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Istituzioni di diritto pubblico A.O., a.a. 2012-2013 – Prof.ssa Silvia Niccolai 182 III. L’ordinamento italiano attuale III.1. La ‘democrazia costituzionale’ tra costituzione formale e costituzione materiale A. La nozione di democrazia costituzionale Premessa: studiare storicamente le istituzioni del presente La forma di stato diffusasi in Europa dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale è designata ‘democrazia costituzionale’. I suoi contenuti di fondo sono il frutto di un ripensamento dei limiti delle esperienze liberali prebelliche, e di una dichiarata volontà di contrasto e differenziazione nei confronti delle esperienze dittatoriali che alcuni paesi, come il nostro e la Germania, avevano conosciuto negli anni ’20 e ’30 del Novecento, e che condussero al secondo conflitto mondiale. Secondo la felice sintesi di Costantino Mortati, influentissimo costituzionalista italiano del secolo scorso, con la democrazia costituzionale “libertà e socialità” divengono i fini dello Stato. La democrazia costituzionale descrive la forma di stato ancor oggi ritenuta vigente in Europa, e nel nostro Paese. Non sono avvenuti infatti, dalla fine della II Guerra Mondiale, in Europa, rivoluzioni o cambiamenti di regime, tali da spezzare, nei paesi che la hanno adottata, la continuità dell’ordinamento e da permettere di parlare di cambiamenti di forma di stato come invece si fa quando, a ragione o a torto (noi abbiamo suggerito: piuttosto a torto) si distingue tra lo stato liberale e il fascismo o come quando si distingue, più a buon diritto, e per esempio, tra l’assolutismo e l’ordine antico. Tuttavia, il tempo che è intercorso dall’epoca della adozione delle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra è stato segnato da cambiamenti profondissimi, e da tutti riconosciuti. Tra questi è uso segnalare, e lo si fa in ogni manuale di diritto pubblico contemporaneo, la crescente integrazione sovranazionale, la globalizzazione delle economie, il deperimento della efficienza dei meccanismi di rappresentanza politica incentrati sui partiti, a sua volta riconducibile al ‘superamento’ della divisione della società in classi, che era stata l’anima e la motivazione della formazione dei partiti politici di massa, i quali non a caso furono veri protagonisti della democrazia costituzionale. Effettivamente, come vedremo nel corso di questo capitolo, non ci si può sottrarre dall’osservare che, a livello di costituzione materiale, e cioè di assetto e dislocazione reale dei poteri, la forma di stato che attualmente è riconoscibile come operante almeno nel nostro paese presenta caratteri molto diversi da quelli che formalmente, stando a ciò che dicono i documenti costituzionali, caratterizzano la democrazia costituzionale, anche se non esistono, nella scienza del diritto pubblico, definizioni utilizzate in modo comune e consolidato per descrivere e qualificare questi cambiamenti.

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Istituzioni di diritto pubblico A.O., a.a. 2012-2013 – Prof.ssa Silvia Niccolai

182

III. L’ordinamento italiano attuale

III.1. La ‘democrazia costituzionale’ tra costituzione formale e costituzione materiale

A. La nozione di democrazia costituzionale

Premessa: studiare storicamente le istituzioni del presente

La forma di stato diffusasi in Europa dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale è

designata ‘democrazia costituzionale’. I suoi contenuti di fondo sono il frutto di un

ripensamento dei limiti delle esperienze liberali prebelliche, e di una dichiarata volontà di

contrasto e differenziazione nei confronti delle esperienze dittatoriali che alcuni paesi, come

il nostro e la Germania, avevano conosciuto negli anni ’20 e ’30 del Novecento, e che

condussero al secondo conflitto mondiale. Secondo la felice sintesi di Costantino Mortati,

influentissimo costituzionalista italiano del secolo scorso, con la democrazia costituzionale

“libertà e socialità” divengono i fini dello Stato.

La democrazia costituzionale descrive la forma di stato ancor oggi ritenuta vigente in Europa,

e nel nostro Paese. Non sono avvenuti infatti, dalla fine della II Guerra Mondiale, in Europa,

rivoluzioni o cambiamenti di regime, tali da spezzare, nei paesi che la hanno adottata, la

continuità dell’ordinamento e da permettere di parlare di cambiamenti di forma di stato come

invece si fa quando, a ragione o a torto (noi abbiamo suggerito: piuttosto a torto) si distingue

tra lo stato liberale e il fascismo o come quando si distingue, più a buon diritto, e per

esempio, tra l’assolutismo e l’ordine antico. Tuttavia, il tempo che è intercorso dall’epoca

della adozione delle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra è stato segnato da

cambiamenti profondissimi, e da tutti riconosciuti. Tra questi è uso segnalare, e lo si fa in

ogni manuale di diritto pubblico contemporaneo, la crescente integrazione sovranazionale, la

globalizzazione delle economie, il deperimento della efficienza dei meccanismi di

rappresentanza politica incentrati sui partiti, a sua volta riconducibile al ‘superamento’ della

divisione della società in classi, che era stata l’anima e la motivazione della formazione dei

partiti politici di massa, i quali non a caso furono veri protagonisti della democrazia

costituzionale. Effettivamente, come vedremo nel corso di questo capitolo, non ci si può

sottrarre dall’osservare che, a livello di costituzione materiale, e cioè di assetto e dislocazione

reale dei poteri, la forma di stato che attualmente è riconoscibile come operante almeno nel

nostro paese presenta caratteri molto diversi da quelli che formalmente, stando a ciò che

dicono i documenti costituzionali, caratterizzano la democrazia costituzionale, anche se non

esistono, nella scienza del diritto pubblico, definizioni utilizzate in modo comune e

consolidato per descrivere e qualificare questi cambiamenti.

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In questo capitolo, noi procederemo prima prendendo confidenza con i contrassegni formali

della forma di stato ‘democrazia costituzionale’, cioè con le aspirazioni poste dichiaratamente

a fondamento dei documenti costituzionali. Tra queste, considereremo in particolare la scelta

pluralista e quella internazionalista. La prima, ampiamente disegnata e contornata da

numerosissime disposizioni costituzionali, è quella che pone il pluralismo politico a base

partitica come meccanismo di espressione della sovranità popolare, e che promuove una

immagine ricca e articolata, policentrica e aperta, della società e del suo rapporto con le

istituzioni; ed è bene dire sin da ora, che questa scelta, così caratterizzante, è tra quelle oggi

meno vive, attuali e effettive nel nostro ordinamento, ciò che è unanimemente riconosciuto

dagli studiosi. La seconda scelta, quella internazionalista, relegata nel caso della nostra

Costituzione a poche frasi, e giustificata formalmente dalla volontà di ricercare tra le Nazioni

una coesistenza pacifica e giusta, ha rappresentato invece il cuore battente della esperienza

politico-istituzionale post-bellica, e, prendendo in modo deciso le vie della collaborazione

politico-economica ha istituito un complesso di soggetti e ambiti decisionali molto influenti a

livello interno, ma altrettanto poco formalizzati, descritti e regolamentati, e il cui operato non

soddisfa quei gradienti di trasparenza, controllabilità e legittimazione democratica che la

democrazia costituzionale senz’altro impone ad ogni potere; ed è un aspetto quest’ultimo che

riceve anch’esso un ampio consenso tra gli studiosi.

Di qui verremo ad approfondire i contenuti materiali delle democrazie costituzionali post-

belliche per come si sono configurati nel nostro paese. Questo ci porterà a concentrarci sulla

traiettoria compiuta dai partiti politici, vera anima della nostra ‘costituzione materiale’ e

cartina da tornasole delle sue trasformazioni. Il punto di vista dal quale approfondiremo la

vicenda dei partiti politici è quello della ‘questione morale’. Analizzarla, ci permetterà di

prendere contatto con il maggiore fattore di cambiamento che ha operato nel corso della

seconda metà del Novecento, ossia la globalizzazione economica, e di tracciare

conclusivamente qualche appunto intorno ai caratteri che contrassegnano la costituzione

materiale vigente.

Tutto questo ci sarà utile per capire come mai, quando verremo a esaminare il corredo di

poteri e attribuzioni che la Costituzione assegna ai vari organi costituzionali, o i diritti e le

libertà da essa disegnate, non potremo che segnalare continuamente discrepanze e

contraddizioni tra il disegno formale dei poteri e delle libertà, e il loro assetto effettivo, e ci

sarà utile, soprattutto, per continuare a ragionare, come noi abbiamo fatto sin qui, del diritto

pubblico in termini storici. Ragionare del diritto pubblico in termini storici significa tener

conto che nelle sue “istituzioni”1

si esprimono direzioni e tendenze concrete dei rapporti di

potere e di forza. Queste ultime, per essere decifrate, richiedono di guardare alle istituzioni

non in modo autoreferenziale, ossia prendendo per buono il modo in cui esse stesse si

1

Per le quali,, è da ricordare, si intendono, giusta il duplice significato che la parola istituzioni ha nel diritto, sia le

istituzioni intese come parlamento, governo, partiti, ecc.; sia le istituzioni intese come i concetti, le categorie, le formule

definitorie in uso nel diritto.

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definiscono (ragionamento in forza del quale i giuristi formalisti durante il fascismo potevano

dire che vigeva ancora l’eguaglianza, dato che non era mai stato abrogato il relativo principio

statutario, mentre intanto gli ebrei venivano rastrellati e inviati nei campi di sterminio), ma

guardandole nel loro contesto, nel loro modo di operare, agli interessi cui rispondono, alle

finalità che perseguono, per come la loro azione li rende riconoscibili.

E’ la molto difficile operazione di non fermarsi al ragionamento tautologico, quello che si

accontenta, per esempio, per di dire che un paese è ‘democratico’, di verificare che in esso

ricorrono periodiche elezioni ‘libere’, cioè a cui concorrono più partiti, e ritiene invece di

dover e poter andare a vedere quali sono i modi, i contenuti e i contesti in cui queste elezioni

hanno luogo, di quale ‘pluralismo’ è composta la pluralità dei partiti necessaria alla libertà

delle elezioni. Questa operazione è cara a qualunque giurista abbia a cuore la democrazia, le

libertà, i diritti. Confrontarne i contenuti ideali di queste espressioni, certo per come ciascuno

li percepisce, li valorizza e li intende, con quelli ‘reali’, è in effetti il solo modo per far sì che

quei contenuti ideali continuino a operare, almeno come proposta, come possibilità,

aspirazione e leva critica.

Lo Stato a ‘democrazia costituzionale’: la nozione formale

I caratteri fondamentali comuni delle democrazie costituzionali novecentesche sono :

o L’adozione del principio di sovranità popolare, per cui la legittimazione delle

istituzioni risiede nel consenso popolare.

o L’adozione di meccanismi di democrazia rappresentativa per rendere effettivo il

funzionamento del principio di sovranità popolare. La democrazia rappresentativa

funziona mediante periodiche elezioni, tramite le quali il corpo elettorale designa i

propri rappresentanti, che poi siedono negli organi di indirizzo politico. Su quese

premesse, la democrazia costituzionale può associarsi a forme di governo diverse

(quella parlamentare, quella presidenziale o semipresidenziale o a cancellierato) e a

modalità diverse di organizzazione e funzionamento dei pubblici poteri.

o La piena legittimazione dei partiti politici come tramite tra società e istituzioni: sono

infatti i partiti politici i soggetti che propongono al corpo elettorale i candidati da

eleggere negli organi di indirizzo politico; i partiti, in quanto portatori di un

programma e di una visione del mondo, rendono possibile a coloro che vi si

riconoscono, votando per i corrispondenti candidati, influenzare il funzionamento

degli organi di indirizzo politico. E’ un cambiamento profondissimo circa le concezioni

della rappresentanza politica, delle sue funzioni, dei suoi soggetti, rispetto a quelle

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accolte dallo stato liberale, e che è il frutto della accettazione del fatto che la società è

solcata da interessi diversi, che nel secondo dopoguerra erano espressamente

riconosciuti come interessi di ‘classe’ diversi, e della convinzione che l’azione delle

istituzioni dovesse essere orientata da questi diversi interessi, secondo il consenso

elettorale che essi riuscivano a raccogliere. Le democrazie costituzionali sono state

perciò descritte come stati ‘pluriclasse’, in contrapposizione allo stato liberale che era

‘monoclasse’ perché aveva peso e influenza sull’azione delle istituzioni solo una

omogenea élite aristocratico-borghese, e in esse hanno acquistato enorme importanza i

partiti politici.

“Mentre nel periodo liberale, il corpo elettorale essendo ristretto e formato dai componenti di

una sola classe legata dagli stessi interessi, l’elezione si limitava a una sorta di ‘designazione’

dei più capaci ed adatti al ruolo politico, che venivano individuati in base alla considerazione

sociale di cui godevano e alla loro posizione economica, senza bisogno di una organizzazione

di base che operi da tramite tra elettori ed eletti, col passaggio alle democrazie fondate sul

suffragio universale, dove i cittadini politicamente attivi sono divisi da contrasti o interessi

economici o di fedi religiose, o da differenziazioni razziali ed etniche, la scelta dei

rappresentanti non può derivare solo da apprezzamenti individuali di capacità, dovendosene

accompagnare altri relativi alla consonanza con l’interesse di ogni gruppo, affinché esso

riesca ad avere eco nella formazione delle decisioni politiche affidate ai rappresentanti:

donde l’esigenza di apposite organizzazioni che stabilmente concorrano a mantenere siffatto

legame, e che sono costitute dai partiti”2

.

Il ruolo dei partiti politici è molto sottolineato dalla nostra Costituzione, il cui art. 49

recita: “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per

concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

o Il riconoscimento della priorità della persona umana e della società civile sulle

istituzioni. Le istituzioni sono considerate, nella democrazia costituzionale,

l’espressione della società e pertanto le loro scelte e azioni devono essere guidate da

essa; le istituzioni sono al servizio della persona umana, non il contrario:

“non l’uomo in funzione dello stato ma quest’ultimo in funzione dell’uomo, nel senso che il

suo fine è assicurare lo svolgimento della persona umana e di garantirne i diritti, e che

pertanto questi sono inviolabili, non possono venire meno neppure col procedimento di

revisione costituzionale, in quanto formano il nucleo intangibile della aggregazione statale”3

.

Sono espressione di queste scelte le ricche intonazioni conferite al principio di

eguaglianza, che nella nostra Costituzione è così formulato : “Tutti i cittadini hanno

pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, razza,

opinioni politiche, di condizioni personali o sociali. E compito della Repubblica

rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e

2

C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Cedam, Padova, 1975, p. 423.

3

C. Mortati, Istituzioni, cit., p. 155.

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l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e

l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e

sociale del paese” (art. 3 commi 1 e 2). Analoga la valenza del principio generale di

riconoscimento dei diritti fondamentali: “la Repubblica riconosce i diritti inviolabili

dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità”

(art.2 Cost.).

o Il riconoscimento di una gamma di diritti e di libertà molto più vasta di quella che era

propria dello stato liberale: non solo libertà civili, ma anche diritti politici e diritti

economico-sociali. La visione della persona umana promossa dalle democrazie

costituzionali non è quella di un individuo isolato e che si preoccupa solo dei suoi

affari privati; né la società auspicata dalla democrazia costituzionale è una solcata da

differenze di posizione che separano individui e gruppi; la democrazia costituzionale è

consapevole che il singolo può dispiegare i valori di cui è portatore solo insieme ad

altri, nelle relazioni sociali e nei contesti cui partecipa; ed è consapevole che i rapporti

di produzione e di scambio, dominati da leggi economiche apparentemente in sé

razionali, non sono in grado di realizzare meccanicamente l’optimum di benessere

sociale, rischiando al contrario, come la storia ha dimostrato, “di mettere in condizione

di grave inferiorità gli esclusi dal possesso dei mezzi di produzione e di promuovere la

concentrazione di questi ultimi in poche mani, con la conseguente eliminazione dei

benefici della concorrenza”. In sintesi, la democrazia costituzionale è portatrice di una

visione solidarista o sociale in cui

“il compito assunto dallo stato è quello di promuovere una più intima solidarietà tra i suoi

componenti, mediante l’eliminazione delle stratificazioni di potere che generano uno spirito

classista e conducono a conflitti radicali di interessi tra parte e parte della popolazione”4

.

o L’affidare a un documento normativo dotato di particolare forza e valore, la

Costituzione, la enunciazione dei principi di fondo dell’ordinamento, inerenti i diritti e

le libertà e l’organizzazione dei pubblici poteri; e l’attribuire a questo documento

carattere ‘rigido’ (la Costituzione non è modificabile con legge ordinaria) e ‘superiore

alla legge’ (le leggi ordinarie non possono abrogare la costituzione; al contrario, in caso

di contrasto con essa sono viziate e possono essere annullate da un giudice

appositamente istituito, che nel nostro ordinamento è la Corte costituzionale).

Come vedremo, l’inserimento nell’ordinamento giuridico della Costituzione ha

significato, insieme ad altri fattori, un cambiamento molto rilevante nel ruolo

complessivo della giurisdizione, che ha acquistato nel suo complesso stili interpretativi

e argomentativi, e di conseguenza un tipo di interlocuzione col ‘diritto positivo’ (la

4

C. Mortati,Istituzioni, cit., p. 142-143.

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legge), da un lato, e con la società, dall’altro, del tutto nuovo rispetto a quelli che si

erano consolidati nel periodo liberale.

L’intonazione antimaggioritaria della democrazia costituzionale

In quest’ultimo tratto (la superiorità e rigidità della Costituzione a protezione dei valori

comuni della convivenza) consiste il caratteristico atteggiamento antiautoritario e

antimaggioritario delle democrazie costituzionali. Esse infatti, nate in paesi che avevano visto

dittatori come Mussolini e Hitler salire al potere in forza di libere elezioni, sono il frutto di

una duplice esperienza e di una duplice riflessione: quella sui mali dell’autoritarismo, da un

lato, e quella sui rischi della democrazia, dall’altro. Le democrazie costituzionali accolgono in

pieno il principio democratico sotto il profilo del fondamento della sovranità, in quanto essi si

fondano sulla sovranità popolare e su meccanismi elettorali universali (tutti i cittadini,

indipendentemente dal sesso, dalle condizioni economiche o di istruzione, acquistano il

diritto di votare e di essere eletti al raggiungimento di una certa età). Tuttavia, le democrazie

costituzionali non accettano completamente il normale corollario del principio democratico,

che è il criterio di maggioranza. Questo informa quasi tutte le manifestazioni della vita

istituzionale (le leggi si votano a maggioranza), ma con alcuni limiti. Intanto, la Costituzione

non può essere modificata con decisione della sola maggioranza (per votare revisioni della

costituzione sono richieste maggioranze più ampie, e, come vedremo, non tutta la

Costituzione è modificabile). Inoltre, un ruolo molto importante è affidato a istituzioni non

elettive e non rappresentative di maggioranze politiche, a cominciare dalla Corte

costituzionale, ma compresa la magistratura, e, secondo concetto, il Capo dello Stato, che

dovrebbero operare come garanti del rispetto e dell’equilibrato svolgimento delle regole.

La dimensione ‘pluralista’ (politica e istituzionale) delle democrazie costituzionali

Le democrazie costituzionali del dopoguerra sono caratterizzate da una intensa scelta in

favore del pluralismo, ciò che è vero in particolare per la nostra Costituzione.

Pluralismo politico sociale

Intanto vi è, come discende dalla scelta in favore della sovranità popolare fondata sulla

rappresentanza politico-partitica, il pluralismo politico e sociale: la democrazia costituzionale

accetta e favorisce l’esistenza nella società e nell’opinione pubblica di visioni e di

aggregazioni di interesse e di valore diverse. Essa si oppone, intanto, ai modelli totalitari ‘a

partito unico’, in essa “i partiti politici diventano capaci di controllare e dirigere l’azione del

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parlamento e del governo”5

, ma, appunto, i partiti, non uno, e per effetto dei cangianti

orientamenti dell’elettorato, che possono premiare ora questo ora quel partito. Il pluralismo

politico partico è peraltro solo una specie di un genere più ampio di pluralismo, il pluralismo

sociale o delle formazioni sociali, che risale alla visione della persona umana promossa

dall’art. 2 della nostra Costituzione, il quale, come già ricordato poco sopra, recita:

“La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali in

cui svolge la sua personalità”.

Questa disposizione costituzionale esprime, insieme al principio di centralità e rispetto della

persona umana, o principio personalista, anche una certa visione della persona: la democrazia

costituzionale non immagina gli individui soli nella società e individualmente in rapporto col

potere pubblico; essa promuove, invece, l’idea che le persone vivano la loro vita insieme ad

altri, creando legami, associazioni, forme di collaborazione e solidarietà e promuovano in tal

modo visioni del mondo molteplici. In tal modo, le democrazie costituzionali assumono come

propria missione quella di contrastare ogni tendenza al totalitarismo, alla chiusura del

discorso pubblico intorno ai soli valori che i poteri vogliano accettare o abbiano interesse a

promuovere.

Il principio di pluralismo politico-sociale, cui sempre si annoda la concezione personalista che

informa la Costituzione, è talmente basilare nel nostro ordinamento (ma analoghe

considerazioni potremmo fare per le altre democrazie costituzionali europee) che lo

ritroviamo in moltissime disposizioni costituzionali. Per esempio, il riconoscimento della

famiglia (art. 29 Cost.: “La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale

fondata sul matrimonio”) significa anche che ogni famiglia può avere un proprio progetto

educativo, proporsi di trasmettere valori e mentalità diverse da quelle dominanti (perciò è

riconosciuta anche, accanto alla scuola pubblica, la scuola privata: art. 33 Cost.6

); il

riconoscimento dei sindacati (art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera”) vuole che la

visione del mondo del lavoro e dei suoi interessi e bisogni non venga solo dalla parte dei

datori di lavoro, che sono ovviamente i più forti. Il riconoscimento della libertà religiosa, delle

confessioni religiose diverse dalla cattolica (art. 8 Cost.), e delle minoranze linguistiche (art.

6) il riconoscimento della scuola (art. 34: “ La scuola è aperta a tutti”) e dell’università,

dell’arte e della cultura sono altrettanti principi che aspirano a promuovere una vita pubblica

articolata e discorsiva (art. 33: “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”).

Anche i partiti politici sono formazioni sociali, e pertanto il pluralismo politico partitico è

espressione della più ampia scelta a favore del pluralismo sociale.

5

R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 37.

6

principio che fu dettato essenzialmente per proteggere la scuola cattolica, che costituisce da sempre la principale

forma di scuola privata in Italia, e circa il quale si discute se la precisazione posta dalla Costituzione, per cui il

diritto di enti e di privati di istituire scuole e istituti di educazione deve essere esercitato “senza oneri per lo stato”,

sia sempre rispettato.

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Pluralismo istituzionale

Inoltre, il pluralismo può essere accolto, e, nella nostra Costituzione è accolto, come

pluralismo istituzionale.

Il pluralismo istituzionale significa che la vita della cittadinanza non è organizzata e

convogliata solo sullo stato e le sue strutture, ma anche su organismi territoriali di

autogoverno. In questa accezione, il pluralismo corrisponde al riconoscimento delle

autonomie locali e risale all’art. 5 della Costituzione (il quale stabilisce che “La Repubblica,

una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono

dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi e metodi della sua

legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”). Le disposizioni poste dall’art.

5 stabiliscono il superamento di una forma accentrata di stato e la scelta per la distribuzione

del potere politico e amministrativo sul territorio.

La concezione non autoritaria del diritto promossa dalla scelta pluralista

La scelta pluralista dà senso al fatto che la nostra Costituzione utilizza in molti casi, a

preferenza del termine ‘Stato’ quello di Repubblica, il quale vale a indicare che la comunità

nazionale è formata da molte componenti, oltre all’apparato statale, e che l’unità della

nazione è il prodotto dinamico delle relazioni tra queste componenti. E’ una scelta

intimamente legata alla concezione non autoritaria dello Stato e dei pubblici poteri che le

democrazie costituzionali incorporano allorché scelgono che le istituzioni siano guidate dalla

volontà popolare e pongono la persona umana alla base della organizzazione pubblica. La

Costituzione, dunque, con la scelta pluralista, promuove, anche, una visione del diritto che lo

emancipa dalla equivalenza tra ‘legge” e “volontà dello stato’ cui lo avevano ridotto le

concezioni ‘positivistiche’ e ‘statualistiche’ liberali. Il pluralismo si accompagna infatti al

riconoscimento dell’autonomia, cioè della capacità di ispirare la propria vita e attività a norme

prodotte da sé: le formazioni sociali, come gli enti locali, sono altrettante istituzioni in cui si

organizza la vita delle persone, e che hanno una, diversamente estesa, ma sempre presente,

capacità di darsi proprie norme, come accade con gli statuti di una associazione, le regole di un

club. Hanno autonomia gli enti locali, le Regioni; ma ce l’hanno anche le associazioni private,

le formazioni sociali: sono norme che si coordinano variamente a quelle statali, dovendo

armonizzarsi con esse, ma che esprimono una cosa molto importante: che il diritto nasce non

solo dallo stato ma dalla socialità della natura umana.

Proprio a sottolineare questo si volgeva la ‘teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici’,

sviluppata negli anni ’20 nel Novecento (contemporaneamente al francese Duguit)

dall’eminentissimo giurista siciliano Santi Romano. Facendo notare che lo stato è un

ordinamento tra altri, o è il contenitore in cui coesistono più ordinamenti, che c’è diritto ogni

qual volta c’è un ‘ordinamento’, cioè un insieme di persone legate da interessi comuni,

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sottolineando che questi minori ordinamenti sono portatori ciascuno di una propria

giuridicità, Santi Romano, contestando il positivismo statualista che aveva dominato nel

periodo liberale, tornò a insegnare che il diritto non è una cosa che nasce dall’alto, che viene

riversata sulla società dalle autorità statali, che appartiene solo a queste che pertanto possono

dettarlo e modificarlo come vogliono. Il diritto, ricordò Santi Romano, è, al contrario, un

criterio di impostazione delle relazioni umane e trova in esse la sua ragione d’essere e la sua

funzione. La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici era consapevole che la

convinzione, veicolata dal positivismo statualista, per cui il diritto è solo l’insieme dei comandi

che l’autorità pubblica esprime, e pertanto non c’è diritto fuori, davanti, o contro quei comandi,

è pericolosa e dannosa perché spoglia gli individui e la società, nelle sue varie articolazioni, del

senso della propria competenza e responsabilità in ordine alla qualità delle relazioni che essi

intrattengono con altri, così come della consapevolezza di essere titolari di diritti non del tutto

disponibili dal potere statale, il quale del diritto non ha il monopolio.

