comunità indiane, lasocietà dominante angloamericana e laposizione del singolo artista indiano inentrambe. Le comunità indiane negliUSA differiscono dal resto della societàper la lingua, la religione, le strutturesociali e la cultura materiale. Questaeredità si può considerare come unasorta di codice genetico che distingueciascuna comunità indiana. Il grado incui è stata mantenuta questa eredità èanche un indicatore affidabile dellavitalità di una comunità indiana entro lasituazione neocoloniale del XX secolo.Allo stesso tempo, comunque, laperseveranza di fronte a tali enormipressioni verso l’assimilazione ovvia-mente presuppone un’inerente adattabi-lità al cambiamento. Questo atto diprecario equilibrio culturale a sua voltadipende dalla capacità della societàangloamericana di accettare al suointerno la pluralità culturale. L’artistaindiano, come mediatore culturale,prenderà una direzione che è pratica-mente predeterminata da queste duecorrenti opposte. Idealmente, la comuni-tà indiana fornirà l’essenza per l’ispira-zione artistica e la società dominantenuovi materiali e nuove tecniche disperimentazione. Il risultato sarebbe

allora una forma d’espressione composi-ta e un flusso positivo e reciproco dicomunicazione. L’arte indiana sisvilupperebbe – sarebbe in movimento.Sfortunatamente, le nuove tendenzeartistiche devono combattere controforze conservatrici formidabili, checontrollano il mercato artistico. Patroni,critici d’arte, galleristi, ecc. spessoresistono alle innovazioni in arte

direttamente e in seguito atrofizzano unulteriore sviluppo tramite il processo dicooptazione. Ciò è particolarmenteevidente nella separazione tra arte “alta”e quella che in genere è chiamata arte“etnica” o “popolare”. Certi schemi –spesso conformi a stereotipi prevalenti –vengono trasformati in rigide regole che,di conseguenza, definiscono un certomovimento artistico. L’arte etnica, che

Arte e auto-affermazione indiana

Lo sviluppo dell’arte indiana moderna e la rivalità trascuola Tradizionalista e scuola Contemporanea.

Pittura

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HAKOMAGAZINEcomprende l’arte indiana, deve esseresemplice, colorata, naturale, ingenua edesotica; solo allora è “autentica” e quindidistinguibile dall’arte alta. La sperimen-tazione è ostracizzata dal mercatoartistico o adottata con benevolenza,anche se con precetti nuovi e legger-mente modificati, che non sfidano lacategorizzazione dell’arte etnica. In altreparole, è “in” anche se lo scopodell’artista è trovare una via d’uscita. Laresistenza al cambiamento nell’arteindiana è stata sufficientemente forte daportare a interpretazioni del suo sviluppobasate soprattutto su sfere d’influenzanon indiane. Mentre questo genered’influenza dall’esterno è evidente, datala realtà di un mercato artistico control-lato dagli anglo-americani, sembra peròessere limitato alla selezione di materialie tecniche. La fonte d’ispirazione e itemi espressi sembrano venire dall’inter-no e poi costretti dentro le definizioni diarte indiana del mercato artistico. Ciò sipuò dimostrare, per esempio, nellosviluppo della cosiddetta pitturatradizionalista del Sudovest e inOklahoma e nei conseguenti sforzi deisingoli artisti indiani per muoversi oltre.I murali di kiva, l’arte rupestre, i disegnidella ceramica e le pitture su sabbiaforniscono agli artisti indiani contempo-ranei del Sudovest una base notevole. Ineffetti, come luogo dei più antichiinsediamenti permanenti degli USA, ilSudovest trasuda una certa aura senzatempo che ha ispirato generazioni diartisti e scrittori non indiani. L’arte delSudovest è stata (ed è) orientata in sensospirituale. I temi religiosi si trovano suimuri delle kiva (camere cerimoniali),nell’arte rupestre, nelle pitture su sabbiae anche nei disegni della ceramica e deitessuti, e così formano un filo visibiled’espressione artistica fino ad oggi.Quando l’antropologo Jesse WalterFewkes commissionò a tre artisti Hopil’illustrazione del suo libro sui kachinaintorno al 1890, iniziando la storia dellamoderna pittura indiana del Sudovest,fece poco più che fornire un nuovomezzo – carta e matite colorate. Ilmotivo (i kachina) e gli elementi stilisticipiù pronunciati (bidimensionalità,nessuno sfondo, attenzione agli arredicerimoniali) sono già evidenti sui muralidelle kiva trovati ad Awatowi, Ka-waika-a e Pottery Mound. La rimozionedell’espressione artistica dal suo

contesto comunitario / cerimoniale a unotransculturale e l’emersione di artistiindiani sulla scena artistica angloameri-cana significò un cambiamento impor-tante. I pionieri artistici Hopi evitaronodi firmare le loro opere per paura dirappresaglie da parte della comunitàHopi, dove il ruolo dei singoli artisticome mediatori transculturali non eraancora accettato. Catturare sulla cartaimmagini di kachina o altre rappresenta-zioni spirituali perché siano viste daestranei era come commettere unsacrilegio e alcune comunità pueblo nonesitarono a bandire i colpevoli.Ma con l’arrivo della ferrovia, i legamitra le città orientali e il Sudovest e ilsuccessivo collezionismo maniacale diartigianato indiano, il ruolo dei singoliartisti e artigiani fu normalizzato nellasocietà pueblo, almeno a livellocommerciale. Ora l’arte aveva unaduplice funzione: come forma interna diespressione cerimoniale e come formaorientata verso l’esterno di autoespres-sione con una forte motivazioneeconomica. Si potrebbe sostenere chequesto adattamento era solo unadimensione aggiunta a precedenti

rapporti commerciali intertribali antichidi secoli, in cui pure venivano scambiatetecniche e idee. È questo genere dipartecipazione a due culture che EdwardP. Dozier tentò di descrivere con ilconcetto di “compartimentazione”. Conl’apparizione nei primi decenni del XXsecolo di artisti pueblo autodidatti comeAdolfo Roybal, Crescencio Martinez,Fred Kabotie, Otis Polelonema e altri,che vengono chiamati collettivamente“Scuola di San Ildefonso”, la pitturaindiana del Sudovest aveva già raggiun-to tutti gli attributi che sarebbero staticodificati come tradizionalisti negli anni1930. “Patroni” come ElizabethRichards della San Ildefonso DaySchool, Edgar L. Hewett del Museo delNuovo Messico, o Dorothy Dunn dello“Studio” di Santa Fe, fornirono leattrezzature ai primi artisti autodidatti e liintrodussero all’uso di materiali piùsofisticati, come gli acquerelli o la tela.Di conseguenza i loro dipinti diventaro-no più esatti e conformi agli standardtecnici occidentali, ma essenzialmenteerano poco diversi dai disegni dikachina prodotti per lo studio diFewkes. La loro resa perfetta della vita

Pittura di Jack Hokeah, kiowa, uno dei famosi Kiowa Five.

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N° 14cerimoniale venne istituzionalizzata conla creazione del famoso “Studio” aSanta Fe nel 1932, dove prese forma ladefinizione della pittura indianatradizionalista: attento lavoro dipennello, ferme linee di contorno,assenza di ombreggiature e di sfondo,bidimensionalità e – soprattutto – strettaaderenza ai temi che si presupponevariflettessero modi “tradizionali” di vitaindiana. Questa formula, creata dagliindiani e canonizzata dal mercatoartistico, si evolse rapidamente negliUSA in un prodotto artistico di grandeprofitto economico.La pittura degli indiani delle Pianuredell’Oklahoma (ex Territorio Indiano) èdiversa da quella del Sudovest, ma sisviluppò lungo linee quasi identiche. Lesue radici si trovano in forme artistichetradizionali come la pittura su pelle e idisegni applicati di aculei o perline. Intotale contrasto con il Sudovest, lo stiledi vita equestre delle Pianure, la cacciaal bisonte, era di origine relativamenterecente, essendosi sviluppato in seguitoall’introduzione del cavallo in Nordame-rica da parte gli europei e raggiunsel’apogeo solo a metà del XIX secolo.Era impossibile condurre una vitanomade del genere dopo l’inizio dellasocietà americana del XX secolo e ciòcausò un grado di sconquasso socialemolto maggiore di quello che avevasperimentato il Sudovest. L’economia dicaccia e le guerre frequenti avevanofavorito comunità più piccole e moltomobili in cui si generava l’individuali-smo – fattore chiaramente visibilenell’arte indiana delle Pianure. Le pitturesu pelle, per esempio, illustravanospesso visioni personali o servivano dameccanismi mnemonici che narravanoatti di merito personale. Queste ultimecomposizioni di solito mostrano figure astecchino a cavallo in azione. Mentre gliartisti del Sudovest tendono a preferirescene tranquille e statiche, che illustranoeventi cerimoniali comunitari, l’arteindiana delle Pianure mostra preferenzaper uno scenario più drammatico.L’origine della pittura tradizionalistadegli indiani delle Pianure si fa general-mente risalire ai disegni sui libri mastriprodotti da alcuni indiani prigionieri aFort Marion, Florida, tra il 1875 e il1878. Come nel caso dei disegni dikachina hopi di Fewkes, i disegni sulibri mastri di Fort Marion rappresenta-

