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Il processo d’integrazione balcanico e l’Italia 1952-1954 Francesco Torcoli Nel febbraio del 1953 veniva firmato, nella capi- tale turca, il Trattato di Ankara tra Grecia, Tur- chia, e Jugoslavia. Esso stabiliva una forma di cooperazione tra i tre paesi balcanici anche nel campo militare. Questo processo d’integrazione ebbe notevoli influenze sull’Italia in campo sia politico sia diplomatico, nonché ripercussioni al- l’interno dell’Alleanza Atlantica. Gli Stati Uniti e il Regno Unito infatti videro, nella situazione che si venne a creare, l’opportunità che consenti- va loro d’inserire la Jugoslavia nel dispositivo di sicurezza occidentale, rafforzandolo in quello che appariva, ed era, un settore particolarmente delicato dal punto di vista del confronto-scontro tra il blocco occidentale e quello sovietico. L’articolo vuole ricostruire, attraverso una rilet- tura della documentazione reperibile presso l’Archivio storico del ministero degli Affari este- ri, l’atteggiamento assunto dall’Italia rispetto al- la nuova situazione, ricca di possibilità, che si venne a determinare in seguito alla rottura tra Tito e Stalin e fare luce sui i progetti che ispira- rono l’attività della diplomazia del nostro paese nei confronti dei suoi alleati nella Nato. The treaty of Ankara, signed by Greece, Turkey and Jugoslavia in February 1953, provided for a certain degree o f cooperation also in the military field. This integration process played a remark- able influence on Italy both at diplomatic and po- litical level, while having major repercussions in- side the Atlantic Alliance. The United States and Britain were in fact to welcome the situation being thus brought forth as a golden opportunity for including Jugoslavia in the security apparatus o f the West, so as strenghten it in what appeared to be and in fact was a vital area in the con- frontation between the two blocs. By reconsidering the documents available in the Historical Archive of the Italian Ministry of For- eign Affairs, this article intends to appraise the Italian attitude toward the newfairly promising si- tuation that ansued the Tito-Stalin split, trying also to illuminate the ends inspiring the action then developed by Italy’s Diplomacy within the Nato alliance. Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206

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Il processo d’integrazione balcanico e l’Italia 1952-1954

Francesco Torcoli

Nel febbraio del 1953 veniva firmato, nella capi­tale turca, il Trattato di Ankara tra Grecia, Tur­chia, e Jugoslavia. Esso stabiliva una forma di cooperazione tra i tre paesi balcanici anche nel campo militare. Questo processo d’integrazione ebbe notevoli influenze sull’Italia in campo sia politico sia diplomatico, nonché ripercussioni al­l’interno dell’Alleanza Atlantica. Gli Stati Uniti e il Regno Unito infatti videro, nella situazione che si venne a creare, l’opportunità che consenti­va loro d’inserire la Jugoslavia nel dispositivo di sicurezza occidentale, rafforzandolo in quello che appariva, ed era, un settore particolarmente delicato dal punto di vista del confronto-scontro tra il blocco occidentale e quello sovietico. L’articolo vuole ricostruire, attraverso una rilet­tura della documentazione reperibile presso l’Archivio storico del ministero degli Affari este­ri, l’atteggiamento assunto dall’Italia rispetto al­la nuova situazione, ricca di possibilità, che si venne a determinare in seguito alla rottura tra Tito e Stalin e fare luce sui i progetti che ispira­rono l’attività della diplomazia del nostro paese nei confronti dei suoi alleati nella Nato.

The treaty o f Ankara, signed by Greece, Turkey and Jugoslavia in February 1953, provided for a certain degree o f cooperation also in the military field. This integration process played a remark­able influence on Italy both at diplomatic and po­litical level, while having major repercussions in­side the Atlantic Alliance. The United States and Britain were in fact to welcome the situation being thus brought forth as a golden opportunity for including Jugoslavia in the security apparatus o f the West, so as strenghten it in what appeared to be — and in fact was — a vital area in the con­frontation between the two blocs.By reconsidering the documents available in the Historical Archive o f the Italian Ministry o f For­eign Affairs, this article intends to appraise the Italian attitude toward the new fairly promising si­tuation that ansued the Tito-Stalin split, trying also to illuminate the ends inspiring the action then developed by Italy’s Diplomacy within the Nato alliance.

Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206

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Le conseguenze dell’espulsione della Jugoslavia dal Cominform

L’espulsione della Jugoslavia dal Comin­form, nel giugno del 1948, suscitò una viva reazione negli stati del sistema occidentale. Non ci si aspettava, infatti, uno scisma all’in- terno del blocco sovietico che fino ad allora sembrava monolitico. Gli stessi diplomatici statunitensi e britannici a Belgrado manife­stavano, nei loro dispacci, lo stupore nei con­fronti di questo avvenimento. Nessuno, però, dubitava della veridicità della rottura fra Ti­to e Stalin1 e subito si pensò a come sfruttare la situazione che appariva estremamente fa­vorevole.

L’adozione di una strategia ‘occidentale’ nei confronti della Jugoslavia non fu priva di difficoltà. Alcuni ambienti governativi americani, all’inizio, pensarono di rovesciare Tito per portare al potere forze non comuni­ste2; gli inglesi invece, con molto più realismo degli statunitensi, avrebbero preferito aiutare economicamente la Jugoslavia e cercare di utilizzarla come un cuneo per disgregare l’“impero” sovietico3. L’Occidente, secondo il Russia Committee del Foreign Office4, avrebbe dovuto mettere in rilievo il duro trat­tamento che il Cremlino aveva riservato a

Belgrado e, nello stesso tempo, aiutare Tito senza però obbligarlo ad aderire apertamente al campo occidentale e comprometterlo, per­ciò, dal punto di vista politico, dimostrando così la capacità e volontà dell’Ovest di coope­rare sul piano economico con quei governi comunisti che avessero deciso di abbandona­re il blocco sovietico5.

Questa linea fu poi adottata dall’ammini­strazione americana (grazie anche alle pres­sioni di George F. Kennan, allora direttore del Policy Planning Staff6) e divenne il fonda­mento della strategia occidentale nei con­fronti della Jugoslavia. Il documento NSC 18, elaborato dal National Security Council, racchiudeva le direttive essenziali di detta po­litica7. L’obiettivo era quello di mettere Tito in condizioni tali da poter resistere alle pres­sioni di Mosca attivando, tra l’altro, relazio­ni economiche e commerciali con la Jugosla­via qualora questa lo avesse richiesto esplici­tamente8. Così quando, alla fine del 1949, Belgrado si rivolse all’amministrazione ame­ricana per ottenere, attraverso la mediazione della Export-Import-Bank, crediti per 25 mi­lioni di dollari9, il Dipartimento di Stato fu pronto ad accogliere la richiesta. L’occasione era certamente da non perdere perché quello di mantenere Tito al potere era ormai diven-

1 Cfr. appunto di Bedell Smith del luglio 1948, in Department of State, Foreign Relations o f thè United States, Wash­ington (d’ora in avanti Frus), 1948, voi. V, p. 1083.2 Alla fine del 1948, la Central Intelligence Agency (Cia) cercò d’infiltrare in Jugoslavia gruppi di estrema destra, re­clutati tra i cetnici, nel tentativo di rovesciare il governo comunista. Tale azione si risolse in un completo fallimento, visto che tutti gli infiltrati furono arrestati nel giro di pochi giorni dagli efficienti servizi di sicurezza titini. Cfr. appunto di Bateman del 17 febbraio 1949, in Public Record Office (d’ora in avanti PRO), Foreign Office (d’ora in avanti FO) 371/78715 R 2160.3 Cfr. relazione finale del Russia Committee, 28 luglio 1949, in PRO, FO 371/77622, PUSC (31).4 Dal 1946 era stato attivato all’interno dell’apparato diplomatico britannico un Comitato ad hoc per elaborare strate­gie antisovietiche. Cfr. Elisabeth Barker, The Brilish between thè Superpowers 1945-1950, London, MacMillan, 1983, p. 47.5 Cfr. riunione del 30 giugno 1950, in PRO, FO 371/787694, RG 10392/54.6 Cfr. Wilson D. Miscamble, George F. Kennan and thè Making o f American Policy, 1947-1950, Princeton, Princeton University Press, 1992, p. 190.7 Cfr. Frus, 1949, voi. V, p. 923.8 Era soprattutto il ministro degli Esteri britannico, Ernest Bevin, che preferiva fosse la stessa Jugoslavia a richiedere la collaborazione e l’aiuto occidentale, in modo che il maresciallo Tito potesse superare eventuali resistenze interne. Cfr. memorandum di Bevin per Attlee, 7 gennaio 1949, in PRO, FO 371/78729 R 305/1152/92 G.9 Cfr. Frus, 1949, voi. V, pp. 892-894.