L’integrazione sovranazionale (politica ed economica) quale scenario delle democrazie

costituzionali post-belliche

Senza trascurare gli importanti esperimenti di collaborazione sovranazionale avviati tra le due

guerre7

si deve notare, come caratteristica specialmente innovativa delle esperienze politiche

nate nel secondo dopoguerra in Europa, è che esse sono state caratterizzate da un

elevatissimo grado di integrazione sovranazionale, cioè esse si sono svolte all’interno, e al

cospetto, di reti di relazioni internazionali, al cui svolgimento sono preposte specifiche

organizzazioni destinate a promuovere la cooperazione economica e politica, tra i diversi stati

europei8

.

La scelta internazionalista è spesso testualmente enunciata nelle Costituzioni del dopoguerra,

come avviene nel caso del nostro art. 11, che proclama il ripudio della guerra ‘come mezzo di

risoluzione delle relazioni internazionali” e permette “le limitazioni di sovranità necessarie a

dar vita a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli”. Inoltre, per effetto

di una modifica costituzionale introdotta nel 2001, la nostra Costituzione sancisce il dovere

del legislatore nazionale e regionale di conformarsi agli obblighi nascenti dalla nostra

appartenenza all’Unione europea e ad altri obblighi internazionali (art. 117/1).

Naturalmente, le aperture internazionaliste della nostra, come di altre, Costituzioni, sono fatte

all’interno della opzione generale per la democrazia rappresentativa, come a dire che lo Stato

7

Vale a dire, specialmente la Società delle Nazioni, fondata nel Trattato di Pace successivo alla Prima guerra mondiale,

a Versailles, nel 1919, e poi sostituita dall’Onu, nel 1946, e che doveva operare per favorire le relazioni diplomatiche

e il controllo degli armamenti, onde prevenire un nuovo conflitto mondiale.

8

Propriamente, nel primo trentennio successivo alla conclusione del conflitto mondiale, queste organizzazioni si

proponevano di incrementare la collaborazione tra gli Stati Europei appartenenti al ‘blocco occidentale’ (che si

contrapponeva ai paesi ‘oltrecortina’ ossia all’Urss e alle Repubbliche comuniste dell’Est europeo, a loro volta

componenti un insieme di Nazioni oltremodo integrato), e gli Stati Uniti d’America.

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si apre alle relazioni internazionali convogliandole e armonizzandole nella propria struttura

democratico-elettorale. Tuttavia, e questo già ci prepara a considerazioni inerenti l’assetto

materiale delle costituzioni democratiche del dopoguerra, fin dalla loro fondazione e sempre

più nel corso della loro esperienza le relazioni politico-economiche internazionali si sono

configurate, nei loro confronti, come fonte di condizionamenti decisivi non sempre filtrati e

armonizzati con l’assetto costituzionale formale. Questo è stato specialmente vero per il

nostro paese, dove, in particolare, l’unica presa d’atto a livello costituzionale della

appartenenza all’Unione europea, così condizionante e importante per la vita nazionale, è

avvenuta nel 2001 con la appena ricordata formulazione dell’art. 117/1. Questa disposizione,

sia detto per inciso, descrive, in modo non del tutto felice, il rapporto tra obblighi comunitari

e internazionali, da un lato, e ‘legge’ nazionale (che è il prodotto della volontà popolare

espressa negli istituti della democrazia rappresentativa), dall’altro lato, come un rapporto

verticale, dall’alto verso il basso, per cui le scelte sovranazionali si impongono al legislatore

nazionale. Si deve dare atto che in altri Paesi, e segnatamente in Germania, le tappe

dell’adeguamento dell’ordinamento interno a quello comunitario sono state seguite con una

maggiore accuratezza che non da noi, spesso preoccupandosi, attraverso il processo pubblico

della revisione costituzionale, di ricalibrare espressamente le attribuzioni degli organi

nazionali, e in particolare delle assemblee rappresentative, mano a mano che il processo

decisionale si è venuto spostando da essi al livello sovranazionale. In tal modo si è riusciti,

altrove, a immaginare e a praticare forme di coinvolgimento, consultazione, controllo e

influenza della politica nazionale abbastanza ben contornate e che continuano a garantire a

questi organi una interlocuzione relativamente attiva con quelli sovranazionali europei, ciò

che in Italia non è accaduto, e solleva, ormai da molto tempo, serie preoccupazioni presso gli

studiosi circa la esclusione dell’organo rappresentativo, il parlamento, dalla decisione delle

politiche europee, a tutto favore dell’esecutivo.

Ma, riservandoci di riprendere queste considerazioni in una fase successiva del nostro studio,

limitiamoci adesso a prendere le misure di quanto è stata sin da subito estesa la dimensione

sovranazionale che ha incorniciato le democrazie costituzionali del dopoguerra in Europa.

Una sintetica mappa delle reti e delle organizzazioni sovranazionali in cui le democrazie

costituzionali del dopoguerra si sono trovate sin da subito inserite deve iniziare menzionando

il Piano Marshall, ossia il piano di aiuti economico finanziari istituiti dagli Stati Uniti nei

confronti dei paesi europei le cui economie erano state distrutte dal conflitto mondiale.

L’azione del Piano Marshall si è svolta tra il 1948 e il 1951 ma ha anche segnato la nascita, tra

i paesi europei, di un organismo chiamato allora OECE e oggi OCSE, destinato allo studio e

messa a punto di forme di cooperazione economico politica utili a massimizzare l’utilizzo dei

fondi erogati nel contesto del Piano Marshall, e ancora oggi operante spesso in posizione

complementare alla Unione europea.

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192

La Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale

I rapporti economico finanziari tra le economie nazionali sono stati gestiti, nel dopoguerra, e

precisamente tra il 1944 e il 1971, con gli accordi di Bretton Woods, che prevedevano un

sistema di cambi fissi tra le monete incentrato sul dollaro e sulla convertibilità in oro di una

sola moneta, appunto il dollaro. Il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca

internazionale per gli investimenti (Banca mondiale) vennero creati all’interno degli accordi di

Bretton Woods; la Banca Mondiale, in particolare, era chiamata a compiere le operazioni di

credito a favore di paesi in disavanzo (cioè la cui bilancia dei pagamenti era in perdita).

Questa impronta keynesiana (dal nome di J.M. Keynes, l’economista famoso per avere

insegnato che ciò che traina le economie è lo sviluppo, il quale se occorre va reso possibile

anche ‘finanziando il debito pubblico’, cioè con investimenti che costano fino a creare uno

squilibrio in perdita tra entrate e uscite dello stato) fece sì che gli anni fino al 1971 siano stati

di intensissima crescita economica e di impressionante diffusione del benessere in tutti i

paesi europei. Un benessere che in molti paesi ha consentito il consolidamento, anche, di

cospicue strutture di servizio sociale come nei campi dell’istruzione, della sanità, dei

trasporti, dei servizi alla persona. Gli accordi di Bretton Woods furono abbandonati dagli Stati

Uniti nel 1971: l’evento, che come ricorderemo più avanti segna la data di nascita della

globalizzazione, ha significato anche la trasformazione del ruolo della Banca Mondiale, e del

FMI, i quali hanno adottato nuove, e contrarie, dottrine economiche in forza delle quali esse

concedono prestiti alle economie in difficoltà solo a condizione che quelle adottino specifiche

politiche di contenimento del debito pubblico (cd. austerità finanziaria).

L’Onu e la Nato

Nel 1949 a Washington, nell’ambito dell’Onu, Organizzazione delle Nazioni Unite, che nel

1945 aveva preso il posto della Società delle Nazioni (e a cui l’Italia aderisce dal 1955) veniva

fondata la Nato, l’0rganizzazione del Trattato del Nord Atlantico. La Nato è una alleanza

politico militare di mutua difesa tra gli stati aderenti (l’art. 5 del Trattato prevede che un

attacco armato contro uno Stato membro sia considerato quale attacco diretto contro tutte le

parti, impegnando ognuna ad assistere la parte o le parti attaccate, facendo ricorso, se

necessario, all'impiego della forza armata). Nell’ambito dell’Onu opera anche una Assemblea

parlamentare che ha il ruolo di favorire l’incontro e la discussione di problemi geopolitici

mondiali tramite periodiche sedute che riuniscono i capi di stato e di governo dei diversi

paesi.

In questa cornice di relazioni economico politiche tendenti a organizzare le relazioni

internazionali post-belliche si inserisce una esperienza di integrazione prima economica, e

poi politica, tra gli Stati Europei, che oggi conosciamo come Unione Europea.

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193

L’Unione europea

L’Unione europea, è nata nel 1957 come “Comunità economica europea” tra sei stati: Italia,

Francia, Germania, Olanda Belgio e Lussemburgo (Trattato di Roma, 1957) e oggi riunisce 27

stati diversi; la sua organizzazione e funzionamento sono stati recentemente ridefiniti grazie

al Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea firmato a Lisbona, 2009.

Lo scopo iniziale della Comunità economica europea era dare vita, tra gli stati membri, a un

mercato comune, vale a dire abbattere tra gli stati membri le frontiere, le dogane e altre

limitazioni alla circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e dei lavoratori, di modo che

questi potessero circolare e impiantarsi in qualunque stato membro senza discriminazioni e

liberamente. Il mercato comune avrebbe dovuto avere carattere concorrenziale, cioè gli Stati

che vi aderivano si vincolavano a non svolgere direttamente, o indirettamente tramite aiuti e

altri sostegni alle proprie imprese, attività tendenti ad alterare il libero gioco della

concorrenza, la parità di competizione. La comunità, oggi unione, non si occupa più ‘solo’ di

mercati e di merci, ma di un numero molto ampio di materie:

a) alcune di esse sono state delegate dagli Stati all’Unione in via esclusiva, rinunciando

così a legiferare su di esse (e queste sono: unione doganale, definizione delle regole di

concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria per

gli Stati membri la cui moneta è l’euro, politica commerciale comune, conservazione

delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca);

b) Altre sono materie ‘concorrenti’, nel senso che gli Stati possono continuare a legiferare

su di esse, ma anche l’Unione può farlo, e, se lo fa, i suoi atti hanno prevalenza su

quelli nazionali: per es. agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei consumatori,

trasporti, energia, coesione sociale (in cui rientra l’educazione e la formazione, o i

regimi pensionistici); ricerca e sviluppo tecnologico; problemi comuni di sicurezza

libertà e giustizia (in cui rientra la cooperazione in materia giudiziaria, dove è prevista

ad es. la doverosità per tutti gli stati membri di collaborare nelle indagini e nelle

operazioni giudiziarie e di polizia);

c) Altre sono materie in cui gli stati si impegnano a ‘coordinarsi’ con l’Unione, cioè ad

adottare le proprie politiche in maniera armonica con le indicazioni provenienti

dall’Unione europea: così nel caso delle politiche economiche in generale, tra cui le

politiche occupazionali.

Per lo svolgimento delle sue funzioni, l’Unione europea è dotata di organi, come il Consiglio

dei Ministri, la Commissione, il Parlamento europeo (quest’ultimo eletto da tutti i cittadini

europei), la Banca centrale europea e la Corte di giustizia, i cui membri sono designati dagli

Stati membri (e che hanno le loro sedi principali a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo).

L’Unione può adottare atti normativi, che possiamo classificare in due grandi categorie:

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a) Atti normativi che creano obblighi per gli Stati (direttive): si tratta di atti con cui

l’Unione stabilisce che un determinato obiettivo deve essere raggiunto dagli Stati entro

un certo termine di tempo, e gli Stati per raggiungerlo emanano proprie leggi o altri atti

normativi. Per esempio, una direttiva può stabilire che entro due anni dalla sua entrata

in vigore, gli Stati membri devono adottare misure volte ad uniformare le misure di

sicurezza negli aeroporti, secondo una serie di principi che la direttiva stessa

individua.

b) Atti normativi che creano obblighi direttamente all’interno degli Stati e sono cioè efficaci

verso i cittadini, devono essere applicati dalla Pubblica amministrazione, utilizzati dai

giudici per decidere controversie (regolamenti). Per esempio: un regolamento impone

che nelle strutture pubbliche di trasporto siano osservate determinate regole che

favoriscono la mobilità delle persone disabili; che nelle strutture ricettive siano

osservate determinate regole di igiene nella conservazione e preparazione degli

alimenti; che nella fabbricazione dei giocattoli siano utilizzati solo determinati tipi di

materiali e non altri, perché considerati pericolosi o nocivi.

Il Soft Law comunitario

Accanto agli atti formalmente normativi, l’Unione europea produce una miriade di atti che non

sono formalmente normativi ma che hanno una enorme influenza sull’atteggiamento effettivo

delle istituzioni nazionali e sul governo della società: tra queste vanno menzionati:

a) i Libri bianchi e i Libri verdi pubblicati dalla Commissione e contenenti la definizione

di linee di indirizzo su ambiti di volta in volta considerati strategici dalla Ue (di

recente sono stati oggetto di particolare attenzione le politiche occupazionali e

previdenziali, l’invecchiamento della popolazione e i relativi costi, le pensioni);

b) i Piani e programmi d’azione con cui la Ue finanzia interventi in materie disparate,

dall’ambiente all’urbanistica alla sanità all’educazione, disegnando le linee intono a cui

gli stati sono consigliati, e alla fine tenuti, a impostare le loro politiche e che

condizionano fortemente ciascuno dei settori cui si indirizzano (per esempio la ricerca

viene orientata a studiare quelle materie, dove si possono avere finanziamenti

comunitari, e a trascurarne altre, che non danno finanziamenti. Gli ambiti di ricerca

non finanziati vengono abbandonati non solo perché senza finanziamenti non si fa

ricerca, il che non è sempre vero, posto che i finanziamenti servono soprattutto alla

ricerca scientifico-medico-tecnica, ma perché regole, in genere amministrative,

introdotte a fianco dei fondi europei (e cioè regolamenti ministeriali, regolamenti delle

università) stabiliscono che avere ottenuto finanziamenti è un titolo di merito per gli

accademici e le istituzioni universitarie e di ricerca, titolo di merito che si riflette sulle

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carriere degli studiosi e sull’accreditamento, ossia sul giudizio sulla ‘qualità’ degli enti

di ricerca. In questo modo, la ricerca viene orientata a prediligere certi settori o certi

metodi e ad abbandonarne altri spontaneamente, senza bisogno che norme giuridiche

formali facciano di ciò l’oggetto di un obbligo).

La regolazione che avviene sulla base di raccomandazioni, incentivi, norme ‘condizionali’ (se

si ottengono certi risultati, previamente quantificati, si ottiene anche un ‘premio’), si chiama

soft law.

La Corte di Giustizia dell’Unione è il complesso giurisdizionale che vigila sul rispetto da parte

degli Stati degli obblighi nascenti dai Trattati. Essa in particolare può:

a) Condannare uno Stato per non avere rispettato gli obblighi su di esso gravanti per

effetto della sottoscrizione dei Trattati (es.: stato che non ‘attua’ al proprio interno una

direttiva nei termini stabiliti)

b) Condannare una impresa commerciale per avere violato le regole sulla concorrenza nel

mercato comune;

c) Enunciare la ‘corretta interpretazione del diritto comunitario’. Poiché i giudici

nazionali, nel decidere controversie, possono trovarsi di fronte al dubbio che una certa

disposizione del diritto nazionale non sia conforme al diritto comunitario, essi devono

in questi casi chiedere alla Corte di giustizia di risolvere il dubbio indicando il modo in

cui il diritto comunitario deve essere interpretato. Il dubbio che il giudice chiede alla

Corte di giustizia di risolvere si chiama ‘questione pregiudiziale’ ed esso viene

trasmesso alla Corte di giustizia (che ha sede a Lussemburgo) mediante una ordinanza,

un atto che sospende temporaneamente il giudizio davanti al giudice nazionale in

attesa della decisione della Corte di Giustizia.

Come quanto detto fin qui probabilmente suggerisce, l’Unione europea è un ordinamento

sovranazionale dotato di notevolissimi poteri, ed invero senza precedenti e senza equivalenti

nella storia politica del mondo, con il quale forse gli Stati europei, che ne sono membri,

stanno andando verso una propria ‘federazione’. Sicuramente, l’appartenenza all’Unione

europea genera tra gli stati membri un elevatissimo tasso di ‘integrazione’: il diritto che vale

nei singoli paesi diventa sempre più simile.

Tuttavia, per il momento, l’Unione europea non dispone di un proprio apparato esecutivo, e

affida la propria effettività a quello statale e cioè ai poteri esecutivi e giurisdizionali dello

Stato. La condanna pecuniaria che la Corte di Giustizia emette a carico di una società per

azioni con sede in Francia sarà eseguita dalle autorità francesi; il controllo sul se i ristoranti e

gli alberghi rispettano le norme igieniche fissate dal regolamento europeo sarà eseguito, in

Italia, dall’ufficio di igiene dei singoli Comuni. Questo ci avverte che mentre la dimensione

della decisione politica si trasferisce sempre di più dagli Stati alla Ue, e perciò perde

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importanza e autonomia negli Stati, rimane molto importante, e anzi cresce, a livello statale, il

ruolo giocato dalla amministrazione.

Il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo

Diversa dalla esperienza dell’Unione europea è quella che si sviluppa intorno alla

Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Nel 1950 una serie di Stati Europei (oggi sono 45,

compresi Russia e Turchia), dettero vita a una organizzazione sovranazionale che si chiama

Consiglio d’Europa, il cui scopo è la tutela e la promozione dei ‘diritti umani’. Il Consiglio

d’Europa non emana norme o regolamenti: è una organizzazione prevalentemente rivolta allo

studio e all’approfondimento di questioni relative ai diritti umani, che segnala problemi o

suggerisce soluzioni in settori delicati e promuove la sottoscrizione, da parte degli Stati

membri, di impegni nuovi in questo campo; per esempio, successivamente alla sua

introduzione, il Consiglio d’Europa ha studiato il problema delle Minoranze e ha redatto una

Carta di tutela dei diritti delle minoranze, che gli Stati membri si impegnano a rispettare.

All’atto di dar vita a questa alleanza, gli Stati membri sottoscrissero un documento, che si

chiama Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), la quale è un catalogo di diritti, di

classici diritti di libertà (diritto alla vita, alla famiglia, alla proprietà, alla libertà personale),

abbastanza simile al testo delle Costituzioni di molti stati membri e comunque alle tradizioni

costituzionali che essi rispettano. Innegabilmente, si trattava allora di una sorta di bandiera

identitaria sollevata nei confronti degli Stati dell’Europa dell’Est, e l’adesione alla

Convenzione ha segnato, dopo il crollo dell’Urss, un atto simbolicamente decisivo nel

segnalare la transizione di quegli ordinamenti verso i valori che erano stati un tempo detti

‘occidentali’.

Insieme al Consiglio d’Europa veniva creata una Corte, la Corte europea dei diritti dell’Uomo

(con sede a Strasburgo) il cui compito era, ed è, quello di ricevere i ricorsi di coloro che

ritengono che un organo di uno stato membro li abbia lesi in un diritto riconosciuto dalla

Convenzione.

Per rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo occorre avere esaurito i ‘rimedi interni’,

cioè avere impugnato l’atto del quale ci si lamenta davanti al giudice nazionale e fatto tutti i

gradi di giustizia. Poi, se si rimane convinti che il giudice nazionale, quando ha deciso, ha in

realtà leso un nostro diritto riconosciuto dalla Cedu si può fare un ricorso alla Corte di

Strasburgo, che non richiede alcuna formalità.

A differenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee la Corte europea dei diritti

dell’uomo non può annullare il provvedimento nazionale che sia all’origine del ricorso: eEssa,

se ritiene che il ricorrente ha ragione, condanna lo Stato a un risarcimento pecuniario e a fare

il possibile per ricostituire il diritto leso.

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Sebbene inoltre, a differenza delle sentenze della Corte di Giustizia della Unione europea, non

abbiano diretta applicabilità nel diritto interno come se fossero norme giuridiche, le sentenze

della Corte europea hanno grande influenza e autorevolezza, e i giudici nazionali si ispirano

molto alle sue decisioni, cosa che è diventata vera anche per il nostro paese da almeno una

decina d’anni. In particolare, nel 2007, la nostra Corte costituzionale, con due influenti

decisioni, ha precisato che il giudice nazionale deve, quando interpreta il diritto nazionale,

tener conto delle interpretazioni che, su materie analoghe, ha dato la Corte europea dei diritti

dell’uomo, e soltanto allorché dovesse rilevare un insanabile contrasto tra quelle

interpretazioni e altri principi fondamentali del nostro ordinamento dovrebbe sollevare una

questione di costituzionalità davanti alla Corte costituzionale.

La Corte europea dei diritti dell’uomo è venuta alla ribalta all’opinione pubblica italiana tre

anni fa quando la sua prima camera ha osato dire che è lesivo dei diritti delle persone non

credenti o non cattoliche l’uso italiano di esporre il crocefisso nelle aule scolastiche. Tuttavia,

in secondo grado, la decisione, su ricorso del Governo italiano, è stata modificata, e

l’esposizione del crocefisso ritenuta giustificata dal rispondere alle nostre tradizioni e alla

nostra ‘identità’ culturale. Nel 2012 la Corte Cedu ha giudicato contrario alla Convenzione, e

in particolare al diritto alla vita familiare, il divieto, contenuto nella legge italiana sulla

fecondazione assistita, di accedere alla diagnosi pre-impianto che essa pone alla coppie non

sterili, che siano portatrici di malattie trasmissibili geneticamente. La Corte Cedu ha posto

l’accento su una contraddizione acutissima della nostra legislazione, contraddizione che, tra

altre, era stata sin dal 2004 (anno di entrata in vigore della legge sulla fecondazione assistita)

evidenziata dalla dottrina, compresa chi scrive: infatti la nostra legislazione vieta la diagnosi

pre-impianto ma consente l’aborto alla quinta settimana di gravidanza, se all’amniocentesi o

simili esami il feto risulti portatore di un handicap. Si tratta di una contraddizione che costa

agli esseri umani coinvolti sofferenze fisiche e psicologiche molto alte, e la cui ipocrita difesa

del valore della vita a tutti i costi (ipocrita, poiché lo Stato si disinteressa poi del tutto dei

bisogni delle persone disabili e delle loro famiglie, rendendosi così fondamentale causa

agente del diffuso rifiuto ad accettare di avere figli disabili), è pagata con l’eliminazione di

feti ormai prossimi alla vita autonoma, quali sono a cinque mesi. Il Governo italiano, peraltro,

evidentemente convinto della bontà della nostra legislazione, e delle nostre prassi, ha

ritenuto, anche in questo caso, di chiedere una revisione della sentenza. Alla Corte europea

dei diritti dell’uomo si devono importanti ed equilibrate decisioni in materia di simboli

religiosi, come il velo islamico, di tutela delle minoranze culturali, di orientamento sessuale,

di diritti dei figli naturali; è anche merito di ripetute condanne pronunciate da questa Corte

se l’Italia è stata costretta a trovare, dopo cinquant’anni, a trovare un sistema di calcolo

dell’indennità di espropriazione non risibile.

B. La democrazia costituzionale in Italia. Una democrazia fondata sui partiti alla

prova della globalizzazione

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Le democrazie costituzionali del dopoguerra segnano la prima esperienza politica europea

fondata sulla accettazione della sovranità popolare e della rappresentanza politica fondata sui

partiti politici, assegnando così a questi ultimi una particolare centralità nella vita pubblica e

nel funzionamento delle istituzioni. Questo è stato particolarmente vero per il nostro paese,

dove peraltro particolarmente forte è, oggi, la crisi di legittimazione e di efficacia sofferta dai

partiti. Mettere a fuoco le ragioni della centralità, e della crisi, dei partiti e della

rappresentanza politica per come si configurano specialmente nel nostro ordinamento è lo

scopo che ci proponiamo adesso: questo tema infatti incrocia le trasformazioni, che a buon

diritto possono definirsi ‘epocali’, che nel corso della seconda metà del Novecento hanno

interessato la struttura e la composizione dei poteri, e le dinamiche delle libertà e dei diritti.

L’instaurazione del nuovo ordinamento: il periodo transitorio e i Governi “di unità

nazionale” (1946-1948)

Il passaggio dall’ordinamento prebellico a quello repubblicano merita una considerazione non

frettolosa ai nostri fini, perché in quel periodo si sono delineate alcune componenti che

hanno caratterizzato tutto lo svolgimento della vita repubblicana: in un modo diretto per

almeno tutto i trenta-quarant’anni successivi (fintanto, cioè, che sono esistiti gli stessi partiti

e soggetti politico sociali che hanno operato in questa fase) e, in un modo indiretto, sino ad

oggi (dopo cioè il tramonto delle formazioni politiche protagoniste della fase costituente, post

che questo tramonto non ha segnato una discontinuità nei soggetti sociali e politici di rilievo

nel paese, nelle prassi di governo, nel rapporto tra istituzioni e società).

Il colpo di stato di Vittorio Emanuele III

Il 25 luglio del 1943 Mussolini viene destituito dal Re e arrestato. Il Re riacquistò i poteri

statutari di comando delle forze armate e di guida della nazione, ma il governo da lui

nominato, guidato dal Maresciallo Badoglio e composto da uomini di fiducia del re (si trattò in

effetti di un ‘governo tecnico’9

) non seppe che condurre il paese alla resa senza condizioni. La

9

“Il periodo confuso e drammatico che seguì la caduta di Mussolini dal 25 luglio all’8 settembre è ricordato nella

storia come ‘i quarantacinque giorni’. Fu allora che il significato del comportamento del Re divenne perfettamente

chiaro. Il fascismo, invece di essere rovesciato da una rivolta popolare, veniva distrutto da un colpo di stato dall’alto

che preservava il predominio e la libertà d’azione dei tradizionali gruppi dirigenti della società italiana. Il ‘Golpe

preventivo’ di Vittorio Emanuele III avrebbe condizionato per i successivi due anni tutto l’equilibrio del potere”: così

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989, p. 8-9. Anche Mortati (Istituzioni, cit., p. 87)

considera la formazione del primo governo Badoglio un colpo di stato. Ginsborg ricorda anche che, alle

manifestazioni di piazza che festeggiavano la fine del regime, il Governo rispose con una “brutale repressione: il re e

il maresciallo Badoglio erano determinati a mantenere una dittatura militare. Il governo Badoglio represse duramente

quelle energie antifasciste che si erano liberate con la caduta di Mussolini: davanti agli scioperi operai del marzo ’43

“le disposizioni severissime emanate dal governo per il mantenimento dell’ordine pubblico prevedono per i

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firma dell’armistizio significò, quando annunziata, l’abbandono dell’esercito a se stesso e lo

sbando del paese, improvvisamente diviso in due tra il Sud, occupato dagli Alleati americani10

,

e il Nord, dove l’esercito tedesco si era da un giorno all’altro trasformato da Alleato in nemico.

