il linguaggio - laterza

34
ESPOSITO-PORRO © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI IL LINGUAGGIO T14 Edmund Husserl L’espressione significativa e la grammatica pura Ricerche logiche, vol. II, Ricerca I, §§ 1, 5-8; Ricerca IV, Introduzione e § 14 T15 Ferdinand de Saussure L’invenzione della linguistica Corso di linguistica generale, cap. 3, §§ 1-2, cap. 4 T16 Ludwig Wittgenstein I giochi linguistici Ricerche filosofiche, parte I, §§ 1-7, 11, 12, 18, 23, 27, 65-67 T17 Martin Heidegger Il linguaggio che fa essere le cose L’essenza del linguaggio, § II; Il cammino verso il linguaggio, §§ II-III T18 Hans-Georg Gadamer Il linguaggio ermeneutico Verità e metodo, parte III, §§ 1, 3/c T19 Jacques Derrida Il linguaggio come scrittura Della grammatologia, parte I, cap. 1, § 1 T20 Noam Chomsky Il linguaggio come facoltà della specie uomo Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, cap. 1 Bibliografia 3 PERCORSO TEMATICO

Upload: others

Post on 01-Dec-2021

13 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: IL LINGUAGGIO - Laterza

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

IL LINGUAGGIO

T14 Edmund Husserl • L’espressione significativa e la grammatica puraRicerche logiche, vol. II, Ricerca I, §§ 1, 5-8; Ricerca IV, Introduzione e § 14

T15 Ferdinand de Saussure • L’invenzione della linguisticaCorso di linguistica generale, cap. 3, §§ 1-2, cap. 4

T16 Ludwig Wittgenstein • I giochi linguisticiRicerche filosofiche, parte I, §§ 1-7, 11, 12, 18, 23, 27, 65-67

T17 Martin Heidegger • Il linguaggio che fa essere le coseL’essenza del linguaggio, § II; Il cammino verso il linguaggio, §§ II-III

T18 Hans-Georg Gadamer • Il linguaggio ermeneuticoVerità e metodo, parte III, §§ 1, 3/c

T19 Jacques Derrida • Il linguaggio come scritturaDella grammatologia, parte I, cap. 1, § 1

T20 Noam Chomsky • Il linguaggio come facoltà della specie uomo Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, cap. 1

Bibliografia

3PERCORSOTEMATICO

Page 2: IL LINGUAGGIO - Laterza

due estremi dell’analisi novecentesca sullinguaggio sono stati, da un lato, la ricercadi una struttura pura della lingua o di una

grammatica generale e universale che costituissel’impianto a priori di ogni lingua particolare, edall’altro, la risoluzione delle strutture linguisti-che nell’uso (il più delle volte inteso come usoquotidiano, non controllato teoricamente) che iparlanti fanno della loro lingua, per trovare inesso codici standard, ma anche imprecisioni ederrori. Per un verso, dunque, il linguaggio è vistocome il motore che fa funzionare la nostra cono-scenza e con essa il nostro rapporto con il mondo,sempre mediato dai significati che noi diamo oscopriamo delle cose; per un altro verso, è statointeso anche come la sede e la chiave di tutte lepatologie della nostra conoscenza e di tutte lescorrettezze, le illusioni e le menzogne in cuispesso cadiamo nella nostra esperienza quotidia-na e nei rapporti di cui essa è intessuta con per-sone, cose e situazioni. Una terza direzione del-l’indagine contemporanea sul linguaggio metteinsieme in una certa maniera alcuni elementi tipi-ci delle prime due – come il carattere universaledel linguaggio che precede e fonda le determina-zioni empiriche delle lingue storiche e il fatto che

nel linguaggio si annidano per lo più le oscurità ole mancanze del nostro essere al mondo – e lointerpreta in senso “metafisico” o “ermeneutico”,come il luogo in cui si manifesta la verità ontolo-gica delle cose o, viceversa, come il destino in cuisi consuma e tramonta il significato tradizionaledell’essere e dell’uomo.

Il Novecento si apre con uno dei maggiori tenta-tivi di integrare la questione del linguaggio nel-l’ambito della logica filosofica, un tentativo checon Edmund Husserl (1859-1938) [u T14] intra-prende una nuova via chiamata “fenomenologia”.I problemi linguistici affondano le loro radici nellastruttura di quegli atti intenzionali specifici chesono le “espressioni”, vale a dire quei discorsi oparti di discorsi in cui si intenziona un significato.A differenza dei segni, che si limitano a indicare ilproprio oggetto, le espressioni si caratterizzanocome portatrici di un significato: non basta cheesse designino qualcosa, ma è necessario cheincludano l’intenzione di «pronunciarsi su qualco-sa». Con ciò non si deve però intendere chel’espressione sia esclusivamente una comunica-zione. Il senso o significato appartiene all’espres-sione anche a prescindere dalla sua funzionecomunicativa: esso infatti le appartiene non sol-

I

3

Il linguaggio

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

Page 3: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

tanto quando, secondo una modalità dialogica, sitratta di comunicare qualcosa a qualcuno, maanche quando essa si produce nel contesto di undiscorso monologico. La comunicazione, così,configura per Husserl un essenziale complemen-to della significatività propria dell’espressione,ma in ogni caso non ne definisce l’essenza.L’espressione, quale essenza della linguisticità, sidefinisce in tal modo a prescindere sia dalla sem-plice funzione informativo-indicativa del segnale,sia a prescindere dalla funzione comunicativadella parola o del discorso (entrambi legati ainostri atti psichici): il suo ambito specifico è nellalegalità a priori delle formazioni di significato. Illinguaggio ha a che fare con le leggi logiche apriori più che con le dinamiche psicologiche oempiriche della nostra comunicazione, la qualisemmai si fondano su quelle leggi. Per questo lostudio del significato portato di volta in volta daun’espressione non può che costituire una “gram-matica” pura, cioè a priori e universale, che defi-nisca le leggi formali del significato, e quindi èdetta anche una «morfologia pura dei significati».

Agli inizi del Novecento, con Ferdinand deSaussure (1857-1913) [u T15], risale anche lanascita di quella scienza particolare che prende ilnome di “linguistica”. Nel Corso di linguisticagenerale, redatto dagli allievi dello studioso sviz-zero sulla base degli appunti delle sue lezioni,Saussure sostiene che questa scienza non ha peroggetto il linguaggio, inteso in generale comefacoltà dell’espressione, bensì la lingua, che egliintende invece come un sistema socialmentedeterminato, di cui gli individui si servono comedi un codice convenzionale per parlare e comuni-care tra loro. La lingua, dunque, è solo una partedel linguaggio, ma si tratta di una parte essenzia-le, quella che ne è alla base della fruizione indivi-duale. Accanto a questa prima distinzione (tra lin-guaggio e lingua), Saussure ne pone una secon-da, non meno importante, e cioè quella che sussi-ste tra lingua (langue) e parola (parole). Mentre lalingua è un sistema convenzionale, che l’indivi-duo recepisce in qualche modo (ma non del tutto)passivamente e senza potervi innestare nulla dicreativo, la parola è invece la modalità propria,soggettiva e creativa con cui l’individuo si servedel codice-lingua al fine di esercitare in proprio lafacoltà del linguaggio.

In Saussure l’istanza di una codificazione forma-le del linguaggio va di pari passo con la sua conce-zione della lingua come una costruzione storica e

sociale. Queste due istanze ritorneranno – sebbe-ne divaricate tra di loro – nelle riflessioni proposteda Ludwig Wittgenstein (1889-1951) [u T16], lequali hanno costituito un punto di riferimentoessenziale per tutta la tradizione successiva dellafilosofia analitica. Wittgenstein muove dal propo-sito di smascherare la natura illusoria dei proble-mi filosofici tradizionali, mostrando come essi nonnascano che da un cattivo uso del linguaggio ordi-nario. La sua concezione della filosofia come atti-vità di chiarificazione del linguaggio, tuttavia,muta sensibilmente nel passaggio dal Tractatuslogico-philosophicus (1921-22) alle Ricerche filo-sofiche (postume), le sue due opere più note.

In una prima fase del suo pensiero – quella chesi raccoglie attorno al Tractatus – Wittgenstein siera impegnato a definire, per mezzo della logica,i confini del linguaggio significante, vale a dire diciò che si può conoscere con certezza. A suomodo di vedere, tra linguaggio e mondo vigeun’identità di forma logica, e il primo altro non èche una raffigurazione del secondo. In tal modo sirealizza una perfetta corrispondenza tra totalitàdei fatti e totalità delle proposizioni, tra stati dicose (fatti) e proposizioni, tra cose e nomi. Sututto ciò che eccede un tale isomorfismo, invece,«si deve tacere». Nelle Ricerche filosofiche la stra-tegia di Wittgenstein cambia. Egli infatti rinunciaall’idea che il rapporto tra linguaggio e mondo siastabilito una volta per tutte e, di conseguenza,anche a definire le condizioni di un linguaggiologicamente perfetto, occupandosi piuttosto didescrivere quelle che sono le sue concrete funzio-ni d’uso. Il linguaggio viene ora concepito comeun insieme di “giochi linguistici”, molteplici ediversificati a seconda degli scopi ai quali sonodestinati. Il significato delle parole e delle propo-sizioni, pertanto, non è più disciplinato in modorigoroso e unitario, bensì determinato dalle rego-le di funzionamento dello stesso gioco linguisticoche le comprende, e cioè dal «pezzo di vita» cuiogni gioco sempre si riferisce. In questa manierala filosofia deve operare il superamento dellepatologie del linguaggio (consistenti soprattuttonel fraintendere i problemi linguistici come pro-blemi metafisici, cioè ipostatizzandoli come“essenze” e sottraendoli alle diverse pratiche divita da cui nascono e in cui funzionano) e altempo stesso deve trasformare il linguaggio(riportato alla sua natura di “gioco”) in una vera epropria terapia rispetto all’insensatezza, che è lapiù diffusa delle malattie della nostra mente.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

757

Page 4: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

758

Se l’indagine novecentesca sul linguaggio è lastoria della lenta e progressiva messa in luce delsuo ruolo costitutivo (e non solo strumentale), ilpensiero di Martin Heidegger (1889-1976) [u T17]costituisce un momento topico di questa storia.In Heidegger, più ancora che nei suoi predecesso-ri, è infatti evidente la tendenza a sottrarre il lin-guaggio all’interpretazione che lo ridurrebbe asemplice strumento semantico dell’espressione,per attribuirgli invece il ruolo, ben più determi-nante, di modalità originaria della comprensionedell’essere. Già in Essere e tempo (1927) egliaveva considerato il linguaggio come l’articola-zione e l’espressione di quella fondamentalestruttura ontologica dell’uomo (esserci) che è ilcomprendere. L’esserci è quell’ente che «ha il lin-guaggio» [Essere e tempo, § 34] e quest’ultimo vainteso a partire dal “discorso” dell’esserci, quindicome un genuino modo di essere dell’esistenzaumana. Ma dopo la cosiddetta “svolta”, a partiredagli anni Trenta, per Heidegger è piuttosto l’es-sere stesso ad “avere” il linguaggio. Que -st’ultimo, infatti, si presenta sempre più, per ilfilosofo tedesco, come l’origine stessa dellamanifestazione dell’essere dell’ente, e anche delsuo nascondimento e della sua ritrazione rispettoall’ente. Secondo la formula enigmatica spessousata da Heidegger, è il linguaggio stesso (noninnanzitutto l’uomo) che parla, ed in esso l’uomoè chiamato ad ascoltare un “Dire” originario che èirriducibile a tutti i nostri “discorsi” e che in defi-nitiva coincide con il darsi o il manifestarsi del-l’essere nella sua radicale differenza ontologica.Per questo, secondo Heidegger, bisogna mettersiin ascolto dei poeti, giacché è nelle loro paroleche quel “dire” risuona e ci appella, dando pro-priamente l’essere a ciò che nomina. La parola delpoeta, infatti, non esprime né denota qualcosa digià presente e costituito al di fuori del linguaggio,ma istituisce l’essere di ciò che nomina, al tempostesso preservando la sua verità rispetto allemille parole con cui gli uomini normalmente lacoprono e la contraffanno.

Riprendendo e sviluppando alcune tesi heidegge-riane, Hans-Georg Gadamer (1900-2002) [u T18]radicalizza e enfatizza a sua volta la funzionecostitutiva del linguaggio per la nostra esperien-za del mondo, e, in definitiva, il carattere essen-zialmente linguistico di noi stessi e insieme delmondo. Il linguaggio costituisce il medium attra-verso il quale e all’interno del quale si tesse laverità degli uomini, delle culture, della storia

stessa, come un continuo dialogo tra il singolouomo e la sua tradizione, tra una tradizione parti-colare e una tradizione straniera, tra il lettore ed iltesto, infine tra i testi o i fatti della cultura e lavita. Se la verità dell’io e del mondo si dà in formalinguistica, allora l’ontologia non può che darsicome un’ermeneutica, incessante autocompren-sione di sé attraverso l’interpretazione dell’altro,e comprensione dell’altro attraverso la scopertache il suo orizzonte di senso può compenetrarsi –nonostante tutte le differenze e le distanze ditempo e di storia che lo separano da me – con ilmio. Il linguaggio è ciò che dunque permetteun’autentica esperienza ermeneutica della veritàcome traducibilità dei diversi in un orizzonte uni-tario, senza che l’unità annulli le differenze.

La possibilità stessa dell’interpretazione, intesada Gadamer come la possibilità di esplicitare ilnon-detto e come un ideale prolungamento nella“storia degli effetti”, sta tutta in questo dialogoideale tra l’interprete e l’interpretato, quest’ulti-mo essendo inteso sia come testo, sia, più ingenerale, come tradizione. La relazione ermeneu-tica, infatti, non vale solo sul piano storico, lette-rario o artistico, ma investe lo stesso essere-nel-mondo dell’uomo. In quanto oggetto della nostraesperienza, il mondo non è qualcosa di dato,qualcosa che precede il linguaggio; è esso stessoun’esperienza che si manifesta e si declina in ter-mini linguistici, che appare e si costituisce grazieal linguaggio. Ma anche l’io comprendente, o ilsoggetto dell’interpretazione è tessuto, cioè fattodal linguaggio, che dunque non andrà intesocome un mero prodotto soggettivo, ma come ildestino stesso del soggetto (sebbene nel caso diGadamer tale destino più che con la metafisica,come in Heidegger, abbia a che fare con la cultu-ra e la comunicazione tra gli uomini).

Questo avvertimento del carattere epocale odestinale del linguaggio torna – sebbene in tutt’al-tra prospettiva rispetto a quella di Gadamer – nelpensiero di Jacques Derrida (1930-2004) [u T19].L’analisi condotta da Derrida muove dalla consta-tazione che l’intera filosofia occidentale, ossiatutta la storia della metafisica – «dai presocraticiad Heidegger», pur attraverso tutte le differenze –ha assegnato l’origine della verità al lògos, e perdi più ha attribuito al “linguaggio parlato” (phonè)un ingiustificato privilegio rispetto alla “parolascritta” (grammè). Secondo Derrida, infatti, la tesiche caratterizza essenzialmente l’intero pensierooccidentale è che il linguaggio parlato, a differen-

Page 5: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

759

za della scrittura (grammè), implica una relazioneimmediata tra significante e significato e una pre-senza immediata del locutore (colui che parla oemette un enunciato) nel discorso. In questa tesi,per Derrida, si riassume l’essenza fono-logocentri-ca del pensiero occidentale e la sua declinazionecome metafisica della presenza: da un lato, infatti,riconducendo il privilegio del linguaggio parlatoalla presenza del locutore e all’immediatezza dellasignificazione, non si fa altro che ridurre o piegareil linguaggio al paradigma della presenza (dell’au-tore nel discorso e delle cose nella relazionesemantica); dall’altro lato, individuando nella pre-senza, così declinata, l’essenza del linguaggio, sifinisce per pensare la scrittura non come un’alter-nativa alla phonè (e al fono-logocentrismo), macome un suo surrogato o come una forma depo-tenziata dell’oralità.

Derrida propone invece di individuare proprionella scrittura (grammè) e nella scienza che se neoccupa (la grammatologia) un’alternativa al fono-logocentrismo: la scrittura, sottraendosi al para-digma della presenza, apre infatti, a suo modo divedere, uno spazio in cui il testo, ormai orfano, vivedi vita propria ed assume uno statuto autonomo.Non più subordinata alla phonè, la scrittura divie-ne, per Derrida, il luogo del linguaggio.

