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Parte I IL FALLIMENTO

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Parte I

Il fallImento

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1CennI IntroduttIvI

1 Il diritto fallimentare

Il diritto fallimentare è l’insieme delle norme che regolano le cd. pro-cedure concorsuali, quali il fallimento, il concordato preventivo, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, nonché, fino al 15-7-2006, l’ammini-strazione controllata, ora abrogata dal D.Lgs. n. 5/2006.Tali istituti sono disciplinati dal R.D. 16-3-1942, n. 267 (cd. legge fallimentare) - come modificato dal D.L. 14-3-2005, n. 35, dal D.Lgs. 9-1-2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12-9-2007, n. 169 - e da altre disposizio-ni contenute nel codice civile e di procedura civile nonché in leggi speciali.

La riforma della legge fallimentare realizzata con il D.Lgs. 5/2006 si è resa necessaria in quanto la legge fallimentare emanata con il R.D. 16-3-1942, 267, risalente ad oltre un cinquantennio, non era stata mai sistematicamente riformata, sebbene avesse subito nel tempo numerosi e rilevanti interventi manipolativi da parte della giurisprudenza e, segnatamente, della Corte costituzionale. La disciplina anteriore alla riforma del 2006 si ispirava ad una tutela accentuata dei diritti dei creditori, determinando un completo spossessamento del patrimonio del debitore, il quale veniva posto in una condizione di assoluta incapacità di disporre del proprio patrimo-nio. Il fallimento assumeva, così, una connotazione punitiva nei confronti del fallito, ritenuto colpevole di non aver saputo gestire adeguatamente il suo patrimonio, e per tale motivo doveva essere privato della disponibilità di tutti i suoi beni ed essere altresì assogget-tato a talune limitazioni di carattere personale (ad esempio, la privazione del diritto di voto). Inoltre, la vecchia legge fallimentare era mossa da un intento essenzialmente liquida-torio, ossia era finalizzata allo smembramento dell’azienda fallita per garantire il maggior soddisfacimento possibile dei creditori. Ciò comportava un penetrante intervento del Tribunale fallimentare e del giudice delegato nelle varie fasi della procedura. Si trattava, però, di un’impostazione non più in linea con le finalità che, nell’attuale situa-zione socioeconomica, si dovrebbero perseguire in caso di insolvenza imprenditoriale, consistenti nella conservazione e nel recupero, per quanto possibile, delle com-ponenti dell’impresa, ossia dei beni produttivi e dei livelli occupazionali, attraverso il risanamento e il superamento della crisi aziendale. Del resto, nella stessa legislazione dei Paesi europei si è da tempo affermata la tendenza a considerare le procedure concorsuali non più in termini meramente liquidatorisanziona-tori, ma piuttosto come destinate ad un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove possibile, di questa e, negli altri casi, pro-curando alla collettività, ed in primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali.

diritto fallimentare

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Parte I | Il fallimento

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Il legislatore italiano ha inteso, pertanto, allinearsi alla tendenza in voga negli altri Paesi europei, introducendo una nuova disciplina concorsuale per la regolamentazione del-l’insolvenza che semplifica le procedure attualmente esistenti e mira alla conservazione dell’impresa e alla tutela dei creditori. Tale finalità è stata realizzata mediante un duplice intervento posto in essere dal D.L. n. 35/2005, convertito nella L. n. 80/2005, che, come accennato, da un lato ha modificato direttamente alcune disposizioni della legge fallimentare (in particolare, l’art. 67 sulla revocatoria fallimentare e gli artt. 160, 161, 163, 167, 180, 181, in materia di concordato preventivo), introducendo altresì l’art. 182bis in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti; dall’altro, ha dettato al Governo i criteri e i principi direttivi per realizzare la riforma organica delle procedure concorsuali, sfociata nel D.Lgs. n. 5/2006 e nel successivo D.Lgs. n. 169/2007.

Il D.Lgs. n. 5/2006 è entrato in vigore, ai sensi dell’art. 153 del decreto stesso, dopo sei

mesi dalla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, e quindi il 16-7-2006. Il D.Lgs. 169/2007, invece, è entrato in vigore ai sensi dell’art. 22 del decreto stesso, il giorno 1 gennaio 2008.Per stabilire, nei singoli casi, quale sia la disciplina applicabile (quella anteriore o quella successiva al D.Lgs. n. 5/2006), occorre premettere che la procedura fallimentare si di-stingue in due fasi, quella istruttoria (o “pre-fallimentare”), introdotta con ricorso e definita con la sentenza dichiarativa di fallimento, e quella di fallimento (o “concorsuale”), aperta con la medesima sentenza e terminata con la chiusura del fallimento.Quanto alla disciplina del 2006 la stessa si applica alla fase prefallimentare apertasi con i ricorsi depositati dopo il 16-7-2006 e, quanto alla fase concorsuale, alle procedure apertesi dopo il 16-7-2006. Restano, pertanto, disciplinate dal regime previgente la fase prefallimentare apertasi con ricorsi depositati alla data di entrata in vigore della Riforma e le procedure a tale data già pendenti. Il D.Lgs. n. 169/2007, invece, si applica ai pro-cedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, nonchè alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore, fatta eccezione per gli articoli 107 L.F. in tema di vendita e liquidazione dell’attivo, art. 214 L.F., in materia di concordato preventivo e della disciplina dell’esdebitazione che si applicano alle procedure di fallimento pendenti alla data di en-trata in vigore del D. Lgs. n. 5/2006 e pendenti o chiuse alla data di entrata in vigore del presente decreto (D.Lgs. n. 169/2007).

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Capitolo 1 | Cenni introduttivi

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2 Principi generali: responsabilità patrimoniale del debitore e par condicio creditorum.