La ricostituzione dei partiti nel CLN

Il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’annunzio dell’armistizio, i partiti politici dettero vita al

CLN (Comitato di liberazione nazionale), una associazione che li riuniva quasi tutti, compresi i

partiti di ispirazione liberale in cui riviveva parte dell’antica classe dirigente statutaria. I

principali partiti riuniti nel CLN erano il Partito comunista italiano, PCI, la Democrazia

cristiana, DC, il Partito d’azione, PdA, il Partito liberale italiano, PLI, il Partito socialista

italiano di unità proletaria, PSIUP, il partito democratico laburista, PDL. L’obiettivo del CNL

era operare per la transizione collaborando con gli Alleati.

I partiti politici, disciolti e repressi dal fascismo, con i loro dirigenti inviati al confino o

espatriati, avevano continuato ad esistere nella clandestinità11

, ciò che permise loro di

ricostituirsi dopo la caduta del regime fascista e di proporsi, nei confronti della Corona, ma

soprattutto nei confronti degli Alleati, che nella Corona non avevano fiducia, come

interlocutori naturali in vista della riorganizzazione del paese, anche grazie al ruolo che essi

svolgevano nel sostenere ed alimentare la ‘resistenza’ partigiana nei confronti dell’esercito

tedesco, o ‘guerra di liberazione’: ogni formazione partigiana, infatti, faceva capo a uno dei

partiti del CNL.

trasgressori l’arresto immediato e il deferimento ai tribunali militari, lo scioglimento con le armi degli assembramenti

di più di tre persone, l’ordine alle truppe di sparare ad altezza d’uomo”: così la storica S. Colarizi, La seconda guerra

mondiale e la Repubblica, Utet-Tea, Torino, 1984, p. 194.

10

dopo lo sbarco in Sicilia del 1943, preparato e reso possibile, oggi concordano diverse fonti storiche, da un accordo

tra il Governo americano e la mafia siciliana, che per il tramite del boss Lucky Luciano avrebbe messo a disposizione

degli alleati la collaborazione dei propri uomini, in parte poi cooptati nel governo provvisorio dell’Isola e in cambio

anche della liberazione di molti mafiosi allora agli arresti.

11

Quello comunista “era il partito politico che più aveva sofferto sotto il fascismo e che aveva resistito di più. Molti

dei suoi dirigenti (Gramsci, Terracini, Pajetta) erano stati condannati a lunghe pene detentive dal Tribunale Speciale

fascista. Il partito era comunque riuscito a mantenere in vita una parvenza di organizzazione clandestina in Italia, a

conservare cellule nelle fabbriche più importanti, e a fornire la maggior parte degli oltre tremila italiani che

combatterono nella guerra civile spagnola per la repubblica. (…) Il Partito d’azione, che ricavava il suo nome dal

partito di Mazzini durante il Risorgimento, venne fondato solo nel luglio del 1942, e riuniva diversi gruppi di

antifascisti democratici e radicali, compreso il gruppo ‘Giustizia e libertà’ fondato nel 1929 a Parigi da Carlo Rosselli,

Emilio Lussu e Alberto Tarchiani (nel 1937 Carlo e Nello Rosselli furono assassinati in Francia da un agente fascista).

Dalle loro file sarebbero usciti uomini molto influenti nella Repubblica come Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Il loro

programma prevedeva una democrazia con ampie autonomie locali, e pur accettando il sistema capitalistico

intendevano correggerne gli squilibri e le ingiustizie, nazionalizzare le più importanti industrie, salvaguardare i ceti

medi, suddividere i latifondi, dare agli operai una partecipazione negli utili delle aziende. (…) I socialisti, guidati da

Pietro Nenni, erano all’epoca solo l’ombra del grande partito dei primi anni ’20, e i loro contatti con la classe operaia

molto meno solidi dei comunisti, e la loro partecipazione alla resistenza fu inizialmente molto debole: nel partito

coesistevano molte anime ideologiche, dal cauto riformismo ai giovani rivoluzionari riuniti intorno a Lelio Basso;

quanto ai liberali, erano il partito tradizionale della borghesia italiana e volevano il ritorno allo stato prefascista. La

Democrazia Cristiana era ancora un partito in formazione” (P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 12-13).

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Il patto di Salerno

Visto il fallimento del progetto di Vittorio Emanuele III di chiudere la parentesi del fascismo

ritornando al modello statutario dei governi di nomina regia, e sotto la pressione degli Alleati,

nei primi mesi del 1944 fu stipulato tra la Corona e il CNL un accordo informale (cd. patto di

Salerno), che prevedeva l’ingresso di esponenti dei partiti nel Governo, la rinuncia di Vittorio

Emanuele III al trono, la nomina del figlio Umberto II come ‘Luogotenente del Regno”, una

futura consultazione popolare che avrebbe scelto la forma istituzionale (Monarchia o

Repubblica) del paese e l’elezione di una Assemblea Costituente per la redazione della nuova

Costituzione. I due ‘decreti luogotenenziali’ che delinearono la struttura politico istituzionale

di questa fase di passaggio sono le cd. costituzioni provvisorie. Questi atti non hanno il loro

fondamento di validità nello Statuto albertino, come è segnalato dal fatto che né i decreti che

conferirono a Umberto II la carica di ‘luogotenente del Regno’ né alcuno dei decreti che il

luogotenente emise recano la formula ‘per grazia di dio e volontà della nazione’.

Per questa ragione, i due decreti sono considerati espressione di un nuovo ordinamento,

‘provvisorio’, che non è più quello previgente e non è ancora quello che si sarebbe instaurato

con l’entrata in vigore della Costituzione.

Le costituzioni provvisorie

La prima costituzione provvisoria, il d. lgs. lgt12

. n. 151/1944, che rinviava a dopo la

liberazione l’elezione dell’Assemblea Costituente, riguardava precipuamente le facoltà del

Governo di emanare norme giuridiche, facoltà che si imponeva come necessaria data l’assenza

di un organo legislativo. Il Consiglio dei Ministri, che deliberava i provvedimenti aventi forza

di legge, poi sanzionati e promulgati dal luogotenente del Regno, fu da quel momento il vero

organo legislativo di tutto il periodo provvisorio.

La seconda costituzione provvisoria (d. lgt. n. 98/1946), regolava invece i futuri rapporti tra

l’Assemblea Costituente (che sarebbe stata eletta il 2 giugno 1946) e il Governo, e, per il caso

che il referendum istituzionale che si sarebbe svolto lo stesso giorno avesse sancito la scelta

per la Repubblica, prevedeva l’esistenza di un Capo provvisorio dello Stato13

. Secondo questo

decreto, durante il periodo della Costituente e sino alla convocazione del nuovo Parlamento, il

Governo era responsabile verso l’Assemblea costituente; il rigetto da parte della Assemblea di

una proposta del Governo non ne importava l’obbligo di dimissioni, che sorgeva invece

soltanto in seguito alla votazione di un’apposita votazione di sfiducia, intervenuta non prima

di due giorni dalla sua presentazione e adottata a maggioranza assoluta dei membri della

Assemblea. Queste disposizioni prefiguravano molto della forma di governo parlamentare

12

Decreto Legislativo Luogotenenziale.

13

Carica che sarebbe stata poi rivestita da Enrico De Nicola.

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201

razionalizzata che, come vedremo, è la forma di governo che sarebbe stata adottata dalla

futura Costituzione repubblicana. Al Governo, inoltre, essendo l’Assemblea impegnata

nell’elaborazione della Carta, sarebbe stato delegato il potere legislativo, salva la materia

elettorale e l’approvazione dei trattati internazionali.

I primi due Governi del periodo costituzionale provvisorio furono guidati da Ivanoe Bonomi14

,

un socialista riformista, poi liberale, che era stato più volte ministro negli periodo statutario e

ultimo presidente del Consiglio prima di Mussolini. Bonomi si mosse nel segno della

continuità con l’epoca liberale e statutaria: considerò suo interlocutore principale Umberto II

(al quale presentò, la prima volta, le proprie dimissioni senza avere sentito il parere dei

partiti; analogamente, Umberto lo nominò per la seconda volta presidente del Consiglio senza

consultare i partiti, in puro stile statutario). Il governo Bonomi II, che escludeva azionisti e

socialisti, si dimise, secondo accordi in precedenza stabiliti, al momento della Liberazione del

Nord Italia. La Liberazione del Nord segnò un momento di rafforzamento dei partiti rispetto al

Re grazie all’ingresso nel CLN degli esponenti della Resistenza del Settentrione.

I governi dell’unità nazionale

Nuovo Presidente del Consiglio fu l’azionista Parri. Parri fu il primo presidente del Consiglio

designato dai partiti e imposto al Luogotenente. Il suo governo (da giugno a novembre 1945)

riuniva esponenti di tutti i partiti del CLN, e vide la maggioranza di esponenti delle sinistre,

ma cadde per il ritiro dei liberali, dovuta a dissensi sulla questione dell’epurazione (che, come

ricorderemo anche più avanti, venne impostata dal governo provvisorio in termini talmente

riduttivi da risolversi “in un fallimento completo”15

che significò la sostanziale continuità

dell’apparato e del personale amministrativo e giudiziario repubblicano rispetto a quello

fascista). Subentrò a Parri il primo Governo De Gasperi (dicembre 1945-giugno 1946), che

comprese tutti i partiti (il socialista Nenni era vicepresidente del Consiglio; il comunista

Togliatti ministro della giustizia; il socialista Romita era agli interni e il comunista

Scoccimarro alle finanze). Il primo governo de Gasperi consolida la fase che è ricordata come

“dell’unità nazionale”, in cui tutte le forze politiche, comprese quella comunista e socialista,

sono rappresentate al Governo.

Le elezioni per l’Assemblea Costituente e il Referendum istituzionale

14

Primo Governo Bonomi (o Governo Bonomi II): dal 9 giugno 1944 al 26 novembre 1944); Secondo Governo Bonomi

(Bonomi III) dal 10 dicembre 1944 al 19 giugno 1945).

15

“La magistratura non ne fu minimamente toccata e quando fu il suo turno di giudicare prosciolse quanti più

imputati poté dall’accusa di collaborazione col passato regime. Anche altri settori fondamentali del personale statale

rimasero inviolati. Nel 1960 si calcolò che dei 64 prefetti in servizio, 62 erano stati funzionari durante il fascismo. Lo

stesso era vero per tutti i 135 questori e i loro 139 vice.” (P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 120).

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202

Il 2 giugno 1946 si svolsero le elezioni per l’Assemblea Costituente e il referendum

istituzionale sulla scelta tra monarchia e repubblica. Il referendum ebbe esito favorevole alla

repubblica con circa 13 milioni di voti contro 1116

. Le elezioni in Assemblea costituente

assegnarono alla Democrazia Cristiana il 35% dei suffragi ma segnalarono anche, con il 20%

dei suffragi al Partito socialista Italiano di Unità proletaria, e il 19% al Partito comunista (che

insieme facevano il 39% dei suffragi) una fortissima divisione nel Paese tra due orientamenti

(quello cattolico filoatlantico della DC, da un lato, e quello comunista e socialista ispirato alla

lotta di classe e alla contestazione del modello di produzione capitalistico, dall’altro lato),

molto diversi tra loro, e che facevano la parte del leone. Liberali, azionisti, repubblicani non

superavano mai il 5%.

L’accordo costituente del 1947 e la prefigurazione della struttura del potere in Italia nei

successivi trent’anni

Anche il Governo De Gasperi II (dal 2 giugno 1946 al dicembre 1946) fu di “unità nazionale”

nel senso che incluse democristiani, socialisti e comunisti; non vi entrarono però azionisti e

liberali; nel De Gasperi III (dal 31 gennaio 1947) scesero da 8 a 6 i ministri della sinistra: la

fase della ”unità nazionale” stava declinando. Durante questo suo terzo Governo lo statista

democristiano compì un viaggio negli Stati Uniti – dove, se De Gasperi non ricevette precise

istruzioni volte a determinare l’uscita dei comunisti dal governo, certamente strinse più

fortemente una alleanza che, in quel momento storico, non poteva che andare in quella

direzione: il viaggio fu contemporaneo alla firma del Trattato di Pace, che prefigurò lo

schieramento del mondo post-bellico nei blocchi contrapposti Est Ovest, collocando in

“occidente”, o nell’area filo-atlantica l’Italia. D’altro canto, le elezioni amministrative in Sicilia

espressero una caduta di voti per la Democrazia Cristiana. In quel momento insorse

l’immagine del “pericolo comunista”, vale a dire il timore che questa forza prendesse il

sopravvento politico. Nonostante l’apparente paradosso, e cioè proprio dopo quelle elezioni

siciliane che avevano visto le forze politiche di sinistra crescere elettoralmente, il Governo de

Gasperi IV sancì l’estromissione del Psi e del Pci dalla coalizione. Questo atto segnò la fine

della stagione dell’unità nazionale. L’uscita dal Governo rispose anche a considerazioni

tattiche del PCI; poiché il suo segretario, Palmiro Togliatti, era convinto che rimanere al

Governo significava per il partito esporsi a divenire ‘corresponsabile’ delle politiche

democristiane, uscire dal Governo permetteva al PCI di separare le proprie responsabilità

senza con questo provocare crisi governative17

.

16

Non senza un notevole strascico di polemiche, incluse quelle sul conteggio dei voti nulli. Questi ultimi, circa un

milione e mezzo, non vennero computati; vi fu chi sostenne che erano tutti voti a favore della monarchia; in questo

caso, la repubblica avrebbe comunque vinto, ma di poche centinaia di voti di differenza. Questo dato serva a

comprendere la situazione di estrema divisione che regnava nel paese.

17

Così per lo storico Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Il

Mulino, Bologna, 1991, nuova ed. 1997, p. 156.

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203

L’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal Governo nel giugno del 1947 avvenuta in

parallelo alla rottura tra le due massime potenze alleate, Russia e Stati Uniti, e all’avvio della

‘guerra fredda’, è giudicata un vero e proprio ‘accordo costituente’ che ebbe conseguenze sia

sulla redazione della Costituzione, che, nella parte successiva ai principi fondamentali,

assunse toni più moderati, sia sulla attuazione della Costituzione, operando come una remora

contraria all’approfondimento dei motivi più innovativi e progressisti del testo

costituzionale18

.

Le prime elezioni politiche della storia repubblicana (18 aprile 1948), destinate a venire

ricordate come quelle maggiormente condizionate da interessi e potenze preoccupati dal

possibile esito del voto (la Chiesa e gli Stati Uniti), consegnarono alla Democrazia cristiana

una schiacciante vittoria e indebolirono le forze della sinistra di quasi dieci punti percentuali

rispetto ai risultati delle elezioni del 2 giugno 1946. Inizia la fase della centralità

democristiana nel sistema politico, e della parallela conventio ad excludendum nei confronti

del partito comunista, cioè del funzionamento della forma di governo secondo la regola non

scritta per cui esponenti del partito comunista non potevano essere né Ministri né Presidenti

del Consiglio.

Il “compromesso costituzionale”

“Costruendo il nuovo stato noi edifichiamo una formula di convivenza”.

Aldo Moro all’Assemblea Costituente, marzo 1947

I membri dell’Assemblea costituente erano stati eletti tra i candidati presentati alle elezioni

dai ricostituiti partiti politici. Erano dunque uomini schierati, portatori di una propria

ideologia, di proprie convinzioni a favore delle quali militavano pubblicamente e per le quali

molti di essi, ma specialmente coloro che appartenevano ai partiti di sinistra, o a quello

azionista, avevano pagato personalmente soffrendo persecuzioni e limitazioni della loro

libertà. Le principali ideologie rappresentate all’Assemblea costituente furono quella cattolica,

quella social-comunista, e quella liberale. Le prime due forze politiche avevano, e avrebbero

avuto nel futuro, un grande seguito elettorale, la terza molto meno. I deputati all’Assemblea

Costituente, nel redigere la Costituzione, tenevano conto dunque dei propri rispettivi rapporti

18

C. Mortati, Istituzioni, cit., p. 93.

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di forza, dello scenario internazionale che si delineava intorno a loro: non operarono,

insomma, in un ‘velo di ignoranza’19

, ma scrissero la costituzione stando ben calati nelle loro

mentalità, tenendo presente l’interesse dei loro partiti, e rivolgendo una estrema attenzione al

quadro politico in cui erano immersi, dove si giocava a tutto campo e senza esclusione di

colpi per la conquista del governo della fase transitoria, e l’egemonia nella futura repubblica.

Questa situazione poteva anche condurre a un fallimento dell’impresa costituente, per

l’impossibilità di arrivare a punti di accordo: l’ipotesi di un sollevamento rivoluzionario

guidato dai partiti estromessi dal governo non era tra le ultime, in un paese dove, combattuta

da poco la resistenza, c’erano armi in quasi ogni casa. Ma Togliatti ordinò la calma.

Vi furono, tra tutte le forze politiche presenti in Assemblea costituente, uomini che

compresero che per dare al paese la pace e un futuro, per riuscire a scrivere il documento che

avrebbe fornito i valori di riferimento e la struttura organizzativa su cui la Repubblica

avrebbe funzionato, occorreva assumere un preciso atteggiamento, consistente nella ricerca di

comuni punti d’accordo, il che implicava rinunciare ciascuno alle “punte” delle proprie

ideologie e sforzarsi di individuare quegli aspetti sui quali si poteva concordare con gli altri.

Un lavoro difficile (per chi era comunista la proprietà privata era una cosa da vietare, invece la

costituzione la riconosce, pur assoggettandola a una “funzione sociale”; tutto al contrario

pensavano i liberali, e i democristiani; i democristiani, in quanto cattolici, erano convinti della

centralità della religione cattolica per il nostro paese, e anche molto vicini alla Chiesa, tuttavia

la costituzione riconosce la libertà religiosa e di culto), un lavoro difficile e di grande

significato etico, che consistette non nel tenere presente solo gli interessi e i punti di vista di

coloro che ogni costituente rappresentava, del partito cui apparteneva, ma l’interesse comune

del paese ad avere principi e istituzioni in cui riconoscersi. Le grandi figure dei ‘Padri

costituenti’, come il democristiano Aldo Moro, il socialista Lelio Basso, il comunista Palmiro

Togliatti o il liberale Pietro Calamandrei seppero farsi portatori di questa visione, e trascinare

con sé i loro partiti. Non sempre, ma spesso, leggere i lavori dell’Assemblea Costituente

significa incontrare le testimonianze di un altissimo impegno umano, politico e morale.

Di questo impegno è il risultato il cd. “compromesso” costituzionale, espressione con la quale

si evoca il fatto che i contenuti della Costituzione sono frutto non di un punto di vista

dominante, che ha prevalso sugli altri, ma di una capacità di punti di vista diversi di fondersi e

di cooperare tra loro. La parola ‘compromesso’ non ha, in questa espressione, alcuna valenza

negativa; al contrario, chi la usa intende dire che noi dovremmo guardare al compromesso

costituzionale come a un grande momento della nostra storia costituzionale, nel quale è

filtrato un modo di vedere che era a sua volta uno dei frutti più alti lasciati dall’esperienza

conflittuale e drammatica vissuta dall’Europa tra le due guerre. Un modo di vedere che si era

condensato, nei primi anni ’20 del ‘900, nell’opera di un grande costituzionalista il cui

19

Per il filosofo del diritto John Rawls tutti coloro che prendono decisioni sul futuro di una comunità dovrebbero

trovarsi nel ‘velo d’ignoranza’, altrimenti stabiliranno le regole di quella futura comunità in funzione della posizione

e del ruolo che prevedono di giocarvi (e non nell’interesse generale).

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pensiero ha avuto influenza in tutta Europa e nel mondo, Hans Kelsen. Praghese, cacciato da

Vienna, dove insegnava, invasa dai tedeschi, Kelsen era stato personalmente testimone dei

fallimenti delle fragili democrazie sorte in Austria e in Germania dopo il primo conflitto

mondiale. Le aveva viste travolte dai conflitti, dalla sfiducia, dall’opposizione di poteri

occulti. Profondamente preoccupato di immaginare vie per un funzionamento possibile della

democrazia parlamentare, Kelsen aveva teorizzato che proprio la capacità di procedere per

compromessi, cioè intorno alla ricerca dei punti di accordo, ne è la condizione, rischiando

altrimenti la democrazia di essere sempre occupata dalla lotta e dallo scontro tra fazioni

opposte, e perciò sempre aperta all’avvento di una ragione dittatoriale20

. Si può pensare perciò

che la cultura del compromesso fosse la condivisa fonte di ispirazione che guidava l’azione

dei più avveduti tra gli uomini del tempo.

E’, indubbiamente, una ispirazione ancora profondamente attuale. Secondo uno dei maggiori

costituzionalisti italiani vivente, Gustavo Zagrebelsky:

“Il significato della costituzione come compromesso significa la rinuncia delle parti costituenti a riversare nel

patto costituzionale tutte le loro aspirazioni e posizioni nella loro integralità. Ciò significa che le parti, i

partiti, che sono entrati nel processo costituente armati delle loro identità storiche ed ideologiche ne sono

usciti trasformati dalla Costituzione: la loro originaria identità è, per così dire, filtrata dai principi

costituzionali cui hanno aderito”.

Una costituzione, conclude questo Autore, dura nel tempo quando il compromesso che è alla

sua origine si trasforma

“in un ethos, consistente nel riconoscimento generalizzato che ciascuno ha le sue buone ragioni di fondo con

le quali, non solo per evitare tragedie ma anche perché è cosa buona per tutti che sia così, perché occorre

convivere.”21

Il significato di queste parole è che una costituzione funziona quando il punto di vista

compromissorio, e cioè capace di includere il pensiero dell’altro, di cui essa è frutto, diventa

il modo di pensare e di agire di tutti.

Non si può non convenire con Zagrebelsky che la mentalità possibilista, aperta al dialogo,

capace di decentrarsi e di accogliere le ragioni dell’altro è il più grande insegnamento che la

Costituzione ci consegna, un profondo insegnamento civico e perciò un vero contributo alla

20

“La democrazia dà lo stesso peso alla volontà politica di ogni individuo, così come mette sullo stesso piano ogni

fede politica, ogni opinione politica. Ad ogni convinzione politica essa dà perciò la stessa possibilità di esprimersi e

di concorrere liberamente alla conquista dell’animo umano. E’ questo il motivo per cui il procedimento dialettico

delle assemblee popolari e parlamentari, articolato in discorsi e repliche, è così specificamente democratico. Ed è

pure questo il motivo per cui il dominio della maggioranza, così caratteristico della democrazia, non è possibile

senza una minoranza all’opposizione, e per cui la democrazia, nella sua essenza più profonda, deve tutelare questa

minoranza. La politica della democrazia diviene perciò necessariamente una politica del compromesso, così come,

per la concezione relativistica del mondo, nulla è più caratteristico della tendenza ad appianare, conciliandoli, i punti

di vista contrastanti, nessuno dei quali può essere adottato in pieno e senza riserve e negando completamente l’altro.

La relatività del valore che un determinato credo politico istituisce, l’ impossibilità per un programma politico, per un

ideale politico, di pretendere, in ogni vocazione soggettiva, in ogni personale convinzione, ad una validità assoluta,

conducono inesorabilmente anche al rifiuto dell’assolutismo politico, si tratti dell’assolutismo di un monarca o di un

dittatore, di una casta di sacerdoti o di guerrieri, di una classe o partito”: Hans Keksen, La democrazia (1927), in Id.,

Il Primato del Parlamento, Giuffré, Milano, 1982, p. 48.

21

G. Zagrebelsky, La legge e il suo giudice, Einaudi, Torino, 2008, p. 143.

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edificazione di quella ‘convivenza’ che Aldo Moro aveva in mente quando, appena trentenne,

era transitato dalla aule dell’università dove insegnava filosofia del diritto ai banchi

dell’Assemblea Costituente. Tuttavia non si può nemmeno negare che, se è vero, come è vero,

che oggi, e non da oggi, nel senso comune c’è un depositato che associa alla parola

costituzione i gradienti di inefficacia, inattuazione, belle parole mai realizzate, e simili,

questo senso comune non può essere lasciato da parte, fare come se non ci fosse in modo che

i costituzionalisti possano tracciare indisturbati i loro modelli ideali. Invece, quel radicato

senso comune va preso sul serio perché intuisce verosimilmente qualcosa di reale e di solido,

ossia che il gesto compromissorio, in sé meraviglioso e fecondissimo, e le cui potenzialità sono

ancora tutte da scoprire, non fu da tutti compiuto in buona fede, o meglio come un fine in sé,

ma strumentalmente alla conquista del governo della nazione, e alla garanzia delle reciproche

posizioni di potere, ciò che l’ha reso largamente sterile22

.

I lunghi anni di inattuazione della Costituzione che sono seguiti al 1948, e che hanno fatto

parlare apertamente, da più parti, e, come vedremo nel prossimo paragrafo, anche in sede

scientifica, di continuità col regime fascista (in quanto esso era stato a sua volta continuo

rispetto alle componenti illiberali del regime statutario) non possono che deporre per l’idea

che, certo non per tutti, ma per molti tra coloro che scrissero la Costituzione, essa fosse

soltanto un imbellettamento da offrire alle masse, un accreditamento della conquistata

democrazia del paese da spendere come carta di credibilità nella scena internazionale, come

patente d’ingresso tra le democrazie ‘occidentali’; non certo una fonte di senso e di valore su

cui fare leva per dare alla Nazione quella unità fatta di partecipazione, eguaglianza,

solidarietà, che essa non aveva mai conosciuta.

Fu rottura o continuità? Lo sguardo realistico della “Costituzione in senso materiale”

Se l’ordinamento repubblicano sia frutto di una rottura rispetto a quello liberal-fascista, o si

sia disposto in continuità rispetto a esso, è un tema su cui ha svolto riflessioni di particolare

pregevolezza Costantino Mortati, costituzionalista e uomo politico democristiano, membro

altresì dell’Assemblea Costituente, autore di un manuale di Istituzioni di diritto pubblico, in

due volumi, unanimemente considerato il testo di riferimento di intere generazioni di

studiosi, e rimasto impareggiato per densità di metodo e di riflessione, la cui ultima edizione,

da cui citerò, data 1975.