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tato un obiettivo di primaria importanza per gli Stati Uniti e tutto l’Occidente10. Operan­do in questa maniera, infatti, diventava pos­sibile attirare lo stato balcanico nella sfera d’influenza occidentale dal punto di vista sia politico sia economico. Contemporanea­mente si rafforzava la volontà degli jugoslavi di resistere alle pressioni sovietiche. Soprat­tutto, però, l’avvicinamento di Tito all’Occi­dente permetteva di ipotizzare 1’‘inserimento’ di Belgrado, in modi certamente ancora tutti da inventare, nel sistema difensivo atlantico.

La Jugoslavia, per la sua particolare posi­zione geografica, rivestiva un ruolo strategi­camente importante agli occhi dei pianifica­tori militari occidentali. Qualora infatti fosse stato deciso da parte sovietica un attacco, le truppe di Mosca e dei suoi satelliti avrebbero dovuto passare obbligatoriamente attraverso la Jugoslavia per accedere al controllo della pianura padana e dell’Adriatico11. Appariva dunque necessario agli stati dell’Alleanza Atlantica (soprattutto agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna) ottenere dal maresciallo Tito la ‘promessa’ di combattere al loro fianco nell’eventualità di un conflitto con l’Unione Sovietica.

L’entrata di Grecia e Turchia nella Nato alla fine del 1951 cambiava ulteriormente il panorama geostrategico nel Mediterraneo e nei Balcani e poneva, in modo più pressante, la questione dell’apporto della Jugoslavia al­la difesa del blocco occidentale e della sua possibile integrazione nell’Alleanza Atlanti­ca. Se la Jugoslavia fosse stata integrata nella Nato, Atene ed Ankara si sarebbero trovate

collegate anche territorialmente agli alleati europei12. Fu in questo contesto che ebbe ini­zio un processo di riavvicinamento, incorag­giato dagli angloamericani, tra Jugoslavia, Grecia e Turchia, allo scopo di giungere a un accordo che avrebbe dovuto coordinare la difesa dei tre paesi nel delicato settore bal­canico13. Dopo lunghe discussioni, nel feb­braio del 1953, veniva firmato nella capitale turca il Patto di Ankara tra Grecia, Turchia e Jugoslavia. Tale patto stabiliva una forma di cooperazione fra i tre paesi balcanici nei settori economici e culturali, lasciando, però, anche aperta la possibilità di estendere la col­laborazione al campo militare, in quanto l’art. 3 del trattato prevedeva consultazioni tra gli stati maggiori delle parti contraenti.

L’anno dopo, nell’agosto del 1954, a Bled in Jugoslavia, veniva firmata l’Alleanza bal­canica che istituiva un vero e proprio Patto militare fra Atene, Ankara e Belgrado.

Il processo d’integrazione ‘balcanica’, che per certi aspetti appariva come l’inserimento della Jugoslavia nella Nato (anche se questo inserimento si rileverà, ben presto, non orga­nico né definitivo), ebbe notevoli influenze sull’Italia in campo sia politico che diploma­tico. L’Italia, a partire dal 1953, entrava in una fase di revisione della propria politica estera e maturava un modo nuovo d’intende­re il rapporto con gli Stati Uniti. Il fallimen­to, o meglio il rinvio dell’attuazione della Co­munità europea di difesa (Ced)14 e la manca­ta affermazione elettorale della coalizione guidata dalla Democrazia cristiana nelle ele­zioni del giugno del 1953, che determinava la

