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E Diu al disè: - La tiere che si taponi di vert... E al sucedè propit cussì... e Diu al viodè ch’al leve ben (Gjenesi 1, 11-12) “che se non fossero li boschi dalli quali ai tempi debiti et opportuni si serviamo saressemo isforzziati a bandonare il paese et morirssi di fame” (Vicinia comune di Muzzana, 12 luglio 1598 ASU, ANA, notaio Di Marco Lorenzo, b.3333) la bassa collana / 72 Luisa Bianco – Giuliano Bini – Benvenuto Castellarin Adelmo Della Bianca – Enrico Fantin – Vittorino Gallo Fabio Prenc – Francesco Sguazzin – Roberto Tirelli I boschi della Bassa Friulana a cura di Giuliano Bini

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Page 1: I boschi dellaBassaFriulanacollana / 72 Luisa Bianco – Giuliano Bini – Benvenuto Castellarin Adelmo Della Bianca – Enrico Fantin – Vittorino Gallo Fabio Prenc – Francesco

E Diu al disè:- La tiere che si taponi di vert...

E al sucedè propit cussì...e Diu al viodè ch’al leve ben

(Gjenesi 1, 11-12)

“che se non fossero li boschidalli quali ai tempi debiti et opportuni

si serviamo saressemo isforzziatia bandonare il paese et morirssi di fame”

(Vicinia comune di Muzzana, 12 luglio 1598ASU, ANA, notaio Di Marco Lorenzo, b.3333)

la bassacollana / 72

Luisa Bianco – Giuliano Bini – Benvenuto CastellarinAdelmo Della Bianca – Enrico Fantin – Vittorino GalloFabio Prenc – Francesco Sguazzin – Roberto Tirelli

I boschidella Bassa Friulana

a cura di Giuliano Bini

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Adelmo Della Bianca

I boscaioli di MuzzanaTradizioni produttive

Storia localeAmbienteRicordi

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In ricordo dei miei genitoriche nella loro giovinezza e maturitàconobbero le fatiche dei lavori umili,subirono le tragedie di due guerre,

videro il tramonto della cultura contadinae, anziani, assaporarono l’effimera ebbrezza

della civiltà dei consumi.

A pagina precedente.

Fig. 1. Adelmo Della Bianca: allegoria.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

Introduzione

È doveroso serbare memoria e ricordare conparole scritte il contributo dei nostri avi, nonni, geni-tori, della gente del borgo rurale di Muzzana, chehanno sempre dato, con laboriosità, prove di grandeefficienza nella vita agricola di ogni giorno.

E non solo, pure nei lavori boschivi in quelleselve che attorniavano il paese, in quell’ambiente delquale la natura prodiga ci aveva gratificati.

Mi soffermerò su quest’ultimo punto, cercan-do di spiegare come necessità di vita possano così dalnulla creare boscaioli mestieranti, specialisti insommo grado, capaci di espletare specifici lavoririchiesti alla bisogna.

Era risaputo che, nei periodi dell’autunno-inverno, da novembre a febbraio, quando la campa-gna riposa e non richiede manodopera, i muzzanesi sidedicavano al taglio annuale, chiamato “verneglà”,nei boschi comunali e privati.

Per i nostri era escluso il taglio del tondel-lo “murièl” e degli alberi di alto fusto. Erano ope-razioni, queste, che venivano eseguite da bosca-ioli di mestiere, pagati, che ogni anno giungevanoa Muzzana da Frisanco e Poffabro in quel diManiago (PN). Questa richiesta di boscaioli “dafuori” si protrasse fino al primo decennio del 1900quando, e precisamente nel 1906, un nostro paesa-no, Luigi Casasola di Mattia, arrivato dal lontanoBrasile, iniziò per primo, all’età di quindici anni, aprestarsi a pagamento in queste due specialità.Subito fu seguito da altri compaesani i quali, se èvero che la necessità aguzza l’ingegno, impararonocosì bene l’arte da scalzare in breve tempo i corre-gionali del Pordenonese. Fu così che a questi primipionieri, contadini-boscaioli (sì, perché eranoinnanzitutto agricoltori) si aggiunsero nuove leve ela loro opera fu richiesta sia dal Comune che da pri-vati.

Tutto questo proseguì durante il Ventennio, ilsecondo conflitto, per arrivare ai giorni nostri. Ilmestiere venne praticato per gran parte del No-vecento con l’utilizzo delle tecniche e degli utensiliantichi dei padri e nell’ultimo quarto di secolo conattrezzature moderne che, se da una parte alleviaronole fatiche e potenziarono le possibilità di taglio, sol-levamento e trasporto del legname, dall’altra influi-rono negativamente sull’ecosistema boschivo, impo-verendolo notevolmente.

Modificato nel profondo l’ambiente, sconvol-ti i costumi, mutate le esigenze, cambiate le prospet-tive di vita, si spegnerà così una tradizione secolare,morirà una particolarità non più ripetibile, relegandoogni cosa nell’albo dei ricordi.

Manutenzione ed approvvigionamento

Il bosco comunale di Muzzana e il CodaManin erano ceduati annualmente per una superficiedi novanta/cento campi. La cosa non comportava peri boschi alcuna sofferenza, anzi erano così rigogliosida arrivare fino agli anni ’70 del secolo scorso incondizioni perfette.

Alla loro cura, alla manutenzione, alla salva-guardia contro vandalismi o altro, erano preposti deiguardaboschi che avevano il compito non solo divegliare ma di seguire le operazioni di ceduazione etaglio. Dovevano stabilire luoghi, tempi, modalità equantità, far rispettare la metodica di taglio su pianteo tronchi affinché potessero ricrescere, marcare condel colorante i ceppi vecchi e malati da tagliare, farestirpare roveti e spineti, segnalare le piante darisparmiare perché più adatte alla produzione disemi, presenziare ai prelievi di legname fatti da com-mercianti, carradori e locali, proibire l’ingresso aicarri in caso di terreno bagnato, per evitare il dan-neggiamento dei sentieri (i carichi erano infatti stabi-liti nel periodo estivo con terreno asciutto).

Infine, posta dal Comune a battuta d’asta,rimaneva la falciatura, compito dei contadini locali,delle erbe sui sentieri e praticelli interni del bosco perricavare fieno a foraggio per il bestiame.

Per gli approvvigionamenti di legname, iltaglio annuale avveniva, a rotazione di dodici anni,per particelle. Dopo dodici anni i polloni erano ricre-sciuti e il ciclo continuava.

La ceduazione iniziava con il taglio dellepiante adatte a far fascine (verneglâ), il taglio deltondello (murièl), la messa in fascina delle ramagliedelle cime (cimade), il taglio dei ceppi vecchi e mala-ti non più vegetativi (raspe), il taglio delle piante dialto fusto (tronchi) ed infine, quando c’erano degliesboschi, il disbosco, o meglio lo sradicamento tota-le di ceppaie, ciocchi e basi di tronchi di grossedimensioni affinché il terreno, così ripulito e sgom-

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bro dal radicame, si prestasse alle arature per lamessa in coltivo.

Le fascine venivano accatastate a gruppiventicinque, il tondello era posto in catasta “apasso”, “le raspe” era posta in catasta a cubatura, itronchi delle piante di alto fusto pure a cubaturacome tutte le ceppaie, i ciocchi e le basi dei tronchio “culattis”.

Il legname ricavato era, dal Comune e da pro-prietari privati di superfici boscate, venduto a com-mercianti e carradori, i quali, nel periodo estivo, pen-savano al prelievo della legna in bosco ed alla suavendita nei paesi del circondario e oltre. Cittadinilocali provvedevano invece da soli al trasporto dellalegna nelle proprie abitazioni rurali.