no in effetti una razionalizzazione di unaforma espressiva tradizionale indiana –dalle pitture organiche/ animali su pellealle matite colorate/acquerelli sulla cartadei libri mastri. Di nuovo, i motivi sonoessenzialmente gli stessi: figure astecchino a cavallo in battaglia o acaccia. I cambiamenti come il dettagliopiù raffinato, il realismo anatomico e icolori più brillanti sono dovuti principal-mente ai materiali più efficaci usati. Nelloro confino dietro le mura di unaprigione, un presagio piuttosto drasticodella fine di un modo di vita, questiprimi artisti indiani delle Pianuresvilupparono un’acuta nostalgia per ilpassato che tentarono di esprimere con inuovi mezzi disponibili. Tracciavano amemoria disegni di cavalli, bei costumi(comprese adozioni recenti come icappelli a cilindro e gli ombrelli),selvaggina e avvenimenti sociali. Lafunzione mnemonica delle pitture supelle era così conservata.Intorno al 1920 un gruppo di artistiKiowa autodidatti venne fatto notare aOscar Jacobson, che li invitò a perfezio-nare la loro tecnica all’Universitàdell’Oklahoma. Qui vennero forniti dimateriali artistici e di consulenza tecnica,ma vennero anche incoraggiati daJacobson a sviluppare ulteriormente ilproprio stile. Noti come i “CinqueKiowa” o la “Scuola Kiowa”, essicrearono uno stile di pittura unico emolto popolare, che differiva dalla“Scuola di San Ildefonso” per la suapreferenza per i colori molto brillanti, larappresentazione di ricchi costumipersonali e visioni peyotiste e unamaggiore tendenza verso il moto nellescene di danze o cerimonie. Ma come iloro colleghidel Sudovest,le figure eranoinvariabilmentedisegnate conlinee nette(senza ombre ocolori sovrap-posti) e sospesenello spaziosenza unosfondo visibile.Il loro lavoro,

che fu esposto a un festival artisticointernazionale a Praga nel 1928 eprodotto anche in Francia comeportfolio poco dopo, pose le linee guidaper la pittura tradizionalista indiana dellePianure.Tre anni dopo l’istituzione dello“Studio” di Dorothy Dunn a Santa Fe,nel 1935, venne creato un Dipartimentodi Arte Indiana al Bacone College diMuskogee, Oklahoma, che operava conconcetti simili: ampliare uno stiletradizionalista basato sui Cinque Kiowa,combinato con elementi dello “Studio”.Comunque, un’importante differenzaera la partecipazione degli artisti indianicome insegnanti nel programma,segnando così l’inizio dell’autonomiaartistica indiana. Il risultato finaledell’arte indiana istituzionalizzatapromossa da Bacone o lo “Studio” eorganizzazioni come l’Indian Arts andCrafts Board dell’Ufficio Affari Indiani(BIA), istituito nel 1935, da un lato fuuna sempre maggiore sofisticazionedelle tecniche – sfondi pieni, tridimen-sionalità, ombreggiatura, realismoanatomico, uso delle pitture a olio e, inseguito, acriliche – e un notevoleconservatorismo nelle scelte dei motividall’altro. Anche se c’è stata unanotevole comunicazione tra gli artistiindiani di tutti gli USA nel corso dimostre, eventi indiani e pubblicazionid’arte, i tradizionalisti del Sudovest edelle Pianure hanno mantenuto i lorotratti caratteristici e continuano ad esserefacilmente distinguibili. Pittori delSudovest come Raymond Naha oPablita Velaverde si concentrano ancorasu cerimonie comunitarie (danzekachina) e preferiscono il dettaglio

Woody Crumboa Bacone.

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etnografico esatto al moto. Artisti dellePianure come Blackbear Bosin o RanceHood dipingono visioni assolutamentedrammatiche dello stile di vita degliindiani delle Pianure del XIX secolo.Dagli anni 1930 – e fino a oggi – lapittura tradizionalista del Sudovest edell’Oklahoma ha dominato il mercatoartistico indiano negli USA ed è giunta arappresentare la pittura indiana ingenerale, più o meno come la pitturanaif comprende l’arte haitiana. Gli artistiindiani hanno così creato uno stile dipittura che ha in definitiva stabilito lostatus quo sulla scena artistica etnica.L’ispirazione veniva dagli indiani, ma lacanonizzazione della pittura tradizionali-sta ebbe luogo fuori delle comunitàindiane. I non indiani che controllano ilmercato dell’arte descrivono, interpreta-no, definiscono e giudicano l’arteindiana e determinano la direzione delsuo sviluppo. La società dominante, conil suo potere d’acquisto, sembramonopolizzare anche l’energia creativadietro il prodotto artistico di unaminoranza etnica. Di conseguenza, ilmovimento dell’arte indiana minaccia disolidificarsi come stereotipo, a meno chei singoli artisti non riescano a spaccarelo stampo.Gli sforzi indiani di confrontarsi con lasocietà dominante, con idee proprie sulsignificato dell’arte indiana nei tempimoderni, sono già evidenti durante iprimi decenni del XX secolo. Fu unodegli argomenti discussi con veemenzaalla prima conferenza della Società degliIndiani Americani – la prima riunioneveramente supertribale di intellettualiindiani – tenuta a Columbus, Ohio, nel1911. Qui, comunque, la questione erase l’arte e l’artigianato indiani rappre-sentavano un impedimento alle politichedi lottizzazione delle terre e le opinionivariavano di conseguenza. Uno deimembri della società, Angel DecoraDietz, pubblicò però parecchi articoliaffermando il potenziale creativodell’arte indiana e diresse uno specialeprogramma artistico a Carlisle, tra il1906 e il 1915, in cui incoraggiava i suoistudenti a usare disegni indiani incombinazione, per esempio, con stiliartistici asiatici. Un simile esperimentonon fu ripetuto fino agli anni Sessanta.

Alcuni artisti indiani – soprattutto OscarHowe, Joe Herrera e Dick West – feceroi primi tentativi per rompere le rigidenorme di Bacone e “The Studio”.Questo è particolarmente evidente nelleescursioni di Oscar Howe nel cubismofin dagli anni Trenta, che però dovetteroattendere parecchi decenni prima diricevere un riconoscimento pubblicopositivo. La pittura tradizionalista cosìrestò praticamente priva di cambiamentifino al 1962, quando venne fondato aSanta Fe il famoso Institute of AmericanIndian Art (IAIA). La nascita diun’istituzione più liberale come lo IAIAgiunse sulla scia del movimento per idiritti civili, che trascinò con sé gliindiani e altre minoranze etniche e unospostamento nella politica indiana degliUSA durante l’amministrazioneKennedy verso il principio dell’autode-terminazione. Mentre la tendenza inistituzioni create durante l’epocadell’Indian Reorganization Act era

chiaramente verso un rigido manteni-mento dello stile tradizionalista, liberoda ogni possibile influenza moderna, lanuova politica lasciava più spazio allasperimentazione. L’attivismo indianoaveva rafforzato l’idea di comunitàindiane vitali e il concetto trito dellaconservazione venne sostituito, almenoin parte, da una politica di laissez faireculturale, di cui l’arte e la letteraturaindiana approfittarono enormemente.Gli studenti dello IAIA vennero istruitisugli stili artistici tradizionalisti e quellicontemporanei non indiani. Conl’assunzione di Fritz Scholder comeistruttore allo IAIA l’arte indianasviluppò una nuova energia dinamica.Scholder, insieme ai suoi studenti, presea prestito liberamente dall’espressioni-smo moderno alla pop art, per fomentareuna vera e propria ribellione visualecontro il tradizionalismo. I motivi eranoancora chiaramente indiani, ma mostra-vano un aspetto più realistico e quindi

Un’opera di Kevin Red Star, crow.A p. 27: Tawa, disegno commissionato daJ. W. Fewkwes ad anziani hopi, 1900.

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N° 14più escluso dalla vita indiana contempo-ranea, come i problemi sociali e larepressione politica. Le figure indianeerano ora ritratte in modo distortooppure comico, in uno sforzo consape-vole di scontro contro quella chequalcuno chiamava con disprezzo la“graziosità da Bambi” della pitturatradizionalista.All’inizio la resistenza degli artistitradizionalisti e dei loro mentori fupronunciata. La nuova tendenza fucriticata come inestetica e corrotta -come “bianca” più che “indiana”. Ma ilpotere del mercato artistico si basa anchesulla sua flessibilità; i tempi nuovicrearono un nuovo gusto tra i comprato-ri e, dopo non molto tempo, i criticicominciarono ad analizzare a fondo gliindiani pop di Scholder o T.C. Cannon ei galleristi a gareggiare tra loro peresporli. I prezzi delle loro opereraggiunsero altezze astronomiche senzaprecedenti. Tele che cercavano di sfidarelo stereotipo tradizionalista vennerotrattate come un genere di forma più“alta” di arte indiana e il loro assorbi-mento da parte del mercato artistico creòancora un altro stallo. Il movimento orapoteva essere categorizzato; divennedifficile un ulteriore sviluppo artistico trai suoi esponenti principali. FritzScholder, per esempio, non ha avuto innessun luogo una simile accoglienzapubblica per la sua opera astratta piùrecente e si può solo speculare su quelloche avrebbe potuto succedere a T.C.Cannon, se non fosse morto in un fataleincidente.Dopo quello che abbiamo detto nonsorprende che ancora un altro movimen-to artistico indiano – o una serie dimovimenti simultanei –si materializzas-se negli anni 1980. È dominato da artistiche hanno frequentato regolari accade-mie d’arte negli USA e in Europa, dovela loro origine etnica non era di primariaimportanza per il curriculum e molti nonprovenivano né dal Sudovest nédall’Oklahoma. Di conseguenza, essisvilupparono stili individuali chepotevano, ma non necessariamente,essere visibilmente connessi con la loroeredità indiana. Parecchi avevano fattocarriera senza i vantaggi o gli svantaggidi un mercato d’arte etnica. Alcuni,come James Havard e il suo illusioni-smo astratto, furono pionieri di uno stiled’arte moderna che superficialmente