22

Pietro Scoppola ricorda che, secondo il filosofo del diritto Norberto Bobbio, i costituenti raggiunsero un

compromesso in senso alto – del ‘promettere e impegnarsi insieme’ - quando scrissero la prima parte della

Costituzione, quella sui diritti e le libertà e sui principi fondamentali; un compromesso in senso basso – ‘del

reciproco dare e ottenere’, quando scrissero la seconda parte, che reca le norme sulla organizzazione e sui poteri. Lo

storico cattolico osserva al riguardo che “L’insieme del compromesso non era del tutto positivo; ma a guardar bene

entrambi gli elementi del compromesso si inquadravano nella situazione del dopoguerra, negli spazi ristretti della

democrazia possibile”, per concludere che “L’evento costituzionale ci appare oggi come una potenzialità culturale ed

etica che non si è compiutamente potuta dispiegare perché soffocata da elementi degenerativi” (P. Scoppola, La

Repubblica dei partiti, cit., p. 220-221).

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Mortati inizia la sua riflessione prendendo atto che, da un punto di vista formale,

l’ordinamento repubblicano è frutto di una ‘rottura’ con l’ordinamento previgente, o meglio,

di una serie di rotture: il golpe del re contro il fascismo e per la restaurazione della

monarchia; l’abdicazione e la nomina del luogotenente operate in via di fatto fuori da ogni

riferimento normativo nello statuto; l’azione dei governi di unità nazionale, il referendum

istituzionale e la elezione dell’Assemblea costituente, che hanno il loro fondamento di

legittimità nel solo ordinamento costituzionale provvisorio, e poi di nuovo la rottura

dell’assetto provvisorio, con l’estromissione del Pci e del Psi dal governo, nonostante il

contributo da essi dato alla liberazione dal fascismo e alla costruzione delle nuove istituzioni,

estromissione per effetto della quale l’esperienza repubblicana inizia nel segno di una piena e

definitiva discontinuità con l’assetto che aveva caratterizzato la prima fase del post-

fascismo23

. La rottura con l’ordinamento liberale e quello fascista, rileva Mortati, è anche di

ordine sostanziale, cioè nei contenuti che il nuovo ordinamento intendeva assumere, e che

risultano dalla Costituzione, piena di contenuti così diversi da quelli a cui si erano ispirati lo

stato liberale e fascista. Tuttavia, a giudizio di Mortati, che osservava l’ordinamento

repubblicano nella metà degli anni 1970, tutte queste discontinuità non bastavano a provare

che, da un punto di vista materiale, e cioè dei poteri effettivamente operanti e delle finalità

effettivamente perseguite, il nuovo ordinamento si trovasse in realtà in una continuità assai

stretta con quello (liberal-fascista) precedente.

E’ una pagina che merita di essere letta con reverenza, perché a noi che ci troviamo non 25

anni, ma 65 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, oltre a dare la misura di quanto

fu lunga la stagione che oggi chiamiamo di ‘inattuazione costituzionale’ o di ‘congelamento

della costituzione’ (cui Mortati fa riferimento citando i numerosi istituti previsti dalla

Costituzione che ancora nel 1975 non erano stati messi in opera) offre motivi di riflessione

sulla profondità dei problemi che attanagliano la democrazia nel nostro paese:

“Le circostanze relative alla caduta del fascismo e agli orientamenti impressi ai nuovi ordinamenti dovrebbero

essere assunti a sostegno dell’opinione che attribuisce carattere rivoluzionario alla trasformazione avvenuta. Ciò

può essere vero da un punto di vista formale, data la irriducibilità delle procedure seguite per la loro formazione

al sistema prima vigente; sia dall’altro lato dal punto di vista sostanziale, riferentesi all’ideologia impressa alla

nuova costituzione, in ogni sua parte divergente, se non addirittura antitetica, rispetto a quella dello statuto

albertino.

“Il discorso si complica quando l’attenzione si rivolga, oltre che alle procedure e alle solenni dichiarazioni di

principio, alla realtà dell’esperienza politico-sociale dei primi venticinque anni già decorsi dall’instaurazione

della repubblica. Gli ideali di rinnovamento che avevano alimentato le lotte della resistenza non riuscirono a

mantenere l’originaria incandescente tensione e con essa l’unità delle forze che vi si erano raccolte intorno,

rendendo così agevole il prevalere degli interessi di conservazione. Questi si erano fatti valere in seno alla

Costituente sia col rigetto delle proposte che erano state formulate di investire quell’organo anche del potere di

attuare senza indugio qualcuna delle più essenziali riforme di struttura, e sia ancora con i tentativi effettuati, ed

a volte coronati da successo, rivolti ad evitare che il testo della Costituzione desse svolgimenti lineari ad alcuni

principi fondamentali, così da attenuarne la portata o renderne più incerta la attuazione. Ancora più

efficacemente essi operarono nel periodo successivo all’entrata in vigore della Costituzione, o ritardando la

realizzazione della maggior parte degli imperativi costituzionali, o attuandoli malamente in modo da

deformarne lo spirito. Può ricordarsi, a titolo di esemplificazione, come uno dei capisaldi costituzionali, quale è

il principio del decentramento, ha trovato attuazione con la formazione delle regioni di diritto comune solo nel

23

C. Mortati, Istituzioni, cit., p. 95.

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maggio del 1970 a 22 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, e, nel complesso, in modo insufficiente, dato

che alle regioni non è stata assicurata né una valida autonomia finanziaria, né idonei controlli (che dovrebbero

essere promossi anche su iniziativa popolare)24

. Così pure non è stato curato il potenziamento delle autonomie

degli enti minori, ed inoltre al trasferimento di funzioni dallo stato alle regioni non si è fatta corrispondere la

diminuzione del personale statale, dandosi così vita a una duplice inflazione burocratica, nel centro e nella

periferia25

. Inoltre, solo nel maggio 1970 si è provveduto alla emanazione della legge sul referendum abrogativo

e costituzionale26

. Insoddisfatte sono rimaste le attese per l’emanazione della legge sulla presidenza del

consiglio dei ministri27

, delle leggi sul riordinamento delle giurisdizioni e del tribunale militare, delle leggi sulla

contrattazione collettiva e sullo sciopero. Se a dette inadempienze si aggiungano quelle relative all’apparato

assistenziale, caratterizzato attualmente da una pluralità di enti la cui cattiva e costosa gestione rende assai

scarsamente operante l’imperativo dell’art. 3828

; alla politica dell’abitazione, nella quale sono prevalsi gli

interessi dei proprietari dei suoli edificabili e della speculazione edilizia; alla scuola, essendo rimasto frustrato

l’obbligo (fondamentale per il rinnovamento dell’assetto societario) di far raggiungere i gradi più alti degli studi

ai capaci sforniti di mezzi; ai codici, in specie quelli penali e di procedura penale, informati all’ideologia

fascista29

; alla legge di pubblica sicurezza, che di quest’ultima era espressione peculiare; alle leggi

sull’organizzazione amministrativa e sulla giustizia ordinaria e amministrativa, si ha un quadro

sufficientemente esatto del radicale contrasto tra i precetti costituzionali e la situazione reale.

“Da siffatte considerazioni si è portati ad una conclusione contraria a quella che potrebbe argomentarsi

dall’esame del testo costituzionale, ossia nel senso della continuità dell’attuale rispetto al precedente regime, per

via della constatazione che la forza di rottura, potenzialmente contenuta nel testo costituzionale, radicalmente

innovatore non solo rispetto alla ideologia fascista ma anche rispetto a quella liberale, non ha trovato energie

sufficienti a metterla in opera, sicché la costituzione materiale, quale si è di fatto realizzata, ha privato di

efficacia non solo e non tanto i singoli precetti costituzionali, quanto la sua più profonda essenza”30

.

24

Si noti la perdurante attualità dell’analisi di Mortati: se è vero che le Regioni hanno conquistato poi una notevole

autonomia finanziaria (con la riforma del 2001), è altrettanto vero che nessuna riforma regionale è stata mai

accompagnata dalla attivazione di forme di controllo popolare sull’operato delle regioni e enti locali (che non si

limitino alla investitura elettorale). Una considerazione di questa possibilità avrebbe potuto, invece, sortire utile

nell’evitare gli aspetti degenerativi (da corruzione a malfunzionamento) di cui oggi soffrono sia le regioni che gli enti

locali, e che diventano utili grimaldelli per smantellarne l’autonomia, esito cui sono diretti recenti disegni di riforma

dell’ordinamento regionale e delle autonomie locali.

25

Non trasferendo anche il personale dallo stato alle regioni/enti locali, ma creando raddoppiamenti di uffici e di

burocrazie, i partiti hanno potuto coltivare opportune reti clientelari, a danno delle casse pubbliche e dell’efficienza

dell’azione amministrativa; questo rilievo fatto oltre quarant’anni fa da Mortati, è una buona guida alla comprensione

delle cause del dissesto della ‘macchina’ amministrativa italiana.

26

Considerando che il referendum abrogativo, come vedremo a suo tempo, è naturale strumento, a disposizione

dell’elettorato, per contrastare scelte fatte dal parlamento (ossia dai partiti) e non condivise, e considerato che, senza

referendum costituzionale, le sole leggi costituzionali e di revisione costituzionale che potevano essere approvate

erano quelle che trovassero in parlamento la maggioranza favorevole dei 2/3, quei 25 anni senza referendum

possono essere guardati come il comodo periodo di tempo che i partiti si sono presi per identificare se stessi come gli

unici soggetti in grado di esprimere indirizzi politici, l’unica forma di espressione politica, di interessi e di bisogni a

disposizione della società. Si comprende che i partiti, preoccupati dei loro reciproci equilibri, abbiano sempre filtrato

solo quelle domande sociali che non disturbavano quegli equilibri.

27

E’ rimasta in vigore fino al 1988, in tutte le parti appena compatibili con l’ordinamento costituzionale, la legge sul

Governo emanata dal Fascismo nel 1926: ma questo non voleva dire che ‘vigesse’ effettivamente quella legge, voleva

dire che non ne vigeva in sostanza alcuna sia per quanto riguardava i poteri del governo, sia per quanto riguardava le

attribuzioni, poteri e responsabilità delle varie componenti del governo e i rapporti tra esse. Ciò è stato di

grandissimo rilievo non solo per avere permesso l’instaurarsi di prassi normative deregolate; ma anche per avere

lasciato nell’indistinzione il ruolo del Governo, una istituzione, come vedremo parlando della forma di governo,

rimasta in tutto fagocitata dalle logiche partitiche. Nei primi anni ’80 il giurista Sabino Cassese scrisse non a caso un

libro dal titolo “Esiste un Governo in Italia?”, il che non voleva dire che non c’era nessuno che governava, che

esercitava potere; ma che questo potere non passava in modo trasparente nelle istituzioni a ciò deputate.

28

“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e

all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto a che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di

vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno

diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed

istituti predisposti o integrati dallo Stato”.

29

Il codice penale Rocco, emanato nel 1933, è ancora oggi vigente; il codice fascista di procedura penale è stato

abrogato nel 1987.

30

C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Cedam, Padova, 1975, p. 93-95, il quale continuava così: “Il problema

della continuità è prospettabile anche con riferimento non già al vecchio assetto, ma alla situazione da cui è emersa la

decisione costituente ed al mutamento, verificatosi nel giugno 1947, con l’estromissione dal Governo dei

rappresentanti della sinistra, chiedendosi se ad esso si debba assegnare carattere di irreversibilità, e pertanto

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209

La politica dei partiti come ‘costituzione materiale’ della storia repubblicana

“I governi democristiani possono rivendicare

il merito di avere realizzato concretamente

quel legame tra Stato e società

che era stato il vanto ingiustificato di Mussolini”

(P. Ginsborg, Storia d’Italia, p. 246.)

Con l’espressione ‘costituzione in senso materiale’, che egli coniò, Costantino Mortati ha

insegnato a designare l’assetto reale dei poteri che, di là da ciò che in una Costituzione è

scritto, di fatto gestiscono la cosa pubblica e la orientano influenzando i contenuti della sua

azione, la sua qualità, i suoi orientamenti. In Italia, la Costituzione materiale coincide con i

partiti politici, protagonisti della fase transitoria, della redazione della Costituzione, e della

sua attuazione nella storia repubblicana; coincide con la loro azione, le loro prassi, le loro

mentalità e culture, i loro uomini. Per questo motivo è necessario soffermarsi a mettere

meglio a fuoco qualcuna delle caratteristiche dei principali partiti politici che hanno avuto,

per tutta una prima fase della vita repubblicana, una centralità e un peso tali per cui le loro

conseguenze forniscono molta parte anche della costituzione materiale di oggi, o aiutano a

esplorarne i problemi e gli interrogativi.

La Democrazia Cristiana

Dopo il crollo del fascismo, i liberali, i repubblicani, gli azionisti, non riuscirono a

trasformarsi in grandi partiti di massa: nella vita repubblicana avrebbero sempre

rappresentato formazioni politiche piccole per seguito elettorale, sebbene non prive di

influenza sulla formazione dei governi e la decisione degli indirizzi politici. Grande partito di

massa divenne invece la Democrazia Cristiana, un partito cattolico che attraeva quella

‘grande maggioranza dei ceti medi, sia urbani che rurali, che erano profondamente ostili al

comunismo e al socialismo, percepite come dottrine che avrebbero comportato la perdita

della loro individualità e il livellamento verso il basso della scala sociale. Quello che diceva la

DC piaceva molto di più. Essa riaffermava la morale cattolica, prometteva di salvaguardare la

proprietà, di assicurare protezione alla famiglia”. Così “la morale cattolica, la democrazia

rappresentativa, l’anticomunismo, l’adesione al sistema capitalistico e una particolare

considerare definitiva la discontinuità con l’assetto che aveva caratterizzato la prima fase della instaurazione

repubblicana, o se invece l’energia propulsiva latente nei ‘principi fondamentali’ sempre meglio avvertita dalla masse

popolari, non offra ancora il terreno propizio alla ricostituzione dell’unità delle forze di rinnovamento che, sulla base

di una sostanziale inversione di tendenza, riprenda il filo allora interrotto”. Mortati, come detto, scriveva nel 1975:

c’era il disgelo tra le grandi potenze, e in Italia si stava per aprire la stagione del compromesso storico, che avrebbe

condotto per la prima volta all’ingresso del PCI (non al governo ma) tra le forze parlamentari esprimenti la fiducia al

Governo; stagione che avrebbe coinciso coi mesi del rapimento, e quindi con la morte, di Aldo Moro, nel 1978, e lì si

sarebbe chiusa.

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210

attenzione ai ceti medi e alla famiglia” fornirono la robusta coesione al partito31

. Ma la DC fu

anche sin da subito ben consapevole che “vi è in Italia un quarto partito, che può non avere

molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo,

organizzando il sabotaggio del prestigio e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi o

campagne scandalistiche”. Essa ispirò la sua azione alla consapevolezza che “non si governa

oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i

rappresentanti di questo quarto partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e

della forza economica”32

.

I ceti medi come elettorato, e i grandi potentati economici e finanziari, e la Chiesa cattolica,

come condizionanti interlocutori o ‘poteri’ di riferimento, in grado di farsi poi essa stessa

potentato economico attraverso la gestione della cosa pubblica, era questa la DC, il partito che

ha retto il paese ininterrottamente dal 1947 al 1982, per sciogliersi, sfigurata dagli scandali di

Tangentopoli, nel 1994, non senza avere esercitato, anche in questa seconda fase della sua

vita, un ruolo del tutto centrale e assolutamente condizionante nelle dinamiche politiche e

istituzionali (fino al suo scioglimento la DC sarà sempre al governo, pur non detenendo più

costantemente, dopo il 1982, la presidenza del Consiglio dei Ministri).

Il peso strutturale della DC nella conformazione della società, delle istituzioni e del modo di

essere del paese è ben espresso dal giudizio, largamente condiviso e condivisibile, secondo

cui essa ha sistematicamente esercitato “una strategia del consenso basata sull’uso e l’abuso

del potere statale”33

, esempi delle cui modalità si traggono a fiotti spigolando a caso dalle

pagine della Storia d’Italia di Paul Ginsborg, che abbiamo scelto tra altre per il suo stile chiaro

ed eloquente, e per quella certa imparzialità che le viene dall’essere il suo autore uno

straniero (sebbene altamente italianizzato, per via dei suoi studi). Quella strategia si

manifestò per esempio, nell’applicazione della riforma agraria degli anni 1950, dove “gli enti

di riforma furono sin dall’inizio solide nicchie di potere democristiano. Non comprendevano

alcun rappresentante contadino, mentre i baroni meridionali riuscirono spesso a mettere i

31

Il quale aveva dalla sua “l’alleanza che, con i provvedimenti di clemenza, i democristiani avevano potuto stipulare

con consistenti settori del vecchio stato, alleanza alla quale avrebbero mostrato fedeltà in numerose occasioni; e la

rete di organizzazioni collaterali facenti capo al partito, come in particolare la Coldiretti, fondata nel 1944 sulle già

solide strutture della Federazione nazionale fascista proprietari e affittuari coltivatori diretti, di cui ereditò dirigenti,

personale e vocazione corporativa, e che ebbe 23 deputati eletti nelle liste della DC nel 1948”; la DC raccolse inoltre “i

frutti della penetrazione cattolica nello Stato fascista, che aveva avuto come suo più importante protagonista l’Azione

cattolica, che, nel dopoguerra, sarebbe diventata il più importante strumento di mobilitazione politica sotto la diretta

autorità della gerarchia ecclesiastica. E’ qui il caso di notare che nell’imminenza della campagna elettorale del 1948,

nel volgere di sole 3 settimane, dall’Azione cattolica nacquero i Comitati civici, un paravento all’apoliticità della

stessa Azione cattolica, che condussero con grande energia e diffusione capillare la battaglia elettorale e che rimasero

protagonisti della vita del paese per un lungo periodo successivo. Fu attraverso di essi che le strutture più tipiche del

radicamento cattolico, le parrocchie, tornarono a giocare un ruolo politico di primo piano, ormai esautorate di

qualunque autonomia, inquadrate in un ferreo centralismo”, scrive R. Mangiameli, Gli anni del centrismo, in Lezioni

sull’Italia repubblicana, Donzelli editore, Roma, 1994, p. 38-39.

32

P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 101, che riferisce parole di Alcide De Gasperi pronunciate nel Consiglio dei

Ministri del 30 aprile 1947 e che esprimevano, per Scoppola, op. cit., p. 158, “la presa di coscienza della debolezza in

cui il governo si trovava davanti alla forze economiche”, dirette interlocutrici degli Stati Uniti (e della loro politica di

aiuti), che dello Stato italiano non si fidavano.

33

P. Ginsborg, op. cit., p. 187.

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loro uomini in posizione di potere”. Prese forma con il controllo di interi settori della

pubblica amministrazione: “I notabili democristiani, con le rispettive correnti, giunsero a

controllare i ministeri-chiave per prolungati periodi. Giulio Andreotti, per esempio, fu

Ministro della Difesa per circa sette anni dal febbraio 1959 al gennaio 1966. Ogni dirigente

nazionale e ogni corrente lottarono a lungo e duramente per mantenere il potere ed evitare

ingerenze altrui in quel settore dello Stato che era sotto il loro controllo”. Si allargò con il

controllo degli enti pubblici e delle società partecipate dallo Stato: Ugo Mattei, presidente

dell’Eni, e fondatore di una sua corrente dentro la DC, fece dell’Eni “il suo feudo privato, e la

sua direzione fu un esempio drammatico dell’uso e abuso del potere statale. In tutta

l’organizzazione prevalevano pratiche clientelari. La ‘lealtà’ di Mattei alle sue origini era così

grande che negli anni ’50 si diceva ironicamente che le iniziali della Snam, una delle più

grandi aziende dell’Eni, significassero ‘siamo nati a Matelica’. Il denaro pubblico era usato

abitualmente e senza scrupoli per corrompere clienti e funzionari.” 34

Così come era accaduto nello stato liberale, controllare la pubblica amministrazione

significava condizionare le attività private, premiare gli amici, mettere in difficoltà i nemici,

costruire clientele e bacini di voti:

“Nel caso degli enti pubblici che si occupano di assistenza sanitaria e di pensioni (…) i favori distribuiti non

erano posti di lavoro, ma denaro contante sotto forma di pensioni o di indennità previdenziali ed assistenziali:

in altri casi l’aiuto fornito era più limitato, ad esempio consisteva nell’accelerare le pratiche di riscossione

crediti, eliminando le attese lunghissime dovute alla inefficienza cronica degli uffici stessi. Gli ospedali

servivano a parecchi scopi oltre quello di curare i malati. Quest’ultimo sembrava anzi un compito secondario

nel famoso ospedale Vittorio Emanuele di Catania, un buon esempio di istituzione pubblica completamente

politicizzata che risultava, con 1200 lavoratori, la terza più grande azienda della città. L’assegnazione per via

clientelare dei posti di lavoro, dal consulente all’inserviente, raggiungeva notevoli livelli di sofisticazione.

Molte mansioni erano tenute deliberatamente sguarnite, di modo che il maggior numero possibile di aspiranti

potesse essere attratto il più a lungo possibile. Una volta dentro, la mobilità interna e le promozioni erano

frutto più di preferenze politiche che di competenza professionale, così come avveniva per l’ultimo e decisivo

gradino dell’ entrata ‘in ruolo’ in modo permanente. In casi estremi, per motivi elettorali i letti del Vittorio

Emanuele si potevano riempire di elettori democristiani in perfetta salute. Nel 1963 il presidente dell’ospedale,

Alfio di Grazia, un senatore democristiano alla disperata ricerca di rielezione, fece entrare in ospedale

numerosi ‘pazienti’ che vivevano nella circoscrizione sbagliata per il suo ‘obiettivo’ (Catania II9 ma ai quali la

legge permetteva di votare in quella ‘giusta’ (Catania I) qualora si fossero trovati nel letto di un ospedale”35

.

Alla strategia democristiana del consenso non sono state estranee, ed anzi sono state

probabilmente consustanziali, oltre a sistematiche prassi clientelari, connivenze con la

criminalità mafiosa e camorristica.

“La crescita mostruosa di città come Palermo e Napoli fu l’effetto della stretta collaborazione tra speculatori

edili, proprietari e amministratori locali. In ognuna di queste città il posto chiave era l’assessorato ai lavori

pubblici, responsabile anche della pianificazione urbanistica. Nella Palermo dominata dalla corrente di Fanfani

due personaggi molto chiacchierati ricoprirono questo incarico nel periodo cruciale 1956-1964, Salvo Lima e

Vito Ciancimino [poi entrambi sindaci della città]. Quando, nel 1959, fu approvato il piano regolatore

comunale, circa 600 erano le ‘varianti’ che lo accompagnavano, ognuna di esse mirante ad aumentare la

densità di edificabilità o ad appropriarsi di terreno destinato a uso pubblico. Si trattava di illegalità molto

comuni in tutta Italia, e nel Mezzogiorno in particolare. Palermo costituiva tuttavia un caso estremo, reso

peggiore dalla collusione tra amministratori, politici e mafia. Mano a mano che l’agricoltura perdeva

importanza, le principali famiglie mafiose rivolsero la loro attenzione alle città, specialmente a Palermo.

34

P. Ginsborg, op. cit., p. 220.

35

P. Ginsborg, op. cit., alle pagine 177, 207, 241.

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L’industria delle costruzioni e i mercati generali municipali divennero le loro roccaforti, mentre Vito

Ciancimino fu il loro interlocutore privilegiato nella giunta comunale36

”.

Il partito si articolò in numerose ‘correnti’, facenti capo ciascuna a un uomo politico di rilievo,

esprimenti un radicamento capillare nel territorio anche tramite una salda rete elettorale, che

includeva ‘grandi elettori’ (influenti personaggi locali capaci di raggiungere più di un ceto

sociale: sindaci e consiglieri, preti, proprietari terrieri, uomini d’affari medici ed avvocati che

lavoravano attivamente per la DC in una certa zona); ‘capi elettori’ (attivisti capaci di

raggiungere un unico settore, sia esso lavorativo, come gli operai dell’edilizia, o geografico,

come un quartiere popolare di una città, o perfino criminale,come la camorra a Napoli); e

parentele familiari, di grande importanza per costruire affidabili pacchetti di voti” 37

.

Le correnti erano portatrici di visioni strategiche, così come di prassi e di stili di azione, tra di

loro diverse, ciò che rese il governo del partito una questione complessa e delicatissima. I

cangianti equilibri interni della DC si sono continuamente riflessi sulla composizione degli

Esecutivi, e sulla loro (in)stabilità.

Alcune correnti democristiane – con la continua resistenza e opposizione di altre - sono state

possibiliste nei confronti di una evoluzione del quadro politico che rompesse la conventio ad

excludendum e inserisse nel governo il partito comunista: l’itinerario verso il ‘compromesso

storico’, come vedremo meglio parlando delle forme di governo, ha consumato tutti i primi

trent’anni della vita repubblicana e ha fatto sì che il ruolo del principale partito di

opposizione, il partito comunista, abbia finito per costruirsi tutto intorno alla egemonia

democristiana, nonché, per un lungo periodo, ai diktat dell’Unione sovietica, sacrificando a

questa finalità e a questo complicato gioco un rapporto diretto, fresco e autorevole con forze

progressiste presenti nella società, e che al partito comunista facevano o avrebbero potuto

fare riferimento.

Il Partito Comunista Italiano

Le scelte del partito comunista nel periodo repubblicano hanno, in effetti, sempre ripetuto il

passo adottato negli anni 1943-45. Allora “il Pci rinviò ogni riforma sociale e politica in nome

dell’unità nazionale e della liberazione. Nei successivi tre anni il suo errore fu quello di fare

del terreno politico e dell’alleanza con la DC lo strumento pressoché esclusivo per realizzare

le riforme. (…) Il risultato fu che l’arma più potente in mano alle sinistre, l’attivismo della

36

P. Ginsborg, op. cit. Già accusato dalla commissione antimafia nel 1964, e ciononostante di nuovo al suo posto in

politica e sindaco di Palermo nel 1970 (per essere escluso dalle liste elettorali democristiane solo dal 1975), Vito

Ciancimino sarà imputato per collusione con la mafia nel 1984, e condannato nel 2001. Salvo Lima, divenuto

‘proconsole’ di Andreotti in Sicilia, fu assassinato dalla mafia nel 1992: vi si lesse un avvertimento nei confronti del

senatore democristiano, allora in predicato per diventare Presidente della Repubblica, e che dovette abbandonare

questa aspirazione. Secondo molti analisti, l’omicidio Lima fu il primo atto di una reazione della mafia alle condanne

pronunciate nel maxiprocesso contro numerosi boss, che si era appena concluso, e volta a influenzare in senso

favorevole il trattamento carcerario dei condanni, reazione che sarebbe proseguita con gli assassini dei magistrati

Falcone e Borsellino, e delle loro scorte.