°°°°°°°°°°

Il sistema di approvvigionamento nel boscocomunale e nel Coda Manin era identico. Differivanelle modalità di pagamento secondo quanto quisotto riportato:

VERNEGLÂ e CIMADE(posa in fascina)

Bosco comunale:- dal 1900 al 1923 erano distribuite quaranta

fascine a persona dietro lieve pagamento peril taglio.

- Dal 1924 al 1950 a pagamento.- Dal 1950 ad oggi al 100% ai prestatori d’ope-

ra locali.

Bosco Coda Manin:- sempre al 50% ai prestatori locali.

MURIÈL (tondello)

In ambedue i boschi si pagavano i boscaioli tanto al“passo”.

RASPE (ceppaglia)

In ambedue i boschi al 50% ai prestatori locali.

PIANTE DI ALTO FUSTO(tronchi, tondello, fascine)

In ambedue i boschi si pagavano i boscaioli “ataglio” per il tronco, “a passo” per il tondelloricavato dal taglio dei grossi rami.

Le ramaglie o “cimade” in fascina, come sopra.

DISBOSCO(fascine, tondello, tronchi, ceppi, ciocchi)

Bosco comunale- per le fascine, tondello, piante di alto fusto, come

sopra.- ceppi e ciocchi al 50% ai prestatori locali.

FALCIATURA (fiename)

Bosco comunale: era offerta a battuta d’asta ai locali.Bosco Coda Manin: era al 50% ai prestatori locali.

Donne protagoniste

Era costume prettamente femminile il farefascina nel bosco, tagliando piante o ramaglie checattivo tempo o agenti parassiti avevano abbattuto orese secche. Questo prelievo era tollerato dai nostrigrardaboschi ed era accessibile a tutti i muzzanesimeno abbienti, purché si rispettassero le piante inattività vegetativa. Nelle fascine le uniche pianteverdi erano le storte (tuartis) usate nella legaturanella misura di quattro, massimo cinque.

Le donne, nostre nonne o madri, partivano dibuon’ora dal paese, a piedi, portandosi il “massanc”per tagliare e del vestiario di riserva, raggiungevano ilbosco per via Levada o Baroso e iniziavano subito acercare legna secca, tagliandola ed ammucchiandolafino al raggiungimento della quantità prefissata.Posizionata la legna, la legavano con rami sottili, pre-feribilmente di farnia, olmo o carpino, lunghi duemetri circa. La fascina era così pronta. Rimaneva datagliare un bastoncello di un metro, che veniva infila-to nella legna per il bilanciamento in spalla, comepure il “massanc”. Poi la donna, sollevata la fascina

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in verticale, si sistemava degli stracci sulla spalla persopportarne il peso e dopo prendeva la strada del rien-tro in paese. Poiché l’abitato distava circa tre chilo-metri, possiamo pensare quanta fatica dovesse costa-re il sostenere sulla schiena per tutta quella distanzaun peso di quaranta o cinquanta chilogrammi. Lesoste lungo il percorso erano obbligate, per riprende-re un po’ di fiato. Si posava il carico sempre lascian-dolo verticalmente, si risistemavano gli stracci a pro-tezione della spalla e si ripartiva, alternando cammi-nate e soste, fino a raggiungere il paese e il fascinaio.

L’andirivieni proseguiva per giorni fino allecento e più fascine: questo per il bisogno di focolari,stufe o cucine. Era comune in quei tempi la vista, neipressi delle abitazioni, di grandi fascinai con accantoil ceppo per il taglio quando serviva della legna.

A completamento dei lavori in bosco svoltidalle donne, va ricordata la loro presenza e parteci-pazione nella fase del “verneglâ” cioè del taglio dellepiante per fascina e nella messa in fascina della

“cimade”.Accanto agli uomini, si davano da fare nonmeno di loro, tagliando, legando ed ammucchiandocon estrema abilità.

Va poi detto che in bosco, uomini e donne, cisi recava a piedi. Le biciclette, fino agli anni ’50erano rare e la partenza, considerata la distanza,avveniva presto, verso le cinque o sei del mattino.Giunti sul posto, si lavorava fino a mezzogiorno e,dopo una pausa per il pranzo, si riprendeva fino allesedici per fare poi ritorno verso sera.

Se oggi questo modo di vivere e di lavorare èimproponibile, dobbiamo però riconoscere il grandespirito di adattamento, la grande forza non solo fisi-ca delle donne friulane di un tempo.

Il muzzanese Vincenzo Del Piccolo ricorda unepisodio avvenuto negli anni ’50. Una ragazza delpaese stava lavorando nel bosco Coda Manin. Ad untratto, a causa del terreno umido e gelato e di un paiodi zoccoli sdruciti, si trovò con i piedi fradici e unprincipio di congelamento. Sopportò in silenzio, ma

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Fig. 2. Donna con fascina dal bosco al paese.

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poi, per il dolore, scoppiò in un pianto dirotto. Fusubito soccorsa da Ninfa Asquini in Flaugnacco(†1968), la quale, per ripristinarle la circolazione, sipose fra le cosce le estremità gelate della giovanefino a lenirle il dolore e a farla riprendere.

Taglio della legna per fascina (verneglâ)

All’inizio si effettuava la pulizia del sottobo-sco dalle piante considerate infestanti, come rovi espineti. I rovi venivano tagliati, poi scalzati con lozappone alla radice, per impedirne la ricrescita, eammucchiati a marcire, e gli spineti, cioè le piante dispino nero e bianco, venivano sfrondati e messi infascina. Seguiva il verneglâ cioe il taglio e il dirada-mento di piante varie con fusto di tre o quattro cm di

diametro, adatte per le fascine. Alla fine di questolavoro rimanevano solo le piante di alto fusto, ceppie ciocchi con cime utili per il tondello e piante che,segnalate dal guardaboschi, erano risparmiate per isemi. Le fascine erano accatastate a gruppi di venti-cinque.

Le modalità operative di taglio erano identi-che per tutto il fasciname, salvo per le legature, inquanto per il “verneglâ” era di una, massimo duestorte.

Dopo questa fase di pulizia o diradamento, ilbosco era lasciato fermo per cinque o sei anni.

Vi partecipavano donne e uomini del paese,pagati dal Comune nel bosco comunale, in fascine al50% del prodotto nel bosco Coda Manin.

Per quanto impegnativo, questo lavoro con-sentiva alle donne di scambiare qualche battuta. Sia icolpi che il brusio delle parole venivano infatti assor-biti dalla profondità del bosco e il rumore non risul-tava alienante, ma rasserenante. Tutti i suoni erano

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Fig. 3. Taglio legna per fascina.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

addolciti, tutto appariva ovattato e il camminare sulterreno morbido ricoperto di foglie secche, diverten-te e rilassante.

Perché piacesse tanto alle donne fare questolavoro di “verneglâ”, nonostante i disagi, si spiegafacilmente pensando quanto sia gratificante immer-gersi nella natura, respirare aria salutare e godere ditranquillità e pace. Verneglâ era inoltre un’occupa-zione scacciapensieri, in una realtà giornaliera nonsempre gradita e facile, anzi piena di sacrifici.

Taglio del tondello (murièl)

Il taglio del tondello era un lavoro da profes-sionisti, da esperti nell’arte di adoperare l’ascia dacima. Primo, perché bisognava aver acquisito la

capacità di essere ambidestri, cioè abili a colpire didestra e di manca, secondo, per l’esperienza e dime-stichezza necessarie sul campo, terzo, perché nonveniva esclusa una certa vigoria fisica, tanto che siparlava di “fisico da boscaiolo”. Battere l’ascia damattina a sera obbligava ad uno sforzo e ad un con-sumo calorico ragguardevoli, e qui esperienza e bra-vura facevano risparmiare energia e fatica. Per il pro-fessionista dell’ascia era “l’arte per l’arte”. La suaabilità lo gratificava, era visivamente ripagato dallabellezza del luogo, era il padrone del campo e in piùotteneva, sudato ma non disdicevole, il meritatocompenso del proprio operare.