Il Titolo III del Libro VI del codice civile (avente ad oggetto “La tute-la dei diritti”) è dedicato alla responsabilità patrimoniale, alle cause di prelazione e alla conservazione della garanzia patrimoniale.Tale Titolo contiene una serie di norme, particolarmente importanti, dirette a tutelare il diritto del creditore di soddisfarsi sui beni del de-bitore in caso di inadempimento e si apre con l’enunciazione dei due principi fondamentali che governano la materia: - in base all’art. 2740 c.c., “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”. Viene posto, in tal modo, il cd. principio della responsabilità patrimoniale, che pu˜ essere definito come la soggezione del patrimonio del debitore al diritto di soddisfacimento coattivo dei creditori (Bianca), che si attua attraverso l’espropriazione forzata; - in base all’art. 2741 c.c., “i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prela-zione. Sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e le ipoteche”. Viene posto, in tal modo, il cd. principio della parità di trattamento dei creditori (par condicio creditorum), in base al quale i creditori hanno tutti eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore. Ciò significa che, se un soggetto ha più creditori e il suo patrimonio è insufficiente a soddisfare il credito di tutti, cia-scun creditore deve rinunciare a una parte del proprio diritto a van-taggio degli altri, in quanto tutti i creditori devono essere soddisfatti in proporzioni uguali. Vengono fatte salve, però, le cause legittime di prelazione.

3 azione esecutiva individuale e procedure concorsuali

Nell’ambito di un rapporto obbligatorio, quando il debitore non ese-gue spontaneamente la prestazione il debitore può proporre un’azio-ne giudiziaria al fine di ottenere la realizzazione forzata del proprio diritto. Questa azione è detta esecutiva perché è diretta a conse-guire l’adempimento della prestazione anche contro la volontà del debitore, attraverso la vendita forzata di uno o più beni a lui apparte-

responsa-bilità pa-trimoniale

azione individuale

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Parte I | Il fallimento

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nenti. Si tratta di un’azione individuale, in quanto giova unicamente al creditore che l’ha promossa ed eventualmente agli altri creditori che, venuti a conoscenza dell’azione, hanno deciso di intervenirvi. Essa, infine:- non può essere proposta da un qualunque creditore, ma solo dal creditore munito di un titolo esecutivo (ad esempio, una sentenza o un titolo di credito);- non colpisce tutti i beni del debitore ma solo uno o più beni speci-fici.Caratteristiche completamente diverse hanno, invece, le cd. proce-dure concorsuali, le quali sono dirette a tutelare i creditori di un’im-presa insolvente, cioè di un’impresa che non è in grado di pagare re-golarmente i propri debiti.Tali procedure sono dette concorsuali proprio perché coinvolgono tutti i creditori dell’imprenditore, i quali concorrono sul patrimonio di questo. In tal modo, si cerca di attuare la parità di trattamento dei creditori prevista dall’art. 2741 c.c.: i creditori saranno soddisfatti tutti integralmente o, se ciò non è possibile, tutti nella stessa pro-porzione (nelle esecuzioni individuali, invece, vale il principio della priorità: chi agisce per primo si soddisfa integralmente).

In sintesi, le differenze tra la procedura esecutiva e quella concorsuale sono le seguenti:- la procedura di esecuzione individuale è rivolta al soddisfacimento di un singolo creditore, mentre la procedura concorsuale tende ad assicurare la soddisfazione di tutti i creditori in misura eguale tenendo conto delle legittime cause di prelazione (par condicio creditorum);- l’apertura di una procedura concorsuale non consente né l’inizio né la prosecuzione di azioni esecutive individuali, che rimangono assorbite in quella collettiva (universalità soggettiva);- l’esecuzione collettiva investe l’intero patrimonio del debitore, ad eccezione dei beni dichiarati impignorabili o, comunque, quella parte di esso caratterizzata dai rapporti di impresa, mentre l’esecuzione individuale colpisce solo determinati beni del debitore e fino all’integrale soddisfacimento del credito (cd. universalità oggettiva);- per promuovere l’esecuzione individuale è sufficiente l’iniziativa del creditore, mentre l’esecuzione collettiva può avere inizio - seppure su iniziativa di un creditore - solo a seguito di un provvedimento giurisdizionale che accerti la sussistenza dei presupposti di legge (ufficialità);- l’esecuzione individuale può estinguersi, mentre il fallimento, una volta dichiarato, deve giungere in porto e non si ferma neanche se i beni del fallito non sono sufficienti per coprire le spese.Vi sono, poi, altre differenze che attengono agli organi preposti all’uno e all’altro tipo di esecuzione, alla disciplina e agli effetti delle rispettive procedure.

Procedure concorsuali

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Capitolo 1 | Cenni introduttivi

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4 Le singole procedure concorsuali

Le procedure concorsuali sono disciplinate da leggi speciali e, in par-ticolare, dal R.D. 16-3-1942, n. 267 (cd. legge fallimentare). In esso sono contenute le disposizioni relative:- al fallimento, che è la procedura concorsuale con la quale si realiz-za la liquidazione del patrimonio del debitore insolvente allo scopo di dividere il ricavato fra tutti i creditori;- al concordato preventivo, che consiste in un accordo tra l’im-prenditore e i suoi creditori, concluso sotto il controllo e con l’ap-provazione del Tribunale, attraverso il quale il primo può superare un momento di crisi dell’impresa, evitando nel contempo la dichiara-zione di fallimento;- alla liquidazione coatta amministrativa, la quale è una procedura concorsuale a carattere amministrativo, nel senso che la liquidazione dell’impresa è attuata da organi amministrativi e non da organi giudi-ziari. Si tratta di una procedura che si applica a una serie di imprese indicate da leggi speciali (istituti di credito, imprese bancarie, impre-se assicurative, società cooperative etc.) le quali, anche se in misura e secondo modalità diverse, sono tutte assoggettate ad un’attività di vigilanza da parte della pubblica amministrazione, giustificata dalla particolare importanza collettiva che riveste l’attività da esse svolta;- all’amministrazione controllata, procedura abrogata dal D.Lgs. n. 5/2006, che tende ad evitare la liquidazione dell’impresa consenten-do, all’imprenditore che si trovi in uno stato di temporanea difficoltà, di proseguire la propria attività per un periodo non superiore a due anni, sotto il controllo di un commissario giudiziale e del giudice delegato.La L. 3-4-1979, n. 95 ha introdotto un’ulteriore procedura concor-suale, l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, successivamente riformata con il D.Lgs. 8-7-1999, n. 270, nel-la quale si ritrovano elementi del fallimento ed elementi della liqui-dazione coatta amministrativa, in quanto la finalità di liquidazione si coniuga con quella di conservazione delle grandi imprese.