mancava di punti di riferimento indiani;altri dipingevano motivi indiani neglistili artistici occidentali convenzionali,senza però mirare a confrontarsi con lapittura tradizionalista. L’artista indianoora diventava un artista con origineindiana e lo stesso termina arte indianarischiò in pericolo di perdere il suosignificato. Un intero agitarsi di nuovecategorie (individualista, nonconformi-sta, panindiano, sperimentalista), createdagli studiosi di arte indiana, confermasemplicemente la confusione. E tuttavial’origine indiana restava importante peril lavoro di questi ribelli contemporanei,come lo era stata per i tradizionalisti.Mentre respingevano l’etichetta etnica,essi continuavano a sentire un’affinitàcon altri artisti indiani che reclamavanola stessa indipendenza artistica. Inseguito a incontri accidentali, a eventi emostre o conoscendosi attraverso articolie passaparola, alla fine svilupparono unarete informale che assomigliava di più aun’organizzazione di aiuto che a unmovimento o una scuola artistica.Anche se il loro stile era individuale,condividevano il desiderio di rompere iceppi dell’arte etnica e mantenere la loroposizione come artisti e indiani liberi daldipingere lo stereotipo indiano. Mentreerano guardati anche con sospetto dalmercato artistico, alcuni unirono le forzeper farsi maggiore pubblicità. Nel 1981,per esempio, il C.N. Gorman Museumdell’Università di California a Davis,diretto da un indiano, e il Museo delSudovest a Midland, Texas, organizza-rono insieme una mostra intitolata“Confluenze di tradizioni e cambiamen-to”. Gli artisti esposti provenivano davarie regioni degli USA e rappresenta-vano un’ampia selezione di stili artistici.La mostra, come altre che seguirono, eracompletata da materiale scritto in cui leopere presentate erano analizzate daalcuni degli artisti partecipanti, spezzan-do così un’altra prerogativa dell’esta-blishment artistico angloamericano.Con questa nuova tendenza, il movi-mento artistico indiano perde la suaprecedente unilinearità e diventa dinatura atomistica. Alcuni dei quadriastratti di George Longfish, EmmiWhitehorse o Jaune Quick-to-SeeSmith, rendono quasi impossibilescoprire il filo che conduce lo spettatoreall’indietro nella storia dell’arte indianaalla comunità indiana. I critici e gli

BibliografiaBrody, J.J., Indian Painters and White Patrons,Albuquerque,NM 1971;Hertzberg, H.W., TheSearch for an American Indian Identity,Syracuse, NY 1971; Highwater, J., Songs fromthe Earth, Boston, MA 1976; Hoffmann, G.,ed. Indianische Kunst im 20.Jahrhundert,München 1985; Longfish G.,-Randall, J.,Contradictions in Indian Territory. In: Contem-porary Native American Art, Stillwater OK1983; Schulze-Thulin, A., Indianische Malereiin Nordamerika, Stuttgart 1973; Silberman, A.,100 Years of Native American Painting, Okla-homa City, OK 1978; Tanner, C.L., SouthwestIndian Painting, Tucson AZ 1957; Wade, E.-Strickland, R., Magic Images, Norman OK1981.

storici dell’arte possono trovarsi amettere in dubbio il vuoto esistente traarte “etnica” e “alta” e trattare gli artistiindiani individualmente, come tendonoa fare con gli artisti europei e americani.In tal caso, i quadri astratti degli indianicontemporanei possono avere piùsignificato nel contesto dei movimentiartistici generali, ove l’origine indiana èsolo un altro tratto differenziante.Fortunatamente, la continuità è ancoraevidente nelle opere della maggior partedei pittori non tradizionalisti, compresiquelli appena menzionati. I kachina diFewkes affiorano ancora nei quadriastratti di Dan Namingha e i disegni suilibri mastri riappaiono nei collage diRandy Lee White. La scurrilità daBuffone Divino prevale nelle lettere enelle sculture indiane di Richard GlazerDanay, mentre antiche leggendesopravvivono nelle delicate composizio-ni di Frank La Pena. Gli esempi possonoessere moltiplicati dal numero di artisti ele varie fasi dello sviluppo del loro stileindividuale. C’è abbastanza movimentonell’arte indiana contemporanea da dareil mal di testa a chi apprezza predicatiprecisi.

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Keeper of Visions, “Il custode delle visioni dell società Wabinonwiin dei tre fuochi” (par-ticolare). Acrilico su tela di Norval Morrisseau. Un’ampia biografia dell’artista e unamostra on-line di alcune delle sue opere è al sito: http://cs.fdl.cc.mn.us/~isk/art/morriss/art_morr.html

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N° 14

Francesco Spagna

Innanzitutto vi è un (delicato) problemadi definizione: gli artisti dei qualiproviamo a dare un rapido profilo sisentono i continuatori di una tradizionepre-coloniale e gli alfieri di un’identitànativa culturalmente e politicamenteoppressa. Rifiutano che le diverse eindividuali modalità stilistiche otematiche attraverso le quali esprimonoloro stessi, il loro passato tribale o illegame con la natura possano venire inqualsiasi modo etichettate, e cosìbanalizzate, ancora una volta, ridotte in“riserve” intellettuali. In modo forseancora più sofferto e controversorispetto agli artisti europei o americani,rifiutano che sulle loro opere vengaesercitata una critica, nel senso dellacritica d’arte convenzionale. Ogniapproccio definitorio applicato alla loroarte non fa che accrescere la distanzaculturale e la chiusura etnica. Non siriconoscono come “contemporanei”, sequesto li costringe in scansioni temporaliestranee alla tradizione alla quale fannoriferimento. Non sono “artisti nativi” sequesto significa inscatolarli in un genere,più o meno pittoresco, che appare loroghettizzante e privo di senso.Sostanzialmente chiedono di esserelasciati liberi nel loro percorso esisten-ziale ed espressivo, spesso marcato da

forti ambivalenze e sofferte integrazionicon la società dominante. Liberi di usareacrilico su tela o di tornare, se lodesiderano, a tingere aculei di porcospi-no con tinte naturali. Liberi dalla lorostessa tradizione se questa arriva alimitare le loro capacità espressive.Fondamentale è ascoltare e capire le lorostorie personali e le loro visioni spiritua-li. Sono questi due aspetti, a un tempoindividuali e collettivi, a innescare il“fuoco della controversia”, e a farscaturire imprevedibili possibilitàcreative.Norval Morrisseau, nato nel 1932 in unapiccola riserva a nord del Lago Superio-re, in Ontario, è una figura quasileggendaria: pioniere e iniziatore dellacontroversia sull’“artista nativo” (neinostri termini, caposcuola) e, verso lafine degli anni ’50, della cosiddettaScuola delle Woodlands, è una grandepersonalità artistica per la grande forzacromatica nelle sue opere. Temperamen-to da “artista maledetto”, passa attraver-so la sua “stagione all’inferno” nellemetropoli americane, cadendo preda diuna grave forma di alcolismo, è unartista/sciamano, che eredita in particolarmodo le conoscenze esoteriche dalnonno materno e decide di trasporlenella sua arte. Viene criticato e attaccatodai tradizionalisti, che lo accusano didivulgare contenuti esoterici tramite la

sua arte e perché celebra cerimoniepersonali. I suoi quadri raffiguranoprincipalmente animali e personaggimitologici, rappresentati con linee nerestilizzate nelle composizioni cromatiche.Le sottili linee che si dipartono daisoggetti indicano l’irradiazione delpotere spirituale, o i fili connettivi cheuniscono insieme tutti gli esseri viventi;in ognuno è raffigurato un cuorepulsante che rappresenta la pulsazioneuniversale della vita. Le “linee delcuore” rimandano direttamente aglistilemi dell’arte sciamanica e a quellarupestre paleolitica.Morisseau ha raggiunto una notorietàinternazionale e le sue opere sono moltoben quotate sul mercato dell’arte, èdiventato membro della RoyalCanadian Academy of Arts e ora vivecompletamente isolato dal mondo, inqualche posto in British Columbia, noncomunica più con i suoi agenti eminaccia di appendere tutti i suoi quadrinei boschi, perché la natura se liriprenda. Riassume così la sua poetica:«Sono cresciuto in mezzo a molte storiee leggende del mio popolo. I miei dipintirendono onore agli antenati ani-shinaabeg che per secoli e secoli hannomigrato nei Grandi Laghi. La mia artetestimonia e conserva le leggende, leforme d’arte, le canzoni e le credenzedegli ani-shinaabeg, non solo per

Arte sciamanica e identità ritrovate nelle Woodlands.