Il fatto che il linguaggio sia sempre in qualchemodo “scritto” o “inscritto” nell’esperienza del-l’uomo, prima e oltre la sua capacità fonetica, èuna convinzione che possiamo ritrovare in un auto-re decisivo per la filosofia contemporanea del lin-guaggio quale è Noam Chomsky (1928) [u T20].Ma l’inscrizione di cui si tratta in questo caso nonriguarda testi o testimonianze alfabetiche, bensìla struttura primordiale che è presente nellamente di tutti gli uomini – quindi qualcosa cheappartiene costitutivamente alle funzioni cogniti-ve proprie della “natura umana” – dalla quale sioriginano, attraverso l’impatto con le varie condi-zioni del mondo esterno, tutte le forme e i com-portamenti linguistici che sostengono le diverselingue storiche.

Come si spiegherebbe infatti che, pur in presen-za di un gran numero di lingue nel mondo, si pos-sono tuttavia individuare tra di esse precise ana-logie a livello grammaticale? E non è forse vero,come ci mostra la stessa esperienza, che i bambi-ni imparano con grande facilità e velocità strut -ture grammaticali estremamente complesse?Inoltre, com’è che noi siamo capaci di formulareun numero di espressioni infinitamente più gran-de di quelle che abbiamo ascoltato da altri? Larisposta di Chomsky a questi interrogativi è unasola: il linguaggio non è solo qualcosa che noiapprendiamo e che dunque deriva dai nostri com-portamenti e dalle condizioni esterne, ma èinnanzitutto qualcosa di “innato” in noi. La“facoltà del linguaggio” è dunque una strutturadella mente umana: una scoperta, questa, con laquale Chomsky imprimeva alla ben nota “svoltalinguistica” in filosofia (attuatasi soprattuttonella tradizione analitica a partire da Frege,Russell e Wittgenstein) un’ulteriore “svolta cogni-tiva”, legando in tal modo strettamente la filoso-fia del linguaggio con la filosofia della mente.

Tutto ciò ha avuto due conseguenze di granderilievo. La prima è consistita nell’elaborazione diuna “grammatica universale”, da cui discendonole diverse “grammatiche generative” delle lingueparticolari, la cui struttura e le cui funzioni vengo-no individuate attraverso modelli di calcolo mate-matico. Ma la seconda conseguenza – quellaforse ancora più importante a livello filosofico – èche si è riaffacciata nel dibattito culturale e scien-tifico l’idea (che sembrava ormai abbandonata) diuna “natura umana”, sebbene non in sensoessenzialistico o metafisico, ma in senso mentali-stico e funzionalistico. Sta di fatto, però, che pro-prio il linguaggio permette, secondo Chomsky diconsiderare l’uomo come un punto di assolutanovità e discontinuità rispetto a tutte le altre spe-cie. Egli, come del resto avevano visto già i filoso-fi greci, è quell’animale dotato di “linguaggio”(lògos) che lo contraddistingue come unicorispetto a tutto il resto della natura.

Page 6: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

760

Tra il 1900 e il 1901 Edmund Husserl pubblica in due volumi le Ricerche logiche. La prima ricerca, intitolata Espressione e significato, è esplicitamente dedicata al linguaggio, e più inparticolare parte dalla distinzione fondamentale tra i segni intesi come meri segnali, o indicazioni, e le espressioni, intese come segni dotati di unafunzione significante, per procedere poi, su questa

base, alla descrizione del rapporto che di volta in volta sussiste tra il fenomeno fisico (fonetico)dell’espressione, gli atti che conferiscono il sensoalle espressioni (o “atti significanti”), i quali si riferiscono a qualcosa di vissuto dalla coscienza,e infine gli “atti di riempimento”, i qualiconfermano, rafforzano o illustrano il riferimento di un’espressione ad un oggetto.

T14

Segno, espressione, significatoI termini espressione e segno vengono non di rado trattati come se avessero lo stesso senso.Ma non è superfluo notare che non sempre, nel linguaggio comune, essi si identificano. Ognisegno è segno di qualche cosa, ma non ogni segno ha un “significato”, un “senso” che in esso“si esprime”.

In molti casi non si può neppure dire che il segno “designa” ciò di cui esso viene dettosegno. Ed anche quando è lecito dire ciò, bisogna notare che il designare non sempre equiva-le a quel “significare” che caratterizza le espressioni. Voglio dire che i segni nel senso di segna-li (segni di riconoscimento, segni distintivi, ecc.) non esprimono nulla, a meno che, oltre allafunzione dell’indicare, non assolvano anche una funzione significante. Se, come siamo solitifare quando parliamo di espressioni, ci limitiamo inizialmente a quelle espressioni che fun-gono nel dialogo vivente, il concetto di segnale pare avere, rispetto al concetto di espressio-ne, un’estensione più ampia. Non per questo esso è genere in rapporto al contenuto. Il signi-ficare non è una specie dell’essere segno, intendendo il segno come indicazione. La sua estensio-ne è più ristretta per il solo fatto che il significare – nel discorso comunicativo – si trova sem-pre intrecciato in un certo rapporto con quell’essere-segnale, e quest’ultimo a sua volta sitrova alla base di un concetto più ampio per il fatto che può apparire anche senza questointreccio. Ma le espressioni svolgono la loro funzione significante anche nella vita psichica iso-lata dove non fungono più come segnali.

[…]Per intenderci, affermiamo per il momento che ogni discorso ed ogni parte del discorso,

così come qualsiasi altro segno essenzialmente dello stesso genere è un’espressione, senzaporre il problema se il discorso sia realmente pronunciato, e quindi diretto ad una personaqualsiasi con l’intento di comunicare, oppure no.

[…]In rapporto ad ogni espressione si è soliti distinguere due aspetti: 1. l’espressione conside-

rata nel suo aspetto fisico (il segno sensibile, il complesso fonetico articolato, il segno scrittosulla carta, ecc.); 2. un certo complesso di vissuti psichici che, collegati associativamenteall’espressione, la rendono espressione di qualche cosa. Per lo più questi vissuti psichici ven-gono caratterizzati come senso o significato dell’espressione, intendendo appunto cogliere conquesta caratterizzazione ciò che questi termini vogliono dire nel linguaggio normale.Vedremo tuttavia che questa concezione è scorretta e che, specialmente ai fini della logica,non basta distinguere tra segni fisici e vissuti che conferiscono il senso.

Tutto ciò è già stato da tempo notato soprattutto in rapporto ai nomi. Per ogni nome sidistingue tra ciò che esso “rende noto” e ciò che significa. E inoltre, tra ciò che esso signifi-ca (il senso, il “contenuto” della rappresentazione nominale) e ciò che esso denomina (l’og-getto della rappresentazione). Noi troveremo necessariamente distinzioni analoghe per tuttele espressioni e dovremo indagare accuratamente la loro essenza. Per questo noi separiamo il

5

10

15

20

25

30

35

Edmund Husserl L’espressione significativa e la grammatica pura Ricerche logiche, vol. II, Ricerca I, §§ 1, 5-8; Ricerca IV, Introduzione e § 14

Page 7: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

concetto di “espressione” da quello di “segnale”, separazione che non si trova in contrastocon il fatto che le espressioni possono anche fungere nel discorso vivente da segnali, comespiegheremo tra poco. In seguito si aggiungeranno ulteriori distinzioni di notevole importan-za, concernenti i rapporti possibili tra il significato e l’intuizione che ha funzione illustrativaed eventualmente evidenziante. Solo riconsiderando questi rapporti è possibile compiere unaprecisa delimitazione del concetto di significato ed operare di conseguenza la fondamentalecontrapposizione tra la funzione simbolica di significati e la loro funzione conoscitiva.

Le espressioni nella loro funzione comunicativaPer ricavare le distinzioni essenziali, dal punto di vista logico, consideriamo l’espressioneanzitutto nella sua funzione comunicativa, che essa è destinata originariamente ad assolvere.La complessione fonetica articolata (il segno scritto, ecc.) si trasforma in parola parlata, indiscorso comunicativo in generale per il solo fatto che colui che parla la produce con l’inten-to di “pronunciarsi su qualche cosa”, cioè conferisce ad essa, in certi atti psichici, un senso cheintende comunicare all’ascoltatore. Questa comunicazione diventa tuttavia possibile perchél’ascoltatore comprende anche l’intenzione di colui che parla. Ed egli può far questo in quan-to coglie colui che parla come una persona che non produce meri suoni, ma che gli rivolge laparola, e che quindi, insieme ai suoni, compie anche certi atti di conferimento di senso: eglivuole rendergli noti questi atti o comunicargli il loro senso. Ciò che rende anzitutto possibi-le la frequenza spirituale e che fa sì che il discorso che stabilisce un collegamento sia discor-so, risiede in questa correlazione, mediata dagli aspetti fisici del discorso, tra i vissuti fisici epsichici, reciprocamente inerenti, delle persone che si frequentano. Vi è una coordinazionereciproca tra il parlare e l’ascoltare, tra l’informare su certi vissuti psichici nel parlare e l’as-sumere questa informazione nell’ascolto.

Se si considera questo nesso nel suo insieme, si riconosce immediatamente che, nel discor-so comunicativo, tutte le espressioni fungono da segnali. All’ascoltatore essi servono comesegni dei “pensieri” di chi parla, cioè dei suoi vissuti psichici significanti, così come degli altrivissuti psichici che sono contenuti nell’intenzione comunicativa. Noi chiamiamo questa fun-zione delle espressioni linguistiche funzione informativa. I vissuti psichici resi noti formano ilcontenuto dell’informazione. Possiamo intendere questo essere reso noto in un senso piùristretto ed in uno più ampio. Nel senso più ristretto, ci limitiamo agli atti di conferimento disenso, mentre nell’accezione più estesa comprendiamo tutti gli atti di colui che parla, atti chel’ascoltatore gli attribuisce sulla base del suo discorso (eventualmente perché in questo siparla di essi). Se per esempio ci pronunciamo su un desiderio, in senso stretto è reso noto ilgiudizio sul desiderio; in senso lato, invece il desiderio stesso. Lo stesso si dica nel caso di uncomune enunciato percettivo, il quale verrà senz’altro colto dall’ascoltatore come appartenen-te ad una percezione attuale. Qui è reso noto nel senso più ampio l’atto percettivo, nel sensopiù ristretto il giudizio su di esso fondato. Notiamo subito che il linguaggio corrente consen-te di indicare i vissuti resi noti anche come vissuti espressi.

La comprensione dell’informazione non è una conoscenza concettuale di essa, un giudica-re dello stesso genere dell’enunciare; essa con siste piuttosto soltanto nel fatto che l’ascoltatorecoglie intuitivamente (appercepisce) o, come potremmo dire senz’altro, percepisce colui cheparla come una persona che esprime qualcosa. Quando io presto ascolto a qualcuno, lo perce-pisco appunto come persona che parla, la odo rac contare, dimostrare, dubitare, desiderare,ecc. L’ascoltatore percepisce l’informazione nello stesso senso nel quale egli percepisce la stes-sa persona che la fornisce – benché i fenomeni psichici che fanno di essa una persona, in ciòche essi sono, non possano cadere nell’intuizione di un altro. Il linguaggio comune ci attribui-sce anche una percezione dei vissuti psichici di persone estranee, noi “vediamo” il loro sde-gno, dolore, ecc. Questo modo di esprimersi è del tutto corretto se, per esempio, si ammetteche si percepiscano anche le cose corporee esterne e, in generale, se non si limita il concettodi percezione a quello della percezione adeguata, dell’intuizione nel senso più rigoroso del ter-

40

5

10

15

20

25

30

35

40

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

761

Page 8: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

mine. Se il carattere essenziale della percezione consiste nel fatto che si presume, nell’intuizio-ne, di cogliere una cosa o un evento come presente in sé stesso – ed una simile presunzione èpossibile, anzi sussiste nella stragrande maggioranza dei casi, senza alcuna esplicita formula-zione concettuale – la ricezione dell’informazione sarà allora nient’altro che la percezione del-l’informazione stessa. Naturalmente vi è qui la differenza essenziale alla quale si è già fattocenno. L’ascoltatore percepisce che chi parla manifesta certi vissuti psichici, e in questa misu-ra percepisce anche questi vissuti, ma egli non li “vive”, non ha di essi una percezione “inter-na”, ma “esterna”. Si tratta della grande distinzione tra l’apprensione effettiva di un essere inun’intuizione ade guata e l’apprensione presuntiva di un essere in una rappresentazione intui-tiva, ma inadeguata. Nel primo caso abbiamo un essere “vissuto”, nel secondo un essere mera-mente supposto, al quale non corrisponde alcuna verità. La comprensione reciproca richiedeappunto una certa correlazione degli atti psichici che si esplicano da entrambe le parti, nell’in-formazione e nella sua ricezione, ma non la loro completa uguaglianza.

45

50

55

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

762

Particolarmente interessante è l’analisi husserlianadell’espressione al di fuori di un contestocomunicativo o informativo, quale si realizzanormalmente tra almeno due persone che parlanotra loro. Nel caso in cui io, per così dire, “parli” con me stesso, non comunico né informo qualcunaltro dei miei atti psichici, ma l’espressione emerge

in quanto tale, con il suo carattere di purasignificazione. Il che sta a dire che il significatoespresso linguisticamente in un discorso – dialogico o fonologico che sia – non si fondasull’esistenza di atti psichici, ma bensì su atti significativi di tipo logico.

Le espressioni nella vita psichica isolataFinora abbiamo considerato le espressioni nella loro funzione comunicativa. Essa si fondaessenzialmente sul fatto che le espressioni operano qui come segnali. Ma un ruolo notevoleè assegnato alle espressioni anche nel caso della vita psichica che non entra in rapportocomunicativo. È chiaro che questa modificazione di funzione lascia intatto ciò che fa sì chele espressioni siano tali. Come in precedenza, esse hanno i loro significati – gli stessi chedetengono nel discorso dialogico. La parola cessa di essere parola solo quando il nostro inte-resse si rivolge esclusivamente al sensibile, alla parola come mera formazione fonetica. Ma nelmomento in cui viviamo nella sua comprensione, essa esprime ed esprime la stessa cosa, siache ci si rivolga a qualcuno o no.

Appare dunque chiaro che il significato dell’espressione, ed anche tutto ciò che gli appar-tiene per essenza, non può identificarsi con la sua funzione informativa. O forse con l’espres-sione rendiamo noto qualcosa anche nella vita psichica isolata con la sola differenza che inquesto caso non ci rivolgiamo a nessuno? Dovremmo forse dire che colui che parla da soloparla a sé stesso ed anche a lui le parole servono come segni, cioè come segnali dei propri vis-suti psichici? Non credo che una simile concezione sia sostenibile. È vero che qui, come sem-pre, le parole fungono da segni; e noi possiamo sempre parlare di un rinviare. Se riflettiamosul rapporto intercorrente tra espressione e significato e se a tal fine scomponiamo il vissuto,pur complesso ma anche internamente unitario, dell’espressione riempita di senso, nelle suedue componenti di “parola” e “senso”, la parola stessa ci appare allora in sé indifferente, ilsenso invece come ciò che si “ha di mira” con la parola, ciò che si intende per mezzo di que-sto segno; sembra così che l’espressione distolga da sé l’interesse per orientarlo sul significa-to, per rinviare ad esso. Ma questo rinvio non è un’indicazione nell’accezione da noi discus-sa. L’esistenza del segno non motiva l’esistenza, o più esattamente, la nostra convinzione del-l’esistenza del significato. Ciò che deve servirci come segnale (segno distintivo) deve essereda noi percepito come esistente. Questo è vero per le espressioni nel discorso comunicativo,ma non per le espressioni nel discorso isolato. Di solito anzi ci accontentiamo qui di parolerappresentate, al posto di quelle reali. Nella fantasia ci sta di fronte una parola-segno pronun-ciata o stampata – una parola che in realtà non esiste. Noi non confonderemo tuttavia le rap-

5

10

15

20

25

Page 9: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

presentazioni della fantasia o addirittura i contenuti fantastici che stanno alla loro base congli oggetti fantasticati. Esiste non il suono fantasticato della parola, o i caratteri di stampa fan-tasticati, ma la loro rappresentazione nella fantasia. La differenza è la stessa che intercorre trai centauri fantasticati e la loro rappresentazione nella fantasia. L’inesistenza della parola nonci disturba. E inoltre non ci interessa. Infatti essa non ha alcun rilievo in rapporto alla fun-zione dell’espressione come espressione. Là dove assume rilievo, alla funzione significante sicollega appunto quella informativa: in tal caso il pensiero non sarà espresso soltanto comesignificato, ma sarà anche comunicato per mezzo dell’informazione; cosa che naturalmente èpossibile solo nel parlare e nell’ascoltare reale.

In certo senso si parla indubbiamente anche nel discorso isolato, ed è certo possibile in que-sto caso intendere sé stessi come persone che parlano ed eventualmente anche che parlano a séstesse, così come quando, rivolgendoci a noi stessi, diciamo: “Hai fatto male, non puoi conti-nuare a comportarti così”. Ma in senso proprio, in senso comunicativo, in questi casi non siparla, non ci si comunica nulla, non si fa altro che rappresentare sé stessi come persone che par-lano e che comunicano. Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi funzio-ne di segnali dell’esistenza di atti psichici, perché questa indicazione sarebbe del tutto priva discopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante.