Le procedure concorsuali, inoltre, presentano i seguenti caratteri:- globalità (o universalità), in quanto non riguardano uno o più beni determinati del-l’imprenditore, ma, a seconda dei casi, il suo intero patrimonio o quella parte di esso caratterizzata dai rapporti di impresa. Tale principio, come vedremo, opera pienamente nel fallimento, nella liquidazione coatta amministrativa e nell’amministrazione straordi-

La legge fallimentare

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naria. È, invece, mitigato nelle procedure di concordato preventivo e di amministrazione controllata;- ufficialità, in quanto la procedura viene disposta con un provvedimento di un organo pubblico (giudiziale o amministrativo). Inoltre, una volta iniziato, il procedimento prosegue anche in assenza di atti di impulso dei creditori, perché esistono alcuni organi pubblici che hanno il potere di compiere tutti gli atti necessari per la continuazione della procedura;- natura collettiva, nel senso che si svolgono nell’interesse di una pluralità di soggetti e non nell’interesse di un singolo creditore;- natura egualitaria, nel senso che tutti i creditori sono soddisfatti in maniera eguale, salvo eventuali diritti di prelazione.

PROCEDURE CONCORSUALI

Fallimento

Concordato preventivo

Liquidazione coatta amministrativa

Amministrazione controllata (abrogata dal D. Lgs. n. 5/2006)

Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi

sai rispondere?

1. Cosa si intende per responsabilità patrimoniale del debitore?

2. Quali differenze sussistono tra l’azione esecutiva individuale e le pro-cedure esecutive concorsuali?

3. Quali sono le procedure esecutive concorsuali?

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2IL faLLImento: nozIone e PresuPPostI

1 nozione

Il fallimento è una procedura concorsuale avente la finalità di liqui-dare il patrimonio del debitore insolvente per poi ripartire il rica-vato tra tutti i creditori nel rispetto del principio della par condicio creditorum dettato dall’art. 2741 c.c., a norma del quale i creditori verranno soddisfatti tutti integralmente, ove possibile, o quantomeno tutti nella stessa proporzione.La prevalente dottrina definisce il fallimento come quel proces-so esecutivo rivolto alla realizzazione coattiva del diritto dei creditori (Carnelutti, Ferrara, Azzolina), che ha inizio con l’istrut-toria prefallimentare, ossia con l’accertamento della sussistenza dei presupposti ex lege previsti per la dichiarazione di fallimento e che, dopo varie fasi (l’acquisizione dei beni di proprietà del fallito, l’ac-certamento dei crediti, la liquidazione dell’attivo e la ripartizione del ricavato tra i creditori), si conclude con il decreto di chiusura del fallimento, salvi i casi di riapertura della procedura dei quali si dirà infra.La disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, con-tenuta nel R.D. n. 267/1942, è stata modificata in maniera significa-tiva con il D.L. n. 35/2005, convertito nella L. n. 80/2005 e, poi, con il D.Lgs. n. 5/2006 e il D.Lgs. n. 169/2007.La nuova disciplina attribuisce maggiore spazio al recupero delle ca-pacità produttive dell’impresa in crisi, e il fallimento è ora finalizzato anche a raggiungere un risultato di conservazione dei mezzi organiz-zativi dell’impresa, assicurandone la sopravvivenza, ove possibile, e, negli altri casi, procurando alla collettività, e in primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali.

definizione

disciplina

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Parte I | Il fallimento

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2 I presupposti del fallimento

Presupposti necessari per la dichiarazione di fallimento sono:- la qualità di imprenditore commerciale del debitore (presuppo-sto soggettivo);- lo stato di insolvenza del debitore stesso (presupposto oggetti-vo).Prima di passare all’esame di tali presupposti occorre ricordare che devono sussistere anche altre circostanze (negative), e precisamen-te:- l’imprenditore non deve essere soggetto ad una procedura di liquida-zione coatta amministrativa;- l’imprenditore non deve avere fatto domanda di concordato preven-tivo o di amministrazione controllata (ora abrogata dalla nuova di-sciplina);- non devono sussistere i presupposti per l’assoggettabilità dell’im-presa alla procedura di amministrazione straordinaria.Non sono, pertanto, soggette al fallimento (vedi infra):- le imprese bancarie e assicurative, in quanto soggette alla procedu-ra di liquidazione coatta amministrativa;- le imprese di grandi dimensioni, soggette all’amministrazione stra-ordinaria delle grandi imprese in crisi.

3 Il presupposto soggettivo

L’art. 1 della legge fallimentare, al 1° comma, prevede che “Sono sog-getti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”.La norma al 2° comma precisa che “Non sono soggetti alle disposi-zioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei se-guenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non supe-riore ad euro trecentomila;

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Capitolo 2 | Il fallimento: nozione e presupposti

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b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antece-denti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’at-tività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare comples-sivo annuo non superiore ad euro duecentomila;c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila”.I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del 2° comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sul-la base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel perio-do di riferimento.La norma, quindi, esclude dal fallimento le imprese che posseggono congiuntamente i requisiti suindicati, con onere probatorio a carico del debitore stesso.