10 La maggior parte dei documenti riguardanti la Jugoslavia, elaborati dal National Security Council in quel periodo, iniziavano nel seguente modo: “It is of great importance to the National Security Interests of the United States that Yugoslavia remains free of Soviet domination”. Cfr. “Statement of Policy Proposed by the NSC on Yugoslavia”, in Istituto universitario europeo (lue), Documents o f the NSC, 1949, Reel 1.11 Cfr. Beatrice Heuser, Western 'Containment' Policies in the Cold War. The Yugoslav Case, 1948-53, London, Routled­ge, 1989, pp. 156-159.12 Cfr. riunione del Chief of Staff Committee, 25 giugno 1951, in PRO, DEFE 5/32, COS(51) 391.13 Cfr. riunione del Chief of Staff Committee, 31 luglio 1952, in PRO, DEFE 5/40, COS(52) 429.14 Per quanto riguarda i negoziati che portarono alla firma del trattato istitutivo della Ced e al suo fallimento si veda Carlo Pinzani, L ’Italia Repubblicana, in Storia d'Italia, vol. IV, t. 3, Torino, Einaudi, 1976, pp. 2535-2536.

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fine dell’era degasperiana e l’avvento di uo­mini nuovi alla guida della De, cambiavano completamente il quadro di riferimento della politica estera. Veniva meno il disegno dega- speriano di recuperare il ruolo internazionale del paese attraverso la costruzione, in manie­ra funzionalistica, di una comunità europea e facendo sempre, però, attenzione a non met­tere in discussione la leadership americana e i rapporti bilaterali con Washington15. Il nuo­vo quadro di riferimento, invece, sarebbe sta­to caratterizzato da un atteggiamento molto più critico nei confronti del Patto Atlantico che, a detta di molti, doveva essere reinter­pretato alla luce di una ripresa del ruolo na­zionale dell’Italia e della possibilità di una sua proiezione esterna16. L’Alleanza Atlanti­ca sarebbe stata, dunque, concepita in una maniera diversa, cosi come la posizione del­l’Italia all’interno di questa e il suo ruolo in­ternazionale. Venivano, in definitiva, gettate le basi di quello che poi, nel 1957, sarebbe stato chiamato neoatlantismo17. Molte ten­

denze nazionalistiche, che mai erano scom­parse, dopo la crisi del disegno sovranaziona- le di De Gasperi, tornarono a proporsi come idee guida in ampi settori dello stato italiano. Cosi come si ripropose, in vasti settori della maggioranza, il dissenso dalla scelta politi­co-militare della Alleanza Atlantica e dalla gestione di questa scelta18.

In particolare, grazie forse ai ‘vecchi’ di­plomatici che, epurati immediatamente dopo la fine della guerra, riprendevano allora ser­vizio19, e alla persistenza di tradizioni cultu­rali e professionali proprie del corpo, l’appa­rato del ministero degli Esteri, agli inizi degli anni cinquanta, fu tra i primi settori della bu­rocrazia statale a proporre una linea caratte­rizzata da istanze nazionalistiche. Si cercò di approfittare di circostanze giudicate favore­voli, come l’entrata di Grecia e Turchia nel Patto Atlantico20 e il progetto di costituire un Middle East Defence Command21, per ri­proporre l’Italia in un ruolo balcanico e an­che medio-orientale (già Leonida Bissolati e