1. Si chiamano “sincategorematici”quegli elementi del linguaggio (co-me le preposizioni, le congiunzioni,i pronomi, ecc.) che non hanno si-gnificato di per sé, ma l’acquistanosolo in unione o in rapporto con al-tri elementi. Si definiscono invece“categorematici” quegli elementiche risultano significanti di per sé(come per esempio il soggetto o ilpredicato).2. Uno degli esempi che Husserl fa-

rà nel prosieguo del suo discorso èquello riguardante il carattere di le-galità a priori della complessionedei significati, e cioè la combinazio-ne di significati singoli attraversoforme connettive anch’esse a prio-ri. Se io dico questo albero è verde,ottengo una “proposizione logicaindipendente”, rispondente allaforma preposizionale S è P (sogget-to è predicato). Ma se sostituisco lamateria nominale in questione e af-

fermo questo numero algebrico èverde o questo corvo blu è verde,ottengo sì una proposizione logicaindipendente (secondo la forma S èp), ma perdo l’unità di senso, laquale sottostà alla norma per cui lamateria di significato di una cate-goria (una materia nominale o ag-gettivale o relazionale, ecc.) puòessere sostituita solo da una mate-ria della stessa categoria.

30

35

40

45

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

763

Nasce di qui l’esigenza di formulare una“grammatica” filosofica – cioè puramente logica o razionale – che fornisce i criteri a priori con cuipossono formularsi tutte le grammatiche empirichedelle lingue storiche. È quanto Husserl proponenella quarta ricerca logica, intitolata: La differenzatra significati indipendenti e non-indipendenti e l’idea di una grammatica pura. In essa egli si

distanzia dalla tradizione della filosofia dellinguaggio romantica (come quella di vonHumboldt) che intendeva spiegare il linguaggiocome formazione culturale e spirituale di unpopolo, e si riallaccia idealmente alle “grammatichespeculative” della Scolastica medievale e all’idea di una “grammatica generale e ragionata” giàavanzata nel Seicento dai logici di Port-Royal.

Una grammatica a prioriNelle considerazioni che seguono rivolgeremo la nostra attenzione ad una fondamentale dif-ferenza nel campo dei significati che si cela dietro inappariscenti distinzioni grammaticali: ladifferenza tra espressioni categorematiche e sincategorematiche1, tra espressioni concluse edinconcluse […] come differenza tra significati indipendenti e non-indipendenti. Essa formail fondamento necessario per l’accertamento delle categorie essenziali del significato nellequali, come mostreremo fra poco, si radica una molteplicità di leggi a priori del significato, chefanno astrazione dalla validità obbiettiva (dalla verità reale o formale, ovvero dall’oggettualità)dei significati. Queste leggi, che dominano nella sfera delle complessioni di significato e chehanno la funzione di separare il senso dal nonsenso, non sono ancora le cosiddette leggi logi-che in senso pregnante; esse danno alla logica pura le forme possibili di significato, cioè leforme a priori di significati complessi, unitariamente significativi, la cui verità “formale” o“oggettualità” è poi regolata dalle “leggi logiche” in senso pregnante2. Mentre le prime pre-

5

10

Page 10: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

vengono il nonsenso, le seconde prevengono il controsenso formale o analitico, l’assurdità for-male. Mentre queste leggi puramente logiche dicono che cosa sia richiesto a priori e sulla basedella forma pura dell’unità possibile dell’oggetto, le leggi della complessione di significato deter-minano che cosa sia richiesto dalla mera unità del senso, cioè secondo quali forme a priorisignificati appartenenti a diverse categorie di significati si unifichino in un unico significato,invece di produrre un nonsenso caotico.

La grammatica moderna ritiene che ci si debba fondare esclusivamente sulla psicologia esulle altre scienze empiriche. Di contro, si forma per noi la convinzione che la vecchia ideadi una grammatica generale, e specialmente quella di una grammatica a priori, riceva dallanostra esibizione di leggi a priori, che determinano le possibili forme di significato, un fon-damento indubbio ed in ogni caso una sfera nettamente delimitata di validità. […] All’internodella logica pura vi è una sfera di leggi che fanno astrazione da qualsiasi oggettualità – leggiche possono essere indicate, con buoni motivi, per distinguerle dalle leggi logiche in sensousuale e pregnante, come leggi logico-grammaticali pure. O meglio: alla morfologia pura deisignificati noi contrapponiamo la teoria pura della validità dei significati, che la presuppone.

[…]In conclusione possiamo dire: all’interno della logica pura si distingue, come una sfera

fondamentale e in sé stessa prima, la morfologia pura dei significati. Considerata dal puntodi vista della grammatica, essa mette a nudo una impalcatura ideale che ogni lingua fattualeriempie e riveste in modi diversi con materiale empirico, secondo motivazioni empiriche, inparte di carattere universalmente umano, in parte variabili in modo accidentale. Per quantoessa venga così determinata dal contenuto fattuale delle lingue storiche, nonché dalle loroforme grammaticali, ogni lingua è tuttavia legata a questa impalcatura ideale; e perciò la suaindagine teoretica deve costituire uno dei fondamenti per l’ultima chiarificazione scientificadi ogni lingua in generale. […] Ed ènecessario avere di fronte agli occhiquesta “impalcatura” per poter chiederesensatamente: come esprime il tedesco,il latino, il cinese, ecc., “la” proposizio-ne esistenziale, “la” proposizione cate-gorica, “la” antecedente dell’ipotetica,“il” plurale, “le” modalità di “possibile”e “probabile”, il “non”, ecc.?

15

20

25

30

35

40

45

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

764

guida

alla

lettu

ra1. Che differenza vi è tra il segno come segnale e il segno co-me espressione?

2. Che cosa distingue e che cosa invece accomuna l’espressio-ne del discorso comunicativo e l’espressione del monologo?

3. A che cosa si riferiscono le leggi a priori del significato ri-spetto alle leggi della logica formale?

4. Che funzione ha una grammatica pura rispetto alle linguestoriche?

Il Corso di linguistica generale (postumo, 1916)di Ferdinand de Saussure costituisce un vero eproprio spartiacque nel contesto della riflessionecontemporanea sul linguaggio. Esso sancisce infattila nascita della moderna linguistica, il momentoteorico in cui lo studio della lingua – intesaprecisamente come un fatto sociale, vale a dire un codice convenzionale che permette agli uominidi parlare – viene per la prima volta a configurarsicome scienza. Pur non presentandosi a priori come

un contributo filosofico allo studio del linguaggio, il Corso di linguistica generale ha conosciuto unavasta eco non soltanto nell’ambito della ricercalinguistica in senso stretto, ma anche in ambitofilosofico, ed è divenuto un punto di riferimentoobbligato per quegli approcci alla natura dellinguaggio, della comunicazione e della cultura che si definiscono di tipo “strutturale”(o più determinatamente “strutturalista”). Se infatti la lingua, rispetto alla più generale facoltà

T15 Ferdinand de Saussure L’invenzione della linguisticaCorso di linguistica generale, cap. 3, §§ 1-2, cap. 4

Page 11: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

Il linguaggio e la linguaQuale è l’oggetto a un tempo integrale e concreto della linguistica? La questione, come vedre-mo più oltre, è particolarmente difficile; qui limitiamoci a far sperimentare tale difficoltà […].

A nostro avviso, non vi è che una soluzione a tutte queste difficoltà: occorre porsi imme-diatamente sul terreno della lingua e prenderla per norma di tutte le altre manifestazioni del lin-guaggio […].

Ma che cos’è la lingua? Per noi, essa non si confonde col linguaggio; essa non ne è che unadeterminata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è al tempo stesso un prodotto socia-le della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corposociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui. Preso nella sua totalità, illinguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico,fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; nonsi lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la suaunità.

La lingua, al contrario, è in se una totalità e un principio di classificazione. Dal momentoin cui le assegniamo il primo posto tra i fatti di linguaggio, introduciamo un ordine naturalein un insieme che non si presta ad altra classificazione.

A questo principio di classificazione si potrebbe obiettare che l’esercizio del linguaggiopoggia su una facoltà che ci deriva dalla natura, mentre la lingua è alcunché d’acquisito e con-venzionale, che dovrebbe esser subordinato all’istinto naturale invece d’avere la precedenzasu questo.

Ecco che cosa si può rispondere.Anzitutto, non è provato che la funzione del linguaggio, quale si manifesta quando noi

parliamo, sia interamente naturale, nel senso che il nostro apparato vocale sia fatto per par-lare come le nostre gambe per camminare. I linguisti sono lontani dall’esser d’accordo su que-sto punto. Per Whitney1, che assimila la lingua a un’istituzione sociale alla pari di qualunquealtra, è per caso, per semplici ragioni di comodità, che adoperiamo l’apparato vocale comestrumento della lingua: gli uomini avrebbero potuto scegliere altrettanto bene il gesto e ado-perare immagini visive anziché immagini acustiche. Questa tesi è senza dubbio troppo rigi-da. La lingua non è un’istituzione sociale somigliante in tutto alle altre […]; inoltre Whitneyva troppo oltre quando dice che la nostra scelta è caduta per caso sugli organi vocali; in certomodo, questi ci sono stati imposti dalla natura. Ma sul punto essenziale il linguista america-no ci sembra aver ragione: la lingua è una convenzione, e la natura del segno sul quale si con-viene è indifferente. Il problema dell’apparato vocale è dunque secondario nel problema dellinguaggio.

Una determinata definizione di ciò che si chiama linguaggio articolato potrebbe conferma-re quest’idea. In latino articulus significa ‘membro, parte, suddivisione in una sequenza dicose’; in materia di linguaggio, l’articolazione può designare tanto la suddivisione della cate-

5

10

15

20

25

30

35

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

765

espressiva del linguaggio, è una costruzionestorico-sociale di una comunità di parlanti, e quindi può essere ricostruita in senso diacronico,essa costituisce al tempo stesso un “sistema”integrato di relazioni formali tra i diversi elementiche la compongono – i termini intesi comesignificanti, i loro molteplici riferimenti ai significati,il modo in cui possono essere utilizzati da un

parlante per indicare o comunicare qualcosa a qualcun altro, ecc. – e tali relazioni possonoessere studiate nelle loro invarianze, cioè aprescindere dal modo in cui le lingue storiche sononate, nonché dai singoli modi particolari in cui esserientrano nella parole, cioè nei molteplici attilinguistici individuali.

1. William Dwight Whitney (1827-1894), linguista e filologo america-no, autore di una grammatica del

sanscrito e di importanti lavori nel-l’ambito della linguistica e della fi-lologia, è spesso menzionato da

Saussure nel Corso di linguisticagenerale.

Page 12: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

na parlata in sillabe, quanto la suddivisione della catena delle significazioni in unità signifi-cative; è appunto in questo senso che in tedesco si dice gegliederte Sprache [linguaggio artico-lato]. Collegandosi a questa seconda definizione, si potrebbe dire che non il linguaggio par-lato è naturale per l’uomo, ma la facoltà di costituire una lingua, vale a dire un sistema disegni distinti corrispondenti a delle idee distinte.

[…] Tutto ciò ci induce a credere che al di sotto del funzionamento dei diversi organi esi-ste una facoltà più generale, quella che comanda ai segni e che sarebbe la facoltà linguisticaper eccellenza. Per tal via torniamo alla stessa conclusione di prima.

Per attribuire alla lingua il primo posto nello studio del linguaggio, si può infine fare vale-re questo argomento, che la facoltà – naturale o no – di articolare paroles2 non si esercita senon mercé lo strumento creato e fornito dalla collettività; non è dunque chimerico dire cheè la lingua che fa l’unità del linguaggio.

Lingua e parolePer trovare nell’insieme del linguaggio la sfera che corrisponde alla lingua, occorre collocar-si dinanzi all’atto individuale che permette di ricostituire il circuito delle parole. Questo attopresuppone almeno due individui, il minimo esigibile perché il circuito sia completo. Sianodunque due persone che discorrono:

Il punto di partenza del circuito è nel cervello di uno dei due individui, per esempio A, incui i fatti di coscienza, che noi chiameremo concetti, si trovano associati alle rappresentazio-ni dei segni linguistici o immagini acustiche che servono alla loro espressione. Supponiamoche un dato concetto faccia scattare nel cervello una corrispondente immagine acustica: è unfenomeno interamente psichico, seguito a sua volta da un processo fisiologico: il cervello tra-smette agli organi della fonazione un impulso correlativo all’immagine; poi le onde sonore sipropagano dalla bocca di A all’orecchio di B: processo puramente fisico. Successivamente, ilcircuito si prolunga in B in un ordine inverso: dall’orecchio al cervello, trasmissione fisiolo-gica dell’immagine acustica; nel cervello, associazione psichica di questa immagine con ilconcetto corrispondente. Se B parla a sua volta, questo nuovo atto seguirà – dal suo cervelloa quello di A – esattamente lo stesso cammino del primo e passerà attraverso le stesse fasi suc-cessive che noi raffiguriamo nel modo seguente:

2. Il traduttore italiano del Corso hapreferito lasciare sempre parole infrancese nel testo, per evitareun’ambiguità inevitabile. Nella no-stra lingua, infatti, il termine “paro-la” viene adoperato per lo più con ilsignificato di “vocabolo” (che infrancese si dice mot) e solo in pochi

casi indica un ‘modo di esprimersi’o un’‘estrinsecazione verbale’ (co-me quando si dice: “chiedere la pa-rola” o “dare la parola”), che è inve-ce esattamente il significato con cuiSaussure usa il termine parole.Quest’ultima infatti significa sial’azione comunicativa di un indivi-

duo mediante il mezzo della lingua(cioè di un codice convenzionale),sia il risultato particolare o il mate-riale linguistico particolare utilizza-to in quell’azione (vedi note 63 e 67alla traduzione italiana del Corso).

40

45

5

10

15

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

766

A B

Page 13: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

Questa analisi non pretende di esser completa. […] Noi abbiamo tenuto conto soltantodegli elementi giudicati essenziali; ma la nostra figura permette di distinguere immediata-mente le parti fisiche (onde sonore) dalle fisiologiche (fonazione e audizione) e psichiche(immagini verbali e concetti). È in effetti capitale sottolineare che l’immagine verbale non siconfonde col suono stesso e che è psichica allo stesso titolo del concetto ad essa associato[…].

Occorre aggiungere una facoltà di associazione e di coordinazione, che si manifesta dalmomento che non si tratta più di segni isolati; è questa facoltà che svolge il ruolo più gran-de della organizzazione della lingua come sistema […].

Ma per ben comprendere questo ruolo occorre uscire dall’atto individuale, che è soltantol’embrione del linguaggio, e abbordare il fatto sociale.

Tra tutti gli individui così collegati dal linguaggio, si stabilisce una sorta di media: tuttiriprodurranno, certo non esattamente, ma approssimativamente, gli stessi segni uniti aglistessi concetti.

Quale è l’origine di questa cristallizzazione sociale? Quale parte del circuito può essere quiin causa? Poiché è assai probabile che non tutte vi partecipino egualmente.

La parte fisica può essere scartata immediatamente. Quando sentiamo parlare una lingua cheignoriamo, percepiamo sì i suoni, ma, non comprendendo, restiamo fuori del fatto sociale.

Anche la parte psichica non è in gioco, almeno nella sua totalità: il lato esecutivo restafuori causa, perché l’esecuzione non è mai fatta dalla massa. L’esecuzione è sempre individua-le, l’individuo non è sempre il padrone; noi la chiameremo la parole.

È attraverso il funzionamento delle facoltà ricettiva e coordinativa che si formano nei sog-getti parlanti delle impronte che finiscono con l’essere sensibilmente le stesse in tutti. Comebisogna rappresentarsi questo prodotto sociale perché la lingua appaia perfettamente depura-ta dal resto? Se potessimo abbracciare la somma delle immagini verbali immagazzinate intutti gli individui, toccheremmo il legame sociale che costituisce la lingua. Questa è un teso-ro depositato dalla pratica della parole nei soggetti appartenenti a una stessa comunità, unsistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più esattamente, nel cer-vello d’un insieme di individui, dato che la lingua non è completa in nessun singolo indivi-duo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa.

Separando la lingua dalla parole, si separa a un sol tempo: 1. ciò che è sociale da ciò che èindividuale; 2. ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno accidentale.

La lingua non è una funzione del soggetto parlante: è il prodotto che l’individuo registrapassivamente; non implica mai premeditazione, e la riflessione vi interviene soltanto per l’at-tività classificatoria di cui si tratterà oltre […].