Arte anishinaabe

Artisti canadesi

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HAKOMAGAZINEquesta generazione, ma anche perquelle a venire. Il mio popolo crede chela terra sia la loro madre e che noisiamo i figli della terra. Nello spiritosiamo una sola cosa. Dipingo con questicolori per guarire».Molti artisti anishinaabeg hanno raccoltoil suo esempio e continuato il suo stile.Tra essi vanno ricordati, ad esempio,Roy Thomas in Ontario e Donald B.Peters nel Manitoba. Altri hannosviluppato uno stile più personale, earricchito la loro poetica. Difficiledecidere da dove cominciare. La grandeisola di Manitoulin (Isola degli Spiriti),sul lago Huron, è stata la culla diinteressanti personalità artistiche eattualmente ospita numerose galleried’arte e un notevole fermento culturaleper la ripresa dei valori tradizionalianishinaabe.James Simon Mishibinijima, nato aWikwemikong, riserva nella grandeisola di Manitoulin che non firmò iltrattato del 1862 con il governo canade-se, per cui tuttora il suo territorio vienedefinito unceded land, si è formato,come altri artisti della stessa riserva, allaLaurentian University e ha esposto lesue opere in tutto il Nord America e inEuropa. Usa principalmente acrilico eolio su tela per i suoi spirit paintings,che prendono forma in una condizionequasi estatica, dopo notti di fila di lavoroininterrotto. Una serie famosa raffiguradei paesaggi viventi: le formazionirocciose appaiono come figure umane oanimali: la testa e il dorso seguonol’andamento morfologico degli affiora-menti pre-cambriani dello Scudocanadese che si vedono lungo la costasettentrionale dell’isola Manitoulin. Laparte inferiore del corpo rimane celatasotto la superficie dell’acqua, a rappre-sentare la connessione tra i due principa-li livelli terrestri. Queste figure fannopensare a grandi eroi mitologici inmovimento, cristallizzati in un rilievoroccioso, come quelli rappresentatinell’arte aborigena australiana. Il corpodelle figure si può vedere in trasparenza,come nell’arte paleolitica: all’interno sipossono scorgere gli organi interni e ilsistema circolatorio. Tutto questo perrappresentare, come ha sottolineatoTheresa Smith, un paesaggio che vive,che respira. «Arte nativa, precisa JamesSimon Mishibinijima, È solo un’altraetichetta. [...] puoi chiamarla arte

spirituale, insegnamento. Per me è comeparlare attraverso la terra - esprimerese stessi attraverso i colori della terra.Noi tutti veniamo da qualche luogo. Lenostre radici sono nella Madre Terra,non tagliamole via. Quando uno perdela sua identità di nativo o di personadella Madre Terra, è questo il momentoin cui comincia a farsi del male. Se tudanneggi l’acqua, ti fai del male. Sedanneggi il cielo, stai danneggiando testesso». Le fonti di ispirazione, percomprendere in profondità le gradazionicromatiche, vanno cercate nella natura.La dimensione urbana al contrarioinibisce, per lui, il processo creativo: incittà «la parte creativa di te stesso» nonriesce a venire in superficie.Blake Debassige, nato e cresciutonella riserva di West Bay, sempre aManitoulin, come Simon Mishibinijima,è scettico rispetto agli artisti nativi dicittà, e preferisce definirsi più cometraditional painter che come contem-porary. Il suo stile è inconfondibile. Itemi dell’arte sciamanica, come la“visione a raggi x” o la “linea delcuore”, sono rielaborati in tratti sinteticied eleganti. Le figure umane sonospesso rappresentate in metamorfosi,con zampe e artigli all’estremità degliarti (come gli arctokeir dell’anticaGrecia). Viene messo in evidenza ilpotere spirituale dei soggetti, la comuni-cazione tra gli esseri e i loro sentimenti,in una sorta di rarefazione. Anche glielementi decorativi di sfondo hannospesso precise connotazioni mitologichee sacrali. Il tutto ha qualcosa di sottil-mente allegorico, un po’ come certeopere di Chagall. Gli elementi di

commistione possono anche essereculturali e sincretistici. Debassigedivenne famoso per l’opera Tree of life,commissionata da un gruppo cristianonativo. La raffigurazione dell’albero dicedro, il più sacro albero sciamanicodegli Ani-shinaabeg, attorniato daiprincipali spiriti animali, è messa “incroce” e lungo il tronco emerge la figuradel Cristo. Sotto i rami, in mezzo ainumerosi uccelli, si scorgono i profilistilizzati degli evangelisti. Ai simbolidella Midewiwin, la principale societàsciamanica algonchina, sono giustappo-sti simboli trinitari. L’artista precisa chesi tratta di un opera commissionata, eche cerca di mettere su tela le idee diquel gruppo, non necessariamente lesue. Il sincretismo del Cristo/albero ècomunque stupefacente. Il prete dellacomunità lo giudicò blasfemo: «Haimostrato i genitali di Cristo, disse, noncredo che la comunità lo accetterà»;«Pensavo che Cristo fosse un uomo,rispose Debassige, forse che gli uomininon hanno genitali? Io li ho!».In un’altra opera divenuta il manifesto diuno spettacolo teatrale, Nanabush of the80’s, il Trickster della mitologia tribale èraffigurato come un uomo-lontra con ilcappello da cow-boy, il codino, giacca dipelle e stivali con gli speroni. Nellezampe/mani stringe le bacchette deltamburo, come una rock star. Lecollezioni di Blake Debassige sono stateesposte al Royal Ontario Museum, alMuseum of Civilisation di Ottawa e almuseo etnografico di Stoccolma. Vivesempre a West Bay, nel Kasheese studio,insieme alla sua compagna ShirleyCheechoo.Shirley Cheechoo, una Cree della JamesBay, si discosta notevolmente dallo stiledelle Woodlands. La reazione comunedi fronte alle sue opere dedicateall’infanzia è: “quest’opera è naif”.Figurine di bambini giocano in unpaesaggio invernale di alberi spogli;sullo sfondo i raggi di luce dell’auroraboreale. In realtà non c’è in Shirleyproprio nulla dello spirito naif e le sueopere sono delle sofferte istantanee dimemoria tribale. Come molti altribambini nativi, Shirley fu mandata nellescuole canadesi correttive, le famigerateresidential schools. In queste scuole,separati dalla casa e dalla famiglia,questi bambini venivano istruiti adisfarsi della loro identità nativa. Usciti

Norval Morrisseau a Parigi.

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da queste scuole, poche erano lealternative all’alcolismo e all’abuso disostanze. «Questi dipinti, dice Shirley, inrapporto a quanto ho passato nella miavita di bambina e di adolescente, sonoallegri. Per me rappresentano una sortadi perdono. Quando provo rabbia perqualcosa, dipingo, e la rabbia se ne va.Sto cercando di mettere su tela il miosenso del perdono (…).Tutto quello che non condividi connessuno è molto sacro. Penso che cisiano un sacco di cose nell’opera d’arteche solo l’artista vede. (...) Cose moltopersonali, che dovrebbero essere sacreper un artista. Come gli alberelli grigiche metto nei miei dipinti, sono moltosacri per me perché sono ciò che ci tienein vita - questi alberi».Con Leland Bell torniamo a Wik-wemikong e all’eredità sciamanica. Iriferimenti espliciti nelle opere di questogiovane artista sono quelli dellatradizione Midewiwin: il cromatismo èscintillante e profondo, le figure, insiemeaustere e protettive, sono quelle degliantenati. Una tra le sue opere più belle(si tratta di grandi acrilici su tela, chevanno assolutamente visti dal vero) si

intitola Winter Warmth, il caloredell’inverno. Le parole, l’eredità (el’affetto!) degli antenati sono avvolti nelchiarore e nella purezza invernali; i loroinsegnamenti sono conservati e cristal-lizzati in questo silenzio. «Il nostropopolo, dice Bell, non scomparirà mai.Forse hanno avuto successo nelcivilizzarci - qualunque cosa questosignifichi - negli ultimi 200 anni o quelche era. Ma non significa che noiabbiamo realmente perduto qualcosa.Forse il mio bis-bis nipote nascerà ericeverà in sogno i doni del Creatore -eccolo rinascere ancora. È qualcosache non ha niente a che fare conCristoforo Colombo, professoriuniversitari o cose del genere. Non haniente a che fare con gli antropologi ocon il modo in cui essi hanno catturatoun particolare evento nel tempo. Lanostra cultura evolve continuamente, eciò che io sono come artista nativo èsemplicemente essere parte di questotempo presente e dare il mio contributo -per comunicare».Di molti ancora si potrebbe parlare. Adesempio, anche in David Johnson, dellariserva di Curve Lake, in Ontario,

riecheggia la mitologia anishinaabe, eviene ripreso lo stile delle incisionirupestri del vicino sito di Peterborough.Se viaggiate per il Canada e siete direttialla Georgian Bay, non mancate dipassare per lo studio di Arthur Shilling,nella riserva di Rama, Ontario. I ritrattiche questo artista prematuramentescomparso ha dedicato alla sua gente sitrovano conservati nella casa da luistesso costruita, e sono ora affidati alleamorose cure di Amelia Shilling. Sitratta di un autentico diamante, nascostonei vicoli scalcinati della riserva.

BibliografiaSmith T., Beyond the Woodlands: FourManitoulin Painters Speak Their Minds,“American Indian Quarterly, 18, 1, 1994;Podedworny C., Woodlands: ContemporaryArt of the Anishnabe, Thunder Bay ON 1989;Southcott B., The Sound of the Drum: TheSacred Art of the Anishnabe, Erin ON, 1984;McLuhan E., Hill T., Norval Morrisseau andthe Emergence of the Image Makers, TorontoON, 1984; Morrisseau N., Legends of MyPeople, the Great Ojibway, Toronto ON 1965.

