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ANNO VIII MARZO 2008 Numero 1 Euro 8,00 Alla ricerca del bene comune “Dialoghi” – Rivista trimestrale – Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 - CNS/AC ROMA - ISSN 1593-5760 Gianni Borsa Giorgio Campanini Luciano Caimi Giuseppe Dalla Torre Alessandro Ferrara Mauro Magatti Antonio Mastantuono Paolo Nepi Marco Olivetti Ernesto Preziosi Francesco Totaro D ialoghi D ialoghi D ialoghi Alla ricerca del bene comune

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  • ANNO VIIIMARZO 2008Numero 1Euro 8,00

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  • per un progetto culturale cristianamente ispirato

    DialoghiAnno VIII, n. 1

    Rivista trimestrale promossa dall’Azione Cattolica Italianain collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”

    DirettoreLuciano CAIMI

    Direttore responsabilePaola BIGNARDI

    Comitato di direzioneLuigi ALICI, Piermarco AROLDI, Luciano CAIMI, Giacomo CANOBBIO, Giuseppe DALLA TORRE, Gian Candido DE MARTIN,Pina DE SIMONE, Roberto GATTI, Pier Giorgio GRASSI, Francesco MALGERI, Francesco MIANO, Marco OLIVETTI, mons.Domenico SIGALINI, Matteo TRUFFELLI.

    RedazioneGiovanni GRANDI (coordinatore), Antonio MARTINO.

    PromozioneRosella GRANDE

    Comitato scientificoPasquale ANDRIA, Renato BALDUZZI, mons. Giuseppe BETORI, Giandomenico BOFFI, Francesco BONINI, Mario BRUTTI,Paolo BUSTAFFA, Giorgio CAMPANINI, Francesco Paolo CASAVOLA, Lorenzo CASELLI, Carlo CIROTTO, Piero CODA,Francesco D’AGOSTINO, Attilio DANESE, Antonio DA RE, Cecilia DAU NOVELLI, Giulia Paola DI NICOLA, Franco GARELLI,Claudio GIULIODORI, mons. Francesco LAMBIASI, Gildo MANICARDI, Ferruccio MARZANO, Paolo NEPI, Lorenzo ORNAGHI,Orazio Francesco PIAZZA, Antonio PIERETTI, Ernesto PREZIOSI, Paola RICCI SINDONI, Armando RIGOBELLO, Franco RIVA,Ignazio SANNA, Pierangelo SEQUERI, Angelo SERRA s.j., Marco VERGOTTINI, Carmelo VIGNA, Francesco VIOLA, StefanoZAMAGNI, Sergio ZANINELLI.

    EditriceFondazione Apostolicam ActuositatemSede legale: Via Conciliazione 1 – 00193 RomaUffici e redazione: Via Aurelia 481 – 00165 RomaTel. 06/66.13.21 – Fax 06/66.20.207E-mail: [email protected]

    [email protected]

    Progetto grafico e impaginazioneGiuliano D’Orsi

    In copertinaGeorge Grosz, Metropolis, 1916-1917

    Illustrazioni interneTratte dal volume C. Ripa Baroque and Rococo. Pictorial imagery.Dover publications, Inc., 1971

    StampaSo.gra.ro. – Roma

    Reg. Trib. di Roma iscr n. 133/2001 del 3/4/2001

    Tiratura: 4.400 copie – Finito di stampare nel mese di marzo 2008

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  • 1dialoghi n. 1 marzo 2008

    SOMMARIOEditorialePer un laicato maturo. I 140 dell’Azione Cattolica Italiana 2

    di Luciano Caimi e Gianni Borsa

    Primo PianoSessant’anni e ancora molto da dire 6intervista a Oscar Luigi Scalfaro di Ernesto Preziosi

    Dossier:Alla ricerca del bene comuneDov’è finito il bene comune? 20Mauro Magatti

    Genealogia e metamorfosi del “bene comune” 26Paolo Nepi

    Sulla laicità e sul bene. Appunti di un cristiano 34Francesco Totaro

    Non è solo questione di accento 44Alessandro Ferrara

    Il bene comune nel magistero post-conciliare 48Giorgio Campanini

    I nuovi costruttori della solidarietà sociale 58Antonio Mastantuono

    Le Settimane sociali. Coscienza critica e progettualità del bene 70Giuseppe Dalla Torre

    Radici e “derive” del bene 78Marco Olivetti

    Eventi e IdeeLa “seconda fase” del Progetto culturale 86Ernesto Diaco

    Lavoro: la sicurezza è ancora un miraggio 91Cristiano Nervegna

    All’ombra degli ulivi, e sotto il muro 95Paola De Lena

    Il Libro e i LibriSpe salvi: l’originale speranza cristiana 100Giacomo Canobbio

    Presenti al nostro tempo 105Paola Bignardi

    www.rebeccalibri.it, il portale dell’editoria religiosa 109Katia Paoletti

    ProfiliPietro Scoppola. Un cattolico, tra storia e politica 112Cecilia Dau Novelli

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  • Sono trascorsi 140 anni da quando (1868) il viterbese Mario Fani e ilbolognese Giovanni Acquaderni diedero vita alla Società della GioventùCattolica Italiana. Fu il primo passo dell’associazione laicale, che haaccompagnato l’intera vicenda unitaria del Paese. Da allora quanta acquaè passata sotto i ponti!

    Che cosa si prefiggeva la Società di Fani e Acquaderni? Rispondevacosì lo Statuto del marzo 1868: «1) Di formare tutti gl’individui che viappartengono, ad uno spirito franco e coraggioso in professare e praticarepubblicamente la loro Cattolica Religione; 2) Di adoperarsi energicamen-te, e in modo particolare coll’esempio, per ravvivare nella gioventù e nelpopolo il sentimento religioso ed il rispetto e la sommessione all’autoritàdel Romano Pontefice, sostenendone ad ogni opportunità e senza umanorispetto i sacri diritti».

    Proviamo a ritrascrivere con parole nostre quegli obiettivi.Innanzitutto, appariva centrale l’educazione di giovani ben fondati

    nelle convinzioni di fede e, pertanto, disposti a testimoniarle in ogniambiente di vita. Secondariamente, l’accento batteva sulla militanza apo-stolica, per risvegliare nella gioventù la coscienza religiosa. Non mancavapoi il richiamo alla difesa dell’autorità e dei “diritti” del Papa; richiamocomprensibile alla luce delle tensioni fra Stato e Chiesa, alimentate da uncrescente laicismo (vizio, quest’ultimo – sia detto per inciso – duro amorire: ne abbiamo avuto conferma anche dal brutto episodio della man-cata visita di Benedetto XVI all’Università “La Sapienza”).

    Sorta come esperienza giovanile e maschile, l’Azione Cattolica (Ac) si èpoi allargata alle ragazze e agli adulti. Nel 1919 la prepotente entrata in

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    I 140 dell’AzionePer un laicato maturo.

    Cattolica ItalianaLuciano Caimi e Gianni Borsa

    EDITORIALE

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  • scena della Gioventù Femminile di Armida Barelli apriva, infatti, nuoviorizzonti, ulteriormente dilatati dallo Statuto del 1923, che introduceva irami degli Uomini e delle Donne. «Collaborazione dei laici all’apostolatogerarchico» era la formula teologico-pastorale con la quale Pio XI ricono-sceva all’Ac un ruolo particolare nel suo ambizioso progetto, denso dirisvolti sociali, d’«instaurare omnia in Christo».

    Dai ripetuti scontri con il fascismo l’Azione Cattolica uscì temprata. Ilrapporto con il regime fu complesso e tormentato. Sul piano storiografi-co non può pertanto inscriversi in formule univoche e schematiche. Restacomunque vero che l’associazione cercò sempre di tutelare la propriaautonomia, consapevole di essere irriducibile alle logiche politico-totalita-rie. Essa, anche negli anni bui della dittatura, favorì la crescita di coscien-ze libere e sensibili ai più alti valori dell’uomo. Di ciò abbiamo conferma,fra l’altro, dal fatto che parecchi suoi iscritti (in primo luogo i giovani),nei momenti cruciali della battaglia politica anti-fascista, divennero, avario titolo, “ribelli per amore”.

    Uomini e donne provenienti dalle file associative fornirono, poi, uncontributo importante per la definizione della Carta costituzionale el’avvio della democrazia. Alcuni di loro sono ancora tra noi; ad essi vaimperitura riconoscenza. Certo, il quindicennio post-Liberazione, con-traddistinto dal lacerante conflitto con il comunismo e dal crescente pote-re democristiano, determinò una situazione tale per cui la stessa Ac finìcon l’essere coinvolta in dinamiche poco chiare, dove la distinzione fra“azione politica” e “azione cattolica”, teorizzata dalle figure più lungimi-ranti del laicato dell’epoca, ebbe difficoltà a imporsi. Da lì l’esigenza difare chiarezza, sganciandosi dalle ipoteche dei collateralismi.

    La svolta venne dal Concilio. Con lo Statuto del 1969, l’Ac, sotto lapresidenza di Vittorio Bachelet, superò di slancio le ambiguità via viaaccumulatesi. La formula che sintetizzava il nuovo corso fu quella della“scelta religiosa”. Sappiamo che essa andò incontro a critiche, talvoltamalevole, dall’esterno e a interpretazioni non sempre convincenti dall’in-terno. Che cosa s’intendeva indicare con simile espressione?

    Principalmente tre esigenze: primo, puntare all’“essenziale”, indivi-duando ciò nel compito formativo di coscienze cristiane adulte, in lineacon la figura di fedele laico definita dal Concilio; secondo, riqualificare ilservizio associativo entro la missione della Chiesa, con specifico riguardoalla realtà diocesana; terzo, uscire da ogni “servitù” socio-politica, rima-nendo saldo, per altro, l’imperativo categorico dell’impegno verso la “cittàdell’uomo”. L’ultimo Statuto (2003) ha confermato queste linee,approfondendole alla luce del vasto dibattito post-conciliare, nonché dellenuove urgenze intra ed extra-ecclesiali.