La parole, al contrario, è un atto individuale di volontà e di intelligenza, nel quale convie-ne distinguere: 1. le combinazioni con cui il soggetto parlante utilizza il codice della linguain vista dell’espressione del proprio pensiero personale; 2. il meccanismo psico-fisico che glipermette di esternare tali combinazioni. […]

Ricapitoliamo dunque i caratteri della lingua.

20

25

30

35

40

45

50

55

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

767

c = concettoi = immagine acustica

audizione fonazione

c i

fonazione audizione

c i

Page 14: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

1. È un oggetto ben definito eteroclito dei fatti di linguaggio. La si può localizzare nellaparte determinata del circuito in cui una immagine uditiva si associa a un concetto. È la partesociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla;essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri della comunità. D’altraparte, l’individuo ha bisogno d’un addestramento per conoscerne il gioco; il bambino l’assi-mila solo a poco a poco. Essa è a tal punto una cosa distinta che un uomo, privato dell’usodella parole, conserva la lingua, purché comprenda i segni vocali che ascolta.

2. La lingua, distinta dalla parole, è un oggetto che si può studiare separatamente. Non par-liamo più le lingue morte, ma possiamo tuttavia assimilare benissimo il loro organismo lin-guistico. La scienza della lingua può non solo disinteressarsi degli altri elementi del linguag-gio, ma anzi è possibile soltanto se tali altri elementi non sono mescolati ad essa.

3. Mentre il linguaggio è eterogeneo, la lingua così delimitata è di natura omogenea: è unsistema di segni in cui essenziale è soltanto l’unione del senso e dell’immagine acustica ed incui le due parti del segno sono egualmente psichiche.

4. La lingua, non meno della parole, è un oggetto di natura concreta, il che è un grandevantaggio per lo studio. I segni linguistici, pur essendo essenzialmente psichici, non sonodelle astrazioni; le associazioni ratificate dal consenso collettivo che nel loro insieme costi-tuiscono la lingua, sono realtà che hanno la loro sede nel cervello. Inoltre, i segni della lin-gua sono, per dir così, tangibili; la scrittura può fissarli in immagini convenzionali, mentresarebbe impossibile fotografare in tutti i loro dettagli gli atti della parole; la produzione foni-ca d’una parola, per quanto piccola, comporta un’infinità di movimenti muscolari estrema-mente difficili da conoscere e raffigurare. Nella lingua, al contrario, non v’è altro che l’imma-gine acustica, e questa può tradursi in un’immagine visiva costante. Perché, se si fa astrazio-ne da questa moltitudine di movimenti necessari per realizzarla nella parole, ogni immagineacustica altro non è, come vedremo, che la somma d’un numero limitato di elementi, i fone-mi, suscettibili a loro volta di essere evocati da un numero corrispondente di segni nella scrit-tura. Proprio questa possibilità di fissare le cose relative alla lingua fa sì che un dizionario euna grammatica possano esserne una rappresentazione fedele, la lingua essendo il depositodelle immagini acustiche e la scrittura essendo la forma tangibile di queste immagini.

Linguistica della lingua e linguistica della paroleLo studio del linguaggio comporta dunque due parti: l’una, essenziale, ha per oggetto la lin-gua, che nella sua essenza è sociale e indipendente dall’individuo; questo studio è unicamen-te psichico; l’altra, secondaria, ha per oggetto la parte individuale del linguaggio, vale a direla parole, ivi compresa la fonazione; essa è psicofisica3.

Senza dubbio i due oggetti sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda: la lin-gua è necessaria perché la parole sia intelligibile e produca tutti i suoi effetti; ma la parole èindispensabile perché la lingua si stabilisca; storicamente, il fatto di parole precede sempre.Come verrebbe in mente di associare un’idea a un’immagine verbale se non si cogliesse taleassociazione anzitutto in un atto di parole? D’altra parte, solo ascoltando gli altri apprendia-mo la nostra lingua materna; essa giunge a depositarsi nel nostro cervello solo in seguito ainnumerevoli esperienze. Infine è la parole che fa evolvere la lingua: sono le impressioni rica-vate ascoltando gli altri che modificano le nostre abitudini linguistiche. V’è dunque interdi-pendenza tra la lingua e la parole; la prima è nello stesso tempo lo strumento e il prodottodella seconda. Ma tutto ciò non impedisce che esse siano due cose assolutamente distinte.

3. Saussure usa qui il termine “psi-chico” (nel senso di ‘spirituale’ o‘ideale’) per indicare il caratterenon empirico-individuale, bensì

astratto-universale (sebbene insenso sociale, non metafisico) del-la lingua, rispetto invece al caratte-re “psicofisico” della parole dell’in-

dividuo, sempre legata a un parti-colare atto di fonazione, cioè diproduzione di suoni mediante gliorgani vocali.

60

65

70

75

80

85

5

10

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

768

Page 15: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

La lingua esiste nella collettività sotto forma d’una somma di impronte depositate in cia-scun cervello, a un di presso come un dizionario del quale tutti gli esemplari, identici, sianoripartiti tra gli individui […]. È dunque qualche cosa che esiste in ciascun individuo puressendo comune a tutti e collocata fuori della volontà dei depositari. Questo modo d’esisteredella lingua può essere rappresentato con la formula:

1 + 1 + 1 + 1 + 1 . . . . . = I (modello collettivo)In che maniera la parole è presente nella stessa collettività? Essa è la somma di ciò che la

gente dice, ed include: a. le combinazioni individuali, dipendenti dalla volontà di quanti parla-no; b. atti di fonazione, egualmente volontari, necessari per l’esecuzione di tali combinazioni.

Non v’è dunque niente di collettivo nella parole; le sue manifestazioni sono individuali emomentanee. Qui non v’è altro che la somma di casi particolari secondo la formula:

(1 + 1' + 1'' + 1''' . . . . .)Tale è la prima biforcazione che si incontra nel momento in cui si cerca di costruire la teo-

ria del linguaggio. Bisogna scegliere tra due strade che è impossibile percorrere nello stessotempo; sono strade da seguire separata-mente.

A rigor di termini, il nome di lingui-stica può esser conservato a entrambe lediscipline e si può parlare di una lingui-stica della parole. Ma bisognerà nonconfonderla con la linguistica propria-mente detta, quella il cui unico oggettoè la lingua.

15

20

25

30

35

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

769

guida

alla

lettu

ra1. Come differenzia Saussure il linguaggio in generale dallalingua?

2. A sua volta che cosa differenzia la lingua dalla parole?

3. Quali sono le basi fisiologiche del linguaggio come fona-zione?

4. In che senso la lingua, pur essendo una formazione stori-co-sociale, può essere ricostruita come un sistema formale?

Nei brani tratti dalle Ricerche filosofiche (pubblicatepostume nel 1953), che presentiamo, Wittgensteinsi impegna a mettere in discussione la concezionedel linguaggio come attività destinata alla meradenominazione di oggetti. La struttura difunzionamento del linguaggio, infatti, non siesaurisce a suo parere nel semplice rapporto tra parola e oggetto – dove la prima si limiterebbe a rimandare alla cosa significata –, ma implica la necessaria considerazione del contesto in cui

essa diviene effettivamente operativa. Stabilire il significato di un’espressione, in altri termini, vuol dire comprendere quest’ultima entro unospecifico “gioco linguistico”, un paradigma difunzionalità che non codifica con rigore logico le condizioni del linguaggio significante, ma tiene conto delle modalità di comportamento di una comunità umana entro le circostanze di una “forma di vita”.

T16

1. Agostino, Confessioni, I, 8: «Quando [gli adulti] nominavano qualche oggetto, e proferen-do quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chia-masse con il nome che proferivano quando volevano indicarla. Che intendessero ciò eramanifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall’espressione del volto edal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall’accento della voce, che indica le emo-zioni che proviamo quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Così,udendo spesso le stesse parole ricorrere, al posto appropriato, in proposizioni differenti, mi

5

Ludwig Wittgenstein I giochi linguisticiRicerche filosofiche, parte I, §§ 1-7, 11, 12, 18, 23, 27, 65-67

Page 16: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

rendevo conto, poco a poco, di quali cose esse fossero i segni e, avendo insegnato alla linguaa pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà».

In queste parole troviamo, così mi sembra, una determinata immagine della natura del lin-guaggio umano. E precisamente questa: Le parole del linguaggio denominano oggetti – leproposizioni sono connessioni di tali denominazioni. – In questa immagine del linguaggiotroviamo le radici dell’idea: Ogni parola ha un significato. Questo significato è associato allaparola. È l’oggetto per il quale la parola sta.

Di una differenza di tipi di parole Agostino non parla. Chi descrive in questo modo l’ap-prendimento del linguaggio pensa, così credo, anzitutto a sostantivi come “tavolo”, “sedia”,“pane” e ai nomi di persona, e solo in un secondo tempo ai nomi di certe attività e proprie-tà; e pensa ai rimanenti tipi di parole come a qualcosa che si accomoderà.

Pensa ora a quest’impiego del linguaggio: Mando uno a far la spesa. Gli do un biglietto sucui stanno i segni: “cinque mele rosse”. Quello porta il biglietto al fruttivendolo; questi apre ilcassetto su cui c’è il segno “mele”; quindi cerca in una tabella la parola “rosso” e trova, in cor-rispondenza ad essa, un campione di colore; poi recita la successione dei numeri cardinali –supponiamo che la sappia a memoria – fino alla parola “cinque” e ad ogni numero tira fuori dalcassetto una mela che ha il colore del campione. – Così o pressappoco così si opera con le paro-le. – “Ma come fa a sapere dove e come deve cercare la parola ‘rosso’, e che cosa deve fare conla parola ‘cinque’?” – Bene, suppongo che agisca nel modo che ho descritto. A un certo puntole spiegazioni hanno termine. – Ma che cos’è il significato della parola “cinque”? – Qui non sifaceva parola di un tale significato; ma solo del modo in cui si usa la parola “cinque”.

2. Quel concetto filosofico di significato è al suo posto in una rappresentazione primitivadel modo e della maniera in cui funziona il linguaggio. Ma si può anche dire che sia la rap-presentazione di un linguaggio più primitivo del nostro.

Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino: Questolinguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suo aiutante, B. A ese-gue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre e travi. B deve porgere ad Ale pietre da costruzione, e precisamente nell’ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo idue si servono di un linguaggio consistente delle parole: “mattone”, “pilastro”, “lastra”,“trave”. A grida queste parole; – B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sentequesto grido. – Considera questo come un linguaggio primitivo completo.

3. Agostino descrive, potremmo dire, un sistema di comunicazione; solo che non tutto ciòche chiamiamo linguaggio è questo sistema. E questo va detto in molti casi in cui sorge laquestione: “Questa descrizione è utilizzabile o inutilizzabile?”. La risposta sarà: “Sì, è utiliz-zabile, ma soltanto per questa regione strettamente circoscritta, non per il tutto che tu pre-tendevi di descrivere”.

È come se uno desse a qualcun altro la definizione: “Il gioco consiste nel muovere cose suuna superficie, secondo certe regole…” – e noi gli rispondessimo: Sembra che tu pensi ai gio-chi fatti sulla scacchiera; ma questi non sono tutti i giochi. Puoi rendere corretta la tua defi-nizione restringendola espressamente a questi giochi.

4. Immagina una scrittura in cui le lettere vengano utilizzate per designare suoni, maanche per designare l’accentuazione, e come segni d’interpunzione. (Una scrittura può esse-re concepita come un linguaggio per la descrizione d’immagini sonore.) Ora immagina chequalcuno intenda quella scrittura come se ad ogni lettera corrispondesse semplicemente unsuono e le lettere non avessero anche altre funzioni, del tutto diverse. A una siffatta, tropposemplice concezione della scrittura somiglia la concezione che Agostino ha del linguaggio.

5. Se si considera l’esempio del § 1, si può forse avere un’idea della misura in cui il con-cetto generale di significato della parola circonda il funzionamento del linguaggio di una cali-gine, che rende impossibile una visione chiara. – La nebbia si dissipa quando studiamo i feno-meni del linguaggio nei modi primitivi del suo impiego, nei quali si può avere una visionechiara e completa dello scopo e del funzionamento delle parole.

10

15

20

25

30

35

40

45

50

55

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

770

Page 17: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

Tali forme primitive del linguaggio impiega il bambino quando impara a parlare. In que-sto caso l’insegnamento del linguaggio non è spiegazione, ma addestramento.

6. Potremmo immaginare che il linguaggio esemplificato nel § 2 sia tutto quanto il linguag-gio di A e B; anzi, tutto il linguaggio di una tribù. I bambini vengono educati a svolgere que-ste attività, a usare, nello svolgerle, queste parole, e a reagire in questo modo alle parole altrui.

Una parte importante dell’addestramento consisterà in ciò: l’insegnante indica al bambi-no determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia, al tempo stesso, unaparola; per esempio, pronuncia la parola “lastra”, e intanto gli mostra un oggetto di questaforma. (Non chiamerò questo procedimento “spiegazione” o “definizione ostensiva1”, per-ché il bambino non può ancora chiedere il nome degli oggetti. Lo chiamerò “insegnamentoostensivo” delle parole. – Dico che esso costituisce una parte importante dell’addestramen-to, perché così accade presso gli uomini; non perché non si possa immaginare diversamen-te.) Si può dire che questo insegnamento ostensivo delle parole stabilisce una connessioneassociativa tra la parola e la cosa. Ma che cosa vuol dire? Bene, può voler dire diverse cose;ma prima di tutto si pensa che quando il bambino ode una certa parola gli si presenti allamente l’immagine di una certa cosa. Ma, posto che ciò accada, – è questo lo scopo della paro-la? – Sì, può esserlo. – Posso immaginare un siffatto impiego delle parole (successioni disuoni). (Pronunciare una parola è come toccare un tasto sul pianoforte delle rappresentazio-ni.) Ma nel linguaggio descritto nel § 2 lo scopo delle parole non è quello di suscitare rap-presentazioni. (Naturalmente si può anche trovare che ciò è utile al conseguimento delloscopo vero e proprio.)

Ma se l’insegnamento ostensivo produce quest’effetto, – devo dire che ha per effetto lacomprensione delle parole? Non comprende il grido “Lastra!” chi, udendolo, agisce in que-sto modo così e così? – Certo, a ciò ha contribuito l’insegnamento ostensivo; però solo inquanto associato a un determinato tipo di istruzione. Connesso con un tipo d’istruzionediverso, lo stesso insegnamento ostensivo di questa parola avrebbe avuto come effetto unacomprensione del tutto diversa.

“Aggiusto un freno collegando una barra a una leva.” – Certo, se è dato tutto il resto delmeccanismo. Solo in connessione con questo, la leva è la leva di un freno; isolata dal suosostegno non è neppure una leva; può essere qualsiasi cosa possibile, e anche nulla.

7. Nella pratica dell’uso del linguaggio (2) una delle parti grida alcune parole e l’altra agi-sce conformemente ad esse; invece nell’insegnamento del linguaggio si troverà questo proces-so: L’allievo nomina gli oggetti. Cioè pronuncia la parola quando l’insegnante gli mostra quelpezzo. – Anzi, qui si troverà un esercizio ancora più semplice: lo scolaro ripete le parole chel’insegnante gli suggerisce. – Entrambi questi processi somigliano al linguaggio.

Possiamo anche pensare che l’intero processo dell’uso delle parole, descritto nel § 2, sia unodi quei giochi mediante i quali i bambini apprendono la loro lingua materna. Li chiamerò “gio-chi linguistici” e talvolta parlerò di un linguaggio primitivo come di un gioco linguistico.

E si potrebbe chiamare gioco linguistico anche il processo del nominare i pezzi, e quelloconsistente nella ripetizione, da parte dello scolaro, delle parole suggerite dall’insegnante.Pensa a taluni usi delle parole nel gioco giro-giro-tondo.

Inoltre chiamerò “gioco linguistico” anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalleattività di cui è intessuto.

[…]11. Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una

tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. – Quantidifferenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (Eci sono somiglianze qui e là.)

60

65

70

75

80

85

90

95

100

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

771

1. Cioè che esibisce, che mostra.

Page 18: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle paroleche ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci stadavanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia!

12. Come quando guardiamo nella cabina di una locomotiva: ci sono impugnature chehanno tutte, più o meno, lo stesso aspetto. (Ciò è comprensibile, dato che tutte debbonovenir afferrate con la mano.) Ma una è l’impugnatura di una manovella che può venir sposta-ta in modo continuo (regola l’apertura di una valvola); un’altra è l’impugnatura di un inter-ruttore che ammette solo due posizioni utili: su e giù; una terza fa parte della leva del freno:più forte si tira più energicamente si frena. Una quarta è l’impugnatura di una pompa: fun-ziona solo fin quando la muoviamo di qua e in là.

[…]18. […] Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo

di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diver-si, e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uni-formi.