In conclusione, devono ritenersi soggetti al fallimento gli imprenditori che esercitano attività commerciale e che posseggano i requisiti richie-sti dall’art. 1 L.F., comunque esclusi gli enti pubblici, e precisamente:- le imprese individuali che esercitano attività commerciale;- le società commerciali (aventi ad oggetto un’attività commerciale ai sensi dell’art. 2195 c.c.);

Le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un’attività commerciale sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall’effettivo esercizio di una siffatta attività: esse, infatti, acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal mo-mento della loro costituzione, e non dall’inizio del concreto esercizio dell’attività d’impresa, come avviene - secondo la Cassazione - per l’imprenditore commerciale individuale.

- le imprese artigiane, che una parte della dottrina minoritaria esclu-deva dal fallimento ritenendole in ogni caso piccole imprese;- le associazioni (riconosciute e non), le fondazioni e gli enti pro-fit, qualora abbiano come scopo esclusivo o prevalente l’esercizio di un’attività commerciale;- i consorzi tra imprenditori con attività esterna;- le società cooperative che esercitano attività commerciale, le quali sono assoggettate a fallimento in alternativa alla liquidazione coatta amministrativa, secondo il principio della prevenzione (art. 196 L.F.);- le società occasionali aventi natura commerciale;- le società sportive (il tema, a lungo dibattuto, è stato superato con l’entrata in vigore della legge 18-11-1996, n. 586, che ha riconosciu-to alle società sportive professionistiche la possibilità di avere uno scopo di lucro).

soggetti che possono fallire

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Parte I | Il fallimento

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Sono, invece, esclusi dal fallimento:- gli imprenditori che dimostrino di non aver i requisiti dimensionali previsti dall’art. 1 L.F.;- gli enti pubblici economici (art. 1, 1° comma, L.F.; art. 2093 c.c.);- l’imprenditore agricolo (art. 2135 c.c.), sul presupposto che tale at-tività è assoggettata a rischi specifici (stagionalità della produzione, condizioni atmosferiche, deperibilità dei prodotti etc.) meno preve-dibili rispetto alle normali attività d’impresa;

La questione della esenzione dell’impresa agricola dal fallimento è piuttosto dibattuta. La novella dell’art. 2135 c.c. (con il D.lgs. n. 228/2001) e l’introduzione, nella nozione di impresa agricola, di attività che non richiedono una connessione necessaria tra produ-zione e utilizzazione del fondo, essendo sufficiente il semplice collegamento potenziale o strumentale (e non più reale) con il terreno, ha fortemente attenuato, infatti, il confine - già incerto -fra le categorie dell’imprenditore agricolo e di quello commerciale.Con sentenza n. 24995 del 10-12-2010 la Cassazione ha ritenuto che, ai fini dell’assog-gettamento a procedura concorsuale, tenuto conto del fatto che le riforme delle discipline concorsuali non hanno inciso sull’art. 2135 c.c., l’accertamento della qualità di impresa commerciale non può essere tratto esclusivamente da parametri di natura quantitativa in quanto questi non sono compatibili con la nuova formulazione della norma. In questo contesto, è intervenuto nuovamente il legislatore con il D.L. n. 98 del 2011, convertito nella Legge 111/2011, che, all’art. 23, 43° comma, ha previsto la possibilità per l’imprenditore agricolo, in stato di crisi o di insolvenza, che non è assoggettabile a fallimento e, di conseguen-za, non può accedere neanche al concordato, di utilizzare la procedura di ristrutturazione dei debiti e della transazione fiscale di cui agli artt. 182bis e 182ter L.F. recentemente modificati.

- le imprese bancarie e assicurative, in quanto soggette ad altra pro-cedura concorsuale (liquidazione coatta amministrativa);- le imprese di grandi dimensioni, in quanto soggette ad altra proce-dura (amministrazione delle grandi imprese in crisi);- la società semplice, la quale non svolge attività commerciale (per il cui esercizio occorre costituire una società secondo i modelli rego-lati nei capi seguenti: art. 2249, comma 1, c.c.), e pertanto non rien-tra nel novero dei soggetti fallibili ai sensi degli artt. 2221 c.c. e 1, comma 1, L.F. (a meno che non eserciti nei fatti attività commerciale, nel qual caso assume natura di società in nome collettivo irregolare, come tale fallibile con estensione del fallimento ai soci);- la comunione a scopo di godimento;- l’associazione in partecipazione.

Si precisa che un imprenditore già dichiarato fallito non può essere dichiarato fallito per una nuova attività imprenditoriale intrapresa mentre era ancora in corso la procedura pre-cedente: per il principio secondo il quale tutto ciò che viene acquisito dal fallito durante il fallimento viene appreso alla massa fallimentare, infatti, il nuovo fallimento non sarebbe altro che un’estensione del primo.

soggetti esclusi dal fallimento

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Capitolo 2 | Il fallimento: nozione e presupposti