15 Cfr. Luigi Cortesi, Linee e caratteri della politica estera italiana dopo la seconda guerra mondiale, in Salvatore Minolfi (a cura di), L'Italia e la Nato. Una politica estera nelle maglie dell’Alleanza, Napoli, Cuen, 1993, p. 48.16 Cfr. Severino Galante, Alla ricerca della Potenza perduta. La politica internazionale della DC e del PCI negli anni '50, in Ennio Di Nolfo, Romain H. Rainero, Brunello Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza in Europa (1950- 60), Milano, Marzorati, 1992, p. 176.17 Questo neologismo fu coniato dal ministro degli Esteri di quel periodo, Giuseppe Pella. Con questo termine, Pella sembrò voler differenziare il corso che avrebbe preso la sua politica estera da quella del ministro uscente Gaetano Mar­tino. Cfr. B.C., Il gabinetto Zoli e la politica estera, “Relazioni intemazionali” , 8 giugno 1957, n. 23, p. 687.18 Cfr. Luigi Cortesi, Linee e caratteri della politica estera italiana, cit., p. 41.19 Cfr. Enrico Serra, Il Ministero degli Affari Esteri italiano dal 1945 in poi, in Opinion Publique et Politique Extérieure, 3 vol., Ili, 1945-1981. Colloque organisé par l ’Ecole française de Rome et le Centro per gli studi di politica estera e opi­nione pubblica de l ’Université de Milan en collaboration avec l ’Academia Belgica, le Deutsches historisches Institut in Rom et le Nederlands Instituut de Rome, Roma, Efr-Università di Milano, 1985, p. 189. Sulle esigenze, che poi sarebbero state disattese, di rinnovamento all’interno del servizio diplomatico, si veda l’intervento di Riccardo Bauer (Rinnovamento Diplomatico, “Relazioni internazionali”, 26 ottobre 1946, n. 20, p. 3), il quale, nel momento del passaggio del dicastero degli Esteri da Nenni a Sforza, considerava le necessità di modernizzazione dell’apparato diplomatico.20 11 governo italiano era stato uno dei primi a perorare la causa dell’ammissione dei due paesi nell’Alleanza Atlantica. L’entrata di Grecia e Turchia nella Nato, si pensava, avrebbe dato una nuova connotazione alla presenza italiana nel Patto. La penisola sarebbe diventata un caposaldo centrale nello scacchiere mediterraneo, acquistando di conseguenza un peso maggiore all’interno del sistema difensivo occidentale. Cfr. Basilio Cialdea, L'estensione mediterranea del Patto Atlantico, “Relazioni internazionali” , 26 maggio 1951, n. 21, pp. 421-422.21 L’idea di costituire un sistema difensivo medio-orientale autonomo, che non vide mai attuazione, parti da Londra. Quest’ultima infatti voleva mantenere uno stretto controllo sulle linee di comunicazione nel Mediterraneo e bilanciare, cosi, l’influenza statunitense nella Nato. Per una lucida analisi del fallimento del Middle East Defence Command si veda l’interessante saggio di David Devereux, Britain and thè Failure o f Collective Defence in thè Middle East 1948-1953, in Ann Deighton (ed.), Britain and thè First Colà War, London, MacMillan, 1990, pp. 237-251.

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Carlo Sforza, negli anni seguenti la prima guerra mondiale, avevano prospettato una decisa “balcanizzazione” della politica estera italiana22), secondo gli schemi tradizionali di una linea internazionale ispirata alla politica di potenza. Dunque, con la reintegrazione, dopo il 1947, di molti diplomatici che aveva­no avuto rapporti con il regime fascista (alcu­ni dei quali, dopo l’8 settembre del 1943, ave­vano scelto di seguire Mussolini a Salò23), si ristabiliva una certa continuità nella condu­zione della politica estera italiana in seguito, anche, alla crisi politica che costrinse il socia­lista Nenni a lasciare Palazzo Chigi in favore del repubblicano Sforza. Lo stesso Sforza, certamente antifascista, pur essendo da una parte preoccupato di riorganizzare il dicaste­ro secondo funzionalità nuove (avrebbe tra l’altro potenziato l’ufficio Stampa), per molti aspetti restava legato alle modalità della di­plomazia tradizionale degli anni venti, in cui aveva già diretto il ministero. Questa si­tuazione lasciava la strada aperta ad ‘antiche’ seduzioni e pericolose tentazioni: la ‘riorga­nizzazione’ in atto al ministero degli Esteri apriva infatti spazi che consentivano il recu­pero di posizioni di esasperato nazionalismo.

La posizione nuova che veniva ad assume­re la Jugoslavia nel contesto occidentale inci­deva su i progetti e le azioni italiane. Il recu­pero di Belgrado all’Occidente, infatti, sem­brava diventare, per i nostri alleati, un pro­

blema prioritario, e ciò a scapito delle ambi­zioni che trovavano grandi consensi all’inter­no di ampi settori della diplomazia italiana (lo stesso segretario generale, l’ambasciatore Vittorio Zoppi, era tra coloro che sosteneva­no, in un certo qual modo, la linea nazionali­stica24) e della questione di Trieste, che non aveva ancora trovato una soluzione soddisfa­cente e che veniva giudicata da alcuni diplo­matici del periodo il “ problema onnivoro” della politica estera italiana25. Di tale situa­zione gli italiani avevano avuto modo di pre­occuparsi già nelle fasi preparatorie del Patto di Ankara, quando i diplomatici di Palazzo Chigi avviarono un dibattito sulla questione. Appare importante, perciò, ricostruire i mo­menti attraverso i quali si arrivò poi all’Al­leanza Balcanica e cogliere come, rispetto ad essi, i sintomi di una politica italiana im­prontata al nazionalismo si manifestassero fin da allora già evidenti.