[…]23. Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? –

Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi di impiego di tutto ciò che chiamia-mo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di datouna volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmodire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potreb-bero darcela i mutamenti della matematica.)

Qui la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare unlinguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita.

Considera la molteplicità dei giochi linguistici contenuti in questi (e altri) esempi:Comandare, e agire secondo il comando –Descrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioni –Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) –Riferire un avvenimento –Fare congetture intorno all’avvenimento –Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova –Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi –Inventare una storia; e leggerla –Recitare in teatro –Cantare in girotondo –Sciogliere indovinelli –Fare una battuta; raccontarla –Risolvere un problema di aritmetica applicata –Tradurre da una lingua in un’altra –Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare.– È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi

d’impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla strutturadel linguaggio hanno detto i logici. (E anche l’autore del Tractatus logico-philosophicus2.)

[…]27. “Denominiamo le cose, e così possiamo parlarne. Riferirci ad esse nel discorso.” –

Come se con l’atto del denominare fosse già dato ciò che faremo in seguito. Come se ci fosse

2. Qui Wittgenstein prende esplicita-mente le distanze anche rispetto alsuo stesso tentativo iniziale (che in-

tendeva il linguaggio come pura de-scrizione di cose e stati di cose attra-verso i nomi) e suggerisce che il mo-

dello logico è solo uno dei modi concui possiamo determinare il fenome-no del linguaggio nella sua totalità.

105

110

115

120

125

130

135

140

145

150

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

772

Page 19: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

una sola cosa che si chiama: “parlare delle cose”. Invece, con le nostre proposizioni, faccia-mo le cose più diverse. Si pensi soltanto alle esclamazioni. Con le loro funzioni diversissime.

Acqua!Via!Ahi!Aiuto!Bello!No!Adesso sei ancora disposto a chiamare queste parole “denominazione di oggetti”? […]65. …mi si potrebbe obiettare: “Te la fai facile! Parli di ogni sorta di giochi linguistici, ma

non hai ancora detto che cosa sia l’essenziale del gioco linguistico, e quindi del linguaggio;che cosa sia comune a tutti questi processi, e ne faccia un linguaggio o parte di un linguag-gio. Così ti esoneri proprio da quella parte della ricerca, che a suo tempo ti ha dato i maggio-ri grattacapi: cioè quella riguardante la forma generale della proposizione e del linguaggio”.

E questo è vero. – Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo lin-guaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al qualeimpieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’uno con l’altro in moltimodi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti “linguag-gi”. Voglio tentare di chiarire questo punto.

66. Considera, per esempio, i processi che chiamiamo “giochi”. Intendo giochi da scac-chiera, giochi di carte, giochi di palla, gare sportive, e via discorrendo. Che cosa è comune atutti questi giochi? – Non dire: “Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non sichiamerebbero ‘giochi’” – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. – Infatti, se li osser-vi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, paren-tele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non pensare, ma osserva! – Osserva, peresempio, i giochi da scacchiera, con le loro semplici affinità. Ora passa ai giochi di carte: quitrovi molte corrispondenze con quelli della prima classe, ma molti tratti comuni sono scom-parsi, altri ne sono subentrati. Se ora passiamo ai giochi di palla, qualcosa di comune si è con-servato, ma molto è andato perduto. Sono tutti “divertenti”? confronta il gioco degli scacchicon quello della tria. Oppure c’è dappertutto un perdere e un vincere, o una competizione trai giocatori? Pensa allora ai solitari. Nei giochi di palla c’è vincere e perdere; ma quando unbambino getta la palla contro un muro e la riacchiappa, questa caratteristica è sparita.Considera quale parte abbiano abilità e fortuna. E quanto sia differente l’abilità negli scacchida quella del tennis. Pensa ora ai girotondi: qui c’è l’elemento del divertimento, ma quantidegli altri tratti caratteristici sono scomparsi! E così possiamo passare in rassegna molti altrigruppi di giochi. Veder somiglianze emergere e sparire.

E il risultato di questo esame suona: Vediamo una rete complicata di somiglianze che sisovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo.

67. Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglian-ze di famiglia”; infatti le varie somi-glianze che sussistono tra i membri diuna famiglia si sovrappongono e s’in-crociano nello stesso modo: corporatu-ra, tratti del volto, colore degli occhi,modo di camminare, temperamento,ecc., ecc. – E dirò: i “giochi” formanouna famiglia.

155

160

165

170

175

180

185

190

195

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

773

guida

alla

lettu

ra1. Spiega perché nella seconda fase della sua riflessioneWittgenstein sostiene che il modello indicativo (per cui un no-me designa una cosa) non è l’unico modello del linguaggio.

2. Che cosa significa l’espressione “gioco linguistico”?

3. Quali sono, tra le tante, le principali o più comuni attivitàa cui si riferisce il linguaggio?

4. In base a quale criterio si possono accomunare forme lin-guistiche tra loro diverse?

Page 20: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

774

In questo testo risalente al 1957, e incluso nellaraccolta In cammino verso il linguaggio (1959),Heidegger, prendendo spunto da una lirica delpoeta tedesco Stefan George dal titolo Das Wort(La parola), mette a tema la sua concezione dellinguaggio come luogo in cui e per cui l’essere delle cose si manifesta. Il linguaggio non ha perHeidegger la semplice funzione di significare le cose o le passioni dell’anima, come voleva inveceun tradizione risalente ad Aristotele, ma costituisceai suoi occhi la modalità con cui le cose stesseaccedono all’essere e accadono in quanto tali. Ai suoi occhi la parola non è semplicemente un

segno: lungi dal ridursi a mero strumento, essa, nel suo darsi, dà e manifesta l’essere stesso.L’essere si dà, in altri termini, attraverso il linguaggio; ma non nel senso che il linguaggioconfiguri semplicemente il mezzo di questamanifestazione, ma nel senso, fenomenologico e ontologico, in cui la parola è datrice di ciò che è, delle cose stesse. Inteso in questo modo, il linguaggio è per Heidegger, che così lo aveva definito nella Lettera sull’“umanismo”, «la casa dell’essere», il luogo in cui l’essere si dà, manifestandosi e insieme permanendo nel suo nascondimento.

T17

La “parola” dell’essereNoi cercheremo di ascoltare ancora una volta ciò che è detto poeticamente1. Ci par di capireche ciò potrebbe essere richiesto al pensiero e di là prendiamo le mosse.

Così io appresi triste la rinuncia: Nessuna cosa è dove la parola manca.

Trascriveremo ancora una volta l’ultimo verso in modo che esso suoni quasi come un’asser-zione, quando non addirittura come un principio: nessuna cosa è dove la parola manca. Unacosa è quando, e solo quando, non manca la parola, quando la parola c’è. Ma, se la parola è,essa stessa è allora cosa, dal momento che “cosa” sta qui a indicare tutto ciò che in qualchemodo è: «Meraviglia di lontano o sogno». Nel caso invece che la parola, quando parla, nonsia, in quanto parola, una cosa, ma sia di natura affatto diversa rispetto alla cosa, che è essa?È la parola un niente? Come può allora fare sì che la cosa sia? Non dovrebbe, ciò che confe-risce l’essere, esso stesso veramente e per primo “essere”, essere quindi il massimamenteessente, più essente di tutte le cose che sono? Questo è il profilo sotto cui non può non con-figurarsi ai nostri occhi la questione, fintantoché stiamo fermi al pensiero calcolante, fino ache cioè andiamo ricercando attraverso escogitazioni calcolanti il fondamento sufficiente, ilfondamento che fonda l’essente come conseguenza del fondamento, come suo effetto, e sod-disfa così le esigenze del nostro pensiero presentativo. In questa prospettiva, anche la parola,se deve conferire l’“è” alla cosa, deve essere anteriormente a ogni cosa – pertanto, irrefutabil-mente, essa stessa cosa. Ci troveremmo quindi di fronte questa situazione: che una cosa, laparola, procura l’essere a un’altra cosa. Ma il poeta dice: «Nessuna cosa è dove la parolamanca». Parola e cosa sono realtà diverse, anche se non staccate. Si crede di capire il poeta alprimo ascolto; ma ancora non si è, per così dire, toccato il verso con la riflessione che, ecco,quel che dice sprofonda nel buio. […]

5

10

15

20

Martin Heidegger Il linguaggio che fa essere le coseL’essenza del linguaggio, § II; Il cammino verso il linguaggio, §§ II-III

1. Heidegger si riferisce alla poesiaLa parola di Stefan George: «Mera -viglia di lontano o sogno / Io portaial lembo estremo della mia terra / Eattesi fino a che la grigia norna / Ilnome trovò nella sua fonte – /Meraviglia o sogno potei allora af-ferrare consistente e forte / Ed ora

fiorisce e splende per tutta la mar-ca… / Un giorno giunsi colà dopoviaggio felice / Con un gioiello riccoe fine / Ella cercò a lungo e [alfine]mi annunciò: / “Qui nulla d’egualedorme sul fondo” / Al che essosfuggì alla mia mano / E mai più lamia terra ebbe il tesoro… / Così io

appresi triste la rinuncia: /Nessuna cosa è dove la parolamanca». La «grigia norna» di cuiparla il poeta è il nome di una divi-nità mitologica che ha nelle suemani il destino degli uomini.

Page 21: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

La parola per [dire] la parola non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio – lin-guaggio che nomina e fa essere – per l’essente, perché questo sia e, come essente, splenda efiorisca. La parola per la parola, un tesoro certamente, ma un tesoro non conquistabile per laterra del poeta. E per il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica, que-sto si rivela: la parola, il dire, non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribellaquando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate, ognuno pur vede e sentedelle parole. Esse sono; possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi. Bastasolo, per far l’esempio più banale, aprire un dizionario. È pieno di cose stampate. Certamente.Puri vocaboli, non una sola parola. Poiché la parola, grazie alla quale i vocaboli si fanno paro-la, un dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla. Dove dobbiamo andare a cer-care la parola, dove il dire?

Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande aiuto. Laparola: non è cosa, nulla di essente; invece noi abbiamo cognizione delle cose, quando peresse c’è a disposizione la parola. Allora la cosa “è”. Ma qual è la natura di questo “è”? La cosaè. È questo “è” anch’esso una cosa, sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio?Noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa. Per questo “è” la situazione èla stessa che per la parola. Questo “è” non fa parte delle cose che sono, più di quanto non lofaccia la parola.

Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare frettoloso e scorgiamoqualcosa di diverso.

In ciò che l’esperienza poetica del linguaggio dice riguardo alla parola, gioca il rapportofra questo “è”, che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione, che cioè nonè nulla che sia.

Né l’“è” né la parola hanno l’essenza della cosa, l’essere, né l’ha il rapporto fra l’“è” e laparola, al quale è affidato il compito di concedere via via un “è”. Cionondimeno né l’“è”, néla parola e il dire di questa possono venire cacciati nel vuoto del niente. Che indica l’espe-rienza poetica della parola, quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degnod’esser pensato, pensare il quale si pone al pensiero fin dai tempi più antichi, anche se inmodo velato, come il suo proprio compito. Essa rimanda a quello di cui (in tedesco) può dirsi“es gibt”, senza che possa dirsi “ist”2. Di ciò di cui può dirsi “es gibt” fa parte anche la parola;forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa e in modo tale che nella parola, nella suaessenza, si cela quello che “gibt” [dà]. Della parola, pensando con rigore, non dovremmo maidire: es ist, ma es gibt: ciò non nel senso di quando si dice “es” gibt Worte, ma nel senso che:la parola stessa dà. La parola: la datrice. Ma che dà la parola? Secondo l’esperienza poetica ela tradizione più antica del pensiero, la parola dà: l’essere. Ma, se così stanno le cose, allorain quel “es, das gibt” noi dovremmo, pensando, cercare la parola come ciò stesso che dà, e maiè dato. La locuzione “es gibt” si trova [in tedesco] usata in molteplici modi: si dice, per esem-pio, “es gibt an der sonnigen Halde Erdbeeren” [ci sono fragole sul pendio soleggiato]; [in fran-cese] il y a: là “si hanno” fragole; le possiamo trovare come qualcosa che c’è. Nella nostrariflessione “es gibt” è usato diversamente: non “es gibt das Wort” [si dà la parola], ma “es, dasWort, gibt” [essa, la parola, dà] … Così dilegua completamente lo spettro dell’”es”, davanti alquale molti, e a ragione, provano sconcerto; ma ciò che è degno di essere pensato resta; si faanzi evidente. Questa realtà semplice e inafferrabile, che noi indichiamo con l’espressione “es,das Wort, gibt”, si rivela come ciò che è propriamente degno d’essere pensato: per la determi-nazione di questo mancano ancora dappertutto i termini di misura. Forse il poeta li conosce.Ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia, con la rinuncia, nulla ha perduto.

2. In tedesco es gibt significa ‘c’è’,ma alla lettera la locuzione è forma-ta dal pronome neutro es (‘esso’) edal verbo geben (‘dare’), e quindi

significa ‘esso dà’. Secondo Hei -degger questo darsi (es gibt) non èriducibile all’esser-presente di unacosa (all’ist, vale a dire all’“è”), nel

senso che l’essere – come pure laparola – non “è” come sono tutti glienti, ma semplicemente “si dà”.

25

30

35

40

45

50

55

60

65

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

775

Page 22: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

776

In una conferenza del 1959, intitolataIl cammino verso il linguaggio, Heidegger parla del nostro modo di accedere all’essenza del linguaggio come una “via” (un “cammino”,appunto) che il “Dire” originario – cioè l’appelloenigmatico dell’essere – apre all’interno dellinguaggio stesso. Chi parla non è innanzitutto

l’uomo, ma il linguaggio; l’uomo è invece colui che ascolta ciò che il linguaggio dice, e lo ri-dice,cioè parla in base a ciò che il Dire originario gli accorda. Nelle parole dell’uomo si presenta così la traccia o la eco di una verità delle cose che resta inviolata rispetto ai nostri discorsi.

Il parlare come ascolto del linguaggioCiò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario [die Sage] in quanto Mostrare[die Zeige]. Il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno, ma tutti i segnitraggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini [soltanto] acquistano la pos-sibilità d’essere segni.

Quando si guardi alla struttura del Dire originario, non è possibile attribuire il mostrarené esclusivamente né preminentemente all’operare umano. Il mostrarsi, in quanto apparire, èil tratto distintivo dell’essere presente o assente dell’essente quale che ne sia la specie o ilgrado. Perfino là dove il mostrare si realizza grazie a un nostro dire, c’è sempre un lasciarsimostrare che precede questo nostro mostrare come additare e rilevare.

Solo quando si consideri il nostro dire in tale prospettiva, è possibile una determinazioneadeguata di quel che è essenziale in ogni parlare. Il parlare è familiarmente noto come espres-sione del pensiero in suoni articolati per mezzo degli organi vocali. Ma parlare è insiemeascoltare. Abitualmente parlare e ascoltare vengono contrapposti: l’uno parla, l’altro ascolta.Ma l’ascoltare accompagna e recinge il parlare non soltanto così come questo si realizza nelcolloquio. La contemporaneità di parlare e ascoltare ha un significato più radicale. Il parlareè, per sé stesso, un ascoltare. È il porgere ascolto al linguaggio che parliamo. Perciò il parla-re è, non al tempo stesso, bensì prima un ascoltare. Questo ascolto del linguaggio anche pre-cede – nel modo meno avvertibile – ogni altro possibile ascoltare. Noi non solamente parlia-mo il linguaggio, ma parliamo [attingendo moto e sostanza del parlare] dal linguaggio. E ciòpossiamo unicamente per il fatto che sempre già abbiamo prestato ascolto al linguaggio. Mache ascoltiamo? Ascoltiamo il parlare del linguaggio.

Ma è allora il linguaggio stesso che parla? Come potrà mai far questo? Ha forse organivocali? Eppure il linguaggio parla. Esso segue, innanzitutto e veracemente, il comando di ciòche fa essere il parlare: il dire. Il linguaggio parla in quanto dice, cioè mostra. Il suo dire sca-turisce dal Dire originario, sia per quanto s’è fatto parola sia per quanto è rimasto ancora ine-spresso, da quel Dire originario che trapassa il profilo del linguaggio. Il linguaggio parla nel-l’atto che, come Mostrare [als die Zeige], raggiungendo tutte le contrade di ciò che può farsipresente, fa che da esse appaia o dispaia quel che di volta in volta si fa presente. Di conse-guenza noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Qualeche sia il modo con cui ascoltiamo, ogniqualvolta ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare èquel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare èascolto del linguaggio, parlando, noi ri-diciamo il Dire che abbiamo ascoltato. Lasciamo checi giunga la sua voce che non ha suono, e vogliamo il suono che è stato tenuto in serbo pernoi, e, protendendoci ad esso, lo chiamiamo. Un tratto, per lo meno, è probabile risulti, a que-sto punto, più chiaro nel profilo del linguaggio: come cioè il linguaggio abbia la sua identitànel parlare, e come quindi esso, in quanto linguaggio, parli.