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È possibile, invece, una nuova dichiarazione di fallimento nell’ipotesi in cui la nuova attività sia stata intrapresa dopo la chiusura della precedente procedura.Il presupposto soggettivo del fallimento ha subito significativi mutamenti con la riforma del 2006 e, poi, con il cd. Decreto correttivo del 2007.Prima di tali modifiche l’art. 1 della legge fallimentare stabiliva che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento […] gli imprenditori che esercitano una attività commerciale esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori”. La nozione di “piccolo imprenditore” era fornita dall’art. 1, 2° comma, della legge fallimen-tare, a tenore del quale erano considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ric-chezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. In mancanza dell’ac-certamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, si consideravano piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti una attività commerciale nella cui azienda fosse stato investito un capitale non superiore a L. 900.000.In nessun caso erano considerati piccoli imprenditori le società commerciali, le quali pertanto erano sottoposte alla disciplina del fallimento indipendentemente dalle loro dimensioni.Tuttavia, a seguito dell’abolizione dell’imposta di ricchezza mobile (dall’1-1-1974) e della dichiarazione di incostituzionalità del criterio del capitale investito (operata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 570/1989), l’art. 1, 2° comma, L.F. era sostanzialmente rimasto in vigore solo nella parte in cui stabiliva che “non sono mai considerati piccoli imprenditori le società commerciali”. L’individuazione del piccolo imprenditore, anche ai fini fallimentari, era stata quindi basata sull’art. 2083 c.c., a norma del quale “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo [im-prenditori agricoli], gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività profes-sionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.A ciò s’aggiunga che l’art. 2135 c.c. era stato modificato dal D.Lgs. n. 288/2001, che aveva ampliato la nozione di impresa agricola estendendo così l’area delle imprese non assoggettate a fallimento.Il D.Lgs. n. 5/2006 modificava l’art. 1 L.F., confermando, al 1° comma, che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento […] gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori”, e aggiungendo, al 2° comma, che “non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o col-lettiva che, anche alternativamente:a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro 300.000;b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro 200.000” (limiti aggiornabili ogni tre anni, con decreto del Mini-stro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento).A seguito di tale modifica i requisiti per la sussistenza del presupposto soggettivo di cui all’art. 1, 1° comma, L.F. erano:- l’esistenza di un’impresa, secondo la nozione di cui all’art. 2082 c.c., e cioè l’esercizio professionale di una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scam-bio di beni o servizi;- il carattere commerciale dell’impresa, che, alla luce di una lettura dell’art. 2195 c.c. condivisa dalla dottrina prevalente (Campobasso, Galgano, Graziani, Asquini, Genovese, Pavone La Rosa), si riscontra laddove l’impresa non sia qualificabile come agricola (ne-anche per connessione);

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- il requisito di impresa non piccola, secondo i principi posti dall’art. 2083 c.c. - che prende in considerazione un criterio qualitativo e, cioè, il modo in cui il reddito è prodotto - e dall’art. 1, 2° comma, L.F., che prendeva in considerazione un criterio quantitativo, e cioè il valore degli investimenti effettuati nell’azienda e il valore dei ricavi degli ultimi anni. Inoltre, con l’abrogazione dell’inciso secondo cui le società commerciali non potevano es-sere considerate piccoli imprenditori, veniva introdotta anche per le società commerciali la necessità di valutare, di volta in volta, ai fini dell’assoggettamento al fallimento, se l’im-presa esercitata avesse o meno natura di piccola impresa commerciale.Con il D.Lgs. 169/2007, cd. Decreto correttivo, l’art. 1 L.F. è stato ulteriormente modificato nei termini sopra illustrati. Per delimitare l’area dei soggetti esonerati dal fallimento non è più previsto il ricorso alla figura del piccolo imprenditore commerciale, ma vengono indicati direttamente una serie di requisiti dimensionali massimi che gli imprenditori commerciali (resta, quindi, fermo l’esonero dalle procedure concorsuali di tutti gli im-prenditori agricoli, piccoli e medio grandi, già previsto nel precedente regime) devono possedere congiuntamente per non essere assoggettati alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo.

4 Cessazione dell’attività commerciale e morte dell’imprenditore

Nel sistema della legge fallimentare la dichiarazione di fallimento presuppone la qualità di imprenditore commerciale.La possibilità, prevista negli artt. 10 e 11 L.F., del fallimento dell’im-prenditore commerciale defunto o che per altra causa abbia cessato l’esercizio dell’impresa non risulta, a ben vedere, inconciliabile con tale presupposto, ma ne costituisce un necessario corollario, essendo volta ad evitare, come è stato rilevato, che quella tutela dei creditori che la procedura fallimentare è diretta ad assicurare sia rimessa alla mercé della volontà di chi vi è sottoposto o al caso.L’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore cessato o defunto postula, tuttavia, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento. Limite nella specie tanto più necessario considerando le conseguenze che dalla declara-toria di fallimento discendono non solo per chi ne è colpito, ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto.Si spiega allora come il legislatore, nei citati artt. 10 e 11 L.F., operan-do un bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, abbia fissato in un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese il termine entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore cessato o defunto.

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a) Il fallimento dell’imprenditore cessato

Si è detto che presupposto soggettivo del fallimento è la qualità di imprenditore commerciale del debitore insolvente.Occorre, adesso, affrontare il problema dell’assoggettabilità a falli-mento dell’imprenditore in caso di cessazione dell’attività. A questo proposito, l’attuale art. 10, 1° comma, L.F. dispone che “gli impren-ditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”. Si tratta di una norma particolarmente importante, poiché senza di essa l’imprenditore commerciale insolvente potrebbe comodamente evitare gli effetti del fallimento interrompendo la propria attività.Il vecchio testo dell’art. 10 L.F. stabiliva che “l’imprenditore che per qualunque causa ha cessato l’esercizio dell’impresa può essere dichiara-to fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”.Questa norma, che a differenza di quella attuale faceva riferimento non alla cancellazione dal registro delle imprese ma alla cessazione dell’attività imprenditoriale, era stata interpretata diversamente a seconda che si trattasse di imprenditore individuale o collettivo:- in caso di imprenditore individuale, la cessazione dell’attività d’impresa, ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale poteva essere dichiarato il fallimento, coincideva con la cessazio-ne effettiva di ogni attività riferibile all’attività d’impresa (Cass. n. 4599/1989), indipendentemente da aspetti formali quali la vendita dei beni (ad esempio, macchinari) e l’estinzione dei rapporti (ad esempio, contratti) facenti capo all’impresa; - in caso di società commerciale, invece, si riteneva che la ces-sazione dell’attività commerciale coincidesse: per le società di per-sone, con la chiusura della liquidazione; per le società di capitali, con la cancellazione dal registro delle imprese.Questa impostazione è stata condivisa dalla Corte costituzionale che, con sentenza 21-7-2000, n. 319, aveva dichiarato l’incostituzio-nalità di tale norma nella parte in cui non prevedeva che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorresse dalla cancella-zione della società stessa dal registro delle imprese.La riforma del 2006 si è uniformata all’indirizzo della Corte costi-tuzionale: il nuovo art. 10, 1° comma, L.F. afferma, infatti, che tutte le imprese, individuali e collettive, possono essere dichiarate fallite en-

art. 10, 1° comma, L.f.