    Dal lungo tragitto percorso, si evince, senza ombra di dubbio, che

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  • l’Azione Cattolica ha rappresentato non solo una parte integrante dellaChiesa italiana, ma anche una presenza viva nella storia civile del Paese.Milioni e milioni di giovani, uomini e donne, durante questi 140 anni sisono riconosciuti nel “progetto” associativo, manifestando la propria ade-sione. I bilanci storici sono sempre difficili. Quando poi si considera unavicenda lunga e articolata come quella dell’Ac, bisogna guardarsi dalle let-ture semplificatrici e dai rischi auto-celebrativi. Il cammino dell’associa-zione ha conosciuto fatiche e ritardi (per esempio, almeno sino alConcilio, una certa rigidità culturale, morale e educativa, una lenta matu-razione dell’idea di laicità), ma i punti all’attivo sono molti e di valore. Lipossiamo sintetizzare, dicendo che l’Azione Cattolica ha contribuito apromuovere laici spiritualmente solidi, responsabili verso la missione dellaChiesa e consapevoli di doversi spendere con generosa dedizione negliambiti feriali dell’esistenza (famiglia, scuola, lavoro, politica, cultura,tempo libero...). Pur nel variare dei tempi, dei contesti, delle sensibilità,l’attivazione di un circolo “virtuoso” fra fede e vita è rimasto sempre alcentro dell’associazione. Contro, quindi, visioni dissociate fra dimensionereligiosa ed esperienza quotidiana, spiritualità e impegno, appartenenzaecclesiale e sensibilità storico-civile. L’Ac ha formato generazioni e genera-zioni di fedeli laici, facendo crescere in loro il gusto per una vita secondoil Vangelo, la consapevolezza di essere parte attiva nella comunità ecclesia-le, il convincimento di doversi collocare non ai margini ma dentro lacomplessità storico-sociale.

    Nel Manifesto dell’associazione al Paese, del 29 settembre 2007, intito-lato I cattolici italiani tra piazze e campanili, si dice che proprio da questastoria centoquarantennale «vogliamo riscoprire le radici del nostro futuro».S’intende, cioè, raccogliere il meglio di una così lunga esperienza, per riela-borarlo secondo un progetto aperto ai sempre nuovi bisogni della Chiesa edella società. Ciò implica costante attitudine al discernimento e concentra-zione su quanto risulta essenziale nel carisma associativo. In tale ottica,sono da segnalare alcune conferme dello stesso Manifesto: la «scelta religio-sa», concepita come «primato del Vangelo»; il «servizio alla Chiesa», soprat-tutto nella sua dimensione diocesana; l’impegno per l’uomo, teso a onora-re, sempre e comunque, valore e dignità di ogni persona.

    L’Ac – recita ancora il documento – vuole continuare a essere «scuoladi vocazioni laicali», tramite un’educazione capace di promuovere, con laresponsabilità personale, il senso del bene comune e il gusto per la parte-cipazione democratica. È un punto programmatico importante; esso, unavolta di più, pone in risalto la centralità della «scelta educativa», su cuil’associazione intende investire le migliori energie, al fine di favorire la cre-scita di un laicato serio, consapevole della propria missione.

    In una congiuntura socio-politica e culturale difficile come l’odierna si

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  • avverte un bisogno immenso di laici cristiani davvero “adulti”. Essi nonstanno alla finestra, abbandonandosi al mugugno lamentoso e alla sterilenostalgia, ma, coscienti dei gravi problemi dell’ora, si dispongono respon-sabilmente a «fare la propria parte», là dove la Provvidenza li chiama avivere, per lo sviluppo di una società un po’ più «a misura d’uomo». Sirichiedono loro «stili virtuosi», da interpretare creativamente, come ilgusto per le cose ben fatte, la passione verso il mondo, la capacità di con-divisione, lo spirito di pacificazione, l’attitudine dialogica, il desiderio digiustizia, la forza di «resistenza civile».

    Né – ci sembra – ai laici di Ac possono oggi mancare tensione profeti-ca e propensione al parlare schietto. C’è bisogno di menti illuminate e dicuori sapienti, in grado di “leggere”, oltre la superficie della cronaca quo-tidiana, attese e speranze profonde degli uomini, delle donne, dei giovani,soprattutto dei più deboli ed emarginati; e c’è pure bisogno di apprenderesempre meglio il linguaggio della parresia, fuori e dentro la Chiesa, nonper protagonismi smodati, ma per piena consapevolezza di responsabilitàe giusta autonomia laicale.

    Dopo 140 anni di vita, l’Azione Cattolica non ha esaurito il suo com-pito. Le si chiede di svolgere ancora e meglio la consueta funzione di lievi-to nella comunità cristiana, in direzione di quella “maturità” spirituale,ecclesiale, civile del laicato, che nel contesto italiano resta compito apertoe oltremodo urgente. Sia la celebrazione anniversaria occasione propiziaper un rinnovato slancio in questa direzione.

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  • Isessant’anni della Costituzione sono una data da celebrare.Vorremmo farlo, come periodico dell’Ac, andando ad intervi-stare un socio che ha partecipato personalmente all’AssembleaCostituente...Rispondo volentieri al trimestrale dell’Azione Cattolica, chemi ricorda tante bellissime pagine anche della mia storia. Entrainell’associazione a 11 anni, per desiderio di mia madre, colpitaanche dalla testimonianza di un giovane, nostro vicino di casa,che ne faceva parte. Quel ragazzo divenne il mio presidente diAzione Cattolica, ed ebbi modo di seguirlo nelle sue attività:impiegato di banca, fu apostolo per tutta la vita, con la capacitàdi conservare una trasparenza incantevole. Era Mariano Viasco.Ne ho una memoria e una gratitudine senza fine. Nell’AzioneCattolica conobbi padre Francesco Fasola, religioso diocesano,nominato dal vescovo assistente dei giovani, mentre io ero pre-sidente, e poi ancora assistente degli uomini quando passai aquel ramo. In seguito, dopo la guerra, vennero istituite le giun-te diocesane e, dopo una decina di anni di vita parlamentare, nelasciai la presidenza, ma sono tuttora iscritto all’AzioneCattolica.

    Quando venne eletto all’Assemblea Costituente era quindiinserito a pieno ritmo nell’associazione?

    Quando sono stato candidato all’Assemblea Costituenteavevo 27 anni, ero presidente dell’Azione Cattolica di Novara e

    Oscar Luigi Scalfaroè Presidente emerito

    della Repubblica italiana

    e senatore a vita.

    Ernesto Preziosiè presidente del Centro

    Studi Storici e Sociali

    (Censes). Autore di saggi

    di Storia contemporanea,

    è stato direttore

    dell’Istituto “Paolo VI” per

    la storia dell’Azione

    Cattolica e del

    Movimento Cattolico in

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    «L’esperienza della Costituente è stata una grandissima lezioneumana.EaffermarechequestaCartanonhapiùnulladadire,significanonconoscerla,nonintenderla.Sperononsiavogliaditradirla».Per il 60esimo compleanno della Carta Costituzionale, è congratitudine che raccogliamo, a ricordo “di quei giorni e di quellospirito”, la testimonianza di un protagonista dell’AssembleaCostituenteedellastoriarepubblicana, ilPresidenteemeritodellaRepubblicaitaliana,sen.OscarLuigiScalfaro.

    Ernesto Preziosi

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    PRIMO PIANO

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  • delegato regionale per il Piemonte. Malgrado la giovane età ero andato, sipuò dire, dappertutto nelle diocesi di Novara, di Vercelli e, in parte, diTorino. La notorietà locale era quindi elevata e l’Azione Cattolica mi fufedelissima nell’appoggiarmi per il voto. Ricordo che vi era in lista, tra le“glorie” del Partito Popolare, Gioachino Quarello, di estrazione operaia,proprietario di una piccola azienda, e con una spiccata vocazione giornali-stica (dirigeva infatti il giornale cattolico battagliero di Torino1); era unapersona molto umile e, consapevole della sua impreparazione culturale, sifaceva correggere gli articoli, eppure aveva delle intuizioni politiche digrande perspicacia. Ma, “mistero della politica”, io fui eletto capolista. Siverificò – come posso dire? – il trionfo dell’ignoto, proprio grazie all’ap-poggio dell’Azione Cattolica, anche se accettai con qualche difficoltàquella candidatura. Ero infatti già un giovane magistrato molto impegna-to. Quando mi venne fatta la proposta della Costituente mi rivolsi in con-fidenza ad un altissimo magistrato verso il quale nutrivo fiducia e ammi-razione immensa, nella speranza che mi consigliasse di rifiutare la candi-datura, malgrado l’insistenza che mi veniva fatta, e anzi elogiasse la miascelta. Lui invece mi disse: «Se lei crede, ha il dovere di accettare, anche acosto di perdere la carriera di magistrato». Tornai nella mia città in treno,in uno stato di desolazione e di vero sconcerto.

    Una scelta tormentata ma pur sempre una bella avventura…Affrontai questa avventura che si rivelò essere una pagina eccezionale

    della mia vita e della storia italiana. L’ho vissuta con la stessa partecipazio-ne con la quale avevo seguito qualche anno prima gli studi di leggeall’Università Cattolica con docenti di altissima fama come lo stesso retto-re padre Gemelli. Provenire da quell’Ateneo era un biglietto da visita ecce-zionale e me ne resi conto quando mi apprestai a superare il concorso inmagistratura.

    L’Assemblea Costituente fu una vera scuola, di grandissima intensità.Certamente la mia preparazione era quella di un giovane ventisettenne,che aveva dalla sua parte la freschezza degli studi appena conclusi, e sidoveva confrontare con persone di sessanta o settant’anni, avvocati e pro-fessori, che però – a causa della lunga dittatura – a livello di esperienzademocratica, erano sulla stessa linea di partenza. Questo aiutò molto.Personalmente ho sempre avuto passione per lo studio. Avendo amato ildiritto, già da studente, quando ascoltavo persone che avevano una prepa-razione formidabile ne subivo il fascino, e più ancora quando le stesse rac-contavano le loro esperienze vissute, come ricercatori, docenti, avvocati,magistrati. Ne ricavavo un’impressione enorme: mi sembrava di succhiareda loro il meglio.

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  • È interessante questa dimensione di ricchezza umana che sta sottoli-neando. Per molti dei giovani deputati l’Assemblea fu una grande scuola?