Se il parlare come ascolto del linguaggio lascia che il Dire dica, questo “lasciare che” può avve-nire e dar frutto solo nella misura in cui il nostro proprio essere è immerso nel Dire originario.Noi possiamo ascoltare tale Dire per il fatto che rientriamo nel suo dominio. Solo a quelli che gliappartengono il Dire originario accorda l’ascolto del linguaggio e, conseguentemente, il parlare.Nel Dire originario tale accordare [è, vale a dire] perdura. Esso ci fa pervenire alla capacità di par-lare. Ciò che fa essere il linguaggio poggia in questo Dire originario che accorda e assicura.

5

10

15

20

25

30

35

40

Page 23: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

Ma il Dire originario in sé stesso che è? È esso qualcosa di staccato dal nostro parlare, sìche per giungervi dovrebbe venir prima gettato un ponte? O è invece il Dire originario ilfiume della quiete, che già di per sé collega le sue rive, il Dire e il nostro ri-dire, nell’atto stes-so che le fa essere? Le nostre consuete idee del linguaggio si trovano a disagio con tal generedi pensieri. Il Dire originario – ma col tentativo di pensare il linguaggio in base a questo, noncorriamo per caso il pericolo di far del linguaggio una realtà fantastica, a sé stante, ignota etale destinata a rimanere a una riflessione sobria sul linguaggio? Si vorrà pure ammettere cheil linguaggio resta legato al parlare umano. Certamente. Resta però da chiedersi: di che spe-cie è tale legame? Donde viene e come esplica il suo potere la forza che lega? Il linguaggio habisogno e si avvale del parlare dell’uomo e tuttavia esso non è semplice opera della nostra atti-vità linguistica. Su che posa, cioè si fonda il linguaggio? C’è il caso che, andando in cerca difondamenti, ci immettiamo in un genere di domande per cui il vero essere del linguaggionecessariamente ci sfugge.

Non potrebbe essere il Dire originario stesso quello su cui posa, avendone riposo, il lin-guaggio nella articolata unità del suo insieme?

45

50

55

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

777

Sviluppando questa ipotesi, Heidegger giungerà a individuare ciò che parla nascostamente (cioè senza esprimere suoni) nel linguaggio, cioè il cuore del “Dire” originario, nel termineEreignis, che in tedesco significa ‘evento’, ma nel quale Heidegger fa risaltare la traccia del verboeignen che significa ‘essere proprio’ o ‘appartenere’e dell’aggettivo eigen, ‘proprio’. L’Er-eignis,

è inteso infatti da Heidegger come l’evento di appropriazione di uomo ed essere. Qui sta la sorgente misteriosa del Dire, dell’ascolto e del parlare dell’uomo. E proprio su questa basel’uomo sperimenta, per Heidegger, il suo esserecome “mortale”: colui che grazie al linguaggio,custodisce la presenza dell’essere.

L’evento del linguaggioL’evento di appropriazione [Ereignis] accorda ai mortali la dimora nel loro vero essere e, conquesta e per questa, la capacità d’essere i parlanti. Se s’intende per legge quel che fa che cia-scuna cosa sia nel luogo che le è proprio, sia compresa nell’ambito che le compete, allora sideve dire che l’evento di appropriazione è la meno dura, la più mite delle leggi […].

L’evento di appropriazione è la legge, in quanto raccoglie e avvia i mortali al luogo che èloro, alla verità del loro essere, e ivi li trattiene.

Poiché il mostrare del Dire originario è l’appropriare [lo Eignen], anche la possibilità diascoltare quel Dire, l’essere nella sfera del suo dominio, poggia sull’evento di appropriazione.[…]

L’evento, nel suo appropriare a sé l’essenza dell’uomo, fa che i mortali pervengano al luogoloro proprio col darli, per così dire, in proprietà a ciò che, nella voce del Dire originario, datutte le parti viene incontro all’uomo, dicendo di sé in modo da rimanere nascosto.L’appropriazione, che si viene così accordando dell’uomo come ascoltatore al Dire originario,ha questo di caratteristico: essa concede all’essere dell’uomo la libertà di accedere al luogo cheè suo, ma solo perché l’uomo – come l’essere che parla, che dice – risponda al Dire origina-rio, valendosi di quel che gli è proprio. Il che è quanto dire: del suono della parola. Il dire deimortali è “rispondere”. Ogni parola che si pronuncia è sempre “risposta”: un dire di riman-do, un dire ascoltando. L’appropriazione dei mortali al Dire originario fa che l’essere dell’uo-mo entri in un impiego, per il quale egli è addetto a trasferire il Dire originario, che non hasuono, nel suono della parola.

[…]Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio né mai

possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noivediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso ha già volto il suo sguardo

5

10

15

20

Page 24: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

25

30

verso di noi, ci ha appropriato a sé. Il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere – il sape-re inteso secondo la concezione tradi-zionale fondata sull’idea che il conosce-re sia rappresentare – non è certamenteun difetto, bensì il privilegio grazie alquale siamo eletti e attratti in una sferasuperiore, in quella in cui noi, assunti aportare a parola il linguaggio, dimoria-mo come i mortali.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

778

guida

alla

lettu

ra1. Come interpreta Heidegger il verso di Stefan George se-condo cui dove manca la parola non vi è nemmeno la cosa?

2. Che cosa significa l’espressione per cui il linguaggio stes-so parla?

3. Chi o che cosa parla nel Dire originario?

4. In che modo nel linguaggio accade l’evento di appropria-zione di uomo ed essere?

I due brani che seguono sono tratti da Verità e metodo, l’opera del 1960 con la quale Gadamer ha tracciato le linee conduttrici dell’ermeneuticacontemporanea. Si tratta, rispettivamente,dell’introduzione e della conclusione alla terzaparte dell’opera – intitolata significativamenteDall’ermeneutica all’ontologia seguendo il filoconduttore del linguaggio. Lungi dal ridursi ad una mera tecnica interpretativa, l’ermeneutica si configura per Gadamer come «un aspettouniversale della filosofia»: il comprendere, infatti,non è solo «affare di una scienza», e cioè l’oggettodi una disciplina specialistica, ma costituisce ilmodo specificamente umano di essere nel mondo

e di prendere posto in esso (come già avevaaffermato Heidegger in Essere e tempo).L’esperienza ermeneutica, però, non implica la ricerca di una verità stabile, fissa e già data, ma piuttosto la relazione dinamica tra il soggetto e il mondo (vale a dire tra gli uomini e la loro storia,ossia la tradizione) che si gioca nella dimensionedella linguisticità. Non a caso per Gadamercomprendere significa essenzialmente interloquire o “dialogare” con chi o con ciò che è “altro” da sé, ascoltarlo, immedesimarsi nel suo parlare, tradurlo nel nostro linguaggio e tendenzialmente parlare assieme ad esso.

T18

Il linguaggio come mezzo dell’esperienza ermeneuticaDiciamo solitamente “condurre un dialogo”, ma quanto più un dialogo è autentico, tantomeno il suo modo di svolgersi dipende dalla volontà dell’uno o dell’altro degli interlocutori.Il dialogo autentico non riesce mai come noi volevamo che fosse. Anzi, in generale è più giu-sto dire che in un dialogo si è “presi”, se non addirittura che il dialogo ci “cattura” e avvilup-pa. Il modo come una parola segue all’altra, il modo in cui il dialogo prende le sue direzioni,il modo in cui procede e giunge a conclusione, tutto questo ha certo una direzione, ma in essagli interlocutori non tanto guidano, quanto piuttosto sono guidati. Ciò che “risulta” da undialogo non si può sapere prima. L’intesa o il fallimento è un evento che si compie in noi. Soloallora possiamo dire che c’è stato un buon dialogo, oppure che esso era nato sotto una catti-va stella. Tutto ciò indica che il dialogo ha un suo spirito, e che le parole che in esso si dico-no portano in sé una loro verità, fanno “apparire” qualcosa che d’ora in poi “sarà”.

[…] Comprendere ciò che qualcuno dice significa intendersi sulla cosa e non invece tra-sferirsi in lui e ripetere in sé i suoi Erlebnisse [vissuti] […]. Il linguaggio è il medium in cuigli interlocutori si comprendono e in cui si verifica l’intesa sulla cosa.

Sono le situazioni in cui la comprensione è disturbata o difficile quelle nelle quali più chia-ramente si danno a conoscere le condizioni che sono richieste da ogni tipo di comprensione.Allo stesso modo, la struttura dell’atto linguistico viene in luce in modo particolarmenteistruttivo là dove il dialogo, svolgendosi in due lingue diverse, è reso possibile solo dalla tra-duzione. Il traduttore deve trasporre il significato del discorso nel contesto in cui vive l’inter-

5

10

15

Hans-Georg Gadamer Il linguaggio ermeneuticoVerità e metodo, parte III, §§ 1, 3/c

Page 25: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

locutore a cui si rivolge. Ciò non significa, ovviamente, che egli possa falsare il senso che l’al-tro interlocutore ha voluto dare al discorso. Tale senso deve essere mantenuto, ma, dovendoessere compreso in un diverso mondo linguistico, va come ricostruito in un modo nuovo.Ogni traduzione è perciò sempre una interpretazione, anzi si può dire che essa è il compi-mento dell’interpretazione che il traduttore ha dato della parola che si è trovato di fronte.

Il caso della traduzione mette in luce esplicita il linguaggio come medium della compren-sione, in quanto questa si può attuare solo attraverso un processo di mediazione artificiale.Tale mediazione artificiale non è ovviamente il caso normale di ogni dialogo. La traduzionenon è nemmeno il caso normale del rapporto con una lingua straniera […].

Dove c’è comprensione e intesa non occorre tradurre; si parla […]. Il problema ermeneu-tico, non è dunque un problema di corretto possesso di una lingua, ma esige che ci si inten-da sulla cosa, e tale intesa accade nel medium del linguaggio […]. Ogni dialogo presupponeche i due interlocutori parlino la stessa lingua. Solo dove è possibile intendersi attraverso unacomunicazione linguistica può sorgere il problema della comprensione […].

Il dialogo è un processo di comprensione. È proprio di ogni vero dialogo che uno rispon-da all’altro, riconosca nel loro vero valore i suoi punti di vista e si trasponga in lui non nelsenso di volerlo comprendere come individualità particolare, ma di intendere ciò che eglidice. Ciò che si tratta di cogliere sono le sue ragioni, in modo da potersi intendere con luisull’oggetto del dialogo […].

Tutto ciò che caratterizza la situazione della comprensione nel dialogo prende la sua verae propria accezione ermeneutica là dove si tratta della comprensione di testi. Ancora una voltaè utile partire dal caso estremo della traduzione da una lingua straniera […].

L’esempio del traduttore che ha da superare la distanza tra le lingue mette bene in luce ilrapporto reciproco che si istituisce tra l’interprete e il testo e che corrisponde al rapporto direciprocità caratteristico del processo di comprensione che si attua nel dialogo. Ogni tradut-tore, infatti, è un interprete. Il testo in lingua straniera rappresenta solo un caso di accresciu-ta difficoltà ermeneutica, cioè un caso di particolare distanza e estraneità da superare.“Estranei” o “stranieri” in questo senso preciso sono in realtà tutti gli “oggetti” con cui l’er-meneutica tradizionale ha da fare […].

[…] Accade qui come nel dialogo autentico, in cui quello che unisce i due interlocutori –in questo caso il testo e l’interprete – è la cosa, l’oggetto del discorso che essi hanno in comu-ne. Come il traduttore in funzione di interprete rende possibile la comprensione in un dialo-go solo in quanto partecipa direttamente dell’argomento di cui si tratta, così anche nei con-fronti del testo la condizione indispensabile per la comprensione è che l’interprete partecipidel senso di esso.

È dunque pienamente giustificato parlare di un dialogo ermeneutico. Da ciò consegue peròche il dialogo ermeneutico, come il dialogo vero e proprio, deve costruirsi un suo comune lin-guaggio, e questa elaborazione di un linguaggio comune, anche qui come nel dialogo vero eproprio, non è in alcun modo il semplice apprestamento di uno strumento in vista della com-prensione, ma si identifica con lo stesso processo della comprensione. Anche tra gli interlocu-tori di questo “dialogo”, come fra due persone, ha luogo una comunicazione che è più di unsemplice adattamento reciproco. Il testo porta ad espressione un certo contenuto, ma che ciòaccada dipende in definitiva dall’interprete. Entrambi sono partecipi di questa operazione.

[…] A partire dal Romanticismo, non ci si può più immaginare che i concetti di cui si servel’interpretazione si aggiungano alla comprensione come qualcosa che si prelevi dal depositodel linguaggio, dove se ne starebbero già bell’e pronti, secondo la necessità, quando manchiuna comprensione immediata. Invece il linguaggio è il mezzo universale in cui si attua la com-prensione stessa. Il modo di attuarsi della comprensione è l’interpretazione. Ciò non significa chenon ci siano specifici problemi dell’espressione. La differenza tra il linguaggio del testo e il lin-guaggio dell’interprete, o la distanza che separa il traduttore dall’originale non sono affattoquestioni secondarie. All’opposto, è vero invece che i problemi dell’espressione linguistica

20

25

30

35

40

45

50

55

60

65

70

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

779

Page 26: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

sono già di per sé problemi della comprensione stessa. Ogni comprensione è interpretazione,e ogni interpretazione si dispiega nel medium di un linguaggio, che da un lato vuol lasciare chesi esprima l’oggetto stesso e dall’altro, tuttavia, è il linguaggio proprio dell’interprete.

Il fenomeno ermeneutico appare così come un caso particolare del più generale rapporto trapensiero e linguaggio, il cui carattere enigmatico ha appunto come conseguenza il nascondersidel linguaggio nel pensiero. L’interpretazione, come il dialogo, è un circolo chiuso nella dialet-tica di domanda e risposta. È un autentico rapporto storico che si attua nel medium del linguag-gio e che perciò anche nel caso dell’interpretazione di testi possiamo denominare dialogo. Lalinguisticità del comprendere è il concretarsi della coscienza della determinazione storica.

Il nesso essenziale tra linguaggio e comprensione appare anzitutto nel fatto che è costitu-tivo della trasmissione storica l’esistere nel medium del linguaggio, di modo che l’oggetto pri-vilegiato dell’interpretazione è di natura linguistica.

1. In altri termini, nell’esperienza er-meneutica il linguaggio è il modo diessere di ogni rapporto “compren-dente” e “interpretante” dell’uomoal mondo, e quindi esso è un “mez-zo” diverso dalla “mediazione dia-lettica” dell’idealismo, in cui i con-cetti rappresentano le essenze uni-versali della realtà e la forma a prio-ri di ogni rapporto reale tra uomini ecose. In questo senso il linguaggio èessenzialmente “finito”, perché es-so coincide con il “dialogo”, vale a

dire con quell’esperienza fonda-mentale in cui un uomo si apre al-l’altro da sé, cercando di compren-derlo. L’interpretazione è di per sé ilsegno dell’insuperabile finitezzadell’uomo.2. Uno dei compiti principali dell’er-meneutica è appunto quello di com-prendere un fenomeno particolare(un testo, una lingua, una cultura,un’esperienza altra o temporalmen-te distante da chi la comprende) al-l’interno di un orizzonte più grande,

in cui si incontrano e si “fondono” –sempre grazie al medium linguisti-co – l’orizzonte dell’interpretato equello dell’interprete. 3. Grazie al linguaggio, dunque,l’ermeneutica non costituisce soloun afferramento oggettivistico diciò che viene compreso e interpre-tato, ma in qualche modo una verae propria costituzione del suo esse-re – s’intende, nella misura in cuitale “essere” si rende comprensibi-le linguisticamente.

75

80

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

780

Da questo carattere connettivo del linguaggio,“medium” di ogni comprensione, di ogni dialogo, di ogni incontro tra l’uomo e il mondo e tra l’uomoe l’altro uomo, deriva il fatto che esso entri in qualche modo a costituire l’essere di chicomprende e di quello che è compreso. Per questo Gadamer arriva a concludere chel’essere «che può venir compreso» non esiste al di

fuori del linguaggio, ma coincide con esso. Il linguaggio è così il luogo di incontro tra io emondo, cioè l’orizzonte storicamente determinato di appartenenza ad una tradizione, e al tempostesso il mezzo universale di questa mediazioneche concede sempre in ogni concreto confronto la possibilità di nuove aperture di senso.