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tro (e non oltre) un anno dalla cancellazione dal registro delle impre-se (se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla cancellazione o entro l’anno successivo), introducendosi così un termine unico per tutte le tipologie di impresa entro cui il fallimento deve essere di-chiarato.

Tale termine decorre, come detto, dalla cancellazione dal registro delle imprese. Tuttavia, il 2° comma dell’art. 10 L.F. aggiunge che “in caso di im-presa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori col-lettivi, è fatta salva la facoltà - per il creditore o per il pubblico mini-stero - di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma”. Pertanto, se la data della cancellazione non coincide con l’effettiva cessazione dell’attività d’impresa, l’anno entro cui può essere chiesto il fallimento comincia a decorrere dalla definitiva cessazione dell’attività d’impresa.Per le imprese individuali e per le società cancellate d’ufficio dal re-gistro delle imprese la prova della non coincidenza tra la cancellazio-ne dal registro delle imprese e il momento dell’effettiva cessazione dell’attività può essere fornita con ogni mezzo.Le società non iscritte nel registro delle imprese (società irregolari o società di fatto), invece, possono essere dichiarate fallite senza limiti di tempo.

b) Il fallimento dell’imprenditore defunto

L’art. 11 L.F. prevede l’assoggettabilità al fallimento dell’impren-ditore defunto, purché la dichiarazione di fallimento avvenga entro l’anno dalla morte e l’insolvenza riguardi obbligazioni già esistenti al momento del decesso.Inoltre, l’erede può chiedere il fallimento del defunto, purché il patri-monio ereditario non si sia già confuso con il suo patrimonio perso-nale, e con la dichiarazione di fallimento cessano di diritto gli effetti della separazione dei beni ottenuta dai creditori del defunto. Le ipotesi che si possono prospettare sono le seguenti:- l’eredenon ha accettato l’eredità(cd. eredità giacente) o ha accetta-to con beneficio di inventario (ossia, separando il proprio patrimonio da quello del defunto): in questi casi non si ha confusione tra il patri-monio del defunto e quello dell’erede, e quest’ultimo potrà chiedere il fallimento del defunto. Inoltre, la riforma ha esonerato l’erede che chiede il fallimento dell’imprenditore defunto dall’obbligo di deposi-

art. 10, 2° comma, L.f.

fallimento chiesto

dall’erede

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to (in Tribunale) della documentazione contabile e fiscale, nonché dell’elenco nominativo dei creditori e della relazione sullo stato esti-mativo delle attività;- l’erede ha accettato puramente e semplicemente l’eredità: in questo caso si ha confusione del patrimonio del defunto e dell’erede, che impedisce all’erede di chiedere il fallimento del defunto. Inoltre, se l’erede è imprenditore commerciale insolvente, può essere dichiarato fallito anche quest’ultimo.

Nella diversa ipotesi in cui l’imprenditore muoia dopo la dichia-razione di fallimento, la procedura - a norma dell’art. 12 L.F., non modificato dalla riforma - prosegue nei confronti dell’erede anche se questi abbia accettato con beneficio di inventario. Tanto si verifica anche nell’ipotesi di morte del fallito durante il giudizio di opposi-zione alla sentenza di fallimento (vedi Cap. 3, par. 7), osservate le disposizioni di cui agli artt. 299 ss. c.p.c. in materia di interruzione del processo (art. 20 L.F.).All’erede spettano i diritti del de cuis derivanti dalla procedura, men-tre non si estendono le inabilitazioni. In caso di pluralità di eredi la procedura prosegue nei confronti di colui che viene nominato quale rappresentante. La nomina avviene su accordo fra gli stessi eredi; in mancanza, la designazione viene fatta dal giudice delegato entro 15 giorni dalla morte del fallito. Nel caso di eredità giacente, la procedura prosegue nei confronti del curatore della stessa nominato ai sensi dell’art. 528 c.c. Nel caso, infine, di eredità sottoposta a condizione sospensiva o di mancato adempimento, da parte dell’erede, dell’obbligo di prestare la garanzia impostagli dall’autorità giudiziaria in relazione ad una disposizione testamentaria sottoposta a condizione risolutiva (ex art. 639 c.c.), la procedura prosegue nei confronti dell’amministratore dell’eredità nominato ai sensi degli artt. 641 e 642 c.c.

Imprendito-re defunto dopo il fallimento

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5 L’estensione del fallimento a soci, soci occulti, società di fatto

a) L’estensione del fallimento della società ai soci illimitata-mente responsabili

Mentre il fallimento di uno o più soci, anche illimitatamente respon-sabili, non comporta il fallimento della società, ai sensi dell’art. 147 L.F., come novellato dalla riforma, il fallimento di una società di persone e di una società in accomandita per azioni si estende a tutti i soci illimitatamente responsabili, pur se non persone fi-siche e, dunque, anche alle eventuali società, sia di persone che di capitali, socie della società fallita. La sentenza che dichiara il fallimento della società dichiara anche quello dei soci, nominando un unico curatore e un unico giudice delegato. Per l’autonomia patrimoniale, invece, le masse fallimen-tari rimangono distinte, e per ognuna di esse può essere nominato un comitato dei creditori: infatti, i creditori della società sono anche creditori dei singoli soci, ma non necessariamente è vero il contrario. Ne consegue che la domanda di insinuazione al passivo (vedi Cap. 6) presentata dal creditore sociale si intende formulata anche per il patrimonio del singolo socio.L’estensione del fallimento della società al socio illimitatamente re-sponsabile è subordinata a due condizioni:- che non sia decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata, anche se conse-guenza della trasformazione, fusione o scissione, sempre che siano state osservate le formalità per rendere note ai terzi tali modifica-zioni;- che l’insolvenza della società attenga, almeno in parte, a debiti già esistenti alla data dello scioglimento del rapporto sociale o della ces-sazione della responsabilità illimitata.