Pittura moderna nel tipico stile anishinaabe

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Joe e Maria Garcia di fronte alla Taqueria. Foto di Brenda Norrell

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Brenda Norrell

Appena giù dalla strada dopo lafabbrica del ghiaccio color blualgido e l’odore di mais arrostitoche emana dalla fabbrica ditortillas, il Café Cultural ha apertocome celebrazione alla vita,facendo risuonare le forti vocidelle poetesse indigene.Durante la grande apertura ilgiorno prima della Festa dellaMamma, la proprietaria MariaGarcia, indiana tarasca e suomarito Joe Garcia, governatoredella nazione o’odham del Sonora,Messico, hanno dedicato il centroalle donne e ai bambini massacratiad Acteal, Chiapas. «È il mio donoa quelli che lottano in questolavoro», ha detto la signora Garciaa proposito della lotta per i diritticivili e umani indigeni nella zonadi frontiera e in Messico.La poetessa Jessica Jaramilla,membro della tribù tigua di ElPaso, Texas, si è unita alla premia-ta autrice Demetria Martinez, allacommediografa di Tucson SilvianaWoods e alla poetessa guatemalte-ca Nancy Rosas nella celebrazione.Le poesie di Jaramillo eranoofferte d’amore, una alle donne distrada che conducono una vitadifficile e un’altra gentile poesia inlode di sua madre, un’indiana

tigua. “Amore vecchio come ilmais” era dedicata a sua madreConcha, «che vale più di quelmetate dietro la vetrina». «Le tueossa e le ossa dei tuoi antenatistanno morendo per essere scavateda qualche archeologo, se nonl’hanno già fatto. Tu madre seiantica come il mais …» ha lettoJaramilla. Insieme al suono delviolino, della chitarra e deltamburo, c’erano anche i vecchicanti degli o’odham, waila egraffio di pollo. Il governatoreGarcia ha detto: «Questo fa partedella nostra cultura». Durante lafesta, che è durata tutto il giorno,Jim Funmaker, un ho-chunk elakota del Wisconsin, ha offertouna benedizione e ha affermato:«Noi, popoli nativi, siamo prigio-nieri nella nostra terra. C’è unaguerra in corso; stiamo lottandoper il diritto di vivere». Parlandodello stupro del Messico da partedei conquistadores e del genocidiodei popoli indigeni in tutto ilmondo, ha detto: «La verità è pertutti».Il Café Cultural, adiacente alcaffè-taqueria nella South SixthAvenue, sorge al posto di un exristorante cinese. I muralisti localihanno dipinto i suoi muri conscene di vita o’odham, compresauna donna che macina il grano. I

muri sono coperti anche da foto difrutta fresca, mentre l’aroma deifrijoles e dei peperoni esce dallacucina. Gli scaffali sono pieni dimanghi e papaie che servono perfare i succhi di frutta, bevandafavorita del nativo Michoacán,Messico, della signora Garcia.Durante la giornata di poesia,pinatas e canzoni del TucsonLabor Chorus, c’era pane frittocon peperoncino e una mostra diartigianato o’odham e yaqui.Membri del gruppo di sostegnozapatista Pueblo por la Paz hannofornito notizie aggiornate sull’ag-gressione ai villaggi indiani delChiapas e sul fallimento deicolloqui di pace. Definendosi unachicana del New Mexico, lasignora Martinez ha detto agliastanti che stava celebrando il suodecimo anniversario dell’accusafederale di cospirazione per averfatto entrare dei clandestinisalvadoregni. La Martinez, excronista di Albuquerque, furilasciata e in seguito ha scritto“Madrelingua”, che ha vinto ilpremio letterario Western States eun recente libro di poesie, Brea-thing Between the Lines. «Se unapoesia non è amore, è rumore», hadetto la Martinez, prima di leggerealcune stanze all’America, definitaun amante che l’ha tradita.

Un caffè di Tucson, Arizona, è un centro che appog-gia gli zapatisti, i diritti di confine e i diritti umani inMessico.

Il Café Cultural indiano apre ai diritti umani

Centri culturali

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La poetessa guatemalteca NancyRosas ha celebrato la vita nelmercato e ha avvertito che l’ama-rezza può creare buchi nelleparole e togliere la capacità diamare. Ha letto di sua madre, chel’ha guidata nel celebrare la vita escoprire la propria voce. «Il postodella madre non è in cucina», hadetto. Invece, la sua cucina inGuatemala era un luogo di risana-mento e canto, un posto di acqui-sizione di potere verso il propriodestino.Silviana Wood, commediografa eattrice, ha letto poesie che parla-vano di Tucson prima delle autocon l’aria condizionata e haraccomandato di camminare apiedi nudi dopo le fulmineealluvioni che inondano le strade diTucson sud.Irene Arce, studente per undottorato, ha letto una ricercauniversitaria sulla partecipazionedelle donne al movimento zapati-sta. La Arce ha rivelato come ledonne maya abbiano arruolato imariti nella cura dei bambini el’aiuto domestico, mentre lorolottano per la giustizia.

Brenda e Karen Olson, indianecree-ojibwa del Manitoba, Cana-da, erano tra le altre duecentopersone presenti all’inaugurazio-ne. Le sorelle Olson hanno affer-mato che gli indiani che vivonolungo il confine tra gli USA e ilCanada fanno fronte alle stessevessazioni da parte delle guardiedi frontiera e dei funzionaridell’immigrazione di quelli chevivono lungo il confine con ilMessico. Karen Olson ha dettoche non è raro che le piume dipreghiera e altri articoli religiosisiano confiscati, quando gliindiani attraversano il confine perpartecipare alla Danza del Sole ealtre cerimonie.Visto come un nucleo per la lottaper i diritti umani indigeni, il CaféCultural fornisce una sede alla«Alleanza Indigena Senza Confi-

ni». L’Alleanza è stata fondata daiconiugi Garcia e dal leadercerimoniale Jose Matus. Durantel’inaugurazione i Garcia hannoofferto il Café Cultural allacomunità per mostre fotografiche,pre-visione di film, letture dipoesie, lezioni d’arte e regolariconferenze e incontri. Mentrericordava le donne uccise nelvillaggio di Acteal, il Café Cultu-ral ha offerto un messaggio disperanza.

Vaso moderno nel tipico stile della ceramica nera di Santa Clara pueblo.

Sotto: Logo della campagna contro lacensura su Internet. Il “nastro blu” indi-ca la lotta per la libertà di espressione econtro la censura.

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Premettendo che la demenza razzistanon conosce confini razziali, ricordiamola campagna che intellettuali e libreriestanno conducendo contro la censura dicapolavori dell’arte e della letteraturamondiale da parte dei comitati cittadinigestori delle biblioteche pubbliche escolastiche negli Stati Uniti. Questacampagna, che vede il Texas distinguer-si per chiusura e zelo bigotto, staeliminando dalle biblioteche civiche escolatiche testi di Shakespeare come “Ilmercante di Venezia” con l’accusa diantisemitismo, “La dodicesima notte”come immorale (filo gay), e l’Othello,tutto Mark Twain, Moby Dick diMelville, come testi che fornisconoun’immagine offensiva degli afro-americani (per l’uso dei termini oggiritenuti politicamente scorretti di nigger,negro ecc.), il Giovane Holden diSalinger, per razzismo e immoralità,tutto Bukowski per sessismo (eimmoralità) e via censurando.Sotto la spinta dei gruppi etnici, tuttiattenti a non perdere la propria autosti-ma e, spesso, occupati solo a guardarsil’ombelico, reazionari e fondamentalististanno portando avanti una campagna diodio contro la cultura in genere e ilmulticulturalismo in particolare chepotrebbe far sorridere anche Hitler eKhomeini nell’al di là, memori dei lororoghi di libri e delle condanne a morte diautori scomodi, ma col difetto di essereancora vivi.Poichè la storia umana è tragicamente

illuminata dai roghi degli intellettualinon politicamente allineati e poichèquesto numero di HAKO tratta dell’arteci chiediamo: ci saranno autori nativiposti all’indice?La domanda non è futile perchéscorrendo anche queste poche paginemolti si accorgeranno che da alcune diesse spira un certo qual aroma dinascosto odio etnico che può esserecompreso alla luce della storia e dellestorie personali.Secondo i canoni del politicamentecorretto questi “manufatti intellettuali”dovrebbero essere banditi in quantoinneggianti all’odio razziale sia per laforza degli stereotipi che propongono, i“bianchi cattivi” indifferenziati emacchettistici, americani tutti uguali,alla faccia delle differenze tra -americani(ebreo-americani, italo-americani,pakistano-americani, cino-americani,coreano-americani, ecc.) e per l’assenzadegli altri gruppi , neri, asiatici, ispaniciecc. che proprio per questa loro invisibi-lità dovrebbero trovarsi l’autostima sottole scarpe. Un altro motivo conduttoredell’arte indiana sembra essere ilproblema dell’identità vista comeretaggio razziale del sangue, che deveessere biologicamente (e razzialmente)puro. Questo fatto crea una fratturaanche all’interno della comunitàintellettuale indiana tra sangue puro esangue misto, tra indiani urbani detriba-lizzati e di riserva.Tony Arkeketa, purosangue Pona-Oto-

Missouri e politico dell’Oklahoma ci hascritto: «Non sono né romanziere népoeta, ma un tradizionalista, perciò ilconvegno degli scrittori indiani haguardato per primo a me per presentarsiagli altri scrittori con lo scopo di avereuna guida importante nei loro scritti“creativi” sulla nostra razza. Ci sonopersone che si autopromuovono, chetalvolta hanno bisogno di guida». Alladomanda su cosa intendesse per “guida”e su cosa pensasse sulla tematica del“meticcio” sviluppata dai maggioriscrittori indiani e sull’essere indianocome fatto della mente e non strettamen-te di sangue, egli non ha dato risposta.La società americana è divisa in caste eclassi e ogni etnia, lottando contro tuttele altre, cerca di conservare la propria“nicchia” di privilegi; perduti tranazionalismo pan-indiano e nazionali-smi tribali, incantati dal mito di unpassato che si fingono edenico, gliintellettuali e gli artisti indiani nonsembrano nel complesso esserneconsapevoli.Resta tuttavia il fatto che finora gli autoricensurati per motivi razziali e moralisticisono dei pilastri della cultura europea edamericana. Il politically correct vale asenso unico, ma si abbatterà con la suafuria interetnica anche su coloro cheoggi sembra proteggere.