Un’ontologia linguisticaIl linguaggio è un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si presentano nella lorooriginaria congenerità: è questa l’idea che ha guidato la nostra riflessione. Abbiamo anchemesso in luce come questo mezzo speculativo del linguaggio si presenti come un accadere fini-to in contrasto con la mediazione dialettica del concetto1. In tutti i casi analizzati, sia nel lin-guaggio del dialogo come in quello della poesia e anche in quello dell’interpretazione, ci èapparsa la struttura speculativa del linguaggio, che consiste nel non essere un riflesso di qual-cosa di fissato, ma un venire all’espressione in cui si annuncia una totalità di senso […]2. Oraci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indi-ca una struttura ontologica universale, cioè la struttura fondamentale di tutto ciò che in gene-rale può essere oggetto del comprendere. L’essere che può venir compreso è linguaggio. Il feno-meno ermeneutico riflette per così dire la sua propria universalità sulla struttura stessa delcompreso, qualificandola in senso universale come linguaggio e qualificando il proprio rappor-to all’ente come interpretazione. Così, non parliamo solo di un linguaggio dell’arte, ma anchedi un linguaggio della natura, o più in generale di un linguaggio che le cose stesse parlano3.

5

10

Page 27: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

[…] Il modo di essere speculativo del linguaggio rivela così il suo universale significatoontologico. Ciò che viene ad espressione nel linguaggio è qualcosa d’altro dalla parola stessa.Ma la parola è parola solo in virtù di ciò che in essa si esprime. Esiste nel suo proprio esseresensibile solo per scomparire in ciò che è detto. A sua volta, ciò che viene ad espressione inessa non è qualcosa che esista prima separatamente, ma solo nella parola riceve la propriasostanziale determinatezza.

Ci risulta ora chiaro che ciò che avevamo di mira nella critica della coscienza estetica edella coscienza storica, con cui abbiamo iniziato la nostra analisi dell’esperienza ermeneuti-ca, era questo movimento speculativo. L’essere dell’opera d’arte, abbiamo visto, non è un in-sé, che si distingua dalla sua esecuzione o dalla contingenza del suo modo di presentarsi; soloin virtù di una tematizzazione secondaria dei due aspetti si giunge a questa “differenziazioneestetica”. Parimenti, ciò che si offre alla nostra conoscenza storica come proveniente dalla tra-dizione o come tradizione, cioè sul piano storico o su quello filologico, il significato di unavvenimento o il senso di un testo, non è un oggetto in sé fissato, che si tratti di accertare:anche la coscienza storica implica in realtà una mediazione di passato e presente. Essendosiriconosciuto il linguaggio come mezzo universale di questa mediazione, il nostro problemasi è allargato dai suoi elementi di partenza, la critica della coscienza estetica e della coscien-za storica e il concetto di ermeneutica da mettere al loro posto, a un piano universale. Il lin-guaggio e quindi la comprensione sonocaratteri che definiscono in generale efondamentalmente ogni rapporto del-l’uomo col mondo. L’ermeneutica, comeabbiamo visto, è in questo senso unaspetto universale della filosofia, e nonsolo la base metodologica delle cosid-dette scienze dello spirito.

15

20

25

30

35

40

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

781

guida

alla

lettu

ra1. Perché Gadamer chiama il linguaggio il “mezzo” del-l’esperienza ermeneutica?

2. In che cosa consiste il “dialogo” tra l’interprete e l’altro ol’estraneo?

3. Perché il linguaggio ermeneutico viene chiamato il mezzo“universale”?

4. Perché in Gadamer l’ermeneutica diviene un’ontologialinguistica?

La tesi di fondo di Jacques Derrida, nel saggioDella grammatologia (1967), è che la filosofiaoccidentale, privilegiando il “linguaggio parlato”(phonè) si sia costituita sin dall’origine – in formecerto differenti, ma concordi nell’essenziale – comeun fono-logocentrismo. Rispetto a questa modalità– per Derrida forse la principale, con cui il pensierooccidentale ha definito sé stesso come unametafisica della presenza –, l’alternativa è quella di ripensare il rapporto tra linguaggio parlato(phonè) e “scrittura” (grammè), sottraendoall’oralità il primato che quella tradizione le avevaassegnato. Per far ciò, secondo il filosofo franco-algerino, è necessario liberare la scrittura da quella interpretazione (in auge da Aristotele in poi) che l’aveva identificata con una mera

trascrizione grafica dell’oralità e che la definiva,operando una inammissibile riduzione, comesignificante del significante. Secondo Derrida,invece, la scrittura non può essere pensata come un significante di secondo livello, cioè come il significante della parola parlata (che si costituirebbe invece come il significanteimmediato delle rappresentazioni), ma va alcontrario interpretata come la modalità propria con cui il linguaggio deve declinarsi nell’epocapostmetafisica della modernità. In tal senso, la proposta di Derrida è quella di privilegiare la scrittura (grammè) e di costituirla, come recita il titolo del saggio, come oggetto dellagrammatologia (scienza, appunto, del segno scritto).

T19 Jacques Derrida Il linguaggio come scritturaDella grammatologia, parte I, cap. 1, § 1

Page 28: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

Il linguaggio: un problema inflazionatoComunque si pensi a questo proposito, il problema del linguaggio certamente non è mai statoun problema fra altri. Mai però quanto oggi esso aveva invaso come tale l’orizzonte mondialedei più diversi tipi di ricerca e dei discorsi più eterogenei nella loro intenzione, nel loro meto-do, nella loro ideologia. Ne dà testimonianza la stessa svalutazione della parola “linguaggio”,tutto ciò che, nel credito che gli si fa, denuncia la viltà del vocabolario, la tentazione di sedur-re a poche spese, l’abbandono passivo alla moda, la coscienza d’avanguardia cioè l’ignoranza.Questa inflazione del segno “linguaggio” è l’inflazione del segno stesso, l’inflazione assoluta,l’inflazione stessa. Purtuttavia, con una faccia od un’ombra di sé stessa, essa fa ancora segno:questa crisi è anche un sintomo. Essa indica quasi suo malgrado che un’epoca storico-meta-fisica deve infine determinare come linguaggio la totalità del suo orizzonte problematico. Lodeve non solo perché tutto ciò che il desiderio aveva voluto strappare al gioco del linguaggiovi si trova ripreso, ma anche perché ad un tempo il linguaggio stesso se ne trova minacciatonella sua vita, espropriato, disancorato per il fatto di non avere più limiti, rimandato alla suafinitezza proprio nel momento in cui i suoi limiti sembrano cancellarsi, proprio nel momen-to in cui cessa di essere rassicurato su sé stesso, contenuto e delimitato dal significato infini-to che sembrava eccederlo.

Il programma della grammatologiaOra, con un lento movimento la cui necessità si lascia appena percepire, tutto ciò che daalmeno circa venti secoli tendeva ed alla fine giungeva a raccogliersi sotto il nome di lin-guaggio, comincia a lasciarsi spostare o almeno riassumere sotto il nome di scrittura. Peruna necessità che si lascia appena percepire avviene come se, cessando di designare unaforma particolare, derivata, ausiliaria del linguaggio in generale (che lo si intenda comecomunicazione, relazione, espressione, significazione, costituzione del senso o pensiero,ecc.), cessando di designare la pellicola esterna, l’inconsistente doppio di un significantemaggiore, il significante del significante, il concetto di scrittura cominciasse a debordarel’estensione del linguaggio. In qualsiasi senso di questa parola, la scrittura comprendereb-be il linguaggio. Non che la parola “scrittura” cessi di designare il significante del signifi-cante, appare però in una strana luce il fatto che “significante del significante” cessi didefinire il raddoppiamento accidentale e la secondarietà decaduta. “Significante del signi-ficante” descrive al contrario il movimento del linguaggio: nella sua origine, certo, ma giàsi comincia ad avvertire che un’origine, la cui struttura si scompone in tal modo – signi-ficante di significante –, s’immette e si cancella da sé stessa nella propria produzione. Ilsignificato vi funziona già da sempre come un significante. La secondarietà che si crede-va di poter riservare alla scrittura affètta ogni significato in generale, già da sempre, cioèdall’inizio del gioco. Non si dà significante che sfugga, sia pure per eventualmente cadervidopo, al gioco dei rinvii significanti di cui è costituito il linguaggio. L’avvenimento dellascrittura è l’avvenimento del gioco, il gioco oggi si riconsegna a sé stesso, cancellando illimite a partire dal quale si è creduto di poter regolare la circolazione dei segni, e trasci-nando con sé tutti i significati rassicuranti, costringendo alla resa tutte le piazzeforti, tuttii rifugi del fuorigioco che vegliavano sul campo del linguaggio. Ciò porta, a rigore, adistruggere il concetto di “segno” in tutta la sua logica. Non è senza dubbio un caso chequesto debordamento sopravvenga proprio nel momento in cui l’estensione del concettodi linguaggio cancella tutti i suoi limiti. Lo vedremo: tale debordamento e cancellazionehanno lo stesso senso, sono un solo e medesimo fenomeno. Avviene come se il concettooccidentale di linguaggio (in ciò che, al di là della sua plurivocità e al di là della stretta eproblematica opposizione tra la parola e la lingua, lo lega in generale alla produzione fone-matica o glossematica, alla lingua, alla voce, all’udito, al suono ed al soffio, alla parola) sirivelasse oggi come la veste o il travestimento di una scrittura prima: più fondamentale diquella che, prima di questa conversione, passava per il semplice «supplemento alla paro-

5

10

15

5

10

15

20

25

30

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

782

Page 29: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

la» (Rousseau). O la scrittura non è mai stata un semplice “supplemento”, oppure urgecostruire una nuova logica del “supplemento”1. […]

Questi travestimenti non sono contingenze storiche di cui stupirsi oppure dolersi. Il loromovimento era assolutamente necessario, di una necessità che non può comparire, per esse-re giudicata, di fronte ad alcuna altra istanza. Il privilegio della phonè non dipende da unascelta che si sarebbe potuto evitare. Esso corrisponde ad un momento dell’economia (diciamo,della “vita” della “storia” o dell’“essere come rapporto a sé”). Il sistema dell’“intendersi-par-lare” attraverso la sostanza fonica – che si dà come significante non-esteriore, non-mondano,dunque non-empirico o non-contingente – ha dovuto dominare nel corso di tutta un’epocala storia del mondo, ha anzi prodotto l’idea di mondo, l’idea di origine del mondo a partiredalla differenza fra il mondano e il non mondano, il fuori e il dentro, l’idealità e la non idea-lità, l’universale ed il non universale, il trascendentale e l’empirico, ecc.

Con un successo diseguale ed essenzialmente precario, questo movimento avrebbe tesoin apparenza, come verso il suo tèlos, a confinare la scrittura in una funzione seconda estrumentale: traduttrice di una parola piena e pienamente presente (presente a sé, al suosignificato, all’altro, condizione stessa del tema della presenza in generale), tecnica al ser-vizio del linguaggio, porta-voce, interprete di una parola originaria a sua volta sottrattaall’interpretazione.

Tecnica al servizio del linguaggio: qui non ricorriamo a una essenza generale della tecni-ca che ci sarebbe già famigliare e ci aiuterebbe a comprendere, come un esempio, il concettolimitato e storicamente determinato della scrittura. Pensiamo al contrario che un certo tipodi interrogazione sul senso e l’origine della scrittura preceda o almeno si confonda con uncerto tipo di interrogazione sul senso e l’origine della tecnica. Proprio per questo non avver-rà mai che la nozione di tecnica illumini semplicemente la nozione di scrittura.

Avviene dunque come se ciò che si chiama linguaggio avesse potuto essere, nella sua ori-gine e nella sua fine, soltanto un momento, un modo essenziale ma determinato, un fenome-no, un aspetto, una specie della scrittura. E non fosse riuscito a farlo dimenticare, a dare ilcambio, che nel corso di una avventura: come questa avventura stessa. Avventura tutto som-mato abbastanza breve. Essa si confonderebbe con la storia che associa la tecnica e la metafi-sica logocentrica da circa tre millenni. Ed essa si avvicinerebbe ora a ciò che propriamente èil suo esaurimento. E all’occorrenza, ed è solo un esempio fra tanti altri, a quella morte dellaciviltà del libro di cui tanto si parla, e che si manifesta anzitutto nella convulsa proliferazio-ne delle biblioteche.

Senza dubbio malgrado le apparenze questa morte del libro non annuncia (e in certo mododa sempre) nient’altro che una morte della parola (di una parola sé-dicente, piena) ed unanuova mutazione nella storia della scrittura, nella storia come scrittura. L’annuncia a qualchesecolo di distanza, è su questa scala che occorre qui calcolare, pur guardandosi dal trascura-re la qualità di una durata storica fortemente eterogenea: tale è l’accelerazione, e tale è il suosenso qualitativo, che ci si ingannerebbe assai a valutare prudentemente secondo ritmi pas-sati. Indubbiamente “morte della parola” è qui una metafora: prima di parlare di sparizioneoccorre pensare a una nuova situazione della parola, alla sua subordinazione in una struttu-ra di cui essa non sarà più l’arconte.

Così, affermare che il concetto di scrittura eccede e comprende quello di linguaggio, sup-pone, beninteso, una data definizione del linguaggio e della scrittura. Se non tentassimo di

1. Derrida si riferisce qui all’ambi-gua concezione della scrit tura pro-posta da Jean-Jacques Rousseau(cui è dedicata la seconda parte diDella grammatologia): da un latoessa viene vista come un “supple-

mento”, cioè un mezzo per supplirealla memoria delle parole vive, pro-nunciate foneticamente, e che se-gnerebbe la decadenza dei costumie il trionfo della cultura; dall’altroviene riabilitata e valorizzata attra-

verso la concezione del la letteratu-ra, attraverso la quale gli uominipossono riappropriarsi della loronatura.

35

40

45

50

55

60

65

70

75

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

783

Page 30: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

giustificarla, cederemmo al movimento d’inflazione che abbiamo appena segnalato, che si èanche impadronito della parola “scrittura”, e non a caso. Infatti da un certo tempo, con ungesto e secondo motivi profondamente necessari di cui sarebbe più facile denunciare la degra-dazione che disvelare l’origine, qua e là si diceva “linguaggio” per azione, movimento, pen-siero, riflessione, coscienza, inconscio, esperienza, affettività, ecc. Oggi si tende a dire “scrit-tura” per tutto ciò e per altro: per designare non solo i gesti fisici dell’iscrizione letterale, pit-tografica o ideografica, ma anche la totalità di ciò che la rende possibile; inoltre, al di là dellafaccia significante, anche la faccia significata, ed in questo modo, tutto ciò che può dar luogoad un’iscrizione in generale, letterale o no, ed anche se ciò che essa distribuisce nello spazioè estraneo all’ordine della voce: cinematografia, coreografia, sicuramente, ma anche “scrittu-ra” pittorica, musicale, scultorea, ecc. Si potrebbe anche parlare di scrittura atletica e ancorpiù, se si pensa alle tecniche che dominano oggi questi ambiti, di scrittura militare o politi-ca. Tutto ciò per descrivere non solo il sistema di notazione che si applica secondariamente aqueste attività, ma l’essenza ed il contenuto di queste attività stesse. Proprio in questo sensooggi il biologo parla di scrittura e di programma a proposito dei più elementari processi diinformazione nella cellula vivente. Ed infine tutto il campo coperto dal programma ciberne-tico, che esso abbia o no dei limiti essenziali, sarà campo di scrittura. Pur supponendo che lateoria della cibernetica riesca a dislocare in essa ogni concetto metafisico – persino quello dianima, di vita, di valore, di scelta, di memoria – che fino ad ora erano serviti ad opporre lamacchina all’uomo, essa dovrà conservare, fintantoché non si denunci a sua volta la suaappartenenza storico-metafisica, la nozione di scrittura, di traccia, di gramma o di grafema.Ancor prima di essere determinato come umano (con tutti i caratteri distintivi che si sonosempre attribuiti all’uomo e tutto il sistema di significati che essi implicano) o come a-umano, il gramma – o il grafema – darebbe così il nome all’elemento. Elemento senza sempli-cità. Si intenda elemento come l’ambiente o l’atomo irriducibile dell’archi-sintesi in generale,di ciò che ci si dovrebbe proibire di definire all’interno del sistema di opposizioni della meta-fisica, di ciò che conseguentemente non si dovrebbe neppure chiamare l’esperienza in gene-rale, né l’origine del senso in generale.