    L’Assemblea Costituente vissuta da un giovane è stata senz’altroun’esperienza unica. Bisogna ricordare che nella sua configurazione, comenumero di eletti, la Democrazia Cristiana risultò il primo partito, ilsecondo fu il Partito Socialista, mentre il terzo – le distanze erano minime– fu il Partito Comunista. Seguivano i partiti cosiddetti minori: il PartitoLiberale, nacque più tardi la formazione Social-democratica, il PartitoRepubblicano “storico”, che riuniva persone che avevano vissuto, lottato epagato duramente l’opposizione al Fascismo, persone che erano statecostrette a vivere all’estero perché non potevano mettere piede in Italia. Vierano tra noi quindi anche veri testimoni. Per noi giovani, almeno parloper me, vi era il ricordo di chi non c’era più.

    Come presidente dell’Azione Cattolica avevo visto giovani partire perla montagna e non tornare: il pensiero di questa “eredità” mi ha seguitosempre lungo gli anni. Quando fui eletto Capo dello Stato, percepivo viva– anche adesso è così – la presenza di chi ha pagato con la vita. In quelmomento solenne dissi: «Sento presenti quelli che non ci sono, quelli checonoscevo e non sono tornati. Mi hanno dato la libertà che il popolo ita-liano aveva perso. Ho il dovere di pagare qualche cosa per questa ereditàdi ricchezza enorme».

    La Costituente era caratterizzata da un sentimento antifascista chesuperava le divisioni e le appartenenze. Come era vissuto questo aspetto?

    L’antifascismo era un sentimento diffuso nell’immediato dopoguerra,dato che in tanti ricordavano le ingiustizie subite durante il Ventennio.Esiste ancora oggi un’associazione di perseguitati e condannati da quellavera e propria iniquità che era stato il Tribunale speciale, organo del tuttopolitico. L’8 settembre fu il momento in cui l’antifascismo divenne arma-to. Ricordo che i giovani e gli adulti che sapevano poco di AzioneCattolica pensavano che nascondessimo un deposito di armi. Quantevolte ancora oggi, andando a parlare di questi argomenti, constatol’interesse che suscito quando dico che non vi era nell’Azione Cattolicanessun antifascismo armato fino all’8 settembre. I cattolici in montagna cisono stati e ci hanno lasciato la vita. Ma il “no” pronunciato da noi era un“no” dottrinale. A scuola – al ginnasio, al liceo – il discorso era: «Tuttonello Stato, tutto per lo Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro loStato». L’insegnamento, persino sul piano giuridico, era: la Persona non ètitolare di diritti primari, perché titolare di diritti è lo Stato, il quale essen-do il titolare – e per utilizzare un termine più chiaro anche se rozzo –essendo il padrone, li elargisce e li sospende quando vuole. Da questodiscorso, bruciante, derivava la risposta non del prete antifascista, ma del

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  • prete qualsiasi che insegnando catechismo diceva: «Noi veniamo almondo come esseri umani creati da Dio con i nostri diritti, i nostri dove-ri e la nostra dignità». Tale impostazione era il “no” totale alla dottrinafascista. L’affermazione, che per noi era catechistica, è stata poi inseritamolto felicemente nella Proclamazione dei diritti dell’uomo del dicembre1948, quando in Italia era già Legge dello Stato, perché la Costituzioneera entrata in vigore dal 1° gennaio 1948.

    Non per questo era affermazione meno importante...Mi piace ricordare l’Assemblea delle Nazioni Unite, perché essa rap-

    presenta significativamente la voce di tutto il mondo in quel momentostorico. All’articolo 1 il documento riporta questa affermazione: «Ogniessere umano nasce libero ed eguale in diritti e in dignità». “Nasce” signi-fica: non deve dire grazie a nessuno. L’articolo 2 della nostra Costituzionerecita: «La Repubblica riconosce», cioè lo Stato, nel momento in cui vieneal mondo per volontà del popolo, senza il quale non nasce la comunitàorganizzata, ha il compito di servire la persona umana. Naturalmentenasce da questo anche il dovere da parte dello Stato di riservareun’attenzione del tutto particolare verso chi è meno idoneo, verso quellaparte di cittadini per i quali la presenza dello Stato deve colmare dei vuotiaffinché il popolo possa camminare il più possibile insieme, con lo stessopasso.

    Lo Stato che nasce dalla persona si inchina alla persona perché ricono-sce che viene prima. Ricordo la famosa citazione di La Pira alla terza sot-tocommissione: la persona è un prius e lo Stato un posterius.

    Quando all’antifascismo, denominatore comune che aveva caratte-rizzato i costituenti nel loro insieme, è subentrato l’anticomunismo cheinvece coinvolgeva più della metà dei costituenti, come è stato possibileelaborare una proposta che facesse riferimento ad un ethos condiviso?Come si è riusciti, pur essendo divisi dall’anticomunismo, a convergere?

    La risposta è molto personale. Indubbiamente c’era un sentire comuneche sfociava in un “no” alla dittatura, condiviso dalla maggioranza. Non viera ancora il movimento di destra; vi erano i monarchici, e qualcuno traloro era stato probabilmente favorevole alla dittatura, ma non era questacomunque l’impostazione del partito monarchico.

    Il punto centrale del “no” al fascismo determinava lo schierarsi per lalibertà nel senso più completo: libertà di espressione, pluralità di partitipolitici, di sindacati diversi. C’era una grande spinta in questa direzione.

    L’Assemblea Costituente, per rimanere libera di pensare alla solaCostituzione, non aveva il compito di approvare le leggi. Però, natural-mente, tutte le questioni politiche venivano discusse, e ciò era importan-

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  • te. Non mancava lo scontro politico, anche duro.Ricordo un episodio: una volta, in Assemblea, l’atmosfera si surri-

    scaldò, si alzarono i comunisti e scesero nell’emiciclo intenzionati ad“andare a botte”. Ci fu un momento in cui noi giovani di vari partiti cichiedemmo: possibile che abbiamo a che fare con persone che ricorronoalla violenza? Uscimmo dall’aula e incontrammo De Gasperi, che amavaparlare coi giovani. Ci rivolgemmo a lui, alcuni con toni decisamentemarcati: «Presidente, ha sentito le nostre lamentele?». Ci ascoltò poi, conquel suo modo con cui sembrava che prendesse ispirazione guardando inalto, disse: «Ho vissuto la stessa situazione da giovane, al Parlamento diVienna, dove rappresentavo gli italiani. Si sono verificate anche là dellemischie, e alcune volte si sono sentiti addirittura degli spari». Si fermòpochi istanti: ci volle dire che non è mai bene usare i muscoli quando sideve discutere; certamente, però, un Parlamento vivo può attraversare

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  • anche momenti negativi, e non è necessario strapparsi le vesti per questo.Il Parlamento è essenziale per la democrazia.

    E il Fascismo, in fondo, partì da questa insofferenza del discutere peruccidere il Parlamento.

    Qual è la cosa molto personale a cui voleva far riferimento?Ho sempre avuto il desiderio di guardare alla vita delle persone. Non si

    dimentica facilmente la testimonianza di coloro che sono stati protagoni-sti di vicende dure e dolorose, che hanno subìto persino la tortura. Avevola sensazione che queste esperienze rappresentassero un denominatorecomune tale da facilitare molto il dialogo tra i costituenti. Diversi episodilo attestano. Quando si votò, ad esempio, l’articolo dei Patti Lateranensi,art. 7, De Gasperi fece un intervento brevissimo con un cenno a quandotalvolta, la sera, esponenti di partiti diversi, nascosti a San Giovanni inLaterano, si rivolgevano insieme al Padre comune che è nei cieli. Sonoconvinto che questa sofferenza, pur vissuta in modo differente, portandoalla preghiera piuttosto che all’esasperazione o alla ribellione, è stata unodegli elementi umani più grandi che ha fatto convergere tutti in un senti-re e in un obiettivo comune.

    Quando si verificò questa “espansione muscolare”, chiamiamola così,pensai: come sarà possibile riprendere a scrivere la Carta insieme? Eppureè accaduto più volte che quando si sospendeva la seduta politica e ripren-deva la seduta costituente, le persone che avevano bisticciato, ancheuscendo un po’ dai binari, riprendevano a scrivere insieme per dare laCarta al popolo italiano. Tutti insieme. Ho avuto lezioni formidabili datutti. Era dominante lo scopo che ci eravamo dati: scrivere la Carta delpopolo italiano. C’era il mondo comunista leninista e c’era il mondo libe-rale e liberista. C’era un mondo repubblicano, particolarmente vivace,con notevoli capacità polemiche nei confronti del potere temporale. C’erail mondo cattolico, con la sua filosofia. Molte spinte varie portavano ascrivere insieme: una lezione di una bellezza indescrivibile sul piano stori-co. È lezione da meditare, perché oggi non vi è nulla di paragonabile, assi-stiamo al trionfo di ognuno che persegue i propri interessi. Occorre statu-ra per poter dire: «Io sono qui per pensare al popolo italiano e tutto ilresto passa in secondo piano». Era l’atteggiamento comune a tutti glischieramenti, i più diversi. Per questo non mi stanco di ripetere chel’esperienza della Costituente è stata una grandissima lezione umana. Eaffermare che questa Carta non ha più nulla da dire, significa non cono-scerla, non intenderla. Spero non sia voglia di tradirla.

    Mi pare interessante il riferimento al quadro internazionale, con ilrichiamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo: com’era la percezione,

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  • dentro l’Assemblea Costituente, di quello che stava accadendo, in segui-to alla guerra, nel quadro internazionale disegnato a Yalta, ma anchecome si andavano definendo le varie scelte nazionali?

    Bisogna dire anzitutto che era stato svolto un lavoro di preparazionemolto accurato. Se non ricordo male era stato costituito un Ministero –guidato da Nenni – e, soprattutto, era stato messo insieme un numeroeccelso di persone colte che avevano studiato le costituzioni di molti Paesi,evidentemente le più recenti. Storicamente potevano anche essere utilitesti più antichi – mi riferisco soprattutto all’affermazione dei valori fon-damentali – ma era altrettanto interessante una comparazione. Venneropoi raccolti i pareri di tutte le università, e quindi di tutti i mondi cultu-rali, degli avvocati, dei magistrati. La fase preparatoria aveva attinto allefonti più aggiornate.

    Il tema costituzionale si intrecciava con il tema politico. La presenzadel comunismo che, dove era al potere, aveva tolto la libertà, costituiva ungrande problema. Nello stesso tempo non si può negare che, per il mondocattolico, la presenza del comunismo significava anche presenza di chiproclamava in ogni modo la tutela dei più poveri, la difesa dei diritti, diquelli che i diritti li conoscevano scritti ma non attuati. Noi cattolici sen-tivamo forte questo richiamo, affatto lontano da quello del Vangelo, unfondamentale appello alla giustizia. D’altro canto, non è pensabile pagarela giustizia con la moneta della libertà, perché spegnendo la libertà si spe-gne tutto, muore anche la pace che è il prodotto finale di verità, giustiziae libertà.