Il bosco, ripulito da roveti e spineti e diradatodelle piante per fascina con il verneglâ, era adatto,dopo cinque o sei anni, alla ceduazione del legno ton-dello. I boscaioli iniziavano a tagliare le cime suceppi e ciocchi delle varie essenze come farnia, car-pino, frassino, olmo, ecc. escludendo quelle segnala-te dai guardaboschi per la semente e quelli di alto

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Fig. 4.

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fusto. Il taglio delle cime doveva essere fatto a rego-la, cioè si colpiva da sotto in su a destra, indi nellostesso modo a sinistra in modo che il moncone dicima, rimasto sul ceppo, si presentasse a becco diflauto.

Questo era il sistema richiesto perché, capitoz-zandolo in modo così pulito, il moncone non si fen-deva e dava germogli nuovi e robusti. Una volta aterra, la cima abbattuta veniva tagliata in tondelli diun metro, che venivano lasciati provvisoriamente sulposto insieme alle ramaglie minute delle punte.Potevano capitare dei ciocchi così alti che le grossecime spuntavano oltre l’altezza di una persona e per-tanto si può capire la difficoltà di operare al lorotaglio. Questi ciocchi particolari venivano fatti accor-ciare dai guardaboschi, segandoli sopra il limite rag-giunto dalla copertura muscosa per riavere nuovi ger-mogli e nel contempo evitare difficoltà future. Cosìoperavano i boscaioli, colpo dopo colpo, cima dopocima, in un continuo intercalare del battere dell’ascia,ritmico e secco tac-tac-tac, sola musica e compagnia

... Alle spalle, una miriade di tronchetti e ramaglie edun bosco luminoso e libero, con le sole piante di altofusto. Ad una certa ora, osservata la quantità tagliata,provvedevano alla raccolta ed alla messa in catastadel tondello nella misura locale “a passo”. Questo eraposto con cura fra quattro pali di sostegno, avevaun’altezza di m 1,15, una larghezza ovviamente di 1m e una lunghezza di 4 m. Questa procedura conti-nuava fino alla ceduazione completa dei campi dibosco stabiliti. I passi di tondello rimanevano sulposto fino all’estate, quando venivano venduti, cari-cati su carri e trasportati fuori all’esterno.

La “cimade”

La “cimade” era così chiamata perché, manmano che i boscaioli tagliavano le cime, ne lasciava-

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Fig. 5. Taglio del legno tondello (murièl).

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no a terra le estremità, cioè le ramaglie delle punte.Queste a loro volta venivano raccolte dalle donne chele ammucchiavano, le sistemavano in fascina e quin-di le ponevano in cataste affiancate o frontali. Ciò perseparare i mucchi destinati alle singole lavoranti efare spazio intorno.

Taglio di ceppi o ciocchi secchi (raspe)

Dopo la posa del tondello in cataste, si ef-fettuava il taglio di ceppi e ciocchi vecchi e malat-i, che non avrebbero più potuto germogliare ecrescere.

Taglio di piante di alto fusto

Era un lavoro svolto da boscaioli di professio-ne, che provvedevano all’abbattimento delle piantesegnalate. Due operatori in coppia stabilivano comee dove doveva cadere la pianta, controllavano ladisposizione dei rami della chioma, la loro pendenza,la pendenza naturale del tronco e la situazione dellospazio circostante, se era libero o meno da ceppi oaltri impedimenti.

Cominciavano quindi con la sega ad operareun primo breve taglio orizzontale alla base e prose-guivano con un secondo taglio dalla parte opposta.Quando la lama della sega era penetrata oltre la sualarghezza, venivano posti dei cunei nelle fessure econ colpi della testa dell’ascia questi erano fatti

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Fig. 6. Taglio piante dʼalto fusto.

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penetrare affinché il peso del tronco non gravassesulla lama. Si continuava quindi nel taglio fino allacaduta dell’albero. Un altro sistema di abbattimentoconsisteva nell’operare un breve taglio orizzontalealla base e sopra di questo un secondo taglio obliquofino a creare un’intaccatura triangolare per “invitare”la pianta a precipitare. Infine seguiva il taglio oriz-zontale dalla parte opposta fino alla caduta a terra.Gli operatori dovevano essere avveduti e attenti nelprevedere la caduta e sapersi scansare per evitarerischi a causa di rimbalzi del tronco o di avvitamentiimprevisti dello stesso. Abbattuta la pianta, semprecon la sega, si separavano i grossi rami dal tronco.Con l’ascia venivano poi tagliati per fare tondello.Infine si legavano le ramaglie in fascina e tutto eraposto in catasta.

Mediamente in ogni ceduazione venivanotagliate dalle 30 alle cinquanta piante di alto fusto, disolito vecchie farnie o roverelle.

I tronchi rimanevano sul posto fino alla ven-dita, d’estate, quando venivano caricati su carri daoperatori locali e trasportati fino alla stazione ferro-viaria di Muzzana, da cui partivano su treno merci.

Erano acquistati da commercianti e rivendutiper essere adibiti a palificazioni a Venezia oppureprendevano la via di Silea (TV) dove venivano but-tati a decantare in un bacino per l’eliminazione deiparassiti e in seguito spediti in segherie per otteneretravi, tavolame per falegnameria o altro.

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Il compaesano Abramo Gallo mi ha racconta-to che nell’anno 1954, nelle parti di bosco comunaledenominate “Badascola I” e “Badascola II”, tra farniee roverelle furono tagliate 180 piante. Di queste 90 letagliò lui in coppia con Armando Del Piccolo e 90furono tagliate da Ernesto Panizzo e DomenicoMauro. Lo impressionò molto il vedere in queste zonedel bosco delle farnie così maestose e imponenti.

L’acqua del vicino fiume Turgnano, che traci-mava durante le maree, le manteneva in ottima salute.

Nel 1955 furono tagliate in zona “TorondaI” e “Toronda II” 400 piante di alto fusto, un centi-naio a coppia da Giovanni e Abramo Gallo, AngeloFlaugnacco e Armando Del Piccolo, Ettore IginioDel Ponte e Angelo Bianco, Guido Del Piccolo eGiuseppe Macor. Furono pagati a “taglio” per ognitronco e a “passo” per il taglio dei grossi rami.Tutto ciò avvenne in seguito al disbosco per ridu-

zione in arativo, come da progetto di trasformazio-ne fondiaria redatto, per conto del Comune diMuzzana, dall’Ufficio Agrario Consorziale e data-to 28.12.1953.

Disbosco

Saltuariamente e, su provvedimento comuna-le, si effettuavano gli esboschi per ricavare terrenoagricolo.

Una volta eseguite le operazioni di taglio come“verneglâ”, il taglio del tondello “murièl”, la “raspe”ed il taglio di piante di alto fusto, non rimaneva cheestirpare ceppi, ciocchi e basi di tronchi o “culattis”.Era lavoro svolto dalla nostra gente e richiedeva unamanodopera adatta perché gli attrezzi adoperati comela scure, il badile e lo zappone, erano i più faticosi.

Adoperando lo zappone a mo’ di leva sicominciava a sradicare la piccola ceppaglia, i ceppicon radici più superficiali, che si tagliavano, e, arri-vati ai ciocchi, si lavorava di badile e zappone fino araggiungere e tagliare le grosse radici interrate perpoi rovesciarli fuori dalle buche circostanti.

Alla fine, quando si arrivava alla base di gros-si tronchi di farnia o roverella, il lavoro si faceva benpiù duro. Sapendo che una pianta tanto sviluppa inchioma quanto in radici, si facevano delle buche diquattro-cinque metri di diametro e profonde dagliottanta centimetri al metro.