Nel vigore dell’art. 147 L.F. precedente alla riforma era discusso se dalla semplice il-limitata responsabilità del socio discendesse, in ogni caso, anche il suo falli-mento in estensione.Infatti, nell’ordinamento sono rinvenibili società con soci illimitatamente responsabili (so-cietà di persone e società in accomandita per azioni) e società con soci a responsabilità limitata che, in determinati casi, rispondono illimitatamente delle obbligazioni sociali (soci di società di capitali).

Presupposti dell’esten-

sione

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Attesa la pacifica applicabilità della norma fallimentare al primo ordine di casi, si discuteva della sua applicabilità al secondo ordine di casi. Parte della dottrina e della giurisprudenza riteneva infatti che ciò non fosse conseguenza autorizzata dalla legge. A seguito dell’entrata in vigore della riforma del diritto societario, qualcuno ha affermato la tesi della dichiarabilità del fallimento nel caso di socio di società di capitali divenuto illimitatamente responsabile. Tuttavia, il testo attuale dell’art. 147, 1° comma, L.F. sembra aver risolto definitivamente la questione nel senso opposto, affermando esplicitamente la fallibilità in estensione soltanto in caso di dichiarazione di fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III (società in nome collettivo), IV (società in accomandita semplice) e VI (società in accomandita per azioni) del titolo V del libro V del codice civile: dunque, per il caso del socio (anche non persona fisica) illimitatamente responsabile di società di persone o di società in accomandita per azioni. Non sono ricompresi nell’elencazione i tipi regolati nei capi V (società per azioni) e VII (società a responsabilità limitata), oltre alla società semplice (regolata nel capo II).Dunque, tranne il caso della società semplice, la quale non svolge attività commerciale (per il cui esercizio occorre costituire una società secondo i modelli regolati nei capi seguenti: art. 2249, 1° comma, c.c.) e, pertanto, non rientra nel novero dei soggetti fallibili ai sensi degli artt. 2221 c.c. e 1, 1° comma, L.F. (a meno che non eserciti nei fatti attività commerciale, nel qual caso assume natura di società in nome collettivo irregolare, come tale fallibile con estensione del fallimento ai soci: ricorrerebbe l’ipotesi del tipo disciplinato nel capo III), le società commerciali nelle quali il socio illimitatamente respon-sabile (tale in origine o divenuto tale nel corso dell’attuazione del rapporto sociale) è dichiarato fallito in estensione sono soltanto alcune, ossia quelle appartenenti ai tipi dichiarati nell’art. 147, 1° comma, L.F.Il silenzio della legge sulla fallibilità in estensione del socio di società per azioni o a re-sponsabilità limitata deve essere interpretato come esclusione legale della fallibilità di tali soggetti.Infatti, dalla responsabilità illimitata del membro di una organizzazione collettiva non si de-termina automaticamente la sua fallibilità, poiché essa è prevista solo per gli imprenditori commerciali (artt. 2221 c.c. e 1, 1° comma, L.F.). Eccezionalmente, è prevista, in estensio-ne, per i soggetti non forniti della prescritta qualità di imprenditore commerciale, ma solo per i soci appartenenti a determinate tipologie societarie (art. 147, 1° comma, L.F.).In altri termini, la regola posta dall’art. 147, 1° comma, L.F., che afferma la fallibilità in estensione dei soci illimitatamente responsabili, ha natura eccezionale (rispetto alla regola generale degli artt. 2221 c.c. e 1, 1° comma, L.F.) e, come tale, è insuscettibile di inter-pretazione analogica (art. 14 preleggi).

b) Soci occulti e società occulte

Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili (cd. soci occulti), il Tribuna-le ne dichiara il fallimento (art. 147, 4° comma, L.F.).Prima della riforma, l’estensione del fallimento al socio occulto era possibile solo su istanza del curatore oppure d’ufficio; dopo la rifor-ma, invece, la dichiarazione può aversi su istanza del curatore, di un creditore o di un socio fallito.

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Inoltre, “qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprendi-tore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”, è possibile, su istanza del curatore, dei creditori o del socio fallito, richiedere la dichiara-zione di fallimento della cd. società occulta (art. 147, 5° comma, L.F.), fenomeno che si realizza quando due o più persone costitui-scono una società ma si accordano per non rivelare all’esterno la sua esistenza, sicché nei confronti dei terzi essa si manifesta come un’impresa individuale.

Anche le società di fatto, ossia le società non iscritte nel registro delle imprese, sono soggette al fallimento che si estende a tutti colo-ro che vi partecipano (cd. soci di fatto).La Cassazione ha ritenuto, inoltre, l’assoggettabilità al fallimento delle società apparenti, fenomeno sostanzialmente opposto a quel-lo delle società occulte, caratterizzato dal fatto che più soggetti si comportano in modo da ingenerare nei terzi il convincimento mistifi-cato e sine culpa che essi agiscono come soci.