37

P. Ginsborg, op. cit., p. 243.

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classe operaia, risultò praticamente inutilizzata nelle principali battaglie del periodo”. Già nel

giugno del 1946 la strategia dell’accordo con la DC presentò subito il conto: fu il maggiore

esponente comunista, Palmiro Togliatti, allora Guardasigilli, a promulgare l’amnistia che

segnò la fine dell’epurazione e grazie alla quale “sfuggirono alla giustizia anche i fascisti

torturatori grazie alla distinzione grottesca e disgraziata stabilita dal provvedimento tra

‘torture normali’ e ‘torture particolarmente efferate’38

. Durante tutta la fase dei governi di

unità nazionale, comunisti (e socialisti) non espressero alcuna influenza sulla politica

economica, davanti alla quale finirono per accettare che avessero sempre la priorità i problemi

politici e istituzionali, quali le elezioni, i rapporti tra i partiti, il dibattito alla Costituente. Il

governo Parri, a maggioranza di ministri di sinistra, sotto la pressione dei datori di lavoro

revocò il divieto di licenziamenti, decisione rimasta simbolica della continua perdita di

terreno del movimento operaio davanti alla classe padronale in quel periodo 39

. Negli anni

successivi, nonostante la sua grandissima base popolare40

, il partito comunista rimase però

anche isolato, come incapace di ‘piacere’ a molti, di incontrare un consenso disteso; si

trattava di un isolamento che risultava da precise strategie politiche e comunicative messe in

atto contro il partito (dalla scomunica dei comunisti pronunciata dal papa nel 1948, sino alle

battute allora comunemente circolanti per cui, ad esempio, ‘i comunisti mangiano i bambini’

o, ad ogni elezione, che a Roma sarebbero venuti i carrarmati sovietici se vincevano i

comunisti), ma che può essere attribuito anche alla incapacità, da parte del partito, di

elaborare e promuovere un modello di famiglia e una idea di vita privata alternativi a quelli

tradizionali, al suo legame a lungo ‘idolatrico’ con l’URSS stalinista, che sarà abbandonato solo

nei primi anni ’70, alla mancanza di democrazia del partito, in cui era vietata la opposizione

interna (cd centralismo democratico), alla tendenza dei giornali e delle istituzioni culturali

riferentisi al partito di ricorrere ‘a sfacciate menzogne e falsificazioni storiche pur di

giustificare le improvvise svolte nella loro storia politica, o per legittimare la liquidazione

degli oppositori”; al tipo di educazione politica trasmessa ai militanti, fondata su una visione

38

P. Ginsborg, op. cit., p. 109 e 121, che prosegue: “Con questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini

quali lo stupro plurimo di una partigiana, la tortura di alcuni partigiani appesi al soffitto e presi a calci e pugni come

un sacco da pugile, la somministrazione di scariche elettriche sui genitali attraverso i fili di un telefono da campo. Per

quest’ultimo caso la Cassazione stabilì che le torture ‘furono fatte soltanto a scopo intimidatorio e non per bestiale

insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente ordinaria”.

Alla fin fine l’unica effettiva epurazione fu quella condotta dai ministri democristiani contro i partigiani e gli

antifascisti che erano entrati nell’amministrazione statale. Lentamente ma con determinazione De Gasperi sostituì

tutti i prefetti nominati dal Comitato di liberazione Alta Italia con funzionari di carriera di propria scelta. E nel

1947/48 il nuovo ministro degli interni democristiano, Mario Scelba, epurò con sveltezza la polizia dal consistente

numero di partigiani che vi erano entrati nell’aprile 1945.

39

I datori ottennero, anche, accordi sindacali nazionali che vietavano lo sciopero a livello di fabbrica, che il sindacato

di riferimento del PCI, la CGIL, firmò in cambio di un minimo di garanzia salariale, sembrando questo l’ottenere

almeno qualcosa nella situazione di estrema povertà di allora (Ginsborg, op.cit., p. 126), ma era il prodromo delle

politiche antisindacali che per tutti gli anni ’50 videro “i padroni, a livello di fabbrica, riconquistare potere e autorità”

(Ibid., p. 258).

40

A questo riguardo, e per chi voglia farsi un’idea di che cosa abbia significato l’espressione ‘ grande partito di

massa’, consiglio di vedere su You Tube le immagini del funerale di Enrico Berlinguer, celebrato a Roma nel 1984.

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“rassicurante ma distorta della realtà storica” (il capitalismo condannato, la rivoluzione alle

porte, l’Urss il paradiso terrestre)41

.

Tutti questi aspetti caratterizzarono il partito fino alla fine degli anni ’50, quando, dopo le

rivelazioni di Kruscev sulle violenze dello stalinismo, il PCI si aprì a un nuovo policentrismo,

alla sensibilità per i valori costituzionali e della democrazia parlamentare, attraendo una

intera generazione di intellettuali (stagione del c.d. “eurocomunismo”), e dando origine a una

interessante e innovativa stagione della cultura italiana, ma anche soffrendo la separazione

ormai consumata con un Psi più moderato e riformista (che tra il 1978 e il 1987, con Bettino

Craxi, avrebbe cercato, riuscendovi, di costruirsi un protagonismo politico tutto a spese dei

cugini comunisti) e il peso delle contraddizioni che al proprio interno opponevano antico

centralismo e nuove aperture. Col tempo, il partito si trovò in un crescente distacco nei

confronti dei movimenti giovanili, ambientalisti, pacifisti, del pensiero e della politica

femminista, di un insieme di soggetti sociali in cui si esprimevano le generazioni più recenti coi

loro nuovi bisogni e le loro nuove identità: paradigmatica la gestione prudentissima e

recalcitrante della questione della rimozione del divieto penale di aborto, nella prima metà

degli anni ’70, e lo schieramento incrollabile a favore delle durissime, repressive leggi di

ordine pubblico applicate in quello stesso periodo42

. Della distanza tra il partito e larghissima

parte delle giovani generazioni, del mondo intellettuale, e dello stesso mondo del lavoro fu

segnale la nascita, tra la fine degli anni ’60 e degli anni ’70, di tutta una serie di piccole

formazioni partitiche ‘a sinistra’ del Pci o comunque dissidenti verso di esso.

In questo itinerario, come detto sopra, il Pci pensò però sempre di poter trovare i propri

interlocutori in una parte ‘sana’ della DC, secondo quel disegno di ‘compromesso storico’ che

aspirava a rieditare i governi costituenti dell’unità nazionale. Dopo quella fase, conclusasi nel

1978, nell’ultima parte della sua vita (il Partito comunista italiano si è sciolto nel 1991) e il

partito cercò inizialmente, senza riuscirvi, di accreditarsi come il soggetto capace di rimettere

insieme le macerie lasciate da trent’anni di egemonia democristiana, sollevando, ciò che fece

l’allora segretario del partito Enrico Berlinguer in una celebre intervista, la ‘questione

morale’, ma rimanendo alla fine, rispetto alle vie intorno alle quali il sistema italiano dei

partiti si è ricostruito, tagliato fuori.

Insieme peraltro alla questione morale, se è vero come è vero che nel 1992, con un celebre

discorso alla Camera dei Deputati, l’onorevole Bettino Craxi, socialista e già più volte

Presidente del Consiglio poté chiamare a correità, in materia di finanziamento illecito dei

41

Per quanto precede v. P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., alle pagine 109, 122, 125, 268.

42

Con le leggi di ordine pubblico della prima metà degli anni 1970, fu “operata una rottura plateale rispetto alle

posizioni correnti nel garantismo del decennio precedente, per le quali qualsivoglia manifestazione collettiva, ad

esclusione di quelle della destra neofascista, non era di per sé criminalizzabile o reprimibile con interventi di ordine

pubblico, salvo che per gli atti individuali che potessero essere individuati come reato. E questa rottura ebbe la

copertura tacita, ma inequivocabile, del Pci” che appoggiò sempre le forze di polizia, in particolare dopo l’uccisione,

dovuta a queste ultime, dello studente Francesco Losurdo, militante di Lotta Continua: cfr. P. Craveri, La Repubblica

dal 1958 al 1992, Utet-Tea, Torino, 1995, p. 715.

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partiti e di prassi degenerative che ne derivano, l’intero sistema partitico, senza che nessuna

voce si levasse contraddirlo, e se è vero che ancora nel 2012 le giunte regionali del Lazio e

della Lombardia sono cadute all’indomani della denuncia di prassi distorsive nell’uso dei

fondi pubblici e di collusioni con la camorra ai fini del reperimento dei voti43

.

La questione morale

Nell’intervista sulla ‘questione morale’ resa da Enrico Berlinguer al direttore del quotidiano La

Repubblica, Eugenio Scalfari, nel 1981 e il cui testo integrale si può trovare facilmente su

internet, si legge, tra l’altro:

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e

dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi sentimenti e passione civile,

zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun

rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune.

La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori

del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di

correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali,

gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV,

alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera,

cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di

stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe

lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali

dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della

corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura

vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato,

una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di

fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

43

Il discorso di Bettino Craxi, qualche momento del quale si può anche sentire su You Tube, si legge in

www.fondazionecraxi.org/pdf_discorsi/Bettino_Craxi_3lug. E’ una lettura molto impressionante e che dà parecchio da

riflettere. Il Partito socialista, che aveva, se così si può dire, “ strappato “ al PCI il ruolo di forza di sinistra in grado di

salire al Governo (il pentapartito a guida socialista è stata la formula di governo tra il 1982 e il 1987) stava in quegli

anni cadendo sotto i colpi di Tangentopoli; Craxi vi vede una ‘crisi politica’, vale a dire egli adombra l’ipotesi per cui

il suo partito è vittima di una strategia di delegittimazione originata in via giudiziaria ma di chiare, ai suoi occhi,

finalità e motivazioni politiche. Quale che sia il valore di questa ipotesi, che ha rappresentato dopo di allora un

ricorrente refrain da parte del capo e di molti esponenti dell’odierno Popolo della libertà (fondato nel 1994 come

‘Forza Italia’ da Berlusconi, a sua volta fortemente legato a Craxi, e protagonista dei vent’anni della vita repubblicana,

essendo stato Presidente del Consiglio nel 1996, tra il 2001 e il 2006, e dal 2008 al 2011) resta da dire che trent’anni

dopo la ‘questione morale’ di Berlinguer, vent’anni dopo il discorso del 3 luglio di Bettino Craxi, il cittadino italiano

può difficilmente sottrarsi alla sensazione che la questione morale sia diventata anche una sorta di componente del

gioco politico, almeno a titolo di regolamento di conti interni a una formazione politica, di eliminazione trasversale di

potenziali competitori: dopotutto, gli scandali del 2012 della regione Lazio, e quelli della regione Lombardia, sono

stati rivelati da appartenenti alle stesse forze politiche di coloro poi indagati, nel quadro dei complessi tentativi di

riallineamento e ricerca di nuovi equilibri apertisi all’interno della formazione politica, il PDL, che era uscita vincitrice

dalle elezioni del 2008 ed esce come la più, almeno apparentemente, indebolita e disorientata dalla fine della

legislatura.

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Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani

sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste

conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si

accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle

discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo

attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole

una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello

delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge

rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È

un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia,

ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno,

hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi

come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza

di poche settimane.

Veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose

stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così

decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a

che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani

abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani,

oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la

vostra diversità? C’è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda,

elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine

all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come

dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo

non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma

interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando

democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba

incutere tanta paura agli italiani?

Il Processo

La questione morale è un tema enorme dell’Italia di oggi, e può sembrare incredibile che nel

2012 il nostro paese si confronti con temi che suonano come del tutto analoghi, anche nelle

parole con cui sono discussi, a quello sollevato da Enrico Berlinguer nel 1981. Importanti

ragioni della inefficacia con cui il tema viene affrontato sono suggerite dalla lettura di alcuni

brani, che a buon diritto possono essere definiti profetici, scritti dal poeta, scrittore e regista

Pier Paolo Pasolini nel 1975, e in cui l’intellettuale metteva a tema proprio il problema della

moralità politica, insistendo sulla necessità di aprire un Processo sulle responsabilità dei

partiti politici.

“I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è

speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico,

beni naturali cioè culturali.

“I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è

fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i

meridionali, cittadini di seconda qualità.

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“I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà

tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggisti, ecologici, abbandonando,

sempre selvaggiamente, e se stessa la campagna.

“(…) I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta

democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai ‘cultura’ è stata più accentratrice della cultura di questi

dieci anni) i decentramenti sono serviti unicamente come cinica copertura di manovre di un vecchio sotto-

governo clerico-fascista divenuto meramente mafioso.

“Ho detto e ripetuto la parola ‘perché’: gli italiani non vogliono infatti consapevolmente sapere che questi

fenomeni oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono sapere, prima di tutto,

perché esistono.

“Voi dite, cari giornalisti, che a far sapere tutte queste cose agli italiani provvede il gioco democratico, ossia le

critiche che i partiti si muovono a vicenda – anche violentemente – e in specie le critiche che tutti i partiti

muovono alla Democrazia Cristiana. No, Non è così. E per la ragione che ognuno in diversa misura e in diverso

modo, tutti gli uomini politici e tutti i partiti condividono con la Democrazia Cristiana cecità e responsabilità.

“Dunque, prima di tutto, gli altri partiti non possono muovere critiche oggettive e convincenti alla Democrazia

Cristiana dal momento che anch’essi non hanno capito certi problemi o, peggio ancora, anch’essi hanno

condiviso certe decisioni.

“Inoltre su tutta la vita democratica italiana incombe il sospetto di omertà da una parte e di ignoranza

dall’altra, per cui nasce –quasi da se stesso – un naturale patto col potere: una tacita diplomazia del silenzio.

“Un elenco, anche sommario, ma per quanto possibile completo e ragionato dei fenomeni, cioè delle colpe, non

è mai stato fatto. Forse la cosa è considerata insostenibile. Perché, ai capi di imputazione che ho qui sopra

elencato, c’è molto altro da aggiungere.

“Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar, del Sid, della Cia.

“Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del

Governo di Roma o collaborato con esso.

“Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stata la realtà dei cosiddetti golpe fascisti, da quali

menti e in quale sede sia stato varato il progetto della strategia della tensione (prima anticomunista e poi

antifascista, indifferentemente).

“Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.

“Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle

stragi di Milano, di Brescia, di Bologna.

“(…) Finché non si sapranno tutte queste cose insieme – e la logica che le connette e le lega in un tutto unico

non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti – la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova

coscienza. Cioè l’Italia non potrà essere governata.44

“I reati morali commessi da coloro che hanno governato l’Italia negli ultimi trent’anni”

secondo Pier Paolo Pasolini erano molti45

, ma il principale di essi era uno, era il fatto che i

44

P.P. Pasolini, Perché il Processo, in Il Corriere della Sera, 28 settembre 1975, poi in Id., Lettere luterane. Il Progresso

come falso progresso, Einaudi, Torino, 1976 e 2003, p. 145 ss.

45

“Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli

industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera,

collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna

(almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia,

responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale

inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali, e di ogni

opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, responsabilità dell’esplosione

‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione,

responsabilità del decadimento della Chiesa e, infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di

cariche pubbliche ad adulatori”: P.P.Pasolini, Il Processo, in Il Corriere della Sera, 24 agosto 1975, ora in Id., Lettere

luterane, cit., p. 114.

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partiti non avevano voluto o saputo, per ignoranza e cieco calcolo di convenienza,

comprendere e governare le profonde trasformazioni attraversate dalla società italiana tra la

fine della guerra, quando il paese era estremamente povero, molto religioso, ancora attaccato

a tradizioni culturali contadine46

, e il successivo boom economico della fine degli anni ’50 e

degli anni ’6047

, gli anni del ‘consumismo edonistico’, della laicizzazione improvvisa, della

trasformazione dei costumi, dell’emigrazione di massa48

e dell’abbandono delle campagne49

. In

questi anni, denuncia Pasolini, l’Italia viene inconsapevolmente travolta, o meglio: i partiti

lasciano irresponsabilmente che essa sia travolta, senza consapevolezza, senza pensiero,

senza capire quello che stava accadendo, da un qualcosa di nuovo, che la asservisce.

Pasolini divideva la storia italiana del dopoguerra in due periodi: prima e dopo l’avvento dei

consumi di massa (e cioè dall’immediato dopoguerra alla metà degli anni 60, e il decennio

successivo). Nella ‘prima fase’ della storia repubblicana:

“La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta: la mancata epurazione, la

continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. La democrazia che gli antifascisti

democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.

“Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi

masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime

totalmente repressivo. In tale universo, i ‘valori’ che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa,

la patria, la famiglia, l’obbedienza, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali ‘valori’ (come del resto durante il

fascismo) erano ‘anche reali’: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l’Italia

agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a ‘valori’ nazionali non potevano che

perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere

fascista e democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticano.

“Tutto ciò risulta chiaro e inequivocabile oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli

oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia

formale contasse in fondo qualcosa.”

46

Fornendo alla DC quella che Pasolini chiama la sua base ‘clerico-fascista’.

47

“Il boom si sviluppò secondo una logica tutta sua, rispondendo direttamente al libero gioco delle forze del mercato,

e dando luogo, come risultato, a profondi scompensi strutturali. Il primo di questi fu la cosiddetta distorsione dei

consumi. Una crescita orientata all’esportazione comportò un’enfasi sui beni di consumo privati, spesso su quelli di

lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei consumi pubblici. Scuole, ospedali, case, trasporti, tutti i beni di prima

necessità restarono parecchio indietro rispetto alla rapida crescita della produzione di beni di consumo privati. Il

modello di sviluppo sottinteso dal ‘boom’ (o che al ‘boom’ fu permesso di assumere) implicò una corsa al benessere

tutta incentrata su scelte e strategie individuali e familiari, ignorando invece le necessarie risposte pubbliche ai

bisogni collettivi quotidiani” (P. Ginsborg, Storia d’Italia, cit., p. 293).

48

Avvenuta in assenza di qualunque programmazione e cura pubblica: nessuna politica degli alloggi (e gli emigrati si

stipavano nelle ‘coree’ case costruite da loro stessi di notte su terreni agricoli, poi sostituite dai palazzoni di

periferia, privi di ogni servizio essenziale), una assistenza sanitaria del tutto inadeguata, tanto che ‘a Torino ci fu una

impennata della mortalità infantile. Le città più grandi non avevano alcuna struttura per i servizi sociali: gli immigrati

bisognosi di assistenza materiale e psicologica venivano così lasciati alla carità dei privati o della Chiesa” (P.

Ginsborg, op.cit., p. 306).

49

Mentre sorgevano le ‘cattedrali nel deserto’ gli stabilimenti petrolchimici e le acciaierie, costruite al Sud per

incrementare il lavoro ma in realtà dovute a scelte clientelari per quanto riguarda la localizzazione nel territorio, e

non produttive di occupazione in quanto industrie a alta intensità di capitale e non di lavoro: “un qualsiasi

viaggiatore, negli anni ’60, poteva passare in un battibaleno da un paesaggio di ciminiere a uno di villaggi

semiabbandonati” (P. Ginsborg, op.cit., p. 312). “I nuovi poli di sviluppo, i ‘nuclei di industrializzazione’ permisero ai

boss meridionali di accedere a nuove fonti di denaro e di potere, di ampiezza senza precedenti. Dal 1965 in poi la

pianificazione complessiva dell’intervento nel Sud fu centrata sulla Cassa per il Mezzogiorno, che non dimostrò

grandi capacità strategiche, ma che riuscì a pompare grosse quantità di denaro statale nella casse dei vari enti e

consorzi di sviluppo” (Ib., p. 391).

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Nella seconda fase:

“I ‘valori’ nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non

contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono

neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clericofascismo emarginato (anche il MSI li ripudia50

). A

sostituirli sono i ‘valori’ di un nuovo tipo di civiltà, totalmente ‘altra’ rispetto alla civiltà contadina e

paleoindustriale.

“Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della

prima ‘unificazione’ reale subita dal nostro Paese; mentre negli altri Stati essa si sovrappone, con una certa

logica, alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il

trauma italiano del contatto tra l’ ‘arcaicità’ pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo

precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati

distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi

masse non più antiche (contadine, artigiane) e non ancora moderne (borghesi), che hanno costruito il

selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste

.

“In Italia sta succedendo qualcosa di simile, e con ancora maggior violenza, perché l’industrializzazione degli

anni settanta costituisce una ‘mutazione’ decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquanta anni fa. Non

siamo più di fronte, come ormai tutti sanno, a ‘tempi’ nuovi, ma a una nuova epoca della storia umana: di

quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di

così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso,

criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma naturalmente, per capire i cambiamenti della gente,

bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana l’avevo amata, e ho visto dunque ‘coi miei sensi’ il

comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una

irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il

comportamento era completamente dissociato dalla coscienza.”51

L’accusa di Pasolini è dunque che i partiti, che dovrebbero essere i soggetti che governano una

società, hanno completamente mancato al loro compito perché non hanno capito la “novità del

potere” che nel giro di pochi anni stava trasformando il mondo, con conseguenze e

implicazioni, nel nostro paese, di particolare natura per effetto della sua storia, alla sua

composizione sociale, alle sue esperienze passate.

La “novità del potere”: l’avvento della globalizzazione in Italia e il travolgimento della

funzione politica e di governo dei partiti

“Una confortevole, levigata,

ragionevole, democratica non

libertà prevale nella società

industriale avanzata, segno di

progresso tecnico.”

(H. Marcuse, L’uomo a una

dimensione, p. 21)

50

Il Movimento Sociale Italiano fu il partito che raccolse in età repubblicana l’eredità ideale del fascismo. Fondato nel

1946, si è sciolto nel 1995. La formazione politica che ne è risultata è Alleanza nazionale, scioltosi poi nel 2009 per

confluire nel Popolo della Libertà (PDL).

51

Scritti Corsari, p. 131.

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Il potere la cui ‘millenaristica52

’ novità, non compresa dai partiti, che hanno così perduto in

tutto il loro ruolo, la loro utilità e funzione, trasformandosi perciò in parassiti capaci di

produrre solo la loro stessa autoconservazione, cui si riferisce Pasolini, corrisponde al

fenomeno che viene oggi etichettato come ‘globalizzazione’.

Nei manuali odierni di diritto pubblico, la troviamo descritta così53

: “un mercato mondiale in

cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un paese all’altro, e che indebolisce

il controllo dello Stato sul suo territorio. Le sue cause sono: progresso tecnologico (che rende

sempre più facile ed economico lo spostamento dei beni da un luogo a un altro), la

‘smaterializzazione’ delle ricchezze tradizionali, attraverso la cd finanziarizzazione

dell’economia, che sempre più si basa sulla proprietà e lo scambio di risorse finanziarie

piuttosto che sul possesso di beni materiali; l’accresciuta importanza strategica ed economica

di altri beni immateriali come la conoscenza e l’informazione, lo sviluppo dell’informatica e la

creazione di reti telematiche, che rendono possibile il rapidissimo spostamento di

informazioni e di capitali da una parte all’altra del paese, lo sviluppo di sistemi produttivi

flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente da un luogo all’altro o di

allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali diverse (si pensi ad alcune

imprese leader nel campo dell’abbigliamento, che insediano i centri di disegno dei capi e le

strutture di marketing nel cuore d’Europa, in modo da sfruttare le migliori risorse umane in

questi campi, mentre la lavorazione degli indumenti avviene in Paesi extraeuropei dove il

costo della manodopera è più basso)”.

Sono numerose le conseguenze che discendono dalla globalizzazione dell’economia sullo

Stato:

“Anzitutto, le risorse più importanti, e cioè il capitale finanziario e le informazioni e le conoscenze, che per

loro natura non sono legate al territorio (si dice però che l’economia si è deterritorializzata), si spostano da un

luogo a un altro, e perciò anche da uno Stato a un altro, alla ricerca del luogo più conveniente in cui

posizionarsi, sfuggendo pressoché integralmente al controllo dei poteri pubblici. In secondo luogo, gli Stati

sono sempre più influenzati da decisioni che vengono prese fuori dai loro confini, ma che hanno effetti

considerevoli all’interno del territorio dello Stato (si pensi alla decisione dei grandi investitori di realizzare

vendite massicce dei titoli del debito pubblico di un determinato Stato, mettendone in crisi la liquidità,

determinando un rialzo dei tassi di interesse e il conseguente aumento del debito dello Stato; oppure si pensi

alle conseguenze, sul livello dei prezzi e perciò del tasso di inflazione, delle decisioni prese dai paesi

produttori di petrolio o da grandi gruppi multinazionali).” Attraverso questa pressione, i mercati sono in grado

di convincere gli stati ad adottare, in materia fiscale, previdenziale, di gestione della spesa pubblica,

organizzazione del lavoro, organizzazione degli studi e della ricerca, in modo ad essi conveniente, e perciò

“non è più vero che lo Stato abbia la piena sovranità sul suo territorio, tanti essendo i condizionamenti

provenienti dai mercati internazionali”.

L’inizio di quella trasformazione su scala mondiale dei rapporti economici che ha visto il

capitalismo finanziario diventare il primo e più potente soggetto condizionante le scelte

52

Usando questo aggettivo, Pasolini intende dire che il cambiamento indotto dal ‘nuovo potere’ una così ampia serie

di implicazioni sull’economia, il diritto, la società, i costumi, la cultura da dare vita a una intera epoca storica a se

stante, analogamente a come si ragiona di ‘medio evo’, età moderna, o contemporanea, o di evo antico.

53

I due brani che seguono sono presi da R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 14-15.

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politiche nazionali, e che chiamiamo globalizzazione, risale ai primi anni 1970. Nel 1971, il

Presidente americano Richard Nixon annunciò l’abbandono degli accordi di Bretton Woods, e

cioè la fine della convertibilità del dollaro in oro, su cui si erano retti i rapporti economici

internazionali dalla fine della seconda guerra mondiale e che rischiava di portare gli Stati

Uniti, oppressi da un enorme debito pubblico e dipendenti dalle forniture di petrolio dai paesi

arabi, al fallimento. Da questo fatto sconvolgente (concausa, nell’immediato, della crisi

economica spaventosa degli anni 1971-73, che pose per sempre fine al trend di crescita

impresso all’Europa dalle politiche keynesiane adottate a livello internazionale e fino a quel

momento favorite dal FMI e dalla Banca Mondiale), derivò quella che oggi chiamiamo

‘finanziarizzazione’ dell’economia, cioè il fatto che il valore delle economie nazionali non è

più legato all’andamento della loro economia reale, ma alle speculazioni. Nel luglio del 1973,

su iniziativa del capitalista americano David Rockefeller, nacque la Commissione trilaterale,

riunione periodica e privata di personalità di spicco della élite politica, finanziaria e

intellettuale del mondo occidentale, che assumeva come esplicito obiettivo quello di

individuare le linee di sviluppo convenienti per l’occidente, per dettarle ai governi. Era la

formalizzazione del ruolo di condizionamento sulle politiche nazionali esercitato

caratteristicamente, nell’era della globalizzazione, da élite transnazionali economico-politico-

finanziarie ossia da soggetti non politicamente legittimati54

. Nel 1975 la Commissione

Trilaterale pubblicò il libro "La crisi della democrazia", con la prefazione di Gianni Agnelli, il

quale in un'intervista di quell’anno così si espresse:

"Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui avranno

contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in parlamento; probabilmente il potere si sposterà dalle

forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica; probabilmente i regimi tecnocratici

di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia

metterà a nostra disposizione un maggior numero di beni e più a buon mercato".