Si può facilmente comprendere come, messeallo scoperto e tagliate tante grosse radici, si potesse-ro riempire due carri con la legna ottenuta.

Dopo la ripulitura dalle radici la base del tron-co veniva estratta dalla buca con l’ausilio di catene ecavalli da tiro oppure a forza di braccia e leve.

Quanto era portato in superficie veniva sem-pre accatastato in cubatura fra due pali.

Trasporto del legname

Come già anticipato, il trasporto del legnameera effettuato d’estate con bosco e terreno asciutti.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

Commercianti, carradori e locali, con grandi carri dilegno trainati da cavalli, provvedevano al carico difascine, tondello, ceppi, ciocchi e tronchi. Entrati nelbosco, si seguivano i sentieri interni fino ad arrivareil più vicino possibile al legname da caricare.

Per le fascine si operava solitamente in due:uno portava la fascina e l’altro la sistemava lungo ilpianale del carro. A operazione ultimata, infilati ipaletti sugli angoli laterali del carro, si tendevanodelle corde di traverso, davanti e dietro, per bloccarele fascine e si usciva. Anche il tondello, sempre conl’ausilio di due persone, veniva posto di traverso e indoppia fila fra lo scalare del carro e i paletti di fondoe la legna veniva messa in sicurezza con delle cordeposte nel senso della lunghezza.

I ceppi e i grossi ciocchi venivano inveceposizionati sul carro e legati nei modi più vari. Ilcarico, se costituito di grossi e pesanti ciocchi, avve-niva con la partecipazione di più persone e con l’aiu-

to di scivoli e leve. Nei casi più difficoltosi si ricor-reva a cavalli e catene.

I grossi tronchi, per la loro pericolosità,richiedevano molto scrupolo e attenzione. Si affian-cava il carro, privo di scalare e di paletti angolari, altronco; si sistemavano degli scivoli e quindi, con lacollaborazione di più persone provviste di leve el’aiuto di cavalli e di catene agganciate ai lati deltronco, lo si issava e sistemava sul piano del carro. Sipotevano caricare così da tre a cinque tronchi al mas-simo, che venivano assicurati al mezzo di trasportocon catene poste di traverso e quindi, attaccati icavalli da tiro, si partiva. Durante queste operazioniqualcuno, spesso un bambino, doveva sorvegliareche i cavalli non si innervosissero per le punturedolorose dei tafani. Attirati dal sudore dei cavalli,questi aggressivi insetti accorrevano a nugoli e anda-vano scacciati o uccisi (ce n’era di piccoli e coloratie di grossi come una punta di dito).

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Fig. 7. Disbosco, taglio della ceppaglia.

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A detta di vecchi muzzanesi, nei secoli scor-si il carico e il trasporto dei grossi tronchi di quer-cia (farnia) avveniva probabilmente su chiatte ebarconi, che risalivano dalla laguna lungo il fiumeTurgnano, un tempo più profondo di oggi, arrivan-do fino al limitare dei boschi e fermandosi in appo-siti moli. Si conoscerebbero due di questi luoghi,ancora significativamente denominati Cés di S.Antoni e Cés da le Bancjdiele. Il primo è situato fragli estirpati appezzamenti boschivi Baredi eBadascola II, di fronte all’antica chiesetta omoni-ma, sull’altra sponda del Turgnano; il secondo fra laBadascola I e la Selva di Arvonchi. Prima dell’ulti-ma arginatura del Turgnano, in questi due luoghi sivedevano ancora infitti dei grossi pali, sulla spondasinistra del fiume e a lato dei nostri boschi. Facilepensare a probabili “accessi” volti a consentirel’imbarco del legname. Per raggiungere Venezia, iltrasporto via acqua, fluviale e lagunare, era senz’al-tro più agevole, visto che le strade erano in terra

battuta, facilmente dissestate. Comunque, per tuttoil Novecento il trasporto del legname dei nostriboschi è stato fatto con carri, su strade più agibili,con manto ghiaioso o asfaltato.

Spacco del legname

Fascine, tondello, ceppi e ciocchi, tutto veni-va portato e scaricato nell’aia o cortile delle abitazio-ni. Le fascine venivano sistemate in piedi, appoggia-te ad un sostegno e qui lasciate per il taglio, all’oc-correnza, sul ceppo; il tondello veniva segato sulcavalletto in tronchetti di misura opportuna e, segrosso, spaccato con la scure; i ceppi e i ciocchi veni-vano prima spaccati e poi tagliati e ridotti a misura diutilizzo con mazzuolo, cunei e scure. Tronchetto espaccato erano poi accatastati, coperti e lasciatiessiccare.

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Fig. 8. Spacco dei ceppi nellʼaia.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

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Anche per i nostri boschi, però, come per ognicosa al mondo, i tempi cambiarono. A partire dal1963 arrivò il declino della vendita di legname edelle ceduazioni. Lo sviluppo edilizio portò, a prezziaccessibili, il riscaldamento a gasolio e poi a gasnelle case e così, per la legge del mercato, cadde, finoal crollo, la richiesta di legname da brucio.

Nel bosco Coda Manin rimasero fascine elegname invenduti. Seguì un lungo periodo di stasi,non si ceduò più e il guardaboschi, una volta in pen-sione, non venne più reintegrato. Essendo un boscoprivato, rimase e continua a rimanere, allo stato sel-vatico. Adelchi Casasola racconta che il bosco CodaManin fino al 1962 era talmente pulito da poterloattraversare correndo in bicicletta.

Altrettanto poco rosea si fece la situazione delbosco comunale in quanto fattori naturali e non nefrenarono e ne frenano lo sviluppo arboreo.

È questo il periodo più buio per il nostro“Bosco Strassoldo”, che rischiò persino l’esboscototale.

A partire dal 1970 le cose fortunatamentecambiarono, alcuni interventi amministrativi e legi-slativi posero il bosco sotto tutela. Il preziosoambiente è salvo, si spera, definitivamente.

Personaggi e aneddoti

I protagonisti delle vicende del secolo scorsofin qui narrate sono scomparsi quasi tutti. È però vivoil ricordo e il rimpianto delle persone, delle gesta edelle fatiche.

Questi nostri uomini sono stati grandi nel loropiccolo mondo, consapevoli della propria sorte, dellaforza misteriosa e imprevedibile che regola le vicen-de umane, la fortuna, il destino. Senza farsene vanto,senza superbia, ma con serena umiltà. Avevano l’or-goglio di esprimere le loro possibilità nel modomigliore. In un borgo contadino era usuale che se neparlasse con la gente di casa, all’osteria, nelle stalled’inverno... Affiorano perciò spesso i ricordi di quan-to sentito o visto personalmente.

Il mio genitore mi raccontava dei migliori,precisando che Luigi Casasola Di Mattia (1891-

1979) era un “boscadôr” insuperabile. La sua fami-glia, rientrata dal Brasile ai primi del ‘900, si stabilìin via Stroppagallo, in zona Pruàn, dove ancora vive;giovanissimo, all’età di quindici anni, Luigi iniziò afare il boscaiolo, diventando così abile da costituireun mito per i compaesani e gli stessi colleghi. Di pic-cola statura, poco oltre il metro e sessanta, fisicoasciutto e nervi di acciaio, era, a detta di tutti coloroche lo videro all’opera, il migliore in assoluto, abilis-simo nell’adoperare l’ascia e nel mettere a segno icolpi senza commettere errori e senza dispendio diforze. La sua maestria era stupefacente: si dicevache, tagliata la cima di un albero alla base, riuscissead effettuare il secondo taglio prima che cadesse. Perlui era normale tagliare in un giorno solo fino a oltretre misure di “passo” di legno tondello. Svolgeva illavoro a regola d’arte, con accuratezza, operandotagli netti come gli veniva richiesto. Spesso era coa-diuvato dal figlio Adelchi, che provvedeva ad acca-tastare la legna.