    Da cattolici avevate un’apertura alla dimensione mondiale, al quadrointernazionale?

    Il capo del governo, De Gasperi, un uomo formatosi nel mondo catto-lico, di un’ortodossia assoluta di pensiero sui valori fondamentali, uomotrasparente (basterebbe pensare quale è stata allora la battaglia del mondocomunista, e in parte socialista, contro di lui e in seguito, poco alla volta,il riconoscimento enorme della sua figura), ma anche politico avveduto,era molto attento agli scenari internazionali. Nel corso della mia vita con-sidero l’incontro con De Gasperi, il rapporto personale con lui da cui horicevuto vero e proprio affetto, come autentico dono della Provvidenza.Anche in politica ho sempre puntato anzitutto sulle relazioni e sui valoriumani, che sono il fondamento più grande.

    Si cominciava a muovere il Patto Atlantico, cioè il costituirsi di allean-ze. Il tema principale era la libertà. Il potere, la potenza internazionalecomunista che nasceva a Mosca, legando a sé altri popoli in un impero for-tissimo, aveva una caratteristica: non vi era un Paese dove, insediandosi ilPartito Comunista, si fossero conservate libertà e democrazia. Era un fatto

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  • pesantissimo, che creò uno “scombinamento” oggettivo. La battaglia diallora fu battaglia di libertà. L’aggancio all’America rappresentò anzituttoun’alleanza con un Paese che viveva il rispetto delle persone e dei loro dirit-ti come qualcosa di inalienabile, certo mescolando degli errori, però met-tendo al centro il valore della libertà. Non si può negare che, poco allavolta, nonostante la crisi e la disgregazione dei partiti negli anni ’90 (laDemocrazia Cristiana e il Partito Socialista, le due colonne portanti delnostro sistema politico, sono caduti anche a causa di uomini coinvolti inattività non legittime), si è finito per riconoscere come quella collocazioneinternazionale abbia rappresentato la libertà per il nostro Paese. In un seco-lo dove i grandi stati, i grandi imperi, sono caduti secondo lo schema tra-dizionale della sconfitta in guerra – penso, ad esempio, all’impero austro-ungarico con Francesco Giuseppe, all’impero germanico con Guglielmo II- il comunismo è invece caduto dal di dentro, è come imploso su se stesso.Non posso non ricordare quando Giancarlo Pajetta – con il quale ho avutoun rapporto fraterno – diceva: «Vedo cadere tutte le cose in cui ho credu-to». Lui accettò la caduta delle insegne, la nuova bandiera, grazie alla suaintelligenza, all’onestà intellettuale che più volte ha dimostrato.

    Un rapporto di stima, quindi, quello con un avversario come Pajetta?Con Pajetta, anche nei momenti in cui eravamo totalmente schierati

    su fronti opposti, vigeva rispetto, stima, una grande lealtà. Un rapportosincero. È un altro grandissimo dono della mia prima esperienza politica.

    Torniamo al quadro internazionale: cosa è accaduto con la caduta delmuro?

    Non si può negare ciò che è effettivamente accaduto. Forse non c’èmai stato tanto materialismo da quando il materialismo ufficiale comuni-sta non esiste più. Dopo tutta la sofferenza causata dalle guerre si sonoverificate splendide reazioni anche intellettuali, morali e spirituali; inseguito vi è stato anche un adagiarsi in un periodo di maggiore tranquil-lità e siamo arrivati al G8. Avremmo mai pensato che questa Italia –l’Italietta della lira – fosse equiparabile alle grandissime potenze anche sulpiano economico? Rimanendo vere, giuste, meritorie le strade percorse,penso a quanto si sia perso, di cultura, sui valori fondamentali. Perché,mentre tramontano gli uomini, i princìpi non conoscono tramonto.

    Insieme alla caduta di un impero che ha fatto del materialismo unadottrina, anche chi, in un certo senso, ha vinto la grande battaglia, nonpuò dirsi vittorioso in una società decadente come quella odierna.

    La Costituzione è un punto di partenza per costruire il futuro del Paese?Prendere davvero in mano la Carta Costituzionale vuol dire accostarla,

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  • pensando a quanto è costata, a coloro che hanno pagato questa nascita,alla guerra di liberazione, quindi alla libertà riconquistata, alla repubblica,ai diritti della persona che da “cosa” – come veniva considerata nella ditta-tura – è esaltata nella democrazia. Penso che tutti dovrebbero avere pienacoscienza del significato di quella pagina.

    E i cattolici per primi...Paolo di Tarso dice: «Voi, miei fratelli di religione, non mi giudicate

    perché io vado dall’imperatore: civis romanus sum». È una frase che mi fasempre un’impressione incredibile e che, in sostanza, potrebbe tradursicon queste parole: «Non voglio essere processato da voi, preferisco che latesta me la taglino per ordine dell’imperatore». Perché cito questo episo-dio? Qual è la tensione che avvertiamo noi, mondo cattolico, quando ciesaminiamo come cives? Riprendiamo la Costituzione che celebra 60 annidi vita, leggiamo con attenzione i primi undici articoli, e meditiamolibene. Leggiamo ad esempio l’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra comestrumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risolu-zione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di paritàcon gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordina-mento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favori-sce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

    In esso non si parla più di “Repubblica”, bensì di “Italia”: il discorso siallarga, viene pronunciato un “No” totale, un ripudio molto umano allaguerra. Ciò stride con tutte le alchimie messe in atto oggi per essere pre-senti in alcuni scenari di guerra, senza farne parte. E pensiamo a GiovanniPaolo II che pronunciò lo stesso “No” alla guerra che stava per scoppiarein Iraq e lo disse con una potenza – come sono solito dire – “da laico”,tanto che persone affatto credenti, senza nessuna religione o in contrastoaperto con la Chiesa, si sono sentite interpretate non dal Papa, ma da que-sto uomo che, come capo di una religione, ma principalmente comeuomo, ha detto un “no” molto forte e netto, anche a nome di chi noncrede. La guerra è più forte di tutti noi sommati insieme perché è lo ster-minio della persona umana. Riprendere in mano, studiare laCostituzione, sentirsi e vivere da cittadino, dovrebbe rappresentare unaspinta prima di tutto intellettuale, spirituale, morale che fa appello a cia-scuno di noi.

    Forse anche per questo gli anniversari sono importanti?Nell’ambito di una trasmissione televisiva ho sentito una persona che

    ricopre ruoli di responsabilità citare la Costituzione con una superficialitàimpressionante. Mi sono chiesto se abbia mai letto la Costituzione. Su unarticolo di fondo de il “Corriere della Sera” ho visto due firme che hanno

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  • fatto strame della nostra Costituzione. Con quale autorevolezza? Le per-sone di media cultura rappresentano la maggioranza nella società: è neces-sario allora che il richiamo sia alla portata di tutti, è fondamentale invita-re a “rileggere insieme” la Costituzione. Certamente ci saranno cose nuoveda apportare, altre da migliorare, ma non è possibile – come è già avvenu-to lo scorso anno – presentare una riforma che afferma di «toccare solo laseconda parte» ma che, indirettamente, va a minare i principi fondamen-tali. Porto un solo esempio. Se nella seconda parte della Carta la riformapresenta la figura del Capo del Governo come “onnipotente,” che ha ilpotere di sciogliere, di “mandare a casa” il Parlamento senza che ci sia uncontrappeso di alcun genere (il testo parlava di totale, assoluta, esclusivaresponsabilità del Primo Ministro), questo «toccare la seconda parte» fasaltare il Parlamento. Quindi tocca l’impostazione di fondo della CartaCostituzionale, il marchio democratico con cui si è scritta la pagina cheriguarda i cittadini, la collettività, i diritti e i doveri, e dà respiro di libertàall’insieme.

    Note1Gioachino Quarello (1892-1966) collaborò al quotidiano Il momento, al perio-dico La voce dell’operaio, e appoggiò le principali iniziative della rivista Il lavorato-re. Nel 1945 fondò il quotidiano della Dc piemontese Il popolo nuovo, che dires-se fino alla chiusura dello stesso nel 1958.

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  • Dialoghi1-08p1-77:Dialoghi4/04p1-77 17-03-2008 9:08 Pagina 16

  • Alla ricercaDOSSIER

    del bene comune

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    oncetto chiave della dottrina sociale cristiana, ma anche snodo inelu-dibile della riflessione della filosofia morale e politica, il “bene comune”costituirà l’asse attorno a cui ruoteranno i “Dossier” di Dialoghi per il2008. Questo numero della rivista raccoglie una serie di contributi unifi-cati dallo slogan: “Alla ricerca del bene comune”, e persegue lo scopo di fis-sare le coordinate di base per un ragionamento attorno al bene comune.

    Una serie di interrogativi attraversano i contributi che seguono.In primo luogo quello delle radici e della definizione del bene comune,

    concetto che pare a volte sfuggente e che entra in tensione dialettica conaltre nozioni di bene, o rischia di sovrapporsi con nozioni similari, ma,secondo alcuni, distinte da esso (come quella di bene pubblico: si vedanol’articolo di Francesco Totaro e quello di Paolo Nepi, che della nozione dibene comune indaga le radici). Gli spunti offerti dalla dottrina socialedella Chiesa cattolica – sintetizzati da Giorgio Campanini – che offronoun quadro entro cui collocare la problematica del bene comune, consisto-no più in aperture di orizzonti problematici che in definizioni esaustive edidonee a guidare chiaramente nelle situazioni concrete.

    In secondo luogo quello della possibilità stessa, nell’attuale società occi-dentale, dominata da varianti dell’individualismo liberal-radicale, di undiscorso sul bene comune. E ciò sia da un punto di vista sociologico, cheriscontri – epidermicamente – l’eclisse dell’attenzione per gli interessisovraindividuali e, ancor più, per quelli generali, sia da un punto di vistapiù squisitamente concettuale.