Ecco dunque la ‘novità del potere’ avvertita da Pasolini, e il motivo per il quale il suo avvento

ha distrutto i partiti politici: il nuovo connubio tra economia globale e governi nazionali,

orientato a guidare la vita sociale secondo indirizzi alla prima convenienti, non ha bisogno del

54

“Un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti,

Europa, Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano

l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri

della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni».

La creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si

ritrovano fianco a fianco dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e

universitari, coincideva all’epoca con un periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione

dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti,

soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le grandi potenze a una

cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di

questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire» attraverso

le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici.” Così “Gli opachi poteri della Trilaterale”, di Olivier Boiral, da «Le

Monde Diplomatique» novembre 2003.

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canale rappresentativo per organizzare il consenso. Dispone infatti di un altro mezzo: la

produzione di massa di beni di consumo. Tanto meno esso è interessato nel pluralismo

politico con cui le società guidano le istituzioni in funzione dei propri interessi, valori,

preferenze e concezioni del giusto, del bene, della felicità; a esso è infatti consustanziale una

progressiva e inarrestabile omologazione delle persone e degli stili di vita e di pensiero, che

porta i più, semplicemente, a preferire l’accesso ai beni di consumo alla libertà politica, e

fatalmente la spenge.

Il tempo dell’”uomo a una dimensione”

Pasolini faceva propria l’analisi del filosofo Herbert Marcuse, la cui opera L’uomo a una

dimensione, apparsa nel 1964 negli Stati Uniti e tradotta per la prima volta in Italia nel 1967

aveva già messo completamente a fuoco la genesi e i meccanismi di funzionamento del ‘nuovo

potere’, incentrandosi sul ruolo che il consumismo aveva al loro interno, e sui processi di

uniformazione in cui si esprimeva.

Marcuse rileva intanto che il modello di capitalismo ‘fordista’ che aveva dominato nel secondo

dopoguerra, il capitalismo che produce ‘merci’ utilizzando la forza lavoro operaia in luoghi

fisici chiamati ‘fabbriche’, e che aveva portato con sé una visibile differenziazione di

interessi e di soggettività (di classe) nella società, era ormai sopravanzato da un nuovo modo

di produzione, che implicava importantissimi cambiamenti. Sempre più automatizzato e

tecnologico, il lavoro diventava una attività in cui è sempre meno importante la forza fisica e

dove si richiedono, invece, sempre più skills intellettuali, capacità tecniche e mentali55

. Era

l’annuncio di quello che noi oggi chiamiamo il ‘proletariato intellettuale’, cioè di tutta quella

forza lavoro che, di fatto, occupa nella scala sociale un ruolo subordinato, ma non identifica

se stessa come una ‘classe’ opposta a altra classe, quella dei datori di lavoro, dei proprietari

dei mezzi di produzione, perché indotta al contrario, dalla possibilità di consumare gli stessi

beni, a identificarsi coi suoi padroni. Perciò la possibilità di consumare è, nell’analisi di

Marcuse, in realtà una necessità, imposta (anche se presentata come ‘libertà di scelta’) in

quanto funzionale agli interessi del capitalismo industriale, e imposta dolcemente attraverso i

mezzi di comunicazione.

“Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nei giradischi ad alta

fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla

società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto”56

.

55

H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies on the Ideology of Advanced Industrial Society, 1964, trad. it. L’uomo a

una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967, trad. Luciano Gallino e Tilde

Giani Gallino, p. 45.

56

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 29.

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La globalizzazione si annunciò dunque come omologazione dei gusti, uniformazione degli

stili di vita, resa possibile da quella società dei consumi, o ‘stato del benessere’ che il mondo

occidentale ha conosciuto tra la fine degli anni 1960 e gli anni 1970. Il consumismo inaugurò

una nuova, più pervasiva, mai esistita prima forma di dominio. Mentre il primo capitalismo

industriale si prendeva, dal lavoratore, ‘solo’ la forza lavoro, il nuovo prende l’anima. Non ci

si sottomette al capitale solo quando si lavora, ma quando si acquista qualcosa, si guarda la

tv, si desiderano le cose che ci sono presentate come desiderabili, tutte azioni con le quali

confermiamo che il nostro è il migliore dei mondi ed è l’unico mondo possibile.

“La produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale

ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. (…) I prodotti indottrinano e manipolano;

promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi

prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior

numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità:

diventa un modo di vivere. E’ un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale

milita contro un mutamento qualitativo. Per tal via emergono forme di pensiero e di

comportamento a una dimensione in cui idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come

contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di

detto universo57

.”

Ispirate formalmente ai principi democratici della competizione politica libera e pluralista,

quelle governate dal capitalismo industriale avanzato sono le ‘società della mobilitazione

totale’, in cui ogni persona, nelle scelte più piccole della sua vita, è chiamata a convalidare

l’ordine dato.

“La società della mobilitazione totale, che va prendendo forma nelle aree più avanzate della società

industriale, combina in unione produttiva i tratti dello stato del benessere e dello stato belligerante. A

paragone delle società che l’hanno preceduta, si tratta invero di una ‘nuova società’. Le zone tradizionali di

disturbo vengono ripulite o isolate, gli elementi di rottura sono posti sotto controllo. Le tendenze principali

sono note: sottomissione dell’economia nazionale ai bisogni delle grandi società con il governo che serve come

forza che stimola, sorregge, e talvolta esercita anche un controllo; inserimento dell’economia stessa in un

sistema mondiale di alleanze militari, di accordi monetari, di assistenza tecnica, e di piani di sviluppo;

graduale elisione delle differenze tra la popolazione in tuta e quella col colletto bianco, tra il tipo di direzione

proprio del mondo degli affari e quello dei sindacati, tra attività del tempo libero e aspirazioni di differenti

classi sociali; promozione di una armonia prestabilita tra la cultura accademica e i fini della nazione; invasione

del domicilio privato da parte di una compatta opinione pubblica; apertura della camera da letto ai mezzi di

comunicazione di massa58

.”

L’avvento di questa forma di dominazione è stato realizzato, nell’analisi di Herbert Marcuse,

mediante una trasformazione dei linguaggi, dei modi di pensare e rappresentare la realtà, in

cui hanno preso il sopravvento le forme piatte, operazionali di un linguaggio puramente

empirico, cioè descrittivo di fatti, di operazioni ‘oggettive’, e che esclude tutte le idee vaghe e

indeterminate, come quelle coagulate da parole come Giustizia, Libertà, Verità, Pace, e dove

hanno spazio solo le formule brevi, definitorie, elementari, immediatamente comprensibili,

57

H. Marcuse, op. cit., p. 30 e 33.

58

H. Marcuse, op. cit., p. 39.

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224

‘esatte’. Un linguaggio che insegna alle persone che tutte le cose che non possono essere

‘esattamente descritte e in breve’ semplicemente non esistono e non servono a niente.

“Il discorso ‘alla mano’59

è essenziale [alla società a una dimensione ] proprio perché esclude sin dall’inizio il

vocabolario intellettualistico della ‘metafisica’: esso milita contro il non conformismo intelligente e mette in

ridicolo le teste d’uovo. Purtroppo, questo linguaggio è anche il segno di una falsa concretezza, è un

linguaggio purgato dei mezzi per esprimere un qualsiasi contenuto diverso da quello già fornito agli individui

dalla società in cui vivono60

”.

Dal linguaggio pratico e concreto prediletto dalla società alla dimensione sono escluse le idee

coagulate da parole come Giustizia, Libertà, Pace, Verità “poiché l’universo stabilito del

discorso porta da cima a fondo i segni dei modi specifici di dominio, organizzazione e

manipolazione, ai quali sono soggetti i membri di una società”61

e si oppone pertanto a che

circolino le idee attraverso le quali prendono forma concezioni diverse della vita, della

società, dei valori, del bene e della felicità (Marcuse 205).

La società dei consumi è così individuata come lo scenario di un nuovo totalitarismo:

“In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non

soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni

individuali. (…) Il termine ‘totalitario’, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica

terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera

mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di

una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di

dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione,

sistema che può essere benissimo compatibile con un ‘pluralismo’ di partiti, di giornali, di poteri

controbilanciantisi, ecc.62

Pier Paolo Pasolini ha riferito l’analisi di Marcuse all’Italia. Vedendo come il nuovo benessere

del consumismo, travolgendo realtà quali ‘la classe operaia’, il ‘ceto medio’, la ‘famiglia in

senso tradizionale’, la ‘fabbrica’, il ‘sindacato’ e tutte le relative forme di aggregazione, di

mediazione dei conflitti, di governo della società grazie alla forza omologante della

pubblicità, dall’appiattimento dei linguaggi, dalla uniformazione dei gusti, sfigurava la società

italiana cambiandone nel giro di pochi anni connotati secolari, il poeta intuiva l’enorme forza,

59

Quanti uomini politici si gloriano oggi di esprimersi così? (N.d’A.)

60

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 187.

61

“Il pensiero a una dimensione è promosso sistematicamente dai potenti della politica e da coloro che li riforniscono

di informazioni per la massa. Il loro universo di discorso è popolato da ipotesi autovalidantisi le quali, ripetute

incessantemente da fonti monopolizzate, diventano definizioni o dettati ipnotici. Per esempio, libere sono le

istituzioni del mondo libero, ogni altra forma trascendente di libertà equivale per definizione all’anarchia, o al

comunismo, o è propaganda (…) Questa logica totalitaria del fatto compiuto ha la sua contropartita a Oriente. Laggiù,

la libertà è il modo di vita istituito dal regime comunista, e ogni altra forma trascendente di libertà è detta capitalista,

o revisionista, o appartiene al settarismo di sinistra. In ambedue i campi, le idee non operative non sono riconosciute

come forme di comportamento, sono sovversive. Il movimento del pensiero viene arrestato dinanzi a barriere che

appaiono come i limiti stessi della Ragione” (H. Marcuse, op. cit., p. 34)

62

H. Marcuse, op. cit., p. 23.

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l’enorme potere, di conformazione della società e della esistenza di ciascuno e di tutti, che il

nuovo capitalismo, che in quel momento si annunciava, poteva sprigionare e stava di fatto

sprigionando.

Di qui l’atto di accusa centrale del Processo di Pasolini: i partiti politici italiani, coadiuvati da

un ceto intellettuale che si impegna a dare loro credito, dai ‘giornalisti di Palazzo’ che non

fanno che amplificare e confermare le loro parole ed azioni, stanno continuando a governare

come se il mondo, e l’Italia in particolare, fosse ancora fatto di padroni e operai nel senso

tradizionale, di famiglie stile antico, di gente legata a usi e costumi consolidati, spesso

autenticamente religiosa. E come se il loro interlocutore, il potere da servire e da cui farsi

servire, fosse ancora un capitalismo industriale di stampo ottocentesco, controllabile e

gestibile dallo stato, occupato all’uopo dai partiti, e illudendosi di poter continuare a essere

utili al potere economico e a quello potere religioso, dai quali tradizionalmente traevano

sostegno, e ai quali davano in cambio, all’uno, affari, e all’altra, una sorta di monopolio

ideologico sulla società italiana.

“Non ne faccio, qui, questione di moralità: la colpevolezza dei potenti democristiani da trascinare sul banco

degli imputati non consiste nella loro immoralità (che c’è) ma consiste in un errore di interpretazione politica nel

giudicare se stessi e il potere di cui si erano messi al servizio: errore di interpretazione politica che ha avuto

conseguenze disastrose per il nostro paese.

“I potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente

esaurita la forma di potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti (traendone peraltro

tutti i possibili profitti) e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che cosa farsene di loro.

“Nel non avere capito questo consiste il vero reato, politico, dei democristiani63

”.

“Essi non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava

semplicemente subendo una ‘normale’ evoluzione, ma stava cambiando radicalmente natura.

“Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero

potuto contare in eterno sul Vaticano, senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a gestire e a

detenere, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si

erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e

non vedevano che il potere, che essi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di

eserciti nuovi in quanto polizie transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia,

costretta, senza soluzione di continuità, dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei

consumi imponeva ad essa cambiamenti radicali, sino ad accettare il divorzio, e, ormai, potenzialmente, tutto il

resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che

totalitario in quanto violentemente totalizzante).

“Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo. Non si sono accorti

che esso era ‘altro’: incommensurabile non solo a loro, ma a tutta una forma di civiltà”64

.

Non avere compreso la ‘novità del potere’ ha significato avere scambiato il benessere col

progresso; e questo, nelle condizioni particolari dell’Italia, sostiene Pasolini, questo è stato

devastante, letteralmente omicida nei confronti della società italiana. I partiti, anziché

governare le trasformazioni indotte dal nuovo capitalismo, e pensando semmai di lucrare

consensi dall’improvviso benessere e ricchezza con cui esso in quel momento si presentava

63

P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 116.

64

P.P. Pasolini, 1 febbraio 1975. L’articolo delle lucciole, apparso su Il Corriere della Sera col titolo “Il vuoto del potere

in Italia” e ricompreso in Id., Scritti corsari, prima edizione 1975, Garzanti, Milano, 2008, p. 133.

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nel paese, hanno abbandonato la società a venire travolta da un cambiamento culturale,

antropologico e morale irrimediabile. Quel cambiamento che ha sfasciato i valori di una

società riempitasi di persone che, ancora con le toppe ai pantaloni, si comprano la macchina

di lusso, che hanno denaro ma non l’educazione per spenderlo bene, che si comprano i gadget

consumistici e non leggono; che hanno distrutto il loro ambiente naturale, allorché coi primi

soldi hanno tirato su, per imitare lo stile di vita dei ricchi, o per arricchirsi, una baracca

abusiva, o altrettanto bene un albergo di otto piani, sulle dune di una spiaggia sino ad allora

incontaminata, e che da quel momento ha iniziato a morire.

“I beni superflui in quantità enorme, ecco qualcosa di assolutamente nuovo rispetto a tutta la storia italiana,

fatta di puro pane e miseria. Aver governato male significa dunque non aver saputo fare sì che i beni superflui

fossero un fatto (come oggettivamente dovrebbero essere) positivo: ma che, al contrario, fossero un fatto

corruttore, di selvaggia distruzione dei valori, di deterioramento antropologico, psicologico, civile65

”.

Le trasformazioni dei modi di produzione, e dunque delle abitudini sociali, delle mentalità,

dei costumi e dei bisogni legate al nuovo modo di produzione non toccano solo l’Italia,

osserva Pasolini, sono comuni ad altri paesi europei, ma sono destinate ad avere effetti e

conseguenze diverse a seconda della storia di ciascun paese. E della storia del nostro paese,

chi aveva responsabilità di governarlo non ha tenuto conto:

Gli altri grandi paesi europei sono giunti all’acculturazione consumistica di massa preparati da altre tre grandi

precedenti acculturazioni: quella statale monarchica, quella della rivoluzione borghese, quella della prima

rivoluzione industriale. Ciò che fa dell’Italia un caso a sé (a cui si assimileranno forse i paesi ancora oggi

sottosviluppati).

I beni superflui possono essere permessi, e concessi, assumendo a contesto, diciamo spirituale, l’Edoné, il

Piacere, solo a patto che siano assicurati i beni necessari: case scuole ospedali e tutti gli altri servizi pubblici

(cose, queste, che i Paesi di serie A hanno previsto durante la prima rivoluzione industriale, in modo da

giungere in qualche modo preparati alla seconda, e assai più ‘millenaristicamente’ importante)66

.

Così, se “nei primi vent’anni di regime democristiano si è governato un popolo storicamente

incapace di dissentire, esattamente come durante il ventennio fascista, o come durante

l’Ottocento pontificio e borbonico, e addirittura come durante i secoli feudali67

”, nei successivi

dieci, gli anni del ‘boom’, si è lasciato che gli effetti istupidenti del consumismo lo rendessero

ancora più incosciente, più diseducato, più inconsapevole e dunque più prono al potere

qualunque esso fosse.

Nel fatale scambio tra benessere e progresso è caduto anche il Partito comunista, che ha

“confuso il tenore di vita dell’operaio con la sua libertà”, sebbene, siccome non ha governato,

almeno a livello nazionale, non ha rubato, ma non per questo non è esente dall’errore politico,

di non aver voluto interrogarsi sulle trasformazioni del potere, di non aver saputo/voluto

65

P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 119.

66

Ibid., p. 129 e 134.

67

P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 118.

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accompagnarne le ricadute sulla società, di non aver elaborato un progetto di convivenza che

tenesse conto delle nuove forme di vita, di comunicazione, di asservimento.

Un esempio a cui ricorre Pasolini, e che possiamo mettere in relazione con l’analisi fatta da

Berlinguer nell’intervista del 1981, è quello del referendum sul divorzio. Berlinguer dice: gli

italiani sono più avanti dei politici, perché quando non votano secondo schieramento, eccoli

che fanno scelte progressiste come il divorzio. Ma la domanda sarebbe stata un’altra, ed è

quella che pone Pasolini: si possono considerare ‘avanti’ persone che quando votano un

partito non lo fanno, evidentemente, per convinzione, poiché gli stessi milioni di elettori

democristiani, ossia elettori di un partito cattolico, sono quelli che hanno votato per il

divorzio, contrarissimo alla morale cattolica? La discrasia fra il comportamento referendario

nel caso del divorzio, e quello elettorale, insinua il dubbio che né dietro la scelta per il divorzio,

né dietro la scelta di voto per la DC, ci sia alcuna forte convinzione, autentica scelta,

assunzione di responsabilità, impegno di coerenza. Perché se gli italiani si fossero davvero

convinti che idee laiche, come quella del divorzio, sono da preferire, avrebbero smesso di

votare in massa DC. Ma siccome così non è stato, allora, ragiona Pasolini, la scelta per il

divorzio non nasce da una sincera, riflettuta, autentica laicizzazione della società: ma dalla

confusione corrosiva dei valori che deriva dalla pubblicità, dalla televisione, dai messaggi dei

media brutti in sé e ancora peggio recepiti da una società ampiamente mancante di strumenti

culturali. Così come non nasce più da seria convinzione il voto per il partito cattolico.

“Ma bisogna anche avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano

hanno dimostrato di non aver capito bene che cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. la mia

opinione è che il cinquantanove per cento dei ‘no’ non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria dei

laicismo, del progresso e della democrazia: nient’affatto. Esso sta a significare invece due cose:

1) Che i ‘ceti medi’ sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono

più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non ‘nominati’)

dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E’ stato

lo stesso Potere – attraverso lo ‘sviluppo’ della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del

consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori,

gettando a mare cinicamente i valori tradizionali, e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.

2) Che l’Italia contadina e peleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto

che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui

sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante, ecc.) (Scritti corsari, 40).

“E’ stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita ‘edonistico’ che ha determinato il trionfo del ‘no’ al

referendum. Non c’è niente infatti di meno idealistico e religioso del mondo televisivo. E’ vero che in tutti

questi anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo però che il Vaticano non ha capito che cosa

doveva censurare. Doveva censurare per esempio ‘Carosello’, perché è in ‘Carosello’, onnipotente, che esplode

in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’

vivere. E non mi si dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa. (…) Il bombardamento

ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un ‘modello di vita’ ha

potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di donna o di uomo che

conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il

linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che

viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del

comportamento nella realtà. Gli eroi della propaganda televisiva – giovani su motociclette, ragazze accanto a

dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà.

“Appunto perché è perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico

della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace.

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“Se al livello della volontà e della consapevolezza la televisione in tutti questi anni è stata al servizio della

democrazia cristiana e del Vaticano, al livello involontario e inconsapevole essa è stata invece al servizio di un

nuovo potere, che non coincide più ideologicamente con la democrazia cristiana, e non sa più che farsene del

Vaticano.68

Il voto ‘laico’ per il divorzio e quello ‘cattolico’ per la DC non sono dunque espressione di

convinzioni profonde, ma, l’una, di un nuovo irriflesso conformismo culturale imposto dalla

società commerciale, e, l’altra, di incrostate abitudini e convenienze: il rapporto tra il corpo

elettorale e i partiti è edificato dall’una e dall’altra parte sul cinismo e sull’irresponsabilità.

Sono le premesse su cui cresceranno i tanti onorevoli ‘Cetto La Qualunque” del ceto politico

italiano quale si sarebbe caratterizzato di lì a poco, specchio e alimento di una società a loro

eguale (o, come oggi si usa dire, priva di ‘etica pubblica’).

Mentre facevano danno alla società italiana per la loro incapacità di accompagnarla nella

trasformazione ‘millenaristica’ che la stava investendo, i partiti non hanno capito di stare

perdendo, insieme alla loro funzione (quella di governare), nello stesso momento e per gli

stessi motivi, la loro legittimazione: non avevano forse interesse a capirlo, perché il ‘nuovo

potere’ ne annulla le basi sociali e la funzione storica. La classe media, di cui la DC è

espressione, veniva travolta, in una società che andava verso la divisione e lo squilibrio tra

grandi ricchezze e grandi povertà, e dove si perdevano tutti quei valori che erano stati il

riferimento di molti di coloro che hanno votato DC, famiglia, lavoro fisso, stili tradizionali di

vita, una religiosità autentica. La classe operaia, tradizionale riferimento del PCI, non esiste

più come soggetto, perché investita e corrotta dal benessere consumistico, omologata.

Fascismo e antifascismo, le basi identitarie dei partiti italiani, si dissolvono in un contesto

sociale ‘estremamente unificato’69

.

“Il Potere ha deciso che siamo tutti uguali. L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non

pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere

felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui deve obbedire, a

patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di

tolleranza. L’eguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa eguaglianza ricevuta in regalo.”70

Il ruolo del tradizionale potere di contorno della DC si è anch’esso modificato per effetto

dell’avvento del nuovo potere: “la scomparsa delle masse dei lavoratori cattolici, specie

naturalmente dei contadini, trasforma completamente il senso della Chiesa, che solo fino a

una decina di anni fa poteva fornire ai democristiani quei principi morali o spirituali atti a

68

P.P. Pasolini, Scritti corsari, cit. p.59.

69

Scritti corsari, cit. p. 62: “Il fascismo è un pietoso rudere. Perché delle varie componenti che formano oggi il

mosaico fascista in Italia hanno senso ‘unicamente’ quelle che vengono manovrate dalla CIA e dalle altre forze del

capitalismo internazionale, tutto volto alla conquista dei mercati; cioè di nazioni allegre, abbastanza libere,

abbastanza tolleranti, perfettamente edonistiche, per niente militaristiche e per niente sanfedistiche (tendenze,

queste, incompatibili col consumo.”

70

Scritti corsari, p.60.

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‘ben governare’ (vien da ridere a dirlo!). Ora la Chiesa altro non è che una potenza finanziaria:

e quindi una potenza straniera71

”.

Avendo perso la propria legittimazione e funzione sociale, ma rimanendo attaccati al potere, i

partiti si sono autoperpetuati, alimentando il circuito di corruzione, di clientele, di

connivenze e di abusi che diventa essenziale alla loro sopravvivenza, la quale non risponde

più a una utilità per la società, e neppure per poteri forti, perché i poteri finanziari del

capitalismo consumistico sanno organizzare il consenso del tutto indipendentemente dai

partiti e hanno eliso quelle dinamiche sociali e di classe, in cui essi traevano la propria

legittimazione.

Abbandonare la società a trasformazioni non governate, non analizzate, non riflettute ha

significato anche, per i partiti, e principalmente per quello che di fatto era al potere, il

rimanervi attaccato senza governare, senza operare, senza fare nulla per il bene della società.

Comportandosi invece come se nulla fosse non solo il partito, inevitabilmente, da

espressione della società, diventa solo strumento per il proprio mantenimento al potere, e si

mantiene al potere non sulla spinta di un genuino voto popolare, tanto meno per essere utile

alla società, ma approfondendo le vie ad esso già note, e che includono reti clientelari e

corruttive, il posto di lavoro in cambio del voto, il consenso ottenuto anche coi rapporti con

la criminalità, il potere mantenuto, forse, anche con le leve della ‘strategia della tensione’. Ma

il potere che esso detiene è un fantoccio, una superfetazione, è un potere che in realtà non

conta nulla perché non interloquisce più con le vere correnti dove il potere: i partiti politici,

divenuti inutili, si autoalimentano parassitando la società, ma perdono potere reale potere, a

vantaggio di un nuovo potere – questa è l’analisi di Pasolini.

“Lo spezzarsi naturale della continuità democristiana – travolta dal ripercuotersi di una nuova realtà del Paese

nel Palazzo – si risolverà probabilmente con la formazione di un piccolo partito cattolico socialista (di carattere

non più contadino, ma urbano) e di un grande partito teologico: un Tecnofascismo (…)in grado di trovare, nelle

enormi masse ‘imponderabili’ di giovani che vivono un mondo senza valori, una potente truppa

psicologicamente neonazista”.

Per evitare tutto questo, scriveva Pasolini, era necessario un Processo. Il processo cui pensava

Pasolini non era uno che aspirasse a punizioni esemplari, era un momento collettivo di presa

di coscienza, da parte degli italiani, della loro storia, un gesto di distacco da una vicenda di

servilismo, connivenza, complicità e opportunismo. Quello di cui Pasolini sentiva l’impellente

necessità era, verosimilmente, non tanto che il Processo avvenisse, ma che il desiderio di

questo processo, cioè il desiderio dell’opinione pubblica di Verità (uno dei quei concetti vaghi,

imprecisi, trascendenti e transitivi espulsi dal linguaggio empirista del nuovo potere), si

manifestasse72

, perché sarebbe stato, marcusianamente, rompere l’universo stabilito del

71

P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 122, da dove anche il paragrafo riportato di seguito.

72

Viceversa egli vedeva una opinione pubblica, in particolar modo quella impersonata dai giornali e dai media, non

desiderosa di sapere, e perciò connivente. Dice ai giornalisti: “se l’opinione pubblica, che anche voi rappresentate,

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discorso che si autoriproduce e autoriproducendosi conferma l’ordine dato; sarebbe stato, per

rubare la parola a un altro, più antico, poeta, “rompere il cerchio, e tracciare una freccia”73

.