6 Il presupposto oggettivo del fallimento

Presupposto oggettivo della dichiarazione fallimento è lo stato d’in-solvenza del debitore, che si manifesta con inadempimenti (ad esempio, il mancato pagamento di quanto dovuto ai propri dipen-denti o ai fornitori) o altri fattori esteriori (ad esempio, la fuga o l’irreperibilità dell’imprenditore, la chiusura dei locali commerciali, la diminuzione fraudolenta dell’attivo posta in essere) i quali dimo-strino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5 L.F.).In giurisprudenza si è precisato che lo stato di insolvenza si realizza in presenza di una situazione di incapacità strutturale - e non sol-tanto transitoria - a soddisfare regolarmente e con mezzi norma-li le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività, mentre sono irrilevanti l’imputabilità o meno all’imprenditore medesimo delle cause del dissesto, la loro riferibilità a rapporti estranei all’impresa o l’effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valere nei suoi confronti (v. Cass. n. 4789/2005).

società di fatto e

apparente

stato di insolvenza

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Capitolo 2 | Il fallimento: nozione e presupposti

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Il concetto di insolvenza va tenuto distinto dal semplice inadempimento: mentre l’inadempimento consiste nella mancata esatta prestazione di ciò che è dovuto e si riferi-sce ad una singola, determinata obbligazione, l’insolvenza si riferisce a tutta la situazione patrimoniale del debitore e non sempre consiste in una mancata prestazione.A ben guardare, vi può essere insolvenza anche se l’imprenditore è ancora in grado di adem-piere alle proprie obbligazioni ma non in maniera regolare. È questo, ad esempio, il caso dell’imprenditore costretto a vendere i propri beni immobili per soddisfare le obbligazioni: infatti, pur non sussistendo, in questo caso, un vero e proprio inadempimento, risulta evi-dente la situazione di difficoltà economica in cui si trova l’impresa. Al contrario, vi può essere inadempimento senza che vi sia insolvenza, come nel caso dell’imprenditore che non paga un fornitore perché contesta la qualità dei prodotti che gli sono venduti o perché ha dimen-ticato la scadenza del termine di adempimento. In tal caso, pur essendovi inadempimento, non vi è insolvenza, per cui il creditore non può chiedere il fallimento dell’imprenditore ma solo agire individualmente per ottenere il soddisfacimento del proprio credito.Secondo la Cassazione, è irrilevante che l’attivo dell’impresa superi il passivo quando l’imprenditore, per far fronte ai propri debiti, ricorra a mezzi anormali di pagamento, così come l’eccedenza del passivo sull’attivo non è sempre indice di uno stato di decozione irreversibile, potendosi trattare solo di una temporanea difficoltà ad adempiere e non di una situazione permanente.

a) Il pactum de non petendo e gli accordi stragiudiziali (rinvio)

Non vi è insolvenza dell’imprenditore quando questi, pur attraver-sando un periodo di crisi, goda ancora della fiducia di terzi e, quindi, possa ancora ottenere crediti o dilazioni dei pagamenti: in tali casi si può far ricorso al cd. pactum de non petendo, consistente in un accor-do fra debitore e creditore con cui quest’ultimo dichiara di rinunciare provvisoriamente al soddisfacimento delle obbligazioni scadute. Tale istituto è ritenuto valido dalla prevalente giurisprudenza, in quanto rientra nella piena autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c.

Inoltre, con la riforma hanno assunto rilievo normativo gli accordi stragiudiziali tra debitore e creditori. L’art. 182bis L.F. ha intro-dotto, in tema di concordato preventivo, la figura degli accordi di ristrutturazione dei debiti, che prevede la possibilità, per il debitore, di raggiungere un accordo con i creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti - accordo da sottoporre alla successiva omologa-zione da parte del Tribunale -, evitando in tal modo il fallimento (vedi Cap. 9, par. 8).

c) Il criterio dell’indebitamento minimo.

La riforma, novellando interamente l’art. 15 L.F. (vedi Cap. succes-sivo), nel disciplinare la fase dell’istruttoria prefallimentare, prevede

accordi di ristruttura-zione

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testualmente che il fallimento non può essere dichiarato “se l’ammon-tare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro venticinquemi-la”, limite portato a “euro trentamila” dal D.Lgs. n. 169/2007.Pertanto, non si fa luogo a dichiarazione di fallimento se la com-plessiva esposizione debitoria, risultante dagli atti dell’istruttoria prefallimentare e relativa a debiti scaduti e non pagati, è inferiore a 30.000,00 euro. Tale importo è periodicamente aggiornato (ogni tre anni) con decreto del Ministro della giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le fami-glie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento.Quest’innovazione persegue la finalità di evitare l’apertura di proce-dure fallimentari nei casi in cui si possa ragionevolmente presumere che i loro costi superino i ricavi distribuibili ai creditori.La previsione in esame, peraltro, avrà come ulteriore effetto quello di uniformare le prassi già utilizzate nei vari Tribunali, secondo cui non si fa luogo alla pronuncia di fallimento nell’ipotesi in cui l’esposizione debitoria risultante dagli atti dell’istruttoria prefallimentare sia infe-riore ad un certo ammontare di volta in volta individuato. Va inoltre evidenziato che la barriera posta a contenimento dell’ec-cessiva proliferazione delle procedure fallimentari di scarso impatto economico non esclude il diritto del creditore di intraprendere l’azio-ne esecutiva individuale nei confronti del debitore-imprenditore.

PRESUPPOSTO OGGETTIVODEL FALLIMENTO

Insolvenza dell’imprenditore

Impossibilità non temporanea difar fronte alle proprie obbligazioni

L’ammontare dei debiti scaduti enon pagati deve essere superiore a 30.000

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Capitolo 2 | Il fallimento: nozione e presupposti

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sai rispondere?

1. Quali sono le finalità del fallimento?

2. Che cos’è la par condicio creditorum?

3. Quali sono i presupposti del fallimento?

4. Quali sono, ai fini del fallimento, i requisiti dimensionali previsti dal-l’art. 1 della legge fallimentare?

5. Può essere dichiarato il fallimento di un’impresa che ha cessato la pro-pria attività?

6. Quali sono le conseguenze del fallimento della società per i soci illimi-tatamente responsabili?

7. Che cosa si intende per “stato di insolvenza” e qual è la differenza fra insolvenza ed inadempimento?

8. Qual è l’ammontare-limite dei debiti scaduti e non pagati al di sotto del quale non può essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore com-merciale?