Nel 1943-44, durante l’occupazione, fu obbli-gato dai tedeschi a tagliar legna per loro sotto il con-trollo della TODT.

Adelchi mi raccontò che suo padre, ondeacquistare da un compaesano (tale Francesco Boltindetto “Checo Bôti”) in procinto di emigrare, un’asciadi foggia particolare e di elevata fattura, gli feceun’offerta consistente, ma questi, anche lui boscaio-lo, era tanto affezionato al suo attrezzo che rifiutò elo portò con sé in America. Erano questi i sentimen-ti provati verso l’oggetto che dava da vivere.

Seguiva nella scala dell’abilità Gino DelPiccolo (1924-2007), detto “Gino da le Ardemie”,instancabile, preciso, “all’apice” con il ricordatoLuigi Casasola. Era un uomo di tempra non comune,con un fisico prestante, misurato nelle parole e neigesti, nel lavoro una vera macchina da taglio. Il suooperare era pulito e sempre perfetto.

Tempo fa, prima della sua dipartita, mentrestava recandosi al bar in bicicletta, lo fermai per chie-dergli se fosse vero quanto si raccontava delle sueprestazioni nei tempi passati. Mi guardò, sorrise econ gli occhi lucidi, che lasciavano trasparire orgo-glio, mi raccontò che fu capace di tagliare oltre tremisure di “passo” in un giorno. Penso che la miacuriosità gli abbia fatto riaffiorare vecchi ricordi eprovare piacere.

Eccellevano nel lavoro i Gallo, Antonio(1887-1971), Giovanni (1905-1977) e Abramo(1925-....). Quest’ultimo, di carattere combattivo e

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sostenuto da una volontà di ferro, fino al 1962 hatenuto testa a tutti e in seguito si è dedicato total-mente ai lavori agricoli.

Da lodare Francesco Bidin detto “Checo”(1880-1962) ed il figlio Lino (1915-1968), il primovalente e professionale e bravo pure il secondo.

Ottimi i fratelli Panizzo, Ernesto (1929-1998)e Giovanni (1936-2001), i più giovani del gruppo“storico” di boscaioli, da tutti gli esperti consideratiuna potenza della natura. Lavoravano con grinta eforza bruta e il loro rendimento è sempre stato altis-simo. È ricordato da tutti in particolare Giovanni, ilpiù giovane, il quale, grazie ad un fisico eccellente,otteneva grandi risultati.

Tra i tanti boscaioli che hanno operato tra il1900 e il 1962 con le vecchie tecniche e sono staticapaci di offrire buone prestazioni citiamo, perchémeritevoli di ricordo, coloro che erano usi abbatteree accatastare, in una sola giornata di lavoro e senzal’aiuto di nessuno, da un passo e mezzo a due e piùdi legna:

Angelo Bianco (1906-1992)Giuseppe Casasola (1899-1989)Ido Casasola (1925-2004)Adelchi Casasola (1925-....)Primo Cogoi (1926-2006)Renato Della Bianca (1907-1974)Angelo Del Piccolo (1910-1983)Silvano Del Piccolo (1912-1943)Vincenzo Del Piccolo (1925-....)Giovanni Del Piccolo (1916-1987)Ottorino Del Piccolo (1913-1982)Armando Del Piccolo (1911-2002)Guido Del Piccolo (1896-1962)Ettore Iginio Del Ponte (1908-1975)Adamo Flaugnacco (1883-1970)Bruno Flaugnacco (1919-1990)Angelo Flaugnacco (1923-1995)Remigio Gallo (1897-1966)Cesare Grosso (1918-1994)Giuseppe Macor (1908-1980)Domenico Mauro (1895-1976)Guido Nicoletti (1917-1977)Giuseppe Rosso di Giobatta (1886-1965)Giuseppe Rosso di Luigi (1902-1970)Carlo Stocco (1917-1976)Lionello Turco (1905-1988)Domenico Turco (1887-1964)Sergio Turco (1920-1992)

Luigi Turco (1922-....)Fiorello Turco (1925-....)Gino Turco (1930-2007)

I molti, bravi boscaioli non citati, meritanoparimenti la stima accordata ai migliori. Quanto fattoda questi ultimi non era, obiettivamente parlando,possibile ai più.

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Va ricordato anche Italico Del Piccolo “TalicoCanzian” (1900-1990), che era uno specialista nellafabbricazione delle immanicature delle asce e uneccellente cestaio. Gran parte delle ceste di vimini(“cossis”) che venivano adoperate dai muzzanesi perla pesca in laguna erano dovute all’abilità delle suemani.

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Un giusto merito deve essere riconosciutoriconosciuto ai nostri guardaboschi comunaliGiobatta D’Orlando († 1955) e Giovanni Cargne-lutti († 1954), detto “Zaneto”, che hanno sorvegliatoe atteso ai boschi del Comune fra le due guerre mon-diali. Il primo era un uomo accorto e severo, il secon-do, sulla base dei miei vaghi ricordi, un pezzo d’uo-mo all’antica, con dei mustacchi alla Umberto I.Furono sostituiti, dal 1945 in poi, daAngelo Nicoletti(1902-1969) e Pietro Del Piccolo (1915-1984), detto“Pirìn Colonel”. Di questi ho un ricordo nitido. Ilprimo era un bell’uomo, portava una barba curatissi-ma, del secondo ho sempre presente una.... ramanzi-na che mi fece quando mi colse con una fionda a cac-cia di passeri vicino a casa.

Rammento una curiosità. Nicoletti e DelPiccolo avevano costruito una specie di “tucùl”, unacapanna, nella Selva di Arvonchi e precisamentesulla destra entrando per il “Cés da le Bancjdiele”.Era fatta – probabile reminiscenza del “Nicoletti interra d’Africa” – con pali e cannucce, aveva piantacircolare, tetto spiovente a cono, un’entrata e, all’in-terno, una comoda panchina di rami intrecciati eancora cannucce.

Vanno menzionati infine i guardaboschi pri-vati Egidio Turco († 1956) e il figlio Giacomo (1910-1978), che hanno svolto le loro mansioni con com-petenza nel bosco Coda Manin.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

Attrezzi specifici del boscaiolo

I lavori tradizionali nel bosco erano diversi e,pertanto, era diversa la tipologia dello strumentario.

Per il taglio della legna minuta, come arbustie piante del sottobosco, adatti a far fascina, si usava-no il “massanc” e la roncola, raramente l’accetta.L’attrezzo usato per il taglio dei grossi rami o “cime”da cui ottenere il tondello “murièl” era invece l’asciada cima. Per abbattere invece, con il concorso di duepersone, le piante di alto fusto, si adoperava la segadel boscaiolo. Nei lavori di disbosco, per sradicareceppi e ciocchi, anche di notevoli dimensioni, eranousati lo zappone, la scure da spacco e il badile. Infineper spaccare tronchi, ceppi e ciocchi si adoperavanoi cunei, il mazzuolo e la scure.

Descrizione degli attrezzi, per tipologia

Ronchetta “roncee-britule”Usata particolarmente in Friuli e nel Veneto.

Era la compagna fedele dei nostri nonni e padri, usa-tissima per tutti i lavori di taglio leggeri, affilata epratica da portarsi in saccoccia.

È un coltello ricurvo, pieghevole, a lama piat-ta falcata e filo concavo. Di piccole e medie dimen-sioni, è simile per forma alla roncola, provvista dimolla a scrocco per il blocco lama, con unghiaturavicino al dorso per l’apertura. Il manico è di legno, dicorno vaccino nei tipi più pregiati, fermato da rivet-ti.

“Massanc”Attrezzo di etimo incerto, tipico del Friuli.