Per chi vale la correttezza politica e cosa signi-fica rispetto delle tradizioni altre?

Censura etnica e politically correct

Censura

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Vilma Ricci e Giovanni Grilli

L’ultimo romanzo di ShermanAlexie, Indian Killer, pubblicatoda Frassinelli, si distanziastilisticamente dalle suggestionidegli esordi poetici del giovaneautore indiano. Distanti sono iluoghi dell’azione rispetto aiprimi due libri fortunati, LoneRanger fa a pugni in Paradiso eReservation Blues, semprepubblicati da Frassinelli,ambientati nella cruda realtàdella riserva. Alexie ha lasciatoda alcuni anni la riserva spoka-ne per vivere a Seattle, un’in-tensa, frastornante realtàurbana che ingloba, oltre aibianchi, ai neri, agli ispanici eagli orientali, anche “indiani dicittà”, nativi americani che perdiverse motivazioni e destinihanno finito per urbanizzarsi. Enel cuore di questa città com-plessa ed estrema si svolgel’azione di Indian Killer. Unbambino appena nato da unamadre adolescente viene dato inadozione a un’agiata coppia chegli garantirà cibo regolare, studiregolari, amicizie regolari etanto, sincero amore da farsupporre che la devastazione dicinquecento anni di colonizza-zione esterna e interiore possatrovare lenimento. Ma non sarà

così. La scuola, la palestra, lefeste tra ragazzi ricordanoferocemente in ogni momento aJohn Smith (anche la banalitàdel nome ha i suoi riferimentisimbolici) la sua diversità.D’altro canto il suo sforzo per«fingersi un indiano vero» èaltrettanto perdente. L’amorosa

premura dei genitori adottivi nelrifornirlo dei riferimenti indianipiù svariati e banali (libri,musiche e altri feticci) non bastaa curare la sua identità in bilicofra due mondi, anzi contribuiscead approfondire l’abisso. L’unicovero alleato di John nella suadisperata ricerca è Padre Dun-

Un thriller a sfondo razziale sulla drammaticaconvivenza fra indiani e bianchi nell’America dioggi.

Indian Killer

Recensioni

Sherman Alexie e Giovanni Grilli alla libreria Elliot Bay Book Company di Seattle.

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N° 14can, una singolare, benevolafigura di gesuita indiano, eccen-trico e lunare. Ma Padre Duncanha già percorso il suo dolorosocalvario e un giorno se ne andràverso un deserto assolato e senzavita. «Era montato sul confinedel mondo e ne era uscito». Johnrimane ancora più solo, in predaai suoi fantasmi e alle suevisioni. A scuola è sempre unostudente modello «relegando lasua rabbia in un angolino buio».Cerca una vita normale, lontanadalle ambizioni dei genitori chelo vorrebbero laureato. Approdaal mondo del lavoro nel cantieredel mitico «ultimo grattacielo diSeattle».Questo rischioso lavoro, cheJohn svolge con zelo ammirevo-le, in silenzio, come l’officiante diun antico rituale, gli consente unpercorso a ritroso nei ricordi.«Camminò lungo il traliccio edentrò nel refettorio … dieci anniprima». Le storie del passato siintrecciano con quelle attualicreando nuovi racconti nelracconto, popolando la scena dinuove presenze, nuovi protago-nisti e antagonisti. Marie, unasplendida figura di coraggiosaattivista indiana, si muove congrazia e disinvoltura nel degradometropolitano. Anche Marie,come John, sfida i suoi fantasmi,combatte le sue drammaticheincertezze e vive le sue dramma-tiche certezze. E poi Reggie,l’ambizioso, sfrontato indiano diriserva trapiantato in città, chesconta nei suoi comportamentiarroganti una vita di umiliazionie sopraffazioni. E ancora, ilmondo tenero e notturno diCornelius e Zera, una coppia diindiani urbani ridotti a vivere dabarboni. Da orfani, da sradicati,tutti esprimono il loro disagio,combattono le loro paure … Ilcomune denominatore è ancorala riserva, vissuta in primapersona, sfuggita con tutti imezzi, detestata e sognata contutte le forze. «John visita spessole riserve indiane alla ricerca disua madre, di risposte, di unaspecie di famiglia». Il fuoco che

arde nel suo petto è il simbolodella situazione esplosiva cheegli vive e rappresenta il disagiodi tutti gli indiani urbanizzati.Si sente senza via d’uscita,adottato e nutrito da un mondoche lo rifiuta e lo emargina. Lacondizione alienante che eglivive gli procura una grandesofferenza sia fisica che psichica.Non ha alternativa se non quelladi ripercorrere la strada di

Padre Duncan. Ma prima diabbandonare la scena devecompiere un atto simbolico,dirompente, estremo: eliminarel’uomo bianco, per uscire dallapropria invisibilità, rendendocosì visibile la massa di indianiemarginati che lo circonda.La volontà di John Smith simaterializza attraverso leripetute azioni di un IndianKiller. Il killer esegue il suoprimo omicidio e si avvia acommetterne altri ancora. Lesue vittime sono casuali marigorosamente maschi e di razzabianca. A suggellare la suaazione egli depone vicino alcadavere due penne di gufointrise di sangue. Gli omicidiscatenano nella città umoriambivalenti: un’ulteriore deva-stazione in un mondo metropoli-tano già tanto devastato. «Alcuniindiani provarono uno stranomisto di sollievo e timore, come

se stesse cominciando a realiz-zarsi una profezia apocalittica».Bande di bianchi si scatenano invendicative ronde notturne apicchiare e mutilare indianimacilenti, senza casa …Il romanzo è un thriller e rispet-ta le regole di un certo generepoliziesco per il crescendo diautentica tensione che generanel lettore, ma è anche capace disovvertire ogni regola stilisticain improvvise impennate diautentico lirismo. Anche nelledescrizioni più crude Alexiemantiene un controllato sensodella misura, una delicatezzasorprendente. Per non parlaredella proverbiale ironia indiana,che trova qui più occasioni peresprimersi: «Hai solo adottatoun bambino indiano e l’haichiamato John Smith? Naturaleche parla da solo». Verso la fineJohn ripercorre con la memoriail suo primo approdo di neonatoa Seattle. Lo stupore gioioso deisuoi genitori adottivi. E, primaancora, “ricorda” la sua nascita.Dà ulteriori spiegazioni alla suavita già tanto spiegata e afflitta.«Ciò aveva aperto una primaferita interna e da allora Johnnon aveva mai smesso di sangui-nare, di morire, di disseccarsi,finché era rimasto solo un gusciovuoto alla mercé del vento deldeserto». John Smith ha compiu-to la sua faticosa catarsi. Haconcluso il suo viaggio nelmondo dei bianchi ed è prontoper l’estremo sacrificio, quellodella sua vita. «Troppo malatoper poter guarire», tornerà suiponteggi del suo grattacielo peril suo ultimo volo, non piùmetaforico, ma reale, a precipiziosulla città. Una parte di Johnrimane prigioniera di un grigio,anonimo marciapiede, ma un’altraparte – quella che ha rincorso pertutta la sua breve vita – si èfinalmente liberata e si incammi-na verso un deserto che non è piùil luogo oscuro e rovente dove erascomparso Padre Duncan, mal’approdo dolce e sicuro dove loaspettano sia il prete che la suagiovane madre indiana.

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Sandro Scarso

Indian Killer, di ShermanAlexie, è un libro difficile dagiudicare per un lettoreappassionato del genere“giallo”: infatti, pur ripren-dendo palesemente la modadel romanzo sul serial killer,nei contenuti ha poco o nientedei requisiti che mi aspettavodi trovare. Si tratta di unaspecie di operazione depistan-te che parte fin dal titolo, cheè lo stesso dell’edizioneoriginale.L’autore era per me un per-fetto sconosciuto, ma devodire che, anche dopo averloletto, inquadrarlo è alquantolaborioso e, di sicuro saràmiglior poeta, ma è cattivogiallista. Mentre faticavoattraverso le 381 paginedell’edizione italiana, mi ècapitato spesso di rileggere laterza di copertina, perché nonriuscivo a credere che sitrattasse di un autenticoindiano, Spokane o altro.Tante infatti sono le forzatu-re nel disegnare le figure deiprotagonisti in modo “politi-camente corretto”, che midomandavo se non fosseroeccessive. Per spiegarmimeglio, avevo la stessa im-

pressione che capita quando silegge un autore maschile chevuole a tutti i costi raccontarci

delle donne e dei loro problemi,magari anche in prima perso-na, ma è sempre troppo sopra

L’ultimo romanzo di Alexie stroncato da unospecialista di storie gialle, nere e complotti vari.