Questa situazione si è annunciata già da sempre. Ma perché si sta facendo riconoscerecome tale e in ritardo? Questa domanda richiederebbe un’analisi interminabile. Prendiamosemplicemente qualche punto di riferimento a mo’ di introduzione al nostro limitato disegno.Abbiamo già fatto allusione alla matematica teorica: la sua scrittura, che la si intenda comegrafia sensibile (e questa suppone già una identità, dunque un’idealità della sua forma, il cherende fin dal principio assurda la nozione così correntemente ammessa di “significante sen-sibile”), oppure come sintesi ideale dei significati o traccia operativa ad un altro livello, oancora, più profondamente, come il passaggio dagli uni agli altri, non è mai stata assoluta-mente legata ad una produzione fonetica. All’interno delle culture che praticano la scritturadetta fonetica, la matematica non è solamente un’isola. D’altronde questa è segnalata da tuttigli storici della scrittura: essi ricordano allo stesso tempo le imperfezioni della scrittura alfa-betica, che tanto a lungo è passata per la scrittura più comoda e “più intelligente”. Quest’isolaè anche il luogo in cui la pratica del linguaggio scientifico contesta dall’interno ed in modosempre più profondo l’ideale della scrittura fonetica e tutta la sua metafisica implicita (lametafisica), cioè in particolare l’idea filosofica dell’epistème; così pure quella di istorìa che leè profondamente solidale malgrado la dissociazione o l’opposizione che le ha rapportate l’unaall’altra nel corso di una fase del loro cammino comune. La storia ed il sapere, istorìa ed epi-stème sono sempre state determinate (e non solamente a partire dall’etimologia o dalla filoso-fia) come vie oblique in vista della riappropriazione della presenza.

Ma al di là della matematica teorica, lo sviluppo delle pratiche dell’informazione estendeampiamente le possibilità del “messaggio”, fino al punto che questo non è più la traduzione“scritta” di un linguaggio, il trasporto di un significato che nella sua integrità potrebbe rima-nere parlato. Tutto ciò va di pari passo con un’estensione della fonografia e di tutti i mezzi

80

85

90

95

100

105

110

115

120

125

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

784

Page 31: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

per conservare il linguaggio parlato, per farlo funzionare al di fuori della presenza del sogget-to parlante. Questo sviluppo, unitamente a quello dell’etnologia e della storia della scrittura,ci insegna che la scrittura fonetica, ambito della grande avventura metafisica, scientifica, tec-nica, economica dell’Occidente, è limitata nel tempo e nello spazio, si limita da sé stessa nelpreciso momento in cui sta per imporrela sua legge a quelle poche aree cultura-li che ancora le sfuggivano. Ma questanon fortuita congiunzione della ciber-netica e delle “scienze umane” dellascrittura rimanda ad un rivolgimentopiù profondo.

130

135

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

785

guida

alla

lettu

ra1. Che cosa intende Derrida nel chiamare la scrittura «il si-gnificante del significante»?

2. Perché nella tradizione filosofica occidentale si è avutosempre il predominio della phonè?

3. Che cosa suggerisce l’esempio della matematica teorica?

4. Qual è la costituzione e la funzione della scrittura?

In Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (2000) Noam Chomsky pone a confronto la teoria del linguaggio da lui propostanegli anni Cinquanta con i risultati teorici e sperimentali conseguiti dagli studi più recenti sul linguaggio e sulla mente. Ne deriva una nuovaesposizione della teoria, profondamente rivista da un punto di vista linguistico, masostanzialmente invariata nella sua prospettivagenerale. Il linguaggio continua ad essere per Chomsky il fenomeno naturale per il qualel’individuo uomo si distingue dagli individuiappartenenti a tutte le altre specie animali.Caratterizzandosi come una vera e propria facoltàinnata, infatti, esso fa dell’uomo un punto di assoluta discontinuità nella storia evolutiva del nostro pianeta. La specificità e l’universalità di questa facoltà è, secondo Chomsky, un datotalmente evidente – e soprattutto continuamenteconfermato dagli studi teorici e sperimentali – che tutte le lingue storiche esistenti possono

essere considerate, e scientificamente ricondotte, a una sorta di tema unico, una struttura linguisticacomune e soggiacente, di cui esse non possono che essere considerate come variazioni. Talestruttura, a cui appunto è possibile risalireattraverso l’indagine linguistica, è una grammaticauniversale che costituisce lo stato iniziale di tuttequelle grammatiche che caratterizzano edeterminano le lingue storiche. Infatti, consideratoquesto stato iniziale come un dato, e fornita comeinput l’esperienza che si acquisisce interagendocon un certo ambiente, ciascun individuo genereràcome output una lingua storica identica a quellache un altro individuo qualsiasi genererebbe sesottoposto agli stessi condizionamenti ambientali.L’esistenza di una facoltà del linguaggio innatadella specie umana è inoltre un fatto sorprendente,costantemente confermato, secondo Chomsky,dalla celerità con cui un qualsiasi bambinoapprende una lingua che gli viene quotidianamenteinsegnata dagli adulti che lo circondano.

T20

Il fatto che il linguaggio abbia esercitato, nel corso del tempo, un fascino così forte non è sor-prendente: la facoltà di linguaggio umana sembra infatti costituire un’autentica “proprietàdella specie”, perché presenta una variazione minima fra gli esseri umani e non ha un verocorrispettivo in altre specie; forse il corrispettivo più vicino si ritrova negli insetti, a unadistanza evolutiva di un miliardo di anni. Non ci sono ragioni serie per mettere in discussio-ne l’idea cartesiana che la capacità di usare segni linguistici per esprimere pensieri liberamen-te formati rappresenti la vera differenza fra l’uomo e l’animale o la macchina, sia che per“macchina” si intendano gli automi che catturavano l’immaginazione degli uomini del XVIIe XVIII secolo, sia che si intendano quelli che oggi stimolano il nostro pensiero e la nostraimmaginazione.

5

10

Noam Chomsky Il linguaggio come facoltà della specie uomo Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, cap. 1

Page 32: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

La facoltà di linguaggio costituisce inoltre una parte integrante di ogni aspetto della vita,del pensiero e dell’interazione degli esseri umani, ed è in gran parte responsabile del fatto cheessi costituiscano l’unica specie ad avere una storia, un’evoluzione e una differenziazione cul-turale di ricchezza e complessità notevolissime, nonché del loro successo biologico (nel sensotecnico che essi sono molto numerosi). Per uno scienziato marziano che osservasse gli stra-ni avvenimenti che si verificano sul pianeta Terra sarebbe difficile non rimanere colpito dallanascita e dall’importanza di questa forma di organizzazione intellettuale apparentementeunica. Un aspetto ancora più naturale di questa situazione è che l’argomento, con tutti i suoimisteri, abbia stimolato la curiosità di coloro che cercano di comprendere la loro natura e laloro posizione all’interno del mondo.

[…]La facoltà di linguaggio può essere ragionevolmente considerata un “organo di linguaggio”

nel senso in cui gli scienziati parlano del sistema visivo, del sistema immunitario o del siste-ma circolatorio come organi del corpo. Inteso in questo senso, un organo non è qualcosa chepossa essere rimosso dal corpo lasciando il resto intatto: costituisce piuttosto un sottosiste-ma di una struttura più complessa, e noi speriamo di comprenderlo in tutta la sua comples-sità studiandone parti che presentano caratteristiche distintive e la loro interazione; lo studiodella facoltà di linguaggio procede nello stesso modo.

Partiamo inoltre dall’ipotesi che l’organo linguistico sia esattamente come gli altri organi,in quanto le sue caratteristiche fondamentali sono l’espressione di geni. La possibilità di capi-re esattamente come ciò avvenga è ancora lontana, ma possiamo studiare in altri modi lo“stato iniziale”, geneticamente determinato, della facoltà di linguaggio. È evidente che ognilingua costituisce il risultato di due fattori: lo stato iniziale e l’esperienza. Possiamo concepi-re lo stato iniziale come un “meccanismo di acquisizione del linguaggio” che prende l’espe-rienza come input e produce la lingua come output, un output che è internamente rappre-sentato nella mente (o nel cervello). Tanto l’input quanto l’output sono passibili di indagine:possiamo studiare sia lo svolgersi dell’esperienza sia le proprietà delle lingue acquisite. Ciòche impariamo applicando questo metodo di indagine può fornirci moltissime informazionisullo stato iniziale che rappresenta le mediazioni tra i due livelli.

Vi sono inoltre ottime ragioni per credere che lo stato iniziale sia comune alla specie: se imiei figli fossero cresciuti a Tokyo, parlerebbero giapponese come i bambini che vivono inquella città. […] In questo modo risulta possibile […] formulare diversi problemi per la bio-logia del linguaggio: in che modo i geni determinano lo stato iniziale? Quali sono i meccani-smi neurocerebrali implicati nello stato iniziale e negli stati successivi in cui lo stato inizialesi evolve? Tali problemi sono estremamente complessi, e lo sarebbero anche se riguardasserosistemi molto più semplici per i quali fosse possibile la sperimentazione diretta; alcuni di essi,tuttavia, potrebbero essere all’orizzonte dell’agenda di ricerca.

L’approccio che ho brevemente delineato si occupa della facoltà di linguaggio: studia il suostato iniziale e quelli a cui esso dà luogo. Supponiamo che l’organo di linguaggio di Pietro sianello stato L. Possiamo concepire L come la “lingua internalizzata” di Pietro. Quando parlodi una lingua, è esattamente questo che intendo; così concepita, una lingua è qualcosa come“la maniera in cui parliamo e comprendiamo”, e tale caratterizzazione corrisponde certamen-te a uno dei modi tradizionali di concepire una lingua.

Adattando un termine tradizionale a un nuovo quadro di riferimento teorico, chiamiamola teoria della lingua di Pietro “grammatica” della sua lingua. La lingua di Pietro determinaun insieme infinito di espressioni, ciascuna delle quali dotata di un suono e un significato.Con un termine tecnico, diciamo che la lingua di Pietro “genera” le espressioni della linguadi Pietro; per questa ragione la teoria della sua lingua viene chiamata “grammatica generati-va”. Ciascuna espressione rappresenta un complesso di proprietà che forniscono “istruzioni”ai sistemi di esecuzione di Pietro: il suo apparato articolatorio, i modi in cui organizza i suoipensieri, e così via. Se la sua lingua e i sistemi di esecuzione che le sono associati funziona-

15

20

25

30

35

40

45

50

55

60

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

786

Page 33: IL LINGUAGGIO - Laterza

3 Il linguaggio

no regolarmente, Pietro possiede molte conoscenze sul suono e sul significato delle espres-sioni, nonché una corrispondente capacità di interpretare quanto sente, esprimere i suoi pen-sieri e usare la sua lingua in molti altri modi.

[…] I primi tentativi di attuare il programma della grammatica generativa hanno presto messo

in luce che anche nelle lingue meglio studiate alcune proprietà elementari non erano statericonosciute e che anche le grammatiche e i dizionari tradizionali più ampi e ricchi lambiva-no solo la superficie. Le proprietà fondamentali del linguaggio vengono date costantementeper scontate, e in questo modo non vengono riconosciute ed espresse. In ciò non vi è nulladi male, se il fine è aiutare le persone ad apprendere una lingua straniera, trovare il significa-to e la pronuncia convenzionali delle parole o giungere a qualche idea generale di quali pos-sono essere le differenze tra le lingue; ma se il nostro fine è comprendere la facoltà di linguag-gio e gli stati in cui quest’ultima può trovarsi, non possiamo implicitamente presupporrel’“intelligenza del lettore”; quest’ultima costituisce invece proprio l’oggetto della ricerca.

Lo studio dell’acquisizione del linguaggio conduce alla medesima conclusione. Uno sguar-do all’interpretazione delle espressioni mette subito in luce che il bambino, sin dalle fasi piùprecoci, sa molto più di quanto possa avergli insegnato l’esperienza. Ciò vale anche per paro-le semplici. Nei momenti in cui la crescita linguistica è più rapida, il bambino apprende paro-le a ritmo di circa una all’ora, in situazioni contrassegnate da grande ambiguità e da limitataesposizione ai dati. Le parole vengono interpretate in modi sottili e intricati che vanno ben aldi là della portata di qualsiasi dizionario e cominciano a essere studiati solo ora. Quando cispingiamo al di là delle singole parole, la conclusione diventa ancora più drammatica: l’ac-quisizione del linguaggio è in generale molto simile alla crescita degli organi; costituisce qual-cosa che accade al bambino, non è qualcosa che il bambino fa. E se l’ambiente è certamenteimportante, la direzione generale dello sviluppo e le caratteristiche fondamentali di quelloche ne costituisce il risultato sono predeterminate dallo stato iniziale. Ma lo stato iniziale èuna proprietà comune a tutti gli esseri umani; ne consegue dunque necessariamente che lelingue, nelle loro proprietà essenziali e anzi fin nei minimi dettagli, sono della stessa natura:uno scienziato marziano potrebbe ragionevolmente concludere che c’è una sola linguaumana, la quale assume forme diverse solo per aspetti marginali.

Via via che le lingue venivano studiate attentamente dal punto di vista della grammaticagenerativa, diveniva sempre più chiaro che le loro differenze erano state sottostimate radical-mente quanto lo erano state la loro complessità e la misura in cui vengono predeterminatedallo stato iniziale della facoltà di linguaggio. Allo stesso tempo sappiamo che queste diver-sità e complessità non possono essere nulla di più che apparenza superficiale.

Si tratta di conclusioni sorprendenti, paradossali ma certe. Esse espongono in forma bru-tale quello che è divenuto il problema centrale degli studi moderni sul linguaggio: come pos-siamo mostrare che tutte le lingue sono variazioni su un singolo tema, registrando nel con-tempo fedelmente le loro intricate proprietà fonologiche e interpretative, superficialmentediverse? […]

Possiamo pensare lo stato iniziale della facoltà di linguaggio nei termini di una rete fissaconnessa a un pannello di interruttori elettrici a due posizioni; la rete è costituita dai princì-pi del linguaggio, mentre gli interruttori costituiscono le opzioni che devono essere fissatedall’esperienza. Quando gli interruttori vengono disposti in un modo abbiamo lo swahili1;quando vengono disposti in un altro modo abbiamo il giapponese. Ogni possibile linguaumana si identifica con una specifica disposizione degli interruttori (una disposizione diparametri, per adottare la terminologia tecnica); se il programma di ricerca ha successo

1. Lo swahili è un idioma diffuso in diverse zone dell’Africa ed è la lingua nazionale in Tanzania, Kenia e Uganda.

65

70

75

80

85

90

95

100

105

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

787

Page 34: IL LINGUAGGIO - Laterza

percorsi tematici

dovremmo essere in grado di derivare letteralmente lo swahili da una certa disposizione deiparametri, il giapponese da un’altra e così via per tutte le lingue che un essere umano puòapprendere. Le condizioni empiriche in cui avviene l’acquisizione del linguaggio esigono chela posizione degli interruttori venga fissata sulla base dell’informazione assai limitata cherisulta disponibile al bambino. Si noti che piccoli cambiamenti nella disposizione dell’inter-ruttore possono produrre enormi variazioni nell’output, visto che si registra una proliferazio-ne di effetti attraverso il sistema. Queste sono le proprietà generali del linguaggio che ogniautentica teoria deve in qualche modo cercare di esprimere.

[…] Come programma di ricerca, tuttavia, questo approccio ha conseguito successi con-siderevoli portando a una vera esplosione di ricerche empiriche su lingue appartenenti a unagamma tipologica assai vasta e dando luogo a nuove domande che prima non si sarebberonemmeno potute formulare, nonché a molte riposte affascinanti. Anche i problemi di acqui-sizione, di analisi di frasi o testi, di patologie linguistiche e altri ancora hanno assunto formenuove, portando a molti risultati inte-ressanti. Inoltre, indipendentemente daquello che sarà il suo destino, il pro-gramma di ricerca […] fornisce perlo-meno i lineamenti generali di un’auten-tica teoria del linguaggio, ed è davverola prima volta che ciò accade.

110

115

120

125

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

788

guida

alla

lettu

ra1. In che cosa consiste secondo Chomsky la “facoltà del lin-guaggio”?

2. Qual è la natura e la funzione della “grammatica genera-tiva”?

3. Qual è l’input e quale l’output nel meccanismo dell’acqui-sizione del linguaggio?

• E. Husserl, Ricerche Logiche, trad. di G. Piana, 2 voll., Il Saggiatore,Milano 1968.• F. de Saussure, Corso di linguisticagenerale, trad. di T. De Mauro,Laterza, Roma-Bari 200821.• L. Wittgenstein, Ricerchefilosofiche, a cura di M. Trinchero,trad. di R. Provesan e M. Trinchero,

Einaudi, Torino 1999. • M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo,trad. di A. Caracciolo e M. CaraccioloPerotti, Mursia, Milano 1973, cap. 3(«L’essenza del linguaggio») e cap. 5(«Il cammino verso il linguaggio»).• H.-G. Gadamer, Verità e metodo,trad. di G. Vattimo, testo tedesco

a fronte, Bompiani, Milano 2000.• J. Derrida, Della grammatologia,trad. di R. Balzarotti et al., Jaca Book,Milano 1989.• N. Chomsky, Nuovi orizzonti nellostudio del linguaggio e della mente,ed. it. a cura di D. Delfitto e G. Graffi,Il Saggiatore, Milano 2005.

BIBLIOGRAFIA