II Patto di Ankara

Le trattative che avevano portato alla firma del Trattato di Ankara erano iniziate nei pri­mi mesi del 1952 su iniziativa turca dietro in­coraggiamento angloamericano26.

Alla fine di gennaio del 1952, durante la vi­sita nella capitale turca del premier greco So­phocles Venizelos, il ministro degli Esteri tur-

22 Cfr. Carlo M. Santoro, La politica estera di una media potenza, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 154."3 Dopo l’8 settembre del 1943, l’apparato del ministero degli Esteri si divise in tre gruppi distinti: coloro che scelsero il governo Badoglio; quelli che prestarono servizio nella Repubblica sociale italiana; coloro che operarono una non scelta rimanendo a Roma all’Ufficio stralcio, attendendo gli sviluppi della situazione. Cfr. Mario Conciatori, 1943: la diplo­mazia italiana dopo l ’S settembre. I diplomatici italiani di fronte alle conseguenze dell'annuncio dell’armistizio, “Storia del­le relazioni internazionali”, VI, 1990, n. 2, p. 224.24 Cfr. Bruna Bagnato, Vincoli europei echi mediterranei. L ’Italia e la crisi francese in Marocco e Tunisia, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p. 47.

Cfr. Massimo De Leonardis, La "Diplomazia Atlantica" e la soluzione de!problema di Trieste 1952-1954, Napoli, Esi, 1992, p. 510.26 Erano già in corso conversazioni militari tra Belgrado da una parte e Regno Unito, Stati Uniti e Francia dall’altra, per definire il possibile apporto jugoslavo alla difesa del fronte sud della Nato visto che, dalla fine del 1951, il panorama geostrategico e politico nel Mediterraneo e nei Balcani era completamente mutato. Il 21 settembre 1951, infatti, il Con­siglio Atlantico, riunitosi nella capitale canadese, aveva deciso di invitare i governi greco e turco ad aderire alla Nato, aprendo cosi nuovi teatri di operazione. Cfr. James Eayrs, In Defence o f Canada. Growing Up Allied, Toronto, Univer­sity Press, 1985, pp. 355-356.

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co, Fuad Koprulu, aveva compiuto il primo passo ufficiale nella politica di riavvicina­mento con la Jugoslavia, invitando Rodova- novich, l’ambasciatore di Belgrado ad Anka­ra, a prendere parte alle discussioni con lo stesso Venizelos circa la possibilità di una ef­fettiva collaborazione fra i tre paesi in caso di un attacco dell’Urss e dei suoi paesi satelliti attraverso la Bulgaria27. Nonostante gli jugo­slavi avessero sulle prime manifestato delle titubanze ad impegnarsi in modo formale nella difesa del settore balcanico, la situazio­ne sembrò sbloccarsi nel maggio, quando l’ambasciatore jugoslavo ad Atene, Jovano- vic, ebbe contatti con alcuni esponenti politi­ci greci, proprio riguardo la possibilità di una collaborazione28. Anche l’addetto militare jugoslavo si mosse e, su autorizzazione del suo Stato Maggiore, informò il generale gre­co Crigoropoulos che, in caso di conflitto, la Grecia avrebbe potuto considerare le proprie frontiere con la Jugoslavia protette dalle divi­sioni di Belgrado, anche se riteneva non ne­cessari, almeno nel breve periodo, colloqui militari tra i tre paesi.