Uccidete l’Indian Killer !

Controrecensioni

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N° 14le righe. Il linguaggio delromanzo, poi, è difficile e,spesso, farraginoso, mentre ilcontenuto mi ha fatto pensareche corrisponda a una precisaoperazione politica, che mira arendere l’autore un gurumoderno della causa di un’élitedegli indiani americani.Una stroncatura per essere taledeve avere delle motivazioni ecosì, primo problema, Alexieaffronta per la prima volta ilgenere e sceglie di utilizzareuna struttura narrativa piutto-sto frequente tra gli scrittori distorie “gialle”, che si basa su uncambio continuo dei piani delracconto e dei protagonisti diogni capitolo. Ma quello cheproprio non convince è la sceltadi arrivare fino alla fine senzadare una soluzione credibile aicasi di omicidio narrati. Latrama, in sostanza, risultapriva di un preciso filo condut-tore e non costruisce i presup-posti per arrivare a tirare lefila dei vari scenari aperti daidiversi piani narrativi. Ilfinale, che non è un finale,non regge, a mio avviso, allacritica ed è francamentetroppo per chi si è avventu-rato a leggere le quasiquattrocento pagine. Secon-do problema: i personaggisono esagerati, costruiticome marionette politichee, in particolare, lo è lafigura della studentessaMarie Polatkin, su cuisono scaricati tutti gliepisodi che fanno emer-gere gli atavici conflittitra bianchi e indiani, epoi ancora tra indiani efalsi indiani, chevorrebbero essereindiani, e così viaall’infinito.La regola aurea diuna storia criminaledice che l’ambienta-zione e il moventedebbono essere cre- dibi-li, per considerare “buo-no” un giallo. E qui sorge ilterzo problema del romanzo

Ilkil-

ler tras- se un respiro lungo e profon- do, strinse l’impugna- tura del col-tello e affondò

la lama nel col-lo di Edward. Il

sangue arteriosouscì c

on uno zam-

pillo. Il killer colpì

ancora e ancora. Si

fermò per un attimo

a guardare il corpo

dell’uomo bianco. Poi

affondò il coltello fino a

quando le braccia e la

schiena non gli fecero

male. Colpì e incise, di ta-

glio e di punta. Colpì fino a

quando il sangue scuro

non assorbì tutta la luce di-

sponibile, fino a quando i se-

mafori vicini lampeggiarono e si

spensero. Il killer si chinò sul pet-

to di Edward e banchettò con il suo

cuore. Poi, sentendosi svuotato ma

non appagato, prese lo scalpo al viso

pallido. Il killer intascò lo scalpo, la-

sciò cadere le piume di gufo sul grem-

bo del bianco, scese dalla macchina e si

allontanò.

diAlexie,il cuirisul-tato èmoltodi-stan-tedaquel-la

re-gola

aurea:l’am-

bienta-zione, da

cui dovreb-bero scaturi-

re le pulsioniomicide, è

debole ed eccessi-vamente ideologica

e sul movente,stendiamo un velo

pietoso. Non lo saforse, Alexie, che nella

realtà i serial killer sonoquasi esclusivamente

maschi bianchi e le lorovittime sono deboli chevengono “puniti”, cioè donne,bambini, ragazzi di colore,omosessuali?Francamente, sconsiglio lalettura di questo libro a chinon è indiano o non è aman-te degli stereotipi sul tema

ed è comunque da evitare daparte degli appassionati

giallisti. La figura che,forse involonta-

riamenteemer-

gedalle

paginedi Sher-

manAlexie, è

più quelladel vendicato-

re solitariorazziale di fine

millennio chequella del serial

killer, qualcosa piùvicino al Charles

Bronson di “Il Giustizie-re della notte” che a Ted

Bundy. Se, invece, il mes-saggio era quello di dimo-strare che anche tra gliindiani può esistere la figuradel serial killer, ma che inquesto caso sarà comunqueun individuo atipico, che nonpuò venire valutato con iparametri tradizionali,allora era molto meglioaffidarsi alla saggistica,secondo me, e propinare, achi avesse scelto liberamen-te di leggerlo, un bel tratta-to sugli usi, i costumi, letradizioni, ecc. degli indianiSpokane. Piccola nota: se ilmodello “positivo” propostoall’autostima indiana èquello del serial killer vendi-catore caotico, allora ilrazzismo ha fatto passi dagigante presso gli intellet-tuali indiani.

Sopra: Un brano di Indian Killer diSherman Alexie, edizioni Frassinelli.A p. 38: Sherman Alexie a Parma duran-te la presentazione delle sue opere. Fotodi Giovanni Grilli.

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HAKOMAGAZINE

Capo Giuseppe dei Nez Perce e la famiglia nel 1878 circa.

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N° 14

Sandra Busatta

Nel 1965, presso l’allora Ufficio diAntropologia della SmithsonianInstitution di Washington, DC.,cominciarono le discussioni sullafattibilità dell’Handbook of NorthAmerican Indians, una serie di 20volumi che dessero una visionesommaria di quello che sappiamodella preistoria, la storia e leculture native americane delNordamerica a nord delle grandiciviltà urbane del Messico centra-le. Plateau è l’undicesimo volumedella serie, uscito nel 1998.Quando l’Handbook venneconcepito le aree del Plateau e delGrande Bacino dovevano esseretrattate insieme, ma nel 1968venne presa la decisione didifferenziarle, dato che il Plateaucome area culturale distinta eraormai ben chiaro nell’antropolo-gia americanista. Durante il1985-89, mentre procedeva lapubblicazione degli altri diecivolumi, il comitato editoriale diquesto volume si consultava congli storici tribali e altri significati-vi membri di oltre otto tribù enel 1990 cominciava il lavorointensivo per produrre il volu-me Plateau, che così risulta moltopiù aggiornato di quanto previstoall’inizio della programmazione.L’area del Plateau copre i bacini

dei fiumi Columbia e Fraser,tranne certe porzioni del fiumeSnake che, pur essendo un tribu-tario del Columbia, fa partedell’area del Grande Bacino;comprende così la ColumbiaBritannica sudorientale, la parteorientale dello stato di Washin-gton, l’Oregon centrale e nord-orientale, l’Idaho settentrionale, ilMontana occidentale e una piccolaporzione della California setten-trionale. Le culture indiane cheabitano questa zona possonoessersi trasferite durante i millen-ni della loro storia, ma sembranopiuttosto stabili nei secoli recenti;comprendono popoli di linguasalish dell’Interno, sahaptin,athapaska, kootenay e cayuse. Itratti culturali comuni comprendo-no schemi di insediamento riviera-schi, una complessa tecnologia dipesca, specialmente dei pescianadrami come il salmone, lacaccia e la raccolta di radici. Levarie popolazioni commerciavanoestesamente tra loro, rafforzando irapporti di reciprocità con ilmatrimonio; prima dell’introduzio-ne del cavallo l’integrazionepolitica era limitata a livello divillaggio e di banda. Una mitolo-gia relativamente uniforme, glistili artistici e le credenze religiosesi incentravano sulla ricerca divisione, lo sciamanesimo, i riti di

passaggio del ciclo vitale e lecelebrazioni stagionali del ciclo disussistenza annuale. Primadell’avvento del cavallo i popoli delPlateau mantennero stretti legamicon la Costa Nordovest; in seguitoall’influenza delle culture equestridelle Pianure, però, l’asse si spostòverso oriente, con l’adozione dellacaccia al bisonte, una organizza-zione di banda composita, abiti ecopricapi tipici, una limitatastratificazione sociale basata sullaproprietà di cavalli e una marcataaccentuazione delle ostilitàintertribali, che fecero aumentareanche le razzie di schiavi. IKlamath erano più attenti deglialtri gruppi alle differenze distatus sociale, probabilmenteinfluenzati maggiormente dallacultura della Costa Nordovest.Dall’inizio del XIX secolo in poi, inez perce, i cayuse, i walla walla ei flathead possedevano più cavallidella maggior parte delle tribùdelle Pianure settentrionali, graziealle tecniche d’allevamentoimparate dai gesuiti, creando cosìun vasto commercio equino contribù delle Pianure come i Crow,da cui furono profondamenteinfluenzati nello stile artisticodegli abiti ricamati di perline,copricapi da guerra e tendeconiche di pelle. I villaggi invernalierano fatti di capanne di terra

Un’importante novità editoriale: il nuovo volumedell’Handbook of North American Indians.