Ha una lama larga, piatta, con dorso sottile, pronun-ciato a formare un semicerchio nella parte distale, èprovvisto di un foro vicino al dorso prossimale perpoter essere appeso ad un gancio e portato alla cin-tola. Il filo è diritto per due terzi, concavo in punta aformare un breve raffio. Il codolo è piatto e appunti-to, inserito su un manico di legno e ribadito o piega-to a chiodo. Si presta bene al taglio delle piante delsottobosco in quanto il baricentro spostato in avanticonsente di inferire forti colpi con sforzo lieve.Veniva adoperato anche dagli agricoltori per il tagliodegli stocchi di mais che venivano usati per le let-tiere del bestiame e riuniti in autunno in covoni o“tamossis”.

Roncola-ronciglia “massanghele”Attrezzo antico di uso generalizzato. Ha

lama stretta, piatta, con dorso robusto, diritto o leg-germente concavo all’inizio, piegato in una puntafalcata a formare un raffio. Vicino al dorso prossi-male della lama presenta un foro per essere portataalla cintola. Il filo è bombato prima e poi concavofino al raffio, il codolo è piatto e appuntito, con unmanico di legno ovvero di dischi di cuoio pressati,in fondo ribadito o piegato a chiodo. Le sue caratte-ristiche d’uso sono analoghe a quelle del “mas-sanc”.

La roncola, fino agli anni ’50 portata dainostri contadini alla cintola quando si recavano incampagna, conferiva loro una certa autorità e incute-va timore e rispetto. Ricordo un aneddoto che ho rac-colto da alcune persone anziane di Muzzana. Unnostro compaesano (Levante Tell, 1893-1980), men-tre era intento a pescare in laguna vicino alle reti ealle barche pei pescatori maranesi, riuscì a catturarecon le mani un grosso cefalo, ma i maranesi, chevidero la cosa, pretesero in malomodo che fosse loroconsegnato. Il nostro Levante, che era un uomo deci-so e risoluto, in mutande e a gambe divaricate sgan-ciò la roncola dalla cintola e la fece volteggiareall’altezza dei loro occhi. Stupiti e ammutoliti per lareazione, i maranesi non fiatarono più, gli lasciaronoriporre nella cesta la grossa preda e proseguire tran-quillo nella pesca.

Accetta “manarin”Arma e utensile primordiale, in selce scheg-

giata prima, poi pietra polita, rame e bronzo, infineferro. Composta di una gorbia ed una lama subtrape-zoidale a filo lunato, perpendicolare al manico, dimolteplici forme nei tempi e mestieri. Il manico è dilegno, solitamente frassino, inserito nella gorbia eforzato da piccoli cunei per la tenuta. Era qui da noiusato prevalentemente per il taglio delle ramaglie sulceppo.

Scure da spacco “manarie di spac”Ha caratteristiche simili all’accetta, ma è più

tozza e pesante, specifica per colpire e fendere comeun cuneo. È composta da gorbia e corpo di notevolespessore, lama subtrapezoidale più o meno accentua-ta, filo lunato perpendicolare all’impugnatura. Ilmanico è in frassino, inserito nella gorbia e forzatoda cunei per la tenuta. Per il suo peso era adatta aspaccare ceppaglie, radici, tronchetti ecc.

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Ascia da cima “manarie di cime”Era considerata la regina degli attrezzi da

taglio del boscaiolo, l’utensile che maggiormenteconsentiva al suo possessore di esprimere le propriecapacità. Era la musa, la compagna del boscaiolo,l’apoteosi della funzionalità ed efficienza. Della stes-sa famiglia delle accette e scuri, l’ascia si distingueper la forma slanciata, sottile, per il peso non ecces-sivo. È efficace nel taglio e può essere brandita inmodo sicuro e misurato. Ha una gorbia leggera,corpo snello, dorso superiore pronunciato sul latoprossimale, quindi concavo e rialzato all’estremità.La lama è trapezoidale con filo lunato sempre arasoio, manico rigorosamente incuneato e in frassino(per il manico si usava questo legno perché non sur-riscaldava la pelle delle mani durante l’uso), consnellimento nei due terzi inferiori e pomo a beccoonde evitare lo scivolamento della presa. L’altezzacanonica non doveva mai superare l’ombelico di chila usava.

L’utilizzo specifico era per il taglio delle cimeonde ottenere il legno tondello. Le persone menoabili svolgevano con questo attrezzo anche il restodei lavori che non richiedevano particolare abilità.

Sega da boscaiolo “seón”Attrezzo di grandi dimensioni, alto quanto e

più di un uomo. Il suo uso richiedeva l’intervento didue persone. Era provvisto alle estremità di dueimpugnature in legno che erano inserite in anelliprofondi, aveva lama piatta di acciaio temperato edelastica, dorso diritto e sottile, filo panciuto al centro,provvisto per l’intera lunghezza di una serie di denticuspidati di diversa tipologia, con affilatura alterna.Era essenziale nel taglio di piante di alto fusto, digrossi ceppi e tronchi di grande diametro. I miglioriesemplari, di gran bella fattura, erano, a quanto ricor-do, di acciaio svedese, a filo con denti merlati e dorsorobusto.

Zappone “sapón”Questo attrezzo, per usare un’immagine figu-

rata, era considerato una grande e brutta bestia dainostri boscaioli, un autentico torcibudella. Era moltopesante e il suo uso, per lo scopo richiesto, alquantofaticoso. Consta di una forte gorbia ai cui lati sonoposte due grandi, lunghe e affilate lame di forma tra-pezoidale, una verticale per il taglio, l’opposta oriz-zontale per lo sterro. Il manico in legno di frassino, asezione conica, più grosso alla gorbia, va rastreman-

dosi all’impugnatura per la presa. È specifico per ildisbosco, per scalzare la terra dalle radici e portarleallo scoperto per poterle tagliare. Il forte manico,usato a mo’ di leva, serviva per svellere le ceppagliaminuta.

Mazzuolo “mazzuele”Di uso saltuario, era tenuto nelle case conta-

dine per l’occorrenza. Era composto da una testa dilegno, solitamente ricavata da un ceppo di olmo,modellata a botte, forata per l’inserimento del mani-co, e con due grosse ghiere in ferro inserite a caldo echiodate sui bordi. Il manico era in frassino, inseritoa tronco di cono. Serviva, con l’ausilio di cunei, aspaccare ceppi, tronchi ecc.

Cunei “conis di spac”Anche questi avevano un uso sporadico.

Erano di ferro, avevano forma di prisma a base trian-golare, con un angolo molto acuto e uno spigolotagliente, adatto, con l’uso del mazzuolo, a penetraree spaccare. Con l’ausilio di più cunei i grossi ceppi otronchi venivano aperti e preparati per il taglio fina-le con la scure.

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È risaputo che nelle vicine regioni dellaCarinzia (Austria) e della Carniola (Slovenia), unatradizione antica aveva sviluppato decine di tipi diattrezzi per ogni mestiere e lavoro. Così, anche per illegno vi erano utensili di ottimo acciaio, forgiati adovere e pure abbelliti con marchi e motivi florealipunzonati. La nostra utensileria locale, povera nelleforme e nei materiali, era invece essenziale, suffi-ciente alla bisogna.

Senza tirare in ballo le famose coltellerie diManiago, i cui prodotti erano noti dappertutto e rico-noscibili dal marchio di fabbrica, in loco non c’erache qualche bravo fabbro il quale, saltuariamente esu richiesta, si prestava a forgiare scuri, asce o altro,senza imprimere alcuna stampigliatura. Pertanto, l’o-pera di questi artigiani è rimasta anonima e un vec-chio attrezzo, magari fortunosamente ritrovato, nonpuò essere loro attribuito.