    Un terzo interrogativo riguarda poi gli strumenti per la persecuzionedel bene comune, ove lo si ritenga definibile e possibile. L’individuo e loStato – ente esponenziale della collettività che per eccellenza ha cura degli

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  • interessi generali – sono solo due degli attori chiamati a recitare su questopalcoscenico. La ricchezza del pluralismo sociale indica gli altri soggettichiamati ad interagirvi (ne illustrano le condizioni Mauro Magatti, nel-l’articolo di apertura, e Antonio Mastantuono, nella sua analisi specifica-mente destinata allo Stato sociale e al volontariato).

    Un quarto interrogativo, infine, concerne il discorso sul bene comunequi ed ora, nella società italiana – e più in generale nelle società occidenta-li – nei primi anni del XXI secolo. Da un lato la riflessione del magisterodella Chiesa cattolica offre prospettive nuove – dal Concilio ad oggi – perdefinire quel bene che è comune: in un’era in cui sempre più si avvertel’orizzonte globale in cui questa riflessione va situata e nella quale sonoposti in discussione i fondamenti stessi della concezione dell’uomo, comespiega Giorgio Campanini. D’altro canto va tenuta in considerazione lasituazione italiana attuale, con i segni di frammentazione che emergonovistosamente nel tessuto sociale (si è parlato efficacemente di una sorta di“mucillagine” per descrivere lo stato della società italiana di questi anni) econ le linee di riflessione emerse dalla recente “Settimana sociale deiCattolici italiani”, tenutasi a Pisa e Pistoia nell’ottobre 2007: su ciò il“Dossier” si conclude con l’efficace sintesi di Giuseppe Dalla Torre.

    Naturalmente le prospettive con cui la domanda sul bene comune vieneposta possono essere molto diverse. Se le radici risultano chiare dalla ricostruzio-ne storica di Paolo Nepi, il confronto fra i saggi di Campanini, Totaro, Ferrara eMastantuono mette in luce come le diverse impostazioni culturali e le diverseculture ecclesiali possono condurre a conclusioni tutt’altro che omogenee.

    Ne risulta, per il lettore, un piccolo vocabolario, ricco e polifonico, perorientarsi in una riflessione non più eludibile.

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  • Mauro Magattiè preside della Facoltà di

    Sociologia dell’Università

    Cattolica. Si interessa di

    mutamento sociale e

    antropologico. Tra le sue

    pubblicazioni: La città

    abbandonata, il Mulino,

    Bologna 2007; I nuovi

    ceti popolari, Feltrinelli,

    Milano 2006; L’Io

    globale, Laterza, Roma-

    Bari 2003.

    Dov’è finitoil bene comune?

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    La sensibilità verso il bene comune appare in crisi: si tratta diricostruire un tessuto di mutua responsabilità che contrastile logiche individualiste che sempre più tendono adaffermarsi. Occorre ritornare a ragionare sui mali e sullesofferenze da evitare, sulla dimensione planetaria dellasolidarietà e sul valore dell’essere in società. Senzadimenticare che qualsiasi opera di ricostruzione richiedefatica e pazienza nell’attesa dei risultati.

    Mauro MagattiN

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    el clima culturale contemporaneo, l’idea di bene comune èin crisi: esposti a mille opportunità e altrettanti problemi, igruppi – compresi gli stessi Stati nazionali – sembrano frantu-marsi, con il rischio reale dell’inconcludenza se non della lottadi tutti contro tutti. Di fronte a questo spettacolo – che nel casoitaliano sembra raggiungere il parossismo – non bastano lelamentazioni: per contrastare il degrado che vediamo attorno anoi è bene cercare di capirne le ragioni e trovare nuove vie perarticolare risposte efficaci.

    Come ogni bene, anche quello comune va rigenerato di con-tinuo e ogni generazione ha il compito di declinarlo in rapportoalle condizioni storiche nelle quali le tocca vivere. Sinteticamente,sono due le ragioni più importanti che spiegano lo smarrimentodel bene comune.

    La prima ha a che fare con il prevalere di uno spirito deltempo caratterizzato dal cinismo e dalla disillusione, nel quale siritiene non solo che sia impossibile, ma anche sbagliato, ricerca-re il bene, tanto più quello di tutti. Per quanto possa suonaresorprendente, è proprio l’assenza dell’idea di bene che sembracontraddistinguere questa fase storica. Tale assenza deriva dauna visione radicalmente individualistica della vita: se proviamoun po’ a guardarci attorno (ma forse anche dentro di noi),vediamo dominare la convinzione che sia compito di ciascunodefinire – da sé – quale sia il suo bene. Un bene che – per non

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  • sbagliare – viene poi equiparato a felicità, con tutte le ambiguità che que-sto termine comporta: se non c’è dubbio che la felicità sia un bene, non èaffatto detto che – nelle condizioni concrete nelle quali l’essere umanovive – l’equivalenza tra questi due termini sia sempre garantita. In sostan-za: la ricerca della mia felicità può andare a discapito della costruzione delbene (comune). Inoltre, un tale punto di vista assume che non è possibileper nessuna autorità – religiosa, politica, filosofica – interferire sulla defi-nizione del bene individuale. L’unica implicazione collettiva che sembraessere riconosciuta passa attraverso il tema dei diritti individuali: al più, ilbene comune può essere visto come difesa dei diritti individuali, median-te il processo democratico, che ne costituisce la garanzia ultima.

    Basata su un’estremizzazione del principio individualistico, questaimpostazione porta a diversi paradossi. Il primo è che, mentre ciascuno èalla ricerca della sua felicità, esce di scena l’idea di un bene che non siasemplicemente la somma dei beni individuali. Sappiamo benissimo che cisono dimensioni di bene che sono accessibili solo in modo collettivo (perfare un esempio semplice: noi possiamo godere del bene della sicurezza edella fiducia sociale solo come bene collettivo, che nasce dalla compren-sione e dalla partecipazione di tutti ai vantaggi che derivano da un talebene): ma questa buona ragione non sembra aver presa sufficiente per pla-smare i comportamenti collettivi (soprattutto quando è lasciata alla solabuona volontà individuale, senza incentivi istituzionali efficaci).

    Il secondo è che nel momento in cui si rinuncia all’idea di bene – equindi, a maggior ragione, al bene comune – ne consegue che la realtà siasempre più determinata dall’imposizione da parte di coloro che hanno piùpotere della loro definizione di bene, affermata come semplice dato difatto e non come progetto condiviso. Perdere l’ancoraggio all’idea di unbene comune, significa condannarsi allo status quo, al prevalere della leggedel più forte, alla rinuncia alla costruzione di un mondo migliore. Il casoitaliano docet.

    La seconda ragione della crisi del bene comune deriva dal fatto che ciòche definisce la comunità alla quale l’idea di comune dovrebbe applicarsiappare quanto mai infragilita se non dispersa: i grandi contenitori colletti-vi del XX secolo – la nazione e la classe – su cui si sono fondate le solida-rietà del passato sono entrambe in crisi. Per quanto limitate a gruppi speci-fici, entrambe queste solidarietà – che si basavano sul riconoscimento delsentirsi sulla stessa barca – avevano al loro interno un’istanza universalisti-ca di partecipazione e responsabilità: l’esperienza concreta di chi è vissutonel XX secolo era che, al di là dei confini dello Stato, c’era qualcosa dimolto confuso e vago, sostanzialmente estraneo e irrilevante rispetto allapropria vita. Uno schema che ritroviamo anche nell’idea di classe, laddove

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  • l’ambizione era quella di rivolgersi a tutti coloro che si trovavano nellamedesima condizione (idea espressa nella nascita dell’Internazionalesocialista).

    Ripetiamo spesso che la solidarietà è in crisi. Ma la crisi di questo valo-re è un portato della riorganizzazione strutturale della vita sociale, chetende a sciogliere quei contenitori che dettavano il senso del sentirsi insolido.

    Se proviamo a guardare attorno a noi, vediamo che anche oggi vengo-no di continuo evocati riferimenti collettivi (gruppi etnici, razziali, reli-giosi) che rimangono generatori di solidarietà. Ma tali riferimenti si qua-lificano per la loro parzialità: la solidarietà di cui si parla oggi fa esplicita-mente riferimento a gruppi chiusi, limitati, che si definiscono esplicita-mente per essere in contrapposizione a qualcun altro, che cercano diescludere e dal quale intendono liberarsi. Anche le solidarietà nazionalierano limitate ad un dato territorio: ma, come si è visto, lo sforzo era quel-lo di realizzare una forma di universalismo. Obiettivo a cui di fatto sirinuncia nel momento in cui i diversi gruppi che fanno appello alla soli-darietà interna si toccano e si intrecciano. Ecco perché, per riprenderel’espressione di Esposito, le forme di solidarietà oggi più forti hannoun’evidente matrice immunologica, nel senso che sono invocate per difen-dere l’interno di un gruppo dalle contaminazioni esterne.

    E ciò spiega come mai – paradossalmente – la solidarietà oggi rischia diessere utilizzata per frammentare ancora di più il tessutosociale e per creare contrapposizioni e conflitti. Anche inquesto caso, le vicende italiane possono essere facilmenteinterpretate alla luce di queste considerazioni.

    Per cercare di incidere sul clima culturale di questoperiodo storico occorre riconoscere queste difficoltà e cerca-re le strade per uscire dalla palude nella quale ci troviamo.

    Un primo passaggio consiste nel ritrovare un accordoalmeno attorno a ciò che è male. Se siamo così incerti neldefinire il bene, possiamo almeno trovare un punto di con-

    vergenza sull’idea di male, cioè su tutto ciò che causa dolore e sofferenzanell’esperienza umana.

    A partire da qui, diventa forse possibile recuperare la consapevolezzache il vivere insieme comporta – come conseguenza – l’intollerabilità diaccettare per sé e per gli altri un livello di sofferenza o di male troppo ele-vato. In fondo, da sempre gli esseri umani hanno trovato un accordo pro-prio a partire da tale questione. Combattere la fame, l’emarginazionesociale, l’insicurezza, la violenza, la soppressione della vita nascente, sonotutti terreni che possono essere riconosciuti come comuni. In fondo, si

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    Combattere la fame,l’emarginazione sociale,l’insicurezza, la violenza,

    la soppressione dellavita nascente, sono tutti

    terreni che possonoessere riconosciuti

    come comuni.