Quarant’anni di ‘questione morale’

Ricordare il passato può dare origine a

intuizioni pericolose, e la società stabilita

sembra temere i contenuti sovversivi della

memoria. Ricordare è un modo per dissociarsi

dai fatti come sono, un modo di mediazione che

spezza per brevi momenti il potere

onnipresente dei fatti dati.

(H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 116).

Il pensiero di un intellettuale italiano scomparso trentasette anni fa74

ci offre un modo di

impostare il problema della questione morale del tutto originale rispetto a quello in cui quel

tema si è per così dire ‘ritualizzato’ nella nostra storia politico-istituzionale. Pasolini ci

sollecita a penare che non si tratta, come si crede, di essere onesti, di non rubare, di fare le

cose per benino75

. Certo, questo è molto importante, è l’abc della politica, tanto che non

meriterebbe nemmeno dirlo! Ma insistere su questo, ridurre a questo la questione morale,

significa dimenticare e far dimenticare che la politica non consiste nel fare onestamente non

importa cosa, consiste, invece, nell’avere un progetto di convivenza, una visione, alternativa

ad altre, dei bisogni della società e di sue parti, una lettura delle trasformazioni che il tempo

porta con sé, una coscienza del paese che siamo, da dove proveniamo, che cosa vogliamo

diventare. Significa, avrebbe detto Marcuse, mettere in gioco un po’ di trascendenza: guardare

non vuole sapere – o si accontenta di sospettare – il gioco democratico non è formale, è falso. Dove il gioco

democratico è falso, tutti giocano col potere” (p. 149).

73

F. Hölderlin (1770-1843), Le liriche, Adelphi, Milano, 1977.

74

Pier Paolo Pasolini fu assassinato sul litorale di Ostia, vicino Roma, il 2 novembre 1975, in circostanze e per motivi

attribuiti a una sorta di regolamento di conti nell’ambiente omosessuale che egli frequentava, ma che non sono mai

stati del tutto chiariti e comprovati.

75

Pasolini lo dice espressamente allorché rimprovera ai comunisti di allora che si fa presto a dire ‘quelli rubano, noi

no’, dunque noi siamo diversi. Certo, egli scrive, è una bella cosa non rubare, ma non fa differenza quando si

accompagna a uno stesso atteggiamento fatto di poca o nessuna riflessione sui bisogni della società, quando i valori

(o disvalori) di fondo sono gli stessi: “Quindi, nella mia ansia didascalica, insisto: governare bene o amministrare

bene non significa più affatto governare bene o amministrare bene rispetto al governare male o all’amministrare male

clerico-fascista (e quindi democristiano). La moralità politica non consiste più nel confrontarsi con l’immoralità

clerico fascista e magari col debellarla: cosa che i democristiani, in quanto cristiani, hanno sempre detto, a parole, di

voler fare. Di conseguenza, se i comunisti – nelle giunte amministrative regionali, provinciali e comunali – si

limitassero ad attenersi ad una simile moralità politica, essi non sarebbero che i veri democristiani. Ma – e questo è il

punto – anche facendo dei beni superflui, della democratizzazione consumistica e della falsa tolleranza, qualcosa di

avanzato, di vivo, di reale – anche in tal caso – i comunisti altro non sarebbero che i veri democristiani. Perché? Perché

beni superflui, democratizzazione consumistica, tolleranza sono fenomeni che caratterizzano il nuovo potere (il

nuovo modo di produzione) e tale nuovo potere (tale nuovo modo di produzione) è capitalistico”.

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alla realtà come qualcosa che può essere trasformato dal pensiero, dall’azione, dalla

immaginazione umana.

Questo ci aiuta a gettare una luce sulla sconfortante constatazione del fatto che, a distanza di

quarant’anni dal Processo di Pasolini, ancora i partiti politici italiani si ‘confrontano’ con la

questione morale e gareggiano, oggi, nel dire io sono meno disonesto degli altri, senza che

nessuno di essi tenti una interpretazione dei processi storici che viviamo, che anzi sono

guardati, descritti, rappresentati come per definizione buoni, e se non buoni inevitabili,

necessari, indiscutibili. Siccome è alla chiara luce meridiana che le persone sono stanche della

‘cattiva’ politica, tutti promettono quella ‘buona’, cioè non ladra ma onesta, non oziosa ma

operosa, ecc. Ma di quali contenuti mettere dentro questa buona politica non si parla, non si

parla di visioni della società, della convivenza, della persona umana; semmai si parla di

correzioni, adattamenti di piccolo cabotaggio di provvedimenti contingenti, nella pura

“maniera di pensare confinata a un indirizzo pragmatico entro lo status quo”76

, tipica della

società a una dimensione.

Allora, l’autorappresentarsi della politica come l’attività che, al massimo, fa onestamente non

importa cosa, rivela, senza dirlo, che la politica accetta la propria riduzione ad

‘amministrazione’ di interessi e decisioni altrove prese (qualche volta lo si dice esplicitamente:

in Europa, dai mercati finanziari, dal governo in carica a fine leglislatura la cui ‘agenda’

dovrebbe essere rispettata anche dal successivo governo non importa da quale maggioranza

eletto). Ma senza dirlo, e anzi rappresentando questo fatto come una conquista utile ai

cittadini. Ecco allora, Pasolini ci aiuta a scoprirlo, che proprio nel mentre tanto si parla della

necessità della ‘buona politica’, non si fa che approfondire e aggravare la vera questione

morale che consiste nel fatto che i partiti affermano di essere e di fare qualcosa (di essere

coloro che fanno politica, che governano la società in nome degli interessi, valori e

orientamenti espressi da questa) mentre non sono e non fanno quella cosa; e detenere

comunque potere in funzione di questo equivoco.

Alla lunga lista di ‘reati politici’ stilata da Pasolini all’alba di 37 anni fa, il prolungarsi di una

questione morale così falsata, o riduttivamente intesa, rischia di obbligarci ad aggiungerne un

altro. Continuando ad identificare la politica con la loro azione, che, giusta l’analisi di

Pasolini, politica non è, ma semplice amministrazione di interessi, attività esecutiva di

programmi di governo e schemi di potere non elaborati dalla politica stessa, i partiti rischiano

di rendersi colpevoli di una irrimediabile condanna senza condizioni della politica come tale da

parte dell’opinione pubblica italiana. Cioè rischiano di insegnare alle persone che della politica

si può fare a meno, anzi, che si sta meglio senza (almeno si risparmiano i costi delle

‘poltrone’, è giudizio che del resto si è già insinuato nel senso comune). Fa già parte

dell’analisi di Marcuse che nella società a una dimensione le libertà di pensiero, di parola,

decrescono, perché perdono ‘valore d’uso’: le persone si disinteressano a qualcosa che non

76

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 197.

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hanno modo di esercitare, e che è pur sempre più scomodo e impegnativo che ascoltare un

programma televisivo preconfezionato. Esse, potrebbero dunque essere presto pronte a

rinunciare alla libertà politica, certo non consapevolmente, ma semplicemente lasciandola

morire, dimenticando che la politica non si identifica e non si esaurisce nella attività dei

partiti, ma nella capacità e nel desiderio di farsi idee e portarle avanti, di interpretare in

prima persona i bisogni della propria esistenza, di testimoniare la propria verità.

“Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni possibilità, sta diventando una possibilità

reale, le libertà correlate a uno stato di minore produttività vanno perdendo il contenuto di un tempo.

L’indipendenza di pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro

fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli

individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi

principi e le sue istituzioni siano accettate come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e

promuovere condotte alternative entro lo status quo.”77

E a chi pensasse che gli scenari rappresentati da Pasolini e da Marcuse sono in realtà

lontani dall’oggi, perché tengono presente la ‘società del benessere’, mentre noi

fronteggiamo una terribile crisi economica, potrebbe interessare questa conclusione di Pier

Pasolini:

“L’ottica del mondo è completamente cambiata; la realtà ha, come dire, ruotato. La povertà non è più la povertà

di prima del consumismo. Anche se dovesse tornare una certa povertà – tipica dei regimi dittatoriali – tale

povertà non sarebbe altro che benessere rientrato, frustrato. Questo almeno in Europa, in Italia. La povertà

cilena è forse ancora quella classica. Ma un eventuale Pinochet italiano non si sognerebbe nemmeno, attraverso

un regime neo-repressivo, di ristabilizzare la povertà di un tempo: egli altro non si prefiggerebbe che proteggere

‘lo sviluppo’ così come i padroni lo vogliono (ed è ancora possibile). Edonismo e falsa tolleranza sarebbero

sicuramente in gran parte preservati. Lo spirito laico che è legato al consumo anche”78

.

La costituzione materiale nell’era della globalizzazione

Le democrazie costituzionali post-belliche si sono basate sul pluralismo politico e sulla

sovranità popolare; hanno posto a base del funzionamento delle istituzioni i valori della

persona, cui hanno attribuito una vasta gamma di diritti e di libertà civili, politiche ed

economico-sociali nel quadro di un progetto di società orientato alla promozione delle

capacità individuali e al libero sviluppo della personalità umana. Hanno sancito che l’attività

delle istituzioni deve essere guidata dalla volontà popolare, e, come ha fatto segnatamente la

nostra, hanno attribuito un ruolo politico fondamentale al Parlamento, in quanto unico organi

espressivo della volontà popolare e guardato invece con timore agli esecutivi, contenendone

perciò i poteri, in particolare normativi. Hanno istituito meccanismi di controllo contro

possibili manomissioni dei valori costituzionali, identificando nella legge, cioè nel prodotto

della rappresentanza politica, e in generale negli atti formali con cui si produce ‘il diritto’ le

fonti di possibili attentati a quei valori e stabilendo inoltre che la Costituzione possa essere

77

H. Marcuse, op. cit., p. 22.

78

P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 126.

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cambiata solo attraverso procedimenti la cui pubblicità e complessità sta a garanzia della loro

conoscibilità e condivisione.

Questo, a livello formale. Se si vuole tener conto, invece, dell’assetto ‘materiale’, il percorso

che, intorno alla traiettoria dei partiti e all’avvento della globalizzazione abbiamo fatto sin qui

ci porta a disegnare un quadro differente. Proveremo di seguito a tracciare il quadro delle

istituzioni del diritto pubblico attuali quale si delinea tenendo conto di quell’assetto

materiale.

Il primo elemento che emerge, e che è da quasi tutti gli autori ormai pianamente accettato, è

che tutto ciò che le categorie del diritto pubblico continuano a descrivere come ‘indirizzo

politico’ o ‘rappresentanza politica’ probabilmente oggi corrisponde a una unica estesa

funzione amministrativa di gestione della società in funzione di un interesse, un ‘bene’, un

insieme di fini, che, contrariamente alle premesse basilari ed elementari della democrazia

rappresentativa, non viene individuato nella ‘libera’ competizione di partiti espressivi della

società e dei suoi orientamenti, ma tramite un più complesso, esteso, qualche volta opaco

insieme di soggetti, che vanno dalle istituzioni sovranazionali ai poteri finanziari alle grandi

imprese mediatiche sino alle strategie di marketing e di comunicazione.

Della ‘crisi’ della politica, e delle istituzioni rappresentative, oltre che dei soggetti che della

politica avrebbero dovuto essere gli attori, ossia i partiti, sono pieni d’altronde i libri e i

manuali e ogni trattazione che affronti i temi del diritto pubblico contemporaneo. Si tende,

peraltro, ad attribuire quella crisi a fenomeni come il ‘venir meno delle ideologie’ , il

‘superamento della divisione della società in classi’ o disfunzioni di ordine morale

(insufficiente etica pubblica) o una generica disaffezione delle persone dalla politica. Le

riflessioni di Pasolini, e quelle di Marcuse, secondo le quali l’egemonia del potere capitalistico

si è realizzata attraverso l’omologazione della società intorno al consumismo, e mediante la

repressione del pensiero critico e trascendente, la crisi della politica appare, anziché un

deprecabile ma contingente epifenomeno, un esito inevitabile e una componente strutturale

della globalizzazione, che con le sue tendenze e necessità di omologazione dei gusti, delle

identità e dei bisogni, ha individuato il suo primo naturale obiettivo nei partiti politici e nella

loro funzione, quella di dare voce al pluralismo sociale, e cioè a desideri, bisogni, aspirazioni,

immaginazione delle persone umane a partire dalla loro condizione, dalle loro idee di

giustizia, libertà, pace, felicità.

La rinascita, a parti invertite, delle classi sociali

In particolare, è molto contestabile il ricorrente refrain secondo cui il deperimento della

politica partitica è dovuto al venir meno delle classi sociali e del conflitto tra esse. Piuttosto,

può essere formulata l’ipotesi che le classi lavoratrici, l’insieme cioè dei soggetti subordinati e

svantaggiati, punto di riferimento e scaturigine materiale e ideale della esperienza dei partiti

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politici di massa, siano state, per dir così, ‘disabituate’ a riconoscersi come tali, per effetto di

numerosi fattori.

Uno, è quello che abbiamo imparato da Marcuse, ed è rappresentato da modi di produzione

che rendono meno visibili (spesso perché li scaricano, possiamo aggiungere oggi, su uomini e

donne assenti, cancellati e rimossi dalla percezione collettiva, ossia gli immigrati) gli aspetti

fisici del lavoro, e su cui un tempo correvano differenze identitarie molto forti, a favore di

modi di produzione che apparentemente, assimilano il lavoratore del call center al brooker di

borsa perché, dopotutto, entrambi hanno una laurea e desideri analoghi, quello di diventare

ricchi, e ciò li assimila sul piano dei valori in cui essi si riconoscono quasi cancellando il fatto

che, dei due, uno ricco non è e non sarà mai anche per colpa del tipo di ambiente in cui lavora

l’altro. L’altro, è che le modalità di funzionamento della globalizzazione economica sono tali,

da legare gli interessi e le aspettative degli svantaggiati a quelli dei potenti, ponendo

l’andamento dei mercati finanziari come interesse generale per tutti: infatti i capitali che

vengono investiti sui mercati finanziari “sono formati dai risparmi di lavoratori che per la

maggior parte sono dipendenti – impiegati, tecnici, insegnanti, operai, funzionari, che

costituiscono capitali immensi, di un ordine di grandezza che supera il Pil mondiale. Questa

somma smisurata è concentrata in alcune migliaia di fondi pensione e di fondi di

investimento: fra questi, quelli che veramente contano sono poche centinaia, ma gestiscono

capitali dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari o di euro ciascuno. In tal modo gli

interessi di questi lavoratori risparmiatori sono coinvolti negli interessi dei capitalisti, della

classe dominante, perché i gestori dei fondi investono soprattutto per massimizzare il

rendimento del capitale investito – che è ciò che si attendono i sottoscrittori – prescindendo

però dal fatto che l’impresa in cui investono produca alimenti, costruisca scuole oppure mine

antiuomo. L’obiettivo primario è quello del rendimento del capitale. E qui si intravede il

cointeressamento tra il mondo del lavoro e il sistema finanziario. Perché chi versa una cospicua

quota del proprio salario o stipendio per ricevere una pensione decente a distanza di venti o

trent’anni, ha ovviamente interesse a che il capitale investito renda bene.”79

.

Anziché di fine, superamento, delle classi sociali e della lotta di classe, si dovrebbe

riconoscere l’esistenza, propone il sociologo Luciano Gallino anche sulla scorta di analisi

sociologiche ormai risalenti all’inizio degli anni 2000, di una unica classe dominante globale,

o classe capitalistica transnazionale, composta da “proprietari di grandi patrimoni, top

manager, ossia gli alti dirigenti dell’industria e del sistema finanziario, politici di primo piano

che spesso hanno rapporti stretti con la classe economicamente dominante, grandi proprietari

terrieri che in molti paesi emergenti, dall’India al Brasile, hanno un potere e una consistenza

numerica ancor oggi rilevanti, come anche in Italia, dove se non esistono più i latifondi, la

proprietà immobiliare è una componente di peso della classe dominante” (Gallino, 12).

79

L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di Laura Borgna, Laterza, Bari, 2012, p. 51.

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Nell’identificare questa nuova classe, e il tipo di lotta che essa conduce, Luciano Gallino e gli

altri studiosi che hanno ragionato come lui, hanno ragionato in modo dialettico e transitivo, e

non operazionale e descrittivo, come avrebbe detto Marcuse: hanno preso un concetto ‘del

passato’ (quello di ‘classe’ e di ‘lotta di classe’) e rifiutandosi di credere alla vulgata che lo ha

condannato come vecchio e inservibile, morto siccome del passato, sono andati a vedere che

cosa quel concetto significa nel presente, e hanno scoperto che le classi sociali esistono

sempre, esiste sempre la lotta di classe, solo che la classe consapevole e che conduce la lotta

è quella dei ricchi. E’ una lotta che viene condotta influenzando le politiche nazionali in senso

favorevole agli interessi di chi dispone di ricchezze. Secondo Luciano Gallino, eminente

sociologo italiano:

“[La lotta di classe nel mondo] viene condotta anzitutto per mezzo di leggi, confezionate da governi e

parlamenti, che sono intese, al di là delle apparenze, a rafforzare la posizione e difendere gli interessi della

classe dominante, e a contrastare la possibilità che la classe operaia e la classe media affermino i propri. Un

modo tipico per condurre la lotta di classe mediante la legge è la normativa fiscale. Negli ultimi decenni essa ha

seguito due strade: elevati sgravi fiscali a favore dei ricchi e forti riduzioni delle imposte sulle società.

L’effetto è stato quello di essiccare i bilanci pubblici dal lato delle entrate, il che ha reso necessario – questo il

singolare ragionamento dei governi Ue – tagliare le spese di maggior utilità per i lavoratori.”80

Domandandosi come mai quello che oggi è venuto in uso chiamare “il 99%” cioè coloro che

non compongono la classe dominante transnazionale abbiano reso possibile la estromissione

dei loro interessi e punti di vista dalle sedi decisionali e assistito al dilagare di scelte politiche

e di indirizzo loro sfavorevoli, non si può che tornare al punto che Pasolini e Marcuse ci

hanno additato: perché a partire da un certo momento, per effetto dell’accesso ai beni di

consumo, si sono identificate con la classe dominante. Alla classe dominante si oppone allora

una classe che non sapendo di esserlo, non è in grado di mettersi in relazione con la prima in

nome di propri distinti interessi. Ma il fatto che le classi sociali siano diventate meno visibili

perché non ci sono più partiti che fanno loro riferimento, meno o per nulla coscienti di sé per

effetto della omogeneizzazione dei consumi e dello stile di vita, o siano state

intenzionalmente negate dal ritorno di ideologie per cui tutti, operai, impiegati dirigenti e

proprietari hanno interesse a che un’impresa funzioni e faccia buoni utili (ideologia in cui, sia

detto tra parentesi, risuonano le concezioni del lavoro adottate dal fascismo e poste a base

della nozione ‘collaborativa’ di impresa adottata dal codice civile italiano del 1942) non toglie,

secondo Gallino, che esse esistano

“Far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, a una comunità di

destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori

possibilità di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa a una più alta; avere

maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e

immateriali; disporre, oppure no, del potere di decidere il proprio destino, di sceglierlo”.

80

L. Gallino, La lotta di classe, cit., p. 22.

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Gallino nota subito dopo che “rientra nelle definizione di classe sociale anche la possibilità, di

chi vi appartiene, di influire sul proprio destino, di poterlo in qualche misura cambiare”. Vien

da dire che è proprio la possibilità di concepire idee di questo genere, di immaginare le vie

per realizzarle, l’effetto più deprivante che deriva dalle tesi che negano la esistenza delle

classi sociali, e la additano come causa della crisi dei partiti e della politica.

La ridefinizione del circuito rappresentativo: intorno a un ‘sistema virtuale a partito unico’

L’immagine della lotta di classe condotta dalla classe dominante transnazionale con

l’acquiescenza, se non il supporto, delle classi deboli e per il mezzo della legge e dei governi,

suggerisce una suggestiva possibilità di ridefinizione di quel ‘circuito democratico’ col quale

si spiegano tradizionalmenle democrazie costituzionali (il popolo elegge i suoi rappresentanti,

che deliberano le leggi: è un circuito nel quale le leggi, le regole e gli obiettivi a cui la vita di

ciascuno è conformata, vengono in realtà dalle stesse persone, il popolo, a cui si applicano).

Nel contesto della globalizzazione, l’itinerario della decisione sembra seguire un diverso

circolo: il capitale, la classe economica transnazionale, prima cointeressa la classe lavoratrice

a se stessa, poi influenza le decisioni normative e di governo.

Oppure prende direttamente decisioni di altissimo rilievo, quasi disponesse di una ‘delega’

quale quella conferita ai rappresentanti eletti, quando gestisce i fondi di investimento.

“Se il rendimento economico [dei fondi di investimento] proviene anche da fabbriche di bombe a grappolo, o

da società che hanno tagliato con le delocalizzazioni migliaia di posti di lavoro, l’interessato quasi mai viene

a saperlo. Il paradosso del capitale del lavoro, rivolto soprattutto a investimenti in merito ai quali non c’è

alcuna verifica, nasce e si mantiene precisamente in questo modo. Anche nei casi, come accade con i fondi

pensione negoziali (detti così in quanto derivano da contratti o accordi collettivi, anche aziendali) istituiti da

noi nel 2005, in cui gli organi di amministrazione e controllo sono costituiti per metà dai rappresentanti dei

lavoratori iscritti, in realtà non c’è nessun controllo sulle modalità con cui i capitali vengono investiti. Chi

investe, sia come risparmiatore sia come futuro pensionato, tiene anzitutto a che il rendimento sia elevato,

perché questo comporterà un vitalizio, un piccolo capitale o una pensione più elevata; e non gli interessa,

anzi si può dire che in generale non vuole nemmeno sapere, come il suo denaro venga effettivamente

investito. E i depositari, che per la maggior parte sono le grandi banche, non hanno alcun interesse a

farglielo sapere”.

E’ una strana ‘delega al rovescio’ che finisce per autorizzare la classe dominante a fare scelte

che vanno a danno dell’altra classe:

“Si suole obiettare che anche se i ricchi diventano più ricchi, i mediamente ricchi o i mediamente poveri non

ricevono alcun danno dal fatto che i primi si super-arricchiscono. Ma non è affatto vero. Anzitutto le minori

entrate fiscali [dovute a scelte impositive che favoriscono i ricchi] comportano una contrazione dei servizi

pubblici e dei sistemi di protezione sociale, che colpisce soprattutto le classi meno abbienti. Accade poi che

dalle politiche fiscali pro ricchi le classi economicamente inferiori traggano anche danni diretti, da diversi

punti di vista. Per intanto i patrimoni che si accrescono unicamente con altro denaro, non direttamente

guadagnato, in grandissima parte non vengono trasformati affatto in investimenti produttivi che creano posti

di lavoro, ricchezza, infrastrutture; vengono impiegati piuttosto in ulteriori investimenti finanziari. Il denaro

accresciuto dagli sgravi fiscali preferisce andare in cerca di altro denaro investendo in se stesso, anziché

investire in ricerca o sviluppo o che so, nella scuola. E così, alle casse dello stato dopo un po’ di anni

vengono a mancare centinaia di miliardi, con la conseguenza che i governi aumentano le tasse universitarie,

riducono il numero degli insegnanti nella scuola, trascurano gli investimenti infrastrutturali.

Ma gli effetti negativi a danno delle classi meno abbienti non finiscono qui. Succede che, data l’enorme

possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via via cresciuta negli anni grazie

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ad attività speculative e alla benevolenza del fisco, molti beni e servizi aumentano a tal punto di prezzo che

le classi lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono più accedervi, o possono accedervi

con molta maggiore fatica. Si pensi a quella sorta di tassa sulla vita quotidiana che è la pendolarità

abitazione-lavoro. In molte città dell’Unione europea e degli Stati Uniti, le colossali rendite finanziarie tassate

con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo degli immobili o gli affitti nel centro delle grandi città

siano diventati così elevati da espellere quasi tutta la popolazione che tradizionalmente vi risiedeva. Si tratta

di figure professionali preziose per la vita di una città, che però in città non hanno più la possibilità di

abitare. Per cui sulle loro esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si tratta,

quindi, solo di accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più ricchi. Il punto della questione cui

badare è un altro: il vantaggio fiscale produce direttamente un peggioramento generale della qualità della

vita delle classi lavoratrici e delle classi medie.

La classe dominante transnazionale sa anche sostituirsi direttamente al corpo elettorale nella

scelta del personale di governo, col fenomeno delle c.d. porte girevoli:

“Vi sono poi i passaggi di personale da un campo all’altro. A parte la deferenza che molti politici hanno sempre

dimostrato, specialmente negli ultimi decenni, verso la ricchezza e il potere economico – un caso eminente è

Nicolas Sarkozy – non bisogna dimenticare che esistono delle porte girevoli le quali vedono continuamente

alcuni politici entrare a far parte della classe politica globale e viceversa. Molti ministri e consiglieri economici

dei presidenti americani e dei capi di governo, nel Regno Unito come in Francia, in Italia, in Germania, sono stati

manager di grandi società finanziarie e hanno portato in politica l’abilità di trasferire direttamente in leggi e

decreti gli interessi del mondo industriale e finanziario, con un forte accrescimento del secondo negli ultimi

trentanni.”81

La rinnovata centralità degli esecutivi

Oggi è divenuto estremamente ricorrente nella manualistica del diritto pubblico osservare che

gli stati sono condizionati nelle loro scelte politiche dai mercati, e perdono perciò parte della

loro sovranità sui loro territori. Affermazioni così costruite, e delle quali abbiamo preso un

esempio, qualche pagina avanti, dal diffuso manuale di diritto pubblico dei professori Bin e

Pitruzzella, trasmettono inevitabilmente due idee: una, che lo stato è diventato debole, ha

perso forza, l’altra, che la sovranità dei mercati è ineluttabile. Questo avviene perché

proposizioni di questo genere, e Marcuse ci ha insegnato a capirlo, sono tutte interne alla

realtà che descrivono, non si chiedono da chi sono fatti i mercati e i loro interessi, di chi è il

denaro che si muove, come avviene l’influenza dei mercati sulle politiche nazionali. L’analisi

di Luciano Gallino, che mette invece in gioco un modo transitivo e dialettico di ragionare, e

cioè che storicizza, permette di leggere in quei fenomeni qualche cosa di molto diverso.