Infine va ricordato che, con l’avvento dellamotosega, gli utensili descritti sono spariti dalla cir-colazione, venduti a qualche collezionista o raccogli-tore di anticaglie, ceduti a musei ovvero appesi almuro come souvenir.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

Glossarietto

Cimade – Etimo friulano; messa in fascina delleramaglie tagliate dalle “cime”.

Cime – Etimo friulano; grossi rami che si dipartonodal tronco di un ceppo o ciocco.

Culate – Etimo friulano; base di un tronco di altofusto dopo il taglio.

Denti merlati – Cuspidi della sega da boscaiolo adoppie punte.

Greo – Etimo friulano; erbe alte dei praticelli, vero-similmente giunchi.

Murièl – Etimo friulano; legno tondello = grossirami tagliati a segmenti di un metro.

Passo – Unità volumetrica locale di una catastadi legno tondello. Aveva le seguenti dimen-sioni: m 1,15 di altezza, m 1 di larghezza e m4 di lunghezza. I 15 centimetri in altezza,oltre il metro, erano a compensazione delcalo della catasta con l’essiccazione natura-le. Si adoperavano anche le frazioni di passo1/2 e 1/4.

Raspe – Etimo friulano; il taglio dei ceppi o ciocchisecchi o non più in grado di emettere polloni.

Tuartis – Etimo friulano; ramaglie di circa due metriusate per legare le fascine.

Verneglâ – Etimo friulano; taglio e diradamentodelle piante per fascina, che seguiva all’elimi-nazione degli spineti e dei roveti.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

Selve e ricordi

Il primo incontro con il bosco avvenne presto,nella mia vita. Rivedo, nei ricordi di bambino, l’u-scita di casa con mia madre, il nostro raggiungere lastrada Baroso, il seguitare il cammino fino alla Selvadi Arvonchi. Qui vedo mia madre tagliare legnasecca per la fascina e mi osservo mentre gioco, pen-zolando fra i bassi rami.

Ero sempre colpito da quegli enormi alberiche ci sovrastavano, dalle loro verdi chiome che stor-mivano e dal sottobosco fiorito.

Vi è un episodio che mi riaffiora frequente-mente alla memoria, un fatto legato alla guerra: ilmitragliamento da parte di aerei inglesi della dragache operava sul fiume Cormor, all’altezza dell’odier-no imbarcadero. Il crepitio delle armi non spaventòme, ignaro di quello che stava accadendo, maimpaurì molto mia madre, che mi afferrò e si raggo-mitolò stringendomi a sè dietro un enorme ciocco. Lìrimanemmo fino a quando gli aerei si allontanaronoe solo in paese venimmo a conoscenza di ciò che eraaccaduto. Era il 1944, probabilmente a fine primave-ra e io avevo sei anni. In seguito rividi quasi giornal-mente il bosco, per molti mesi, perché le fascineammucchiate diventarono tante.

Con mio padre continuai nel tempo ad andarper boschi, per lavori, a caccia o, qualche volta, araccogliere funghi. Mi è rimasto un profondo, quasimistico amore per questi ambiti naturali e per tutte leloro creature. I nomi dei boschi scomparsi mi sonorimasti nella memoria: Baredi (il toponimo è ancorautilizzato per indicare, sia pure impropriamente, tuttoo parte del bosco comunale rimasto), Badascola I eII, Coronuzza, Coronata II. Di queste formazioniboscose ricordo specialmente le macchie più fitte egli spiazzi magri a “greo” (erbe alte come una perso-na). E c’erano ancora la Toronda II, la Comunella, ilPradàt, il bosco Zignoni e infine il Bando.Il boscoBando, una superba distesa forestale, cadde per ulti-mo... e malamente, aggredito da ruspe e tritolo.Erano i primi anni ’70. Ma proprio a partire dal 1970,quando ormai le superfici boscate si erano ridottedrasticamente, si manifestò per fortuna un crescendodi interesse nei riguardi degli ambienti naturali e ven-nero promulgate leggi, pubblicati decreti e piani diassestamento, istituiti parchi regionali e riserve. Iltutto con lo scopo di salvaguardare anche gli ultimilembi forestali della bassa pianura.

Quanti hanno speso le loro fatiche in questiboschi del paese e tutti coloro che vi hanno fatto visi-ta a scopo naturalistico, ricreativo ecc. non potrannomai dimenticare il profondo senso di quiete, di pace,di armonia, gli odori del sottobosco, i colori, i richia-mi degli uccelli... Una ragione per amare ancor dipiù gli ultimi lembi di paradiso rimasti.

°°°°°°°°È il 1949. In paese accade un fatto che sor-

prende e mobilita la comunità. Una giovane madre,vedova di guerra e con due figlioletti a carico, dura-mente provata dalle difficoltà, attraversa un gravemomento di crisi. Abbandona la sua casa e non si fapiù trovare. Voci di popolo la dicono nascosta nelbosco Zignoni. Parenti e compaesani, tutti, si mettonoalla sua ricerca, ma senza ottenere alcun risultato. C’èchi la scorge da lontano ma lei non si lascia avvicina-re. Riesce sempre a sfuggire alle ricerche. L’aiuta cer-tamente anche la campagna, in giugno i campi sonocoperti di distese di grano e altre coltivazioni.

Lo scalpore di questa “fuga” è tale che anchele scolaresche delle ultime classi delle elementarivengono reclutate con gli insegnanti per perlustrare ilbosco Zignoni e l’ambiente circostante.

Ricordo che partecipai anch’io, con la miaclasse, a questa ricerca, ma il nostro impegno fuvano. La cosa andò avanti per un buon mese emezzo. Alla fine fortuna volle che una guardia cam-pestre la scorgesse da lontano, in località Paradiso,intenta a nascondersi dietro un piccolo cespuglio. Lesi avvicinò con cautela e la vide rannicchiata comeun animale impaurito. La chiamò con dolcezza men-tre si accingeva a prenderla per mano e, chiacchie-rando, la condusse verso il paese. La dolorosa avven-tura era finita. La madre raccontò in seguito chesopravvisse cibandosi di spighe di frumento, spulatecon le mani, di veccia, di more selvatiche, di frutti dirosa canina e bevendo l’acqua di fossi e canaletti. Perdormire c’era un letto fatto con gli steli del frumentooppure un covone di fieno.

Era una bella signora minuta, dagli occhiluminosi, affabile e di modi cortesi. Suo figlio mag-giore mi è carissimo amico, fin da ragazzo e spesso,pensando a lui, riemerge dai miei ricordi l’accaduto.

°°°°°°°

Era il mese di marzo dei primi anni ’50 e mitrovavo nella parte del bosco comunale denominata

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Coronata I. Ricordo un fosso alquanto profondo chesi sviluppava in direzione est-ovest all’altezza delCés da le Bancjdiele e che fungeva da canale di scolodelle acque interne. Era spesso invaso dall’acqua dimarea che risaliva il fiume Turgnano e dilagava per icanali e canaletti suoi affluenti, trasportando un po’di tutto. Mai mi sarei aspettato di vedere nel fosso,pur ricco di acqua, quello che invece ho visto e che

qui racconterò. Mentre attendevo mio padre che eraal lavoro, perlustravo per curiosità il fosso, pieno diacqua limpida e con un fondo dal quale spuntavanoradici ed erbe acquatiche. All’improvviso, a pochicentimetri dalla superficie scorsi tre lunghe sagomescure che increspavano il pelo dell’acqua. Sobbalzaiper la sorpresa. Erano tre pesci, tre enormi lucci infregola. Marzo è infatti il mese in cui depongono le

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Fig. 11.