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  • tratta di ripercorrere la strada proposta dal decalogo, che ha indicato – perquanto riguarda i rapporti tra gli uomini – forme di male (l’omicidio, ilfurto, l’invidia, il libertinaggio sessuale, la menzogna) da combattere. Lapista è così tracciata: chiedersi quale possa essere la possibile traduzionedel decalogo nella realtà odierna apre un immenso campo di lavoro.

    Un secondo passaggio – questa volta in positivo – va nella direzione direcuperare l’idea di bene attraverso una rielaborazione più adeguata e rea-listica della condizione umana contemporanea.

    Oggi nessuno può più pensarsi indipendentemente dagli altri abitantidel globo. E questo perché, come ripetiamo spesso, siamo interdipenden-

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  • ti. Il che significa che, volenti e nolenti, condividiamo il medesimo desti-no. Per quanto tale affermazione ci possa sembrare evidente, essa è siste-maticamente negata da tutti coloro che invece pensano che sia possibilesalvarsi senza gli altri.

    Ci troviamo di fronte ad un’occasione splendida – inedita nella storia– per praticare concretamente uno dei fondamenti originari della visionecristiana del mondo, quello della fraternità: siamo tutti nella stessa condi-zione che ci accomuna in ultima istanza.

    Sentirsi fratelli – o se si preferisce membri della stessa famiglia umana– significa almeno due cose.

    La prima che nessuna solidarietà locale – e ce ne possono essere tante,secondo la complessa trama della vita sociale contemporanea – può pen-sarsi in contrapposizione con questa solidarietà universale. Si deve direpiuttosto il contrario: la solidarietà universale – per non ridursi ad unamera astrazione, in cui l’altro di fatto non c’è più – va mediata dalla con-cretezza di appartenenze locali, riconosciute però all’interno di questa cor-nice più generale.

    La seconda condizione è che occorre costruire e mettere a regimenuove forme giuridiche che rendano possibile tale articolazione: ed è que-sta una delle principali sfide per il prossimo futuro. Anche perché il prin-cipio di fraternità opera non solo tra i diversi livelli spaziali, ma ancheall’interno di un qualunque contesto territoriale, diventando così un prin-cipio chiave per arrivare a costruire forme di convivenza interculturale.

    Una terza pista di riflessione per cominciare a lavorare per superare lacrisi del bene comune ha a che fare con la riedizione dell’idea di sussidia-

    rietà, che si esprime oggi prima di tutto nella capacità dicontaminare gli apparati tecnico-funzionali (all’interno deiquali è strutturata la nostra vita sociale) con le dimensionietica e relazionale.

    Facciamo l’esempio del sistema economico. Oggi sitende a fare la differenza tra profit e non profit, intese comedue forme giuridiche distinte. Il problema è invece distin-guere tra chi reintroduce una sensibilità collettiva nella pro-pria attività economica (accettando di farsi verificare in talsenso) e chi no. Laddove ciò accade, si apre la possibilità disuperare la scala di valore che attribuisce all’amministrazio-

    ne pubblica il massimo e all’impresa il minimo dell’etica per far nascereforme di economia civile – costituita da operatori economici in grado direintrodurre dentro l’agire economico delle sensibilità esterne, di naturacollettiva. Naturalmente, non è possibile raggiungere un tale risultatosenza attraversare tensioni e contraddizioni. Ma si tratta di interrompere

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    La costruzione delbene comune oggi non

    passa più solo dallasfera politica in senso

    stretto, ma va vistacome uno sforzo corale

    che deve coinvolgeremolti più soggetti e molti

    più settori.

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  • la spirale dell’irresponsabilità per la quale la specializzazione tecnica delmondo impedisce di rigenerare quelle connessioni che altro non sono chela traduzione concreta dell’idea di bene comune. Considerazioni analoghepotrebbero essere svolte per la sanità, la comunicazione, la scuola, la ricer-ca scientifica.

    La costruzione del bene comune oggi non passa più solo dalla sferapolitica in senso stretto, ma va vista come uno sforzo corale che deve coin-volgere molti più soggetti e molti più settori.

    Queste considerazioni ci portano ad una provvisoria conclusione: nonci sono scorciatoie per il bene comune. Ci sono momenti storici in cui èun intero popolo che si deve rimettere in cammino, per arrivare a costrui-re nuovi quadri di sintesi. Quanto è accaduto negli ultimi tre decenni ciconsegna in una fase storica profondamente differente da quella che è allenostre spalle: avvertiamo l’assenza del bene comune, ma non sappiamocome ricostruirlo.

    Per superare una tale impasse, occorrono uomini capaci di tenere unitela testa e il cuore, la ragione e la passione. Occorrono persone capaci diavere lo sguardo lungo e la pazienza del contadino, capaci di coltivare unasperanza autentica e di vedere così ciò che una prospettiva troppo ristrettarende invisibile.

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  • La riflessione sulla “genealogia” e sulle “metamorfosi” dellanozione di bene comune è particolarmente istruttiva. Essa cipermette di cogliere in tale nozione non solo l’aspetto per cuiessa è un “ideale regolativo” della vita pubblica, ma anche ilfatto che la sua declinazione non è univoca e invariabile, ma èsoggetta, pur nella permanenza di un nucleo costante, allemutazioni storico-culturali e al cambiamento dei sistemi politi-ci. Il bene comune è dunque innanzitutto una nozione di carat-tere teorico, ma il suo valore si misura dalla sua capacità diorientare le scelte politiche di una comunità storica, in vistadella soluzione pratica dei problemi che la vita pubblica com-porta. Per questo, vedere la sua genesi e le sue trasformazionipuò servire a capirne anche la sua valenza attuale.

    In questo significato molto ampio, possiamo affermare chenon esiste dottrina politica o regime politico-istituzionale chenon abbia una sua nozione di bene comune. Non è quindi deltutto esatto collegare, in modo esclusivo, la nozione di benecomune al pensiero politico cristiano e alla dottrina sociale dellaChiesa, come avviene in molte interpretazioni laico-liberali. «Ilconcetto di bene comune è proprio del pensiero politico catto-lico, e in particolare, della scolastica nelle sue diverse incarna-zioni da san Tommaso a Jacques Maritain, ed è alla base delladottrina sociale della Chiesa, basata sul solidarismo»1. Questainterpretazione è dovuta al fatto che, dalla nascita della dottrinasociale della Chiesa di fine Ottocento, sono stati soprattutto il

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    Paolo Nepiè docente di Filosofia

    morale all’Università di

    Roma Tre e alla Lumsa.

    Tra le sue pubblicazioni: Il

    Valore persona,

    EuRoma, Roma 1993;

    Individui e persona,

    Studium, Roma 2000.

    Genealogia e metamorfosidel bene comune

    La nozione di “bene comune” è il cardine di una visione socialein cui la Polis non è un freddo intreccio di convenzioni che gliuomini rispettano per non nuocersi a vicenda, ma al contrarioè una dimensione fondamentale della condizione umana. È peròuna nozione difficile, perché difficile – ed avvincente – è laricercadelmaggiorbene possibile pergli uomini sotto i diversicieli storici.

    Paolo Nepi

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  • cattolicesimo politico e il Magistero a far ricorso a tale nozione.Rimettere al centro la questione del bene comune, significa ripartire

    dalle ragioni del patto sociale su cui hanno poggiato, nella seconda metàdel Novecento, le ragioni profonde anche del patto istituzionale che staalla base della Costituzione italiana, di cui quest’anno celebriamo il ses-santesimo anniversario. Riflettere ancora su tale argomento, cercando diricondurre al bene comune gli sforzi e le preoccupazioni degli individui edei gruppi, significa dare un contributo alla soluzione del problema difondo della democrazia in Italia, che consiste nel ritrovare le ragioni fortidella condivisione di una storia che viene da lontano, e che sa guardareancora con fiducia al futuro. E questo in un momento in cui il pluralismoetico e culturale ha raggiunto livelli di guardia, rispetto a cui occorre tro-vare intese che superino la frammentazione del corpo sociale.

    Vedere il bene comune in prospettiva storica non è pertanto una esi-genza di natura prevalentemente storico-filologica, ma risponde anchealle urgenze della contemporaneità. Occorre partire da alcuni chiarimentipreliminari, per non includere in tale nozione un significato troppo vastoe quindi inevitabilmente ambiguo. Il concetto di bene comune è infattiuno dei più complessi della filosofia sociale e politica, in quanto racchiu-de in sé la pluralità dei fini che l’uomo può conseguire con la sua azionenel mondo e nella storia. Il bene comune non è infatti il bene pubblico,che ha il carattere impersonale dei beni che fanno riferimento agli organie alle istituzioni di garanzia, strumenti che finora hanno trovato nelloStato il supremo organo di coordinamento. Il bene comune coincide conil bene pubblico solo nella visione di Hobbes, in cui lo Stato impersonalerappresenta, per i cittadini altrimenti tutti nemici tra di loro, il passaggiodalla situazione di conflitto a quella di pacifica convivenza. Purtroppo loStato moderno si è realizzato, in forme più o meno radicali nel corso dellaModernità, avendo alle spalle la concezione hobbesiana del bene comunecome bene pubblico statuale, e quindi impersonale. Il bene comune, comeha sostenuto Pierpaolo Donati nella sua relazione alla 45a Settimana socia-le (Pistoia-Pisa, 18-21 ottobre 2007), è invece un bene personale, cheriguarda le persone considerate in quanto protagoniste della vita pubblicasia come singoli sia nelle relazioni sociali in cui sono inserite.

    La nozione di bene comune richiama dunque immediatamente unaconcezione dell’uomo che non si dispiega nella pura dimensione indivi-duale. Tutte le versioni dell’individualismo manifestano – per questo –una istintiva insofferenza per la teoria del bene comune. Le concezioniindividualistiche condividono tutte, in misura maggiore o minore, la con-cezione contrattualistica del vivere sociale, mentre la dottrina del benecomune presuppone che la Polis non sia tenuta assieme da regole pura-mente convenzionali, ma rappresenti una struttura che corrisponde alle

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  • esigenze più profonde della condizione umana.La nozione di bene comune, d’altro canto, non comporta necessaria-

    mente una visione collettivistica dell’esistenza umana. Se infattil’individualismo, in quanto assolutizzazione del bene come bene indivi-duale, rappresenta la negazione del bene comune per difetto, il collettivi-smo, in quanto sopprime la dimensione personale, ne rappresenta la nega-zione per eccesso. Nel pensiero di Rousseau, e ancora più decisamente inquello di Hegel, il singolo è infatti subordinato alla totalità sociale, e quin-di la morale subordinata alla politica. Molte versioni del marxismo prose-guiranno sulla stessa strada. Per questo il bene comune, a livello concet-tuale, rappresenta il raggiungimento del massimo possibile di bene perciascuno e del massimo possibile di bene per tutti.