Secondo Gallino:

“La politica sopraffatta dall’economia e dalla finanza è una favola costruita in tacito accordo dalla prima e

dalle seconde. In realtà è stata soprattutto la politica, attraverso le leggi che ha emanato nei parlamenti

europei e nel Congresso degli Stati Uniti, grazie a normative concepite a ben guardare dalla organizzazioni

internazionali – le cui azioni sono di fatto ispirate dai maggiori gruppi di pressione economica – a spalancare

le porte al dominio delle corporations industriali e finanziarie. E’ avvenuto in mille modi: liberalizzando i

81

L. Gallino, La lotta di classe, cit., p. 17. Il sociologio Paolo Barrucci, in un paper ancora non pubblicato, stila questo

esemplificativa lista: “Romano Prodi, da consulente Goldman Sachs a Presidente del Consiglio in Italia, Mario Draghi,

da Vicepresidente Goldman Sachs a Governatore della Banca d'Italia, Mario Monti, dalla Commissione Europea sulla

concorrenza alla Goldman Sachs, ora alla Presidenza del Consiglio, voluto da Napolitano, Massimo Tononi, dalla

Goldman Sachs di Londra a sottosegretario all'Economia nel governo Prodi del 2006, Gianni Letta, membro

dell'Advisory Board di GS è poi nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Berlusconi (2008)”.

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movimenti di capitale; imponendo la libertà di commercio anche dove danneggiava gravemente i produttori

locali82

; esigendo dai paesi emergenti la totale apertura dei confini (compreso l’import di beni alimentari simili

a quelli prodotti in loco), oltre che di beni industriali e di servizi. Pena ritorsioni economiche assai dure, come

quelle previste dalle cosiddette politiche di aggiustamento strutturale, imposte dal Fondo monetario

internazionale ai paesi fortemente indebitati per concedere loro l’accesso ai propri finanziamenti.83

Che quello della globalizzazione sia un tempo di governi forti viene comprovato dalle vicende

della nostra forma di governo, che esamineremo prossimamente, le quali hanno visto, a

partire dai primi anni 1980, una crescita enorme dei poteri dell’esecutivo, una inarrestabile

riduzione di quelli del parlamento, e dove, nel novembre 2012, oggi si conta ormai un anno di

sostanziale inoperatività delle Camere, posto che l’attività del Governo ‘tecnico’ entrato in

carica nel novembre 2011, si svolge tutta o per decreti, o per proposte legislative sulle quali il

governo pone regolarmente la questione di fiducia, cioè che le Camere – sede naturale della

discussione e del confronto politico – possono solo prendere o lasciare.

La ricorrente osservazione circa il fatto che, nella globalizzazione, gli stati hanno perduto

sovranità, non deve dunque far pensare che i governi siano divenuti più deboli; semmai a

indebolirsi è stata la dimensione rappresentativo-parlamentare, in cui si esprime la sovranità

popolare, mentre la dimensione esecutiva, in cui si esprime l’essenza dello Stato apparato, si

è rafforzata. E che la globalizzazione sia nemica della forza dello stato appare assai poco

credibile, quando si pensi quanto sono importanti, nel suo contesto e per le sue finalità, le

politiche fiscali, essenza stessa (e qui le letture che abbiamo preso da Tocqueville ci sono

d’aiuto) dell’attività statale. Anche sotto il profilo dei rapporti con gli ordinamenti

sovranazionali, e in specie con l’Unione europea, dai quali il parlamento, almeno quello

italiano, è sostanzialmente escluso, viene purtroppo da pensare che il senso che l’espressione

‘L’Italia accetta le limitazioni di sovranità necessarie a dare vita a un ordinamento che assicuri

la pace e la giustizia tra i popoli” ha col tempo acquisito, sia stato più che altro quello di

accettare le limitazioni della sovranità popolare, più che quelle dello Stato come tale e del

potere esecutivo che ne è il nerbo operativo.

A titolo di trasformazioni della forma di governo imposte o giustificate dalla globalizzazione

economica deve essere ricordato anche, per l’Italia, l’attivismo del Presidente della Repubblica

negli ultimi due anni. Questo organo ha adottato una sorta di ruolo di guida della politica del

paese, orientandola, con comunicati, raccomandazioni, e con la scelta dell’attuale compagine

governativa, verso il massimo rispetto delle indicazioni provenienti dai mercati finanziari e

dalle istituzioni sovranazionali, e venendo così ad assumere un ruolo del tutto inusitato,

almeno a tener conto del fatto che secondo la nostra Costituzione il presidente della

repubblica non ha poteri di indirizzo politico, e dunque non è politicamente responsabile,

cioè che significa che del contenuto degli atti che adotta, che suggerisce o che influenza, non

82

Un esempio: grazie ai rilevanti sussidi Ue all’agricoltura il burro bavarese o il formaggio francese si possono

vendere in Mongolia o nel Sudan a prezzi inferiori rispetto alla produzione locale. Ne deriva un conflitto sui mercati

interni che finisce per estromettere i coltivatori e gli allevatori locali dalla produzione (L. Gallino, op. cit., p. 35).

83

L. Gallino, op. cit., p. 43.

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può essere chiamato a rispondere. Pertanto, quanti più poteri politici di fatto il presidente

acquisisce e adotta, tanto più si restringe lo spazio della dialettica politica, della critica e del

confronto. Non a caso è stato ricorrente almeno per un certo periodo, sui giornali, per

descrivere il nuovo ruolo del Capo dello Stato, il richiamo alla figura del Monarca.

Le trasformazioni della produzione normativa

Per effetto dell’accentramento nello Stato della produzione del diritto, legata ai fenomeni di

nazionalizzazione delle fonti del diritto che dello Stato hanno accompagnato la formazione,

gli studiosi si sono abituati a ritenere che la produzione di norme, cioè di comandi,

prescrizioni, regole d’azione rivolte ai singoli o agli apparati pubblici sia riservata a canali

specifici (la produzione delle leggi, dei decreti) e si traduca nella adozione di atti dotati di

riconoscibili contrassegni formali (la legge, il decreto, il regolamento) per la cui eventuale

illegittimità l’ordinamento predispone forme di controllo (il sindacato di costituzionalità, il

sindacato del giudice amministrativo).

Nell’era della globalizzazione, viceversa, si deve registrare che la produzione normativa passa

frequentemente, e tipicamente, attraverso strumenti che la dogmatica tradizionale non

annovera tra gli atti normativi, e non ne segue i procedimenti. Per quanto riguarda questi

ultimi, si può pensare a come, nell’estate del 2011 una ‘lettera’ inviata dalla Banca centrale

europea al governo italiano enunciava punto per punto una serie di provvedimenti fiscali, di

diritto del lavoro e previdenziali, che poi sono stati recepiti in atti del governo, e in leggi,

quasi che quella ‘lettera’ fosse stata un atto di iniziativa legislativa, quale è possibile

adottarne, secondo la nostra Costituzione, solo da parte dei parlamentari, del governo, di

cinque consigli regionali o di cinquecentomila elettori.

Per quanto riguarda lo spostamento della produzione delle norme che toccano la vita delle

persone fuori dai canali formali della rappresentanza politica si può ricordare come una

disposizione introdotta dalla manovra finanziaria nel 2011 permette ai contratti di lavoro

stipulati a livello di singola azienda di derogare a norme di legge inerenti il trattamento dei

lavoratori. Il fatto che ‘qualsiasi disposizione legislativa possa venire derogata se il sindacato

più rappresentativo su base territoriale si accorda con l’azienda” rimette l’effettività della

legge ‘eguale per tutti’ ad accordi che possono essere stipulati anche da ”un qualsiasi

sindacato di comodo, o maggioritario anche in un ristretto ambito territoriale”, vale a dire, per

essere espliciti, dall’azienda con se stessa (attraverso i cd sindacati gialli)84

.

Ma il fenomeno più rilevante è quello che vede le norme di portata altamente condizionante

scaturire da produzioni autocefale, cioè non disciplinate dalla legge, della stessa

amministrazione, che dispiega nel periodo corrente una discrezionalità dall’intensità senza

84

L. Gallino, op. cit., p. 36. Nello stesso senso va il ‘Patto sulla produttività’, approvato dal Governo e i sindacati,

esclusa la CGIL, nel novembre 2012.

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precedenti, generalmente in nome della razionalità organizzativa e finanziaria. Per esempio,

attraverso elementi quantitativi apparentemente neutri come l’imposizione di un certo

rapporto, fisso e uguale in tutto il paese e in tutte le classi di laurea, del rapporto tra il

numero di studenti e quello di professori per corso di laurea, si impongono ai dipartimenti

universitari il taglio di classi di laurea e di insegnamenti, cioè si conduce una politica

universitaria, e cioè una politica dell’educazione e della formazione, con esiti e intenzioni

precise, che consistono nell’impoverimento dell’offerta formativa specialmente nelle

università medio-piccole e decentrate, ciò che va a tutto danno di coloro che non sono in

grado di pagarsi gli studi in altra sede, ma a vantaggio delle sedi più grandi, oltre che di

quelle private, non destinatarie delle regole ministeriali ancorché in grado di offrire i

medesimi titoli di quelle ‘pubbliche’, che chi potrà permetterselo preferirà.

La contrazione dei diritti

Fino all’inizio degli anni 1980, un tema amato dalla dottrina giuspubblicistica e

costituzionalistica era quello dei ‘nuovi diritti’. Si era sull’onda lunga di una stagione che

aveva visto infatti accrescersi la lista dei diritti e delle libertà considerate patrimonio di una

vita dignitosa. Se l’Ottocento liberale aveva riconosciuto i diritti civili, lo stato democratico

costituzionale aveva accolto quelli politici, e quelli economico sociali, che proteggono i

lavoratori, le persone svantaggiate per la loro condizione sociale, o di salute psico-fisica,

interessi e necessità universali come quello alla salute. L’era della globalizzazione è in effetti

la prima, da quando la forma politica stato ha intrapreso il suo cammino, e fatte salve le

esperienze dittatoriali, ad accorciare la lista dei diritti. Oggi è unanime il giudizio secondo cui

i diritti economico sociali, e in specie quelli dei lavoratori, quelli a prestazioni da parte dello

stato e degli enti pubblici territoriali (prestazioni di assistenza sanitaria; servizi come

l’istruzione o i trasporti pubblici) subiscono una revisione che ne assottiglia profondamente il

contenuto e l’estensione: i diritti dei lavoratori, si sostiene, interferiscono con la necessità

dell’impresa di organizzarsi in modo flessibile, ne ostacolano la capacità di produrre profitti:

alcuni anni fa la Corte di Giustizia dell’Unione europea è stata esplicita nell’affermare che i

diritti di sciopero e di azione sindacale non devono contrastare l’interesse alla circolazione

delle imprese nel territorio della Ue, e sono ammissibili “in quanto compatibili” con

quell’interesse. I diritti a prestazione, come quello alla salute,dal canto loro, hanno ‘costi’ che

le finanze dello stato non possono permettersi (nonostante il capitale finanziario circolante

sia pari, come Gallino ricorda, a diverse volte il Pil mondiale e, questo, grazie specialmente

alle politiche fiscali degli Stati). Lo scorso anno, in Italia sono stati tagliati trentamila posti

letto negli ospedali pubblici per effetto di una manovra finanziaria; allo stesso titolo, in nome

di utilizzi più razionali delle ore di lavoro degli insegnanti, bambini di prima elementare,

devono abituarsi al tourbillon di quattro sei insegnanti che cambiano ogni ora, posto che il

loro orario di lezione è ottenuto coi di ritagli di ore ‘buche’ degli insegnanti, e che un tempo

venivano utilizzate per attività di sostegno e recupero, cura delle biblioteche delle scuole,

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rapporti coi genitori. La produttività economica e le ragioni finanziarie agiscono come

prepotente taglia-diritti anche nel senso che sottraggono alle persone diritti già maturati (è il

caso di coloro che, accettato di dare le dimissioni dal proprio impiego in anticipo rispetto

all’età pensionabile, e accettato perciò di pagare di tasca propria i contributi sino al

compimento di quella età, la hanno vista aumentare per legge, trovandosi così senza stipendio

e senza pensione anziché per il paio d’anni che avevano previsto, per sei o sette anni: i cd.

‘esodati’) e attentano a principi costituzionali come quello della corrispondenza tra lavoro e

retribuzione (come è stato il caso della proposta, finora rientrata, di far lavorare gli insegnanti

scolastici 6 ore in più alla settimana senza un corrispondente aumento di stipendio).

Non sono solo i diritti economico sociali e del lavoro a subire una contrazione o una

mutazione. Innumerevoli volte è stata sottolineata la sofferenza imposta al diritto alla

riservatezza in nome delle necessità commerciali e di circolazione del denaro, o da esigenze

di sicurezza: l’invasione nella privacy delle comunicazioni pubblicitarie telefoniche ne è un

esempio; il body scanner negli aeroporti ne è un altro; la conoscenza dei nostri gusti

preferenze e orientamenti acquistata dai motori di ricerca attraverso i nostri acquisti, e dei

quali i server conservano memoria, fornisce un terzo esempio. L’abitudine ormai invalsa di

circoscrivere il perimetro dei cortei a zone delle città interessate chiuse dalle camionette di

polizia e generalmente molto lontane da dove si trovano le sedi degli organi costituzionali

contro cui si dirigono le proteste, rappresenta una nuova conformazione della ‘libertà di

riunione’ che mostra il prevalere, nella considerazione di questa espressione della libertà di

associazione e di manifestazione del pensiero dei cittadini, normale e benvenuta in una

democrazia, di un atteggiamento prevalentemente governato da preoccupazioni di ordine

pubblico. A subire una forte contrazione sono dunque anche i più tradizionali tra i diritti

civili, i quali vengono negati, del resto, sistematicamente ai non cittadini.

Quanto ai diritti politici, la sofferenza in cui si trova il circuito della democrazia

rappresentativa, non può che tradursi in una notevole contrazione della loro effettività; ad

accentuare questa situazione va, nel nostro paese, una legge elettorale che, dal 2005,

impedisce agli elettori di esprimere una preferenza all’interno della lista di candidati

predisposta dai partiti, e che il referendum abrogativo proposto contro questa legislazione è

stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale, con non convincenti motivazioni.

Anche gli accenni molto spesso fatti all’idea che, qualunque risultato diano le elezioni del

2013, il governo dovrebbe continuare ad essere guidato dall’attuale presidente del Consiglio,

e sviluppare la medesima ‘agenda’, vanno in questa direzione.

E’ eloquente la posizione recentemente assunta da un moderato come Piero Ostellino,

intellettuale e giornalista, già direttore del Corriere della Sera, cioè del più influente e diffuso

quotidiano italiano:

“Tira un’ “arietta” che non prelude al totalitarismo politico, ma soffia per lo spegnimento della democrazia. Lo

Stato di polizia fiscale – introdotto dal centrodestra, proseguito col centrosinistra, accentuato dal governo dei

tecnici – pare il preludio, sia pure ancora nel rispetto delle forme politiche della democrazia rappresentativa,

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di certi metodi cari ai totalitarismi del Ventesimo secolo. (…) L’opinione pubblica – ed è questo l’aspetto più

preoccupante della (relativa) popolarità di Monti – reagisce ai provvedimenti del governo come fa nei sistemi

totalitari, dove non è sempre la coercizione a imporre i comportamenti della popolazione, bensì è più spesso il

fatto che i cittadini sono mantenuti nell’ignoranza dei problemi sul tappeto. Si chiama meccanismo delle

‘reazioni previste’, all’opera in certe tribù primitive della Nuova Guinea. Qui, le donne non partecipavano ai

processi decisionali della tribù non perché istituzionalmente ne fossero escluse, ma perché, non abitando nel

perimetro dei maschi, erano all’oscuro della circolazione delle informazioni che riguardavano la vita (pubblica)

della tribù, e, quindi, non erano in condizione di partecipare alle decisioni che riguardavano la vita della

collettività. L’Italia è una democrazia molto imperfetta, ma non è (ancora) un paese istituzionalmente

totalitario. Del giornalismo dei regimi totalitari gran parte del suo sistema informativo è però simile, e

analoghi ne sono gli effetti. Non si può dire che l’Italia, sotto il profilo della funzione dei suoi media, sia un

paese autenticamente democratico-liberale. La regola pare sia piuttosto quella di ignorare e/o tenere nascosto

il ‘nesso causale’ fra i provvedimenti dei governi e gli effetti che essi hanno sulle libertà, i diritti e la vita dei

cittadini. Gli italiani non sono geneticamente inclini al totalitarismo, come credeva Gobetti. Hanno,

storicamente, la tendenza ad esserlo la loro classe dirigente e i loro media.85

Il nuovo ruolo della giurisdizione

Accanto alla constatazione delle “difficoltà che oggi incontrano un po’ dovunque i meccanismi

della rappresentanza politica”, ricorre nella giuspubblicistica attuale l’osservazione che,

invece, crescente è il ruolo della giurisdizione. Mentre tutti i legislatori nazionali, cioè gli

organi elettivi, hanno perduto potere, influenza, libertà d’azione per effetto della integrazione

sovranazionale e della globalizzazione, i giudici nazionali, dal momento che possono

investire la Corte di giustizia europea o la Corte di Strasburgo, le due Corti sovranazionali, di

questioni inerenti l’applicazione del diritto interno, meno hanno perduto nell’era del ‘nuovo

potere’, sono anzi inseriti nel circuito di una nascente giustizia sovranazionale o ‘comune’,

ricca di orientamenti anche diversi la suo interno, ma tutt’altro che priva di influenza e di

rilievo su questioni spesso molto urgenti, attuali, vicine per la vita delle persone e della

collettività. Nei giorni in cui scrivo, si attende, per esempio, una pronunzia della Corte di

giustizia sulla legittimità della legge spagnola che prevede norme di particolare severità per

chi non paga le rate dei mutui, e per effetto della quale milioni di cittadini spagnoli hanno

perduto di recente la loro casa. Gli omosessuali italiani, che hanno visto frustrata dalla Corte

costituzionale italiana la loro aspirazione al matrimonio, seguono con speranza orientamenti

delle due corti europee sempre più favorevoli alla doverosità di questa istituzione. Quando la

Fiat ha giustificato la volontà di non riassumere alcuni lavoratori, perché, ha sostenuto,

siccome aderenti a un sindacato, sono portatori di visioni ritenute incompatibili con la

‘filosofia’ della fabbrica, e rivendicando con ciò per Fiat quella libertà di scelta dei propri

collaboratori garantita alle imprese ideologiche come le Chiese o le testate giornalistiche, il

giudice del lavoro di Roma ha replicato con calma e senso della misura che lavorare in Fiat

non è una fede.

Molti si domandano se questa nuova centralità della giurisdizione sia dovuta appunto alla

crisi della politica, cui la giustizia ‘supplisce’, o a che cosa altro sia dovuto questo fenomeno.

Anche a interrogarci su questo, ci aiutano i pensieri che abbiamo ripercorso sin qui: pur senza

di necessità intendere con questo esprimere una fiducia senza condizioni nella bontà e nella

85

P. Ostellino, Se la ‘democrazia sospesa’ rischia di diventare la regola, in Il Corriere della Sera, 21.11.2012.

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libertà dell’operato della giurisdizione (e più di un esempio fatto nelle pagine precedenti vale

a chiarire che sarebbe del tutto sbagliato assegnare alla giurisdizione, per definizione, la

patente di soggetto che tutela i diritti dei deboli), è pur vero che i giudici hanno, per

ragionare, per impostare i problemi, la possibilità e il dovere di riferirsi a un linguaggio e a un

orizzonte ideativo quale la politica non sa più permettersi, confinata, o autoconfinatasi, come

è, nella empiria di ricette pronte ed efficaci per… non cambiar nulla.

Il linguaggio e l’orizzonte ideativo a cui la giurisdizione può, e invero deve, ancora fare uso, e

che essa riattiva ogni volta che si pronuncia, è quello rimasto incastonato nei principi

costituzionali, che parlano di libertà, di giustizia, di dignità, di ‘utilità sociale’, di uguaglianza,

e spesso risalente agli antichi principi generali del diritto favorevoli ai principi di isonomia,

cioè eguaglianza, e orientati al contenimento degli abusi. Così, l’importanza assunta dalla

giurisdizione nel mentre i meccanismi della democrazia rappresentativa che mettevano al

centro i partiti e la rappresentanza politica venivano travolti da una concezione non

pluralistica del potere e delle sue espressioni, si spiega forse in parte col fatto che nei suoi

linguaggi, nelle sue concezioni, si è rifugiata oggi a lavorare quel poco di trascendenza, e cioè

di immaginazione, di pensiero critico, di cui la persona umana ha bisogno per vivere con gli

altri in una convivenza libera, che le istituzioni contemporanee sono in grado di esprimere. La

giurisdizione è aiutata a non ‘chiudersi’ nell’orizzonte dato anche dal fatto che dialoga con i

principi generali del diritto, che sono antichissimi; e fa ostacolo a un suo appiattirsi sul vuoto

linguaggio puramente descrittivo, operazionale, ‘alla mano’ e ingannevole, dei media e della

politica, il suo essere tenuta a una argomentazione logica coerente e rigorosa che esclude le

cose irrilevanti, gli argomenti che non provano nulla, le tautologie e le frasi a effetto care ad

altri settori anche della vita istituzionale.

Non si deve però sottacere il fatto, che nulla, tanto meno la giustizia, è un fiore che spunta nel

deserto. La capacità della giurisdizione di mantenere un punto di vista, uno stile

argomentativo, di ragionamento e di impostazione dei problemi, che la renda in grado di

decidere le controversie assegnando parità ali interessi confliggenti, e decidendo nel senso

della prevalenza dell’uno o dell’altro per effetto di valutazioni aperte che tengono conto di

come quegli interessi si dispongono, di volta in volta, nei singoli casi, e non di assegnare la

prevalenza sempre a un certo tipo di interessi, come tendeva a fare, come vedemmo, la non

indipendente magistratura dello stato liberale, è anche frutto dell’educazione che il giudice

riceve, del clima culturale che ha intorno a sé, e dei materiali normativi che maneggia.

Da questo punto di vista, si deve registrare in Italia una fortissima concentrazione di

attenzione, negli ultimi dieci anni, verso l’esigenza di accrescere la produttività dei giudici, e

di sottolineare il carattere tecnico della loro prestazione. L’obiettivo di rendere i giudici più

produttivi è reso accattivante all’opinione pubblica in quanto individuato come modo per

ottenere processi più celeri (laddove a questo scopo altri sarebbero le leve su cui agire, a

partire dalla dotazione di personale delle cancellierie dei tribunali, e dalla organizzazioni di

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sedi adeguate con moderne postazioni di lavoro, o dalla introduzione di norme che prevedano

che la prescrizione dei reati non decorre durante i processi, mentre l’opposta regola, da noi

applicata, incentiva gli avvocati a fare appelli su appelli e incidenti processuali su incidenti

processuali, onde rallentare l’andamento del processo e rendere possibile che la prescrizione

si compia prima che il processo arrivi a sentenza). Rendere i giudici più produttivi, e far

dipendere la loro carriera anche dalla loro produttività, in verità significa spesso incoraggiarli

a leggere rapidamente gli atti di causa, metterli in condizione di non avere tempo di studiare

approfonditamente la dottrina e i precedenti, dunque incoraggiarli al ‘copia incolla’ di

sentenze già date su casi analoghi, ossia al conformismo e alla superficialità.

Nessun dubbio, poi, che il giudice debba essere un buon ‘tecnico’, altrimenti che giudice

sarebbe? Tuttavia, restringere l’educazione dei giudici alla sola conoscenza delle norme e

delle procedure finisce per incoraggiare una interpretazione burocratica del loro ruolo, resa

inconsapevole, cioè, del senso che i problemi giuridici rivestono sul piano sostanziale. Anche

la scelta, effettuata nel 2007, di affidare la formazione dei giudici a una scuola speciale, cui

accedono dopo la vittoria del concorso e prima di prendere servizio, al posto dell’antico

uditorato compiuto a fianco di un magistrato più anziano, da una parte è foriera di una

formazione del giudice separata dalla cultura e dalle mentalità, dalle preoccupazioni e dai

valori, più ampiamente circolanti nella società e dall’altro annuncia un crescente distacco

delle nuove generazioni di giudici dal patrimonio di esperienza accumulato dalle precedenti;

un patrimonio di esperienza che, lo vedremo a suo tempo, si è caratterizzato per la

valorizzazione delle componenti progressiste e solidariste della Costituzione.

Infine, i giudici sono ovviamente condizionati dal materiale normativo che applicano. E’ vero

che possono sollevare questione di costituzionalità; ma se sono abituati a de-sensibilizzarsi

dai valori costituzionali, è facilmente prevedibile che tenderanno ad applicare come bravi

soldatini norme di dubbia costituzionalità senza porsi problemi. Le leggi che i giudici devono

applicare comunicano loro anche il quadro di valori dominanti in un certo periodo; al quale

inevitabilmente (sono del resto funzionari dello Stato) si abituano. Per fare un esempio, si può

ricordare che la legge, recentemente, ha previsto che quando un lavoratore ricorre contro

l’azienda per averlo licenziato illegittimamente, il giudice deve tentare una ‘conciliazione’.

Alcuni anni fa un macchinista ferroviario fu licenziato da Trenitalia per avere detto in una

intervista che i treni Frecciarossa avevano un difetto di costruzione molto pericoloso.

L’azienda lo licenziò, e il lavoratore fece ricorso al giudice. Nel frattempo, una serie di

incidenti occorsi ai treni Frecciarossa nella prima fase del loro impiego dimostrò di fatto che il

lavoratore aveva detto cose perfettamente corrispondenti al vero (e le quali inoltre, dato che

guidare un treno difettoso può provocare la morte di un macchinista, come del resto dei

passeggeri, riguardavano direttamente lui ed erano molto importanti per tutta la collettività).

Ciononostante, trovandosi ad applicare la legge che gli impone di cercare una conciliazione

tra lavoratore licenziato e azienda, il giudice ha pensato bene di ordinare al macchinista di

scrivere una dichiarazione in cui ammetteva che dire quelle cose, per quanto vere fossero, era

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stato inopportuno. Fermo restando che per valutare l’operato di un giudice è sempre

necessario conoscere bene gli atti di causa, e che invece questa notizia personalmente l’ho

tratta dai giornali, l’immagine del giudice, che ottiene per l’azienda le deferenti scuse di un

lavoratore il quale, su una base di verità, ne aveva criticato l’operato e sotto un profilo che lo

riguardava direttamente, può essere un segnale di come la giurisdizione, inevitabilmente, non

rimane indifferente alle sollecitazioni che la invitano ad abbracciare nuove mentalità rispetto

a quelle, generalmente ispirate da una rigorosissima coscienza della pari dignità sociale dei

lavoratori, di cui il giudice del lavoro italiano è stato tradizionalmente portatore.