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Adelmo Della Bianca, I boscaioli di Muzzana

uova, risalendo da fiumi e rogge lungo fossati e cana-letti. Stimai il loro peso. La femmina, enorme ai mieiocchi, doveva pesare intorno ai due chilogrammi, imaschi circa uno. Mi ritrassi con calma e in pochiminuti, con la roncoletta, preparai un arpione lungo epuntuto per la cattura. I tre pesci stavano quasi ferminel loro elemento, mi avvicinai pian piano e lanciaiun’arpionata al più grosso. Sentii l’arma improvvisa-ta slittare su di un ostacolo solido e scivoloso, fu unguizzare potente, con spruzzi che mi raggiunsero. Infrazioni di secondo le lunghe ombre scure fendetteroper metri e metri l’acqua del fosso rendendo invisibi-le ogni cosa immersa. Dopo ripetuti colpetti sul fon-dale con l’improvvisato attrezzo, constatai l’inutilitàdi ogni tentativo di catturare quei pesci. La bramosiaera stata tanta ma la preda mi era sfuggita. Rimanevala consapevolezza che lo scacco subito era stato unbene... per la Natura e per il suo diritto alla sopravvi-venza.

E ora una riflessione. Riandando a questo epi-sodio constato, a distanza di anni, il degrado delnostro bosco comunale. Arginato il Turgnano, peri-metrato con collettori di scolo profondi, tagliato perdi più in diagonale da un altro collettore dalla zonaQuajàt al bosco della Pietra, il bosco comunale haperso il rifornimento idrico e di umidità di cui neces-sitava per la sua flora e l’intero ecosistema è instabi-le e malato.

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Io ero solito trascorrere le vacanze estive aiu-tando mio zio nei lavori agricoli, buon banco diprova per la vita. Ricordo che era il mese di agostodel 1952 e che scaricammo nel cortile accanto allastalla una grossa quantità di ceppi e ciocchi di raspe.Nella casa rurale del nonno paterno, famiglia di cac-ciatori, tenevamo due bellissimi segugi, chiamatiBianco e Pizzul, che erano liberi di vagabondareovunque. Ad essi era stato affiancato un altro giova-ne segugio, ancora privo di nome, acquistato in queldi S. Pietro al Natisone. La bestiola, vivace ed ine-sperta, si diresse con curiosità, come tutti i cuccioli,verso la ceppaglia e si mise a giocare. Mentre noieravamo intenti al lavoro sentimmo improvvisamen-te un lungo guaito ed un ululare di dolore proveniredal mucchio di legname deposto. Capimmo d’istintocos’era successo. Accorsi verso il cucciolo, vedem-mo che sul naso aveva due forellini macchiati di san-gue. Lo zio prese in braccio l’animale, lo depose sul-

l’impiantito dell’ingresso di casa e, rivolto ai fami-liari presenti, disse: “Lo abbiamo perso. È statomorso da una vipera”. Sentii il nonno farfugliare edun brusio di voci che esternavano la pena di ciascu-no. Eravamo tutti costernati e consci del dolorosofinale. La bestiola di lì a poco aveva già la bava allabocca e dopo mezz’ora morì. Senza porre ulterioriindugi, impugnammo due forche prese nella stalla eincominciammo con cautela e circospezione a spo-stare i ciocchi. Alla fine la vedemmo. Era acciambel-lata, sulla difensiva, e incuteva timore. Mio zio lauccise con un colpo ben assestato. Anche morta erabella, con quelle striature a zig-zag, scure e chiare inalternanza, e quella tozza coda.

Non era cosa rara rinvenire queste serpi nellacavità dei ciocchi, loro rifugio preferito. Nei nostriboschi le aspidi sono infatti piuttosto comuni. E siricordano anche disgrazie capitate a persone. Unalapide, incastonata all’interno del muro perimetraledel cimitero di Muzzana, sulla sinistra del nuovoingresso, reca questa scritta:

“Alla cara memoria / di Franceschinis Melania / gio-vane di angelici costumi / da veleno di vipera / rapi-ta all’affetto dei suoi / i genitori dedicano / -18-XI-1895 + 5-VIII-1916 ”.

Non esisteva ancora, a quei tempi, il sieroantivipera, che salvò in seguito persone e animali.

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Fig. 12. La lapide che ricorda Melania Franceschinis.

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L’anno seguente, alla fine della primavera,durante un’escursione nel bosco Coronuzza, sull’ar-gine di fronte alla bonifica, ne uccisi ben sette didette aspidi (Vipera aspis). Man mano che le colpivocon la fionda le appendevo con un bastone su cespu-gli spinosi o secchi, come cibo per le poiane. Eranomolto numerose ed io ero scalzo. Così, un po’ timo-roso, decisi di lasciar perdere.

Nel marzo 1978 e cioè venticinque anni dopoquesta avventura, mi trovavo con mio cuginoAlbertoa caccia sul lato est della Selva di Arvonchi. Ad uncerto punto vedemmo due persone che si agitavanosul bordo di bosco che costeggiava un prato. Intuii diche cosa si trattava e ne feci cenno a mio cugino. Ciavvicinammo e vedemmo che uno dei due stava pra-ticando un’iniezione al collega. Erano due erpetologidi Trieste, che avevo visto anni addietro sempre inquei paraggi. Confabulammo un po’, mentre ilpaziente, pallido come un cencio, se ne stava cogi-tando sul come e perché. Il collega spiegò che l’ami-co, a causa di una mossa incauta, era stato morso dauna serpe e che questo faceva parte del loro bagagliodi rischi. Risposi venatoriamente che novantanovevolte viene colpito il cacciato e la centesima il cac-ciatore. I due erpetologi stavano censendo il numerodi aspidi presenti in quel luogo, catturandole con unattrezzo apposito. Ne valutavano il peso, la lunghez-za, il sesso ecc.

Trassi la conclusione che le disgrazie a voltesi cercano, anche se a buon fine e nel rispetto dellaNatura. L’importante era che l’incidente accadutonon avesse inficiato la loro passione per lo studio e laricerca.

Anni fa, se non erro, il Comune pagava unasomma per la cattura e uccisione di aspidi. Oggi ledisposizioni sono invece per il rispetto e la protezio-ne di tutti gli esseri di un ecosistema, al fine di pre-servarne l’integrità.

Considerazioi finali

Quanto scritto su uomini, fatiche, bisogni, tra-dizioni, fatti, eventi ci obbliga, nel bene e nel male, ariflettere e a rammaricarci per la scomparsa di questeultime risorse naturali, ultime di un immenso patri-monio da noi distrutto.

Il prelievo nel nostro ambiente boschivo èstato così massiccio che, se lo aggiungiamo all’eli-minazione totale di siepi, alberi e cespugli delle cam-pagne, dobbiamo concludere che il panorama attornoa noi è piatto, anzi pulito come “il cûl di un frut”, ilsedere di un bambino.

L’uomo ha considerato come mera necessità,come dovuto alla propria sopravvivenza e cupidigia,il fatto di depauperare costantemente le risorse natu-rali. Ma poiché le segnalazioni negative si susseguo-no in un crescendo allarmante, e il problema è ormaidi tutti, dovremo seriamente riflettere sul nostromodo di vivere e sulla gestione delle risorse disponi-bili.

Il Friuli, in cinquant’anni, è stato reso quasiirriconoscibile dalle trasformazioni viarie, dallo svi-luppo urbano, dalla cementificazione galoppante emassificata.

Se nel prossimo futuro ci saranno provvedi-menti a salvaguardia di ciò che c’è ancora, e di rina-turalizzazione, ben vengano. Perseverare nelladistruzione offende la Natura e le coscienze ed èsicuramente anche un comportamento autolesivo.

Ringraziamenti

Rivolgo un caloroso grazie a mio cugino ErmenegildoBianco e ai compaesani Abramo Gallo, Adelchi Casasola eVincenzo Del Piccolo per le preziose informazioni fornite-mi su ambiente, personaggi e protagonisti. Ringrazio infi-ne sentitamente il prof. Francesco Sguazzin per avermi aiu-tato, con consigli e aggiustamenti, nella stesura del testo.

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