    Il bene comune va inoltre concepito non come pura sintesi aritmeticadi beni particolari. Esso è infatti non solo una meta finale, ma anche unprincipio che presiede alla costituzione della Polis, intesa come organizza-zione della vita buona dei cittadini. La Polis non è infatti un sempliceaggregato “corporativo”, ovvero la semplice trasposizione dell’individuali-

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  • smo personale a quello di gruppo, ma la condizione per l’uomo di vivereuna vita virtuosa e felice insieme ai suoi simili.

    Senza la nozione di bene comune non sarebbe concepibile nessunadelle “forme cooperative” in cui l’agire umano si dispiega, sia in ragionedei bisogni materiali sia in vista del raggiungimento migliore delle suefinalità di ordine morale e spirituale. Esso è dunque connesso ad una con-cezione solidaristica dell’uomo. E questo nel senso che l’agire umano èconcepito nella sua originaria finitezza, per cui solo un agire “cooperativo”può raggiungere quei fini che un agire individualistico non è in grado diperseguire. La nozione di bene, in ragione del suo contenuto oggettivo,indirizza tuttavia l’azione umana verso un fine eticamente apprezzabilecome buono. Anche le azioni malavitose possono svolgersi infatti nellaforma della “cooperazione”, come avviene nel caso delle associazioni cri-minali organizzate, senza per questo rientrare nell’accezione del benecomune a causa della loro intrinseca malvagità.

    Nel bene comune confluiscono beni differenziati, da quelli materiali aquelli connessi alla caratteristica dell’uomo come essere sociale. I primisono chiamati beni di sussistenza, e rientrano quindi nei doveri sociali digiustizia. I secondi vengono invece detti beni relazionali, e rientrano neibeni di fraternità e di carità. Un pasto all’affamato o una cura all’ammala-to sono interventi di giustizia. Questi beni possono tuttavia essere elargitiin forma anonima e impersonale oppure in modo personalizzato e frater-no. Una vera teoria del bene comune implica che i beni materiali venganoelargiti in un contesto fraterno. La solidarietà impersonalebasta a garantire la sopravvivenza ma non la felicità, e fasopravvivere una nozione di Stato che ricorda ancora loStato hobbesiano che governa attraverso la paura e nonvalorizzando l’amicizia civica.

    Il bene comune, infine, è da considerare non comebene sommo e assoluto. Trattandosi del bene che costitui-sce il fine della società politica, si tratta pur sempre di unbene “relativo” (non relativistico) e sottoposto alla criticitàdell’agire umano e alle vicissitudini della storia. Si trattaquindi di un bene a cui si accede per “approssimazione”,non nel senso che i suoi caratteri siano imprecisati, ma nelsenso che si realizza attraverso una prudenziale opera digraduale avvicinamento. Le ideologie totalitarie, che sisono costituite in vere e proprie religioni secolari, con lapretesa di sostituire le religioni positive tradizionali, hanno concepito ilbene politico come una sorta di meta finale compiuta. Il risultato conclu-sivo è stato un cortocircuito tra l’assoluto e il relativo, per cui il “benetotalitario” si è alterato e trasformato nel male assoluto del terrore.

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    Senza la nozione di benecomune non sarebbeconcepibile nessunadelle “formecooperative” in cuil’agire umano sidispiega, sia in ragionedei bisogni materiali siain vista delraggiungimentomigliore delle suefinalità di ordine moralee spirituale.

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  • I Greci avevano identificato nella Polis, in quanto comunità che racco-glieva la molteplicità dei villaggi, la dimensione più compiuta e perfetta acui può tendere l’uomo nella ricerca della vita felice. La Polis rappresenta-va, dunque, il momento unificante di una molteplicità, costituita dagliindividui, dalle famiglie e dai villaggi a cui tale molteplicità confluivasenza perdere del tutto la sua autonomia, ma conseguendo però un livellodi perfezione e di bene altrimenti irraggiungibile. Da notare che spesso lanozione di Polis è tradotta con il termine Stato, mentre dovrebbe esseretradotta con società politica nel senso in cui è impiegata ne L’uomo e loStato di Jacques Maritain. Questi distingue infatti la società politica, comeil tutto, dallo Stato, che ne rappresenta solo una parte.

    La nozione di bene comune, di solito, viene fatta risalire ad Aristotele,al quale si deve la prima indagine “scientifica” intorno alla natura, allefunzioni e alle partizioni dello Stato. Nella Politica, definendo l’uomocome animale politico, egli vede nell’esistenza stessa della Polis il fine piùalto dell’agire dell’uomo. Se la Polis è il fine più alto dell’agire dell’uomo loè perché il fine, nella visione di Aristotele, è anche un bene. «Ogni arte eogni indagine, come pure ogni azione e scelta, a quanto si crede, persegueun qualche bene, e per questo il bene è stato definito, in modo appropria-to, come ciò cui tutto tende» (Etica a Nicomaco, 1094a).

    Vi è dunque una continuità, nel pensiero aristotelico, tra l’agire delsingolo e quello della società politica. Sia l’individuo che la società perse-guono dei fini buoni. Quando tali fini non sono buoni, come nel caso diorganizzazioni malavitose, siamo in un campo che non ha niente a chevedere con l’organizzazione politica. Nelle organizzazioni malavitose puòanche succedere un fatto paradossale, ossia che certi aspetti organizzativi,come il rispetto delle regole o l’amministrazione della “giustizia distributi-va” tra i suoi componenti, funzionino meglio che nello Stato. Ma la distri-

    buzione “giusta” di beni acquisiti ingiustamente non lirende giusti, e neanche il rispetto di regole funzionali alcompimento di azioni ingiuste rende tali regole degne diapprovazione morale.

    Il vero bene comune, nel pensiero aristotelico, è dunqueil bene del singolo che diventa anche il bene della societàpolitica. A questo riguardo è interessante notare che, sem-pre per Aristotele, almeno a livello embrionale, è presenteuna certa nozione di “sussidiarietà”, nel senso che

    l’individuo non è immediatamente cittadino della Polis, in quanto realiz-za la sua vita anche attraverso la sua appartenenza alla famiglia e al villag-gio. Il villaggio è la comunità delle famiglie, mentre la Polis è la comunitàdei villaggi: «La comunità che risulta di più villaggi è la Polis, perfetta, cheraggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa.

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    Il vero bene comune, nelpensiero aristotelico, è il

    bene del singolo chediventa anche il benedella società politica.

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  • Formata bensì per rendere possibile la vita, in realtà per rendere possibileuna vita felice» (Politica, 1252b 28). E la Polis, in questa prospettiva, nonpuò essere altro che la realizzazione di quel bene più alto che, come finedell’agire politico, appartiene a ciascun cittadino e a tutti i cittadini nelloro insieme. In Aristotele, per il quale l’idea del fine ultraterreno dellapersona non è una questione che abbia rilevanza politica, il bene dell’indi-viduo risulta però non totalmente garantito rispetto a quello della comu-nità politica.

    Nel pensiero politico romano si ritrovano alcuni richiami alle teoriearistoteliche. Cicerone vede ad esempio, richiamandosi all’Etica aNicomaco di Aristotele, nell’accordo tra l’amicizia e la giustizia il fonda-mento del bene comune della res publica. Quando l’amicizia entra in con-trasto con il bene comune della res publica, dice Cicerone, occorre sacrifi-care l’amicizia alla giustizia, (Laelius de amicitia). Nelle Lettere a Lucilio,funzionario imperiale dell’epoca di Nerone, Seneca dice che il sapientenon chiederà al sovrano favori personali, ma unicamente il perseguimen-to del bene comune e della pubblica sicurezza. Ma sarà soprattutto il pen-

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  • siero cristiano, mettendola in relazione con l’idea di persona come imagoDei, a sviluppare la nozione di bene comune.

    Le prime formulazioni della concezione del bene comune, in senso cri-stiano, si trovano nella Città di Dio di sant’Agostino. Le due Città, quellaguidata dall’amore perverso di se stessi e quella orientata invece dall’amo-re del bene, si differenziano proprio in ragione del fatto che in una preva-le il bene egoistico e individuale, nell’altra prevale invece un bene chedalla persona giunge a diventare il bene di tutto il popolo (utilitatis com-munio). Sarà però soprattutto in san Tommaso, che riprende dalla conce-zione politica di Aristotele l’idea che la Polis si costituisce in quanto sinte-si non puramente aritmetica, ma con valenza etica, degli interessi dei sin-goli cittadini e delle comunità particolari come la famiglia e il villaggio,che la nozione di bene comune giungerà ad una configurazione in uncerto senso definitiva.

    In san Tommaso, a differenza di Aristotele, troviamo la distinzione trail fine ultimo relativo della società politica, che è di ordine storico, e il fineultimo assoluto dell’uomo, che è di ordine trascendente. In questa pro-spettiva, in cui la scienza politica è subordinata alla teologia (e alla filoso-fia morale), la teoria del bene comune salva contemporaneamente il valo-re storico e naturale della società politica, e quello assoluto e trascendentedella persona. In quanto cittadino, l’uomo deve talvolta rinunciare ai suoiinteressi individuali per il bene comune. Lo Stato a sua volta, che dalpunto di vista storico e naturale è in grado di conseguire un bene comunesuperiore a quello individuale, deve servire la persona nel conseguimentodi quei beni (materiali e spirituali) che occorrono per un vita felice e vir-tuosa, senza contrapporre la legge umana alla legge divina.

    Il pensiero di san Tommaso ha trovato, nel corso del Novecento, unarielaborazione particolarmente interessante nel pensiero politico di

    Jacques Maritain (1882-1973). Maritain fonda il benecomune sull’antropologia personalistica, utilizzando ladistinzione tra individuo e persona. L’individuo, nella suasingolare unicità, appartiene alla comunità come una parteal tutto. La persona invece, in quanto valore in sé e per séesistente, con una vocazione a raggiungere il bene assolutotrascendente, non può essere considerata parte perché è inquesto senso un tutto. Anche in Antonio Rosmini si ritrovaqualcosa di analogo. Egli distingue tra bene pubblico e benecomune. Il primo è impersonale e guidato dal criterio di

    utilità, il secondo è invece di carattere personale ed è guidato dal criteriodi giustizia.