Plateau

Grandi Opere

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HAKOMAGAZINEsemisotterranee e grandi tendecoperte di stuoie di giunco; ilvillaggio era la principale unitàpolitica, con una struttura formatada un capo semi-ereditario e unconsiglio, che talvolta si univa adaltri villaggi per formare unabanda allo scopo di condurreinsieme attività economiche neisiti di pesca, nei campi di tubericamas e nelle cacce al bisonte.Sembra che la lunga casa in legnoabbia sostituito la vecchia casa diterra soprattutto nella partemeridionale dell’area, mentre lacapanna coperta di stuoie vennerimpiazzata spesso dalla tendaconica di pelle delle Pianure, o tipi.Anche se durante il periodo storicoi popoli del Plateau usavano abitinello stile delle Pianure, le donnenon rinunciarono mai ai lorocappelli a cono tronco e alle loroborse piatte di fibra intrecciata.I più importanti rituali religiosicomprendevano la ricerca divisione, obbligatoria per i ragazzi eraccomandata per le ragazze, cheperaltro sottostavano ancheall’isolamento nel periodo me-struale. Gli sciamani erano moltotemuti e politicamente influenti;non solo curavano le malattie, marecuperavano le anime perdute.La cerimonie del primo salmone,delle prime radici e bacche diprimavera risentiva dell’influenzaoccidentale. La Danza Invernale oDanza degli Spiriti era unacerimonia comunitaria in cui ipartecipanti celebravano irispettivi spiriti guardianitramite la danza, il canto e icostumi indossati.Durante il periodo protostorico, inrisposta alle epidemie e alle mercimeravigliose che giungevanoattraverso le vie commerciali,prima ancora di vedere un soloeuropeo, emersero nel Plateauvari culti religiosi, che formano labase di religioni nativiste contem-poranee come la religione Washatdella regione del medio Columbia.«La molto più antica ricerca divisione, il complesso sciamanico eil ciclo cerimoniale dei rituali sisono fusi con quei culti sincretisti-ci, sicché questi sono visti da molte

tribù come la “religione tradiziona-le”. Il Plateau continua ad essereun centro di attività religiosa;Danze del Sole, la Chiesa nativa

americana, la chiesa Shakerindiana e il culto della Piumaerano ben evidenti negli anni1990. Chiese più recenti penteco-stali e della Santità venneroistituite nella maggior parte delleriserve sia degli USA che delCanada, ma le principali chiesecristiane erano in declino. Unnuovo rispetto per quella che èchiamata religione indiana stavacrescendo di forza come parte deimovimenti neo-tradizionalisti sianella porzione americana checanadese del Plateau» (Walker1998:6).Quando gli USA e il Canada siaccordarono per la divisionedell’Oregon Country nel 1846, ildestino dei popoli del Plateaucominciò a divergere. Governatefino a quella data dalla Compa-gnia della Baia di Hudson, le tribùcanadesi restarono relativamenteprotette dall’immigrazione dimassa quasi fino alla fine delsecolo. La Pista dell’Oregon,invece, portò migliaia di immigratinel paese e gli USA procedettero anegoziare trattati a catena, cheebbero grande significato politico

per le tribù, specialmente per quelche riguarda il riconoscimento didiritti di sfruttamento delle risorsefuori della riserva, riconosciuti daitribunali americani. «Nel comples-so, sembra chiaro che la politicaamericana nel Nordovest hapermesso la creazione di governitribali più forti di quelli in Cana-da» (Walker 1998:7), favorendonegli anni 1990 la costituzione diprogrammi di sviluppo a lungotermine che hanno rivitalizzato lazona.Il volume contiene prezioseinformazioni sulla preistoria e lastoria dell’area e profili di popolifamosi come i Nez Perce di CapoGiuseppe, un eroe della resistenzaindiana e un favorito dei libri ditesto sui nobili personaggi e iModoc di Capitan Jack, celebri perla resistenza all’esercito america-no sugli aridi Lava Beds (Letti diLava), i Palouse, che allevavanouna razza di cavalli ancora oggiapprezzata, il famoso Appaloosa, etribù ignote al grande pubblico,ma non per questo meno riccheculturalmente, come i Nicola, gliUmatilla e i Molala. La sezionedegli argomenti speciali copresoggetti come la demografia fino al1990, i movimenti religiosi (di cuiuno dei principali profeti fuSmohalla, che rifiutava l’agricoltu-ra dei bianchi, perché non si puòferire la Madre Terra con l’aratro)la mitologia, lo stick game, lamusica e altro ancora.Plateau, curato da Deward E.Walker, jr., contiene 808 pagine diarticoli esaurienti e in ottimastampa, preziose e numerosecartine, fotografie rare e significa-tive, un ottimo indice analitico euna sterminata bibliografia, che lorendono, insieme agli altri volumidella serie, uno strumento fonda-mentale per la conoscenza deipopoli nativi americani e dellostato dell’antropologia america-nista del 2000.

Donna wishram che intreccia una borsa“sally” cilindrica.

Plateau si può ordinare:Superintendent of Documents, P.O. Box381954, Pittsburg, PA 15250-7954 USA.Costo $ 61 + shipping

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N° 14

Flavia Busatta

Finalmente l’Università delNebraska ha pubblicato, aggiorna-to, Wakinyan, un quadro dellareligione lakota nel XX secolo,come spiega il sottotitolo. Il libroera uscito nel 1963, come numerodue della serie di Studi di Antropo-logia e Storia delle Pianure, editodal Museum of the Plains diBrowning, Montana, situato nellariserva blackfeet e, come pubblica-zione dell’Ufficio Affari Indiani(BIA), era noto come un classico econsultato, copiato e ricopiato peranni, anche dopo che era statoesaurito. L’autore, Stephen E.Feraca, italo-americano di quintagenerazione, marito di unachippewa e conoscitore dellalingua lakota, ha lavorato venti-cinque anni per il Ministero degliInterni, prima di andare inpensione nel 1985. E’ autore diWhy Don’t They Give Them Guns?The Great American Indian Myth,che ha creato scalpore dentro efuori il BIA e attualmente stalavorando a un libro sulle pratichereligiose lakota contemporanee,con la consulenza degli ultimianziani che ancora ricordanocom’era “prima” dell’arrivo deimilitanti dell’American IndianMovement e poi degli sciamaniNew Age.

La religione lakota nel XX secolo.

Wakinyan

Religione

Martha Bad Warrior, Itázipcho Lakota, custode della White Buffalo-Calf Pipe difronte al sacro fagotto, 1936.

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HAKOMAGAZINEIl titolo Wakinyan si riferisceall’Uccello Tuono o DivinitàAlata dei lakota, potente manife-stazione del soprannaturale. Illibro parla della religionetradizionale lakota in questosecolo, quando la maggiorparte degli aspetti dellacultura equestre, basatasulla caccia al bisonte, sonoormai quasi scomparsi,adattandosi agli schemidell’ambiente della riserva edell’amministrazione federa-le. «Nel contesto del XXsecolo la comprensione dicos’è tradizionale nellareligione lakota si puòottenere solo prestandoattenzione a ciascunasuccessiva (o precedente)generazione di old timers[persone all’antica]», affermaFeraca. «I lakota razionaliz-zano le loro credenze e i lororiti in termini di ciò chepensano sia appropriato secondogli anziani, sia che i più giovanisiano veramente consapevolioppure no di ciò che avvenneprima» (p.xii). Il concetto di“potere” soprannaturale non ènegato da nessun lakota, neppu-re da quelli che non praticano lareligione tradizionale; per ilakota l’idea di “timore” e di“rispetto” sono, in senso religio-so, virtualmente indistinguibili.Le osservazioni su cui è basatoWakinyan sono il frutto didiscussioni presso le riserveOglala di Pine Ridge e Sicangudi Rosebud, in South Dakota, trail 1962 e il 1996, anche se partedelle conversazioni più recentiverranno elaborate ulteriormen-te nel nuovo libro sulla religionelakota contemporanea.Wakinyan divide la trattazionein sette capitoli, un numerosacro, oltre alla prefazione, laconclusione, ricchissime note, labibliografia e ottime fotografie edisegni. I capitoli sono dedicati auna breve storia dei lakota, allaDanza del Sole, alla Ricerca diVisione, alla cerimonia delloYuwipi, ad altre cerimonie comequella della Buffalo Calf Pipe,

della Danza del Cavallo, dellaCapanna del Sudore, del Peyoti-smo e dell’erbalismo. Particolar-mente interessante è il capitolo

sulla Danza del Sole, illustratocon rare foto degli anni Cinquan-ta e Sessanta scattate dall’auto-re, quando la danza cominciòfaticosamente a riapparire inriserva, portata dagli cheyenne.L’interesse è dato dal fatto cheoggi questa danza, che ha unfascino speciale presso i maschieuropei e americani, è tutt’altroche accettata da molti residentie, comunque, è oggetto di discus-sioni accese e “aggiustamenti”panindiani. Anche il comporta-mento dei partecipanti è moltopiù “rilassato” di quanto ladescrizione etnografica lascereb-be supporre.Wakinyan dimostra, attraversouna scrittura agile, le fotopreziose e i disegni, la tenaciadella religione tradizionale difronte alla modernizzazionetecnologica con cui i lakota sonoquotidianamente a contatto e lasua influenza anche sui lakotanon tradizionali cristiani. Nonmancano però nei trent’annitrascorsi dalla prima stesura dellibro a oggi, degli sviluppi che ingenerale si sono allontanati dalcristianesimo, che pure moltipraticano accanto alle forme

tradizionali, per il fiorire delneo-nativismo e della New Age. Ilakota hanno, da un lato, propa-gato lo Yuwipi e la Danza del

Sole a tribù non lakota e dall’al-tro hanno “goduto” di un’esplo-sione di interesse per la lororeligione, soprattutto a causadella figura culto di Alce Nero,un tempo quasi ignoto agli oldtimers e oggi “profeta” di unareligione che, più che lakota, èpanindiana.Wakinyan è un libro sullareligione lakota moderna indivenire, scritto da un profondoconoscitore, che ha trascorsoquasi tutta la vita a contatto coni nativi americani. Wakinyanresta un classico, indispensabileper chiunque voglia approfondi-re l’argomento.

Sun Dance a Pine Ridge, SD, 1961.Foto di S. Feraca.