    La nozione di bene comune rimanda dunque soprattutto alla conce-zione della politica tipica della democrazia greca e del pensiero politico

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    In san Tommasotroviamo la distinzione

    tra il fine ultimo relativodella società politica,

    che è di ordine storico, eil fine ultimo assoluto

    dell’uomo, che è diordine trascendente.

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  • medievale. Per questo tale concezione, nel corso del mondo moderno,subirà profonde trasformazioni fino a registrare una vera e propria scom-parsa. La distinzione tra etica e politica, operata da Machiavelli, incon-trandosi con le teorie assolutistiche della “Ragione di Stato”, finirà perespungere totalmente l’etica dalla politica. Dove la funzione della politicasi esaurisce nell’esercizio e nella conservazione del potere, non c’è postoper la nozione di bene comune. L’etica del bene comune rimarrà unnostalgico retaggio di tradizioni di pensiero politico che solo marginal-mente faranno sentire la loro voce nell’Europa moderna. Solo verso lametà dell’Ottocento, e soprattutto dopo la Rerum Novarum, con la nasci-ta e lo sviluppo dei movimenti sociali e politici di ispirazione cristiana, lanozione di bene comune tornerà ad essere una categoria portante del pen-siero sociale e politico.

    Molti vedono nella dottrina del bene comune uno degli elementi chehanno caratterizzato il contributo dei costituenti cattolici alla elaborazio-ne della Costituzione italiana. Anche limitandosi agli articoli 2 e 3, chedefiniscono i doveri e i diritti della persona in relazione al rapporto tra ilbene del singolo e il bene della società, si nota immediatamente che essicostituiscono una sintesi politicamente significativa della teoria del benecomune.

    Nota1N. Matteucci, “Bene comune”, in Dizionario di politica, diretto da Bobbio-Matteucci-Pasquino, UTET, Torino 1990, p. 98.

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    Francesco Totaroè professore di Filosofia

    morale all’Università di

    Macerata. Fa parte della

    direzione del Centro

    Interuniversitario di Studi

    sull’Etica con sede a

    Venezia e del Centro di

    Etica generale e

    applicata con sede a

    Pavia. Recentemente ha

    curato i volumi:

    Nietzsche tra eccesso e

    misura. A confronto con

    la volontà di potenza;

    Nietzsche e la

    provocazione del

    superuomo. Per un’etica

    della misura; Verità e

    prospettiva in Nietzsche

    (Carocci, Roma 2002,

    2004, 2007).

    Sulla laicità e sul bene.Appunti di un cristiano

    Il dibattito sui contenuti del bene comune – che tuttidichiarano di voler perseguire – si fa oggi sempre piùcomplesso: persino alcune idee-guida, come quella di “naturaumana”, sono avvertite come meno dirimenti nelle grandiquestioni etiche. Acquista importanza la capacità di proporreopzioni di vita convincenti, sapendo che la mutevolezza dellesituazioni esige di puntare sempre al bene possibile.

    Francesco Totaro

    «Può un cattolico essere laico e, viceversa, può un laico esserecattolico?». Possiamo prendere lo spunto da questo quesito,posto di recente in una trasmissione radiofonica (sono interve-nuti Rusconi, Scalfaro, Scola, Severino: quest’ultimo convintoche il cristianesimo sfoci inevitabilmente nella teocrazia politi-ca) la quale intendeva affrontare il tema del rapporto tra laicitàe religione (cattolica).

    La domanda, quanto alla prima parte, si presta a essere for-mulata in termini più “istruiti”: può un cattolico far propri iconnotati universalistici – nel senso del più elevato riconoscimen-to possibile da parte di tutti – richiesti a un’etica che voglia esse-re pubblica e, quindi, tenere conto anche di posizioni differentio, talvolta, contrastanti? La risposta esige allora anzitutto unabbozzo di riflessione sul nesso tra “universalismo” ed “eticapubblica”.

    Bene della persona, bene comune, bene pubblicoÈ opinione diffusa o consolidata che l’etica pubblica sia vin-

    colata al requisito di essere universale o di valere per tutti.Questa connotazione riguarda sia l’aspetto delle procedure edelle regole da rispettare nel rapporto degli uni verso gli altriall’interno di un contesto di convivenza comune, sia l’aspettodei beni che devono essere riconosciuti a chiunque proprio peril fatto di appartenere a una condizione condivisa senza preclu-sioni (o, come si dice, senza discriminazioni dovute a differenze

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  • di sesso, di religione, di razza ecc.).Tale condizione condivisa è quella della cittadinanza o della persona in

    quanto essa sia titolare di cittadinanza. Sulla base di questi elementi costi-tutivi, l’etica pubblica cerca di adempiere il proprio compito specifico,che è quello di realizzare la giustizia o un ordine giusto, sia quanto al rico-noscimento dei bisogni e dei meriti, sia quanto al superamento di ciò cheimpedisce di esprimere i bisogni e di apprezzare i meriti.

    L’insieme delle condizioni capaci di promuovere una convivenza giustaviene a costituire il bene comune; si può anche dire che la convivenza èorientata al bene comune quando consente a tutti e a ciascuno di perse-guire un modello di vita buona nella distinzione, e insieme nell’armonia,con altri possibili modelli di vita buona. È acquisizione ormai assodata,infatti, che il concetto di vita buona non coincide con un modello mono-litico e, come tale, astratto, ma va radicato nella capacità per ognuno didare pienezza o fioritura alla peculiarità del proprio essere.

    Qui è il caso di fare una precisazione. Se l’etica pubblica ha come fineconcreto la vita buona di ciascuno, essa non può fare a meno di indicarenon solo condizioni, ma anche diritti e opportunità che vanno attribuiti atutti. Perciò l’etica pubblica, a ben vedere, ha uno statuto misto: per unverso ha come scopo la soddisfazione di ciascuna persona nella propria pecu-liarità irriducibile, per altro verso riguarda modi comuni e condivisi di vita.

    Ma c’è di più, i modi di vita comuni e condivisi non possono essereintesi semplicemente come strumenti utili per ciascuna persona o per cia-scun individuo. Essi si presentano e sono ricercati come beni in sé, inquanto mettono in relazione la persona con altre persone e quindi rendo-no possibile la dimensione “terza” grazie alla quale l’io e il tu si incontranooltre la casualità e la precarietà degli arbitrii individuali, cioè nella stabilitàe nella continuità del pubblico, delle sue istituzioni e delle sue strutture.

    Per inciso, è il caso di dire che oggi alcuni tendono a sottovalutare lafecondità della fruizione relazionale insita nell’ambito pubblico, relegan-do quest’ultimo nell’impersonale logica burocratica e opponendogli inmodo secco la sfera di beni comuni opposti ai beni pubblici. Ora, è veroche il bene comune non coincide con il bene pubblico, e supera le suecodificazioni formali abbracciando anche le esigenze personali non forma-lizzabili, ma, nonostante i suoi limiti, l’ambito pubblico trae la sua legitti-mità dall’essere un luogo di fruizione di beni relazionali e, senza il riferi-mento al bene comune, diventa irriconoscibile.

    Nell’idea di bene pubblico occorre perciò rendere evidente il suo nessoinscindibile con il bene comune, come pure la sua destinazione finale allarealizzazione delle persone. Al contempo, declinando in senso contrario lascansione bene della persona - bene comune - bene pubblico, si deve essereconsapevoli che il bene pubblico non è mai la realizzazione piena del bene

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    dialoghi n. 1 marzo 2008

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  • comune e che le figure del bene comune, a loro volta, non realizzano maicompiutamente il bene della persona.

    Un ingorgoda evitareDalle annotazioni precedenti è emersa la distinzione dei concetti di

    “bene della persona”, “bene comune”, “bene pubblico”. Si tratta di con-cetti che hanno la stessa estensione (coinvolgono tutti), ma una diversaintensione (ciascuno di questi concetti non coinvolge tutti allo stessomodo o non ha in tutti un identico modo di operare). Nel linguaggio tra-dizionale, si può dire che sono nozioni analogiche e non univoche: riguar-dano tutti, ma in modo in parte uguale e in parte diverso.

    L’etica, come riflessione sui modi di agire che conducono alla pienezzadella vita buona, e sulle condizioni che sono in grado di assecondarli e dipromuoverli, deve tenere insieme, e per così dire intrecciare, una tale plu-ralità di beni. Coniugare bene della persona, bene comune e bene pubbli-co o, scusandomi per l’apparente bisticcio, coniugare bene tali beni non èuna tra le tante virtù dell’etica, ma costituisce la virtù etica generalmentepresa ovvero la competenza complessiva dell’etica.

    A questo punto possiamo concentrarci sull’ottica peculiare dell’eticapubblica, la quale – come si diceva – ha a che fare con l’ambito pubblicointeso come bene pubblico. L’etica pubblica – si è visto – è, quanto albene che è chiamata a realizzare, certamente meno ricca dell’etica dellapersona e dell’etica del bene comune. D’altro canto, però, nella sfera del-l’etica pubblica e delle sue regole sembrano giocarsi le chances effettive siadell’etica della persona sia dell’etica del bene comune. Da questo derival’accanimento con il quale oggi si disputa intorno ai contenuti e agli sboc-chi dell’etica pubblica, relegando invece sullo sfondo il confronto sulleconcezioni della persona e del bene comune. Ma ciò che sembra essererelegato sullo sfondo è, in realtà, ciò che fornisce il materiale infiammabi-

    le per le questioni più scottanti dell’etica pubblica. Perquale motivo? Per il motivo che l’etica pubblica, nonostan-te i tentativi teorici di guadagnarne la neutralità rispetto allevisioni del mondo e di renderla una zona franca, è uncampo di contesa nel quale si affrontano di fatto le diversevisioni della persona e del bene comune.

    Cerco di spiegarmi più puntualmente. Uno dei trattisalienti del nostro tempo è certamente il dissenso intorno alconcetto di persona, e segnatamente in rapporto alla vita.

    Quando comincia la persona, quando finisce? Quando la sua dignitàdiventa apprezzabile? Si può modificare o meno il corredo genetico di unessere vivente? Si possono assumere le sue parti a beneficio di altre entitàviventi in atto o in potenza? A che punto dello