La riluttanza, da parte di Belgrado, ad im­pegnarsi in una vera e propria cooperazione strategica era da imputarsi, secondo alcuni osservatori occidentali, a problemi di politica

interna che il maresciallo Tito avrebbe dovu­to affrontare in quel periodo29. Si può però anche dire che la tattica passiva, ossia quella dell’“aspettare e vedere” , era tipica nella ge­stione delle relazioni che il leader jugoslavo intratteneva con l’Occidente. Egli, infatti, nel tessere rapporti di qualsiasi tipo con paesi non comunisti, preferiva mostrarsi piuttosto riluttante, sfruttando l’interesse che gli occi­dentali avevano per la collaborazione in mo­do da poterla negoziare partendo da posizio­ni di forza30. Nonostante ciò, il processo di riavvicinamento continuò nei mesi successivi, durante i quali ebbero luogo scambi di dele­gazioni, anche militari, tra i tre governi. Ad esempio, la delegazione guidata dal generale jugoslavo Yaksich visitò la capitale ellenica dal 5 al 13 settembre 1952, per poi proseguire alla volta di Ankara31.

Proprio l’invio di questa missione militare dimostrava l’interesse che la Jugoslavia ave­va, malgrado tutto, ad inserirsi nelle discus­sioni sui piani di difesa relativi ai Balcani. Ti­to, infatti, anche se non voleva legarsi in mo­do troppo evidente allo schieramento occi­dentale, iniziava a temere di rimanere di nuo­vo isolato nel caso la politica di apertura nei suoi confronti si fosse raffreddata in seguito al suo atteggiamento sfuggente32. Così, il go-

27 Cfr. “The Ambassador in Turkey (McGhee) to thè Department of State” , 10 febbraio 1952, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, pp. 590-591.28 Cfr. V.O., L ’amicizia greco-turca e i problemi del Mediterraneo, “Relazioni internazionali” , 10 maggio 1952, n. 19, p. 458.29 Cfr. “The Ambassador in Greece (Peurifoy) to thè Department of State”, 6 maggio 1952, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, pp. 592-593.30 Già in precedenza, durante le trattative per la preparazione della missione Handy, che avrebbe dovuto negoziare una cooperazione strategica tra Jugoslavia, Usa e Regno Unito, il ministro degli Esteri jugoslavo Edvard Kardelj, su istru­zioni di Tito, prima di dare inizio ai colloqui cercò di ottenere il massimo delle concessioni possibili. Cfr. appunto del 1° ottobre 1952, in PRO, FO 371/102166; si veda anche appunto del 3 novembre 1952, in PRO, FO 371/102167.31 La visita del generale Yaksich suscitò un enorme interesse nella stampa greca, che colse l’occasione per sottolineare come, con questa visita, si fosse stabilito una reciproca intesa su interessi comuni. Lo stesso ministro della Difesa greco, Mavros, osservò che vi era una confluenza d’interessi sulla base di realtà obiettive. Cfr. appunto del 28 settembre 1952, telespr. 2651/1598, in Archivio storico del ministero degli Affari esteri, Roma (d’ora in avanti ASMAE), Direzione ge­nerale degli affari politici (d’ora ion avanti Affari politici), b. 601.32 Nel novembre del 1952, dopo il sostanziale fallimento dei colloqui tra una delegazione occidentale guidata dal gene­rale americano Handy e una jugoslava guidata dal vicecapo di Stato Maggiore Peko Dapcevic, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna manifestarono accenni di sfiducia nei riguardi di Tito. Ciò fu percepito da Belgrado come un pericoloso se­gnale di possibile isolamento. Kardelj, ministro degli Esteri jugoslavo, in un suo colloquio con l’ambasciatore francese

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verno di Belgrado mostrò più disponibilità a collaborare nei confronti dell’Occidente e ciò gli permise di richiedere ulteriori aiuti sia economici sia militari33.

Innanzitutto, Tito cercò di concludere nel più breve tempo possibile un’intesa con la Grecia e la Turchia34. Nel dicembre, non a caso, furono ripresi i colloqui militari tra Atene e Belgrado. A differenza dei precedenti colloqui, che si erano sostanzialmente risolti in uno scambio di cortesie senza arrivare a nessun risultato soddisfacente, questa volta Belgrado si dimostrò particolarmente impa­ziente di arrivare ad intese strategiche con la delegazione militare greca. Questa volta furono i greci a trovarsi impreparati: il gene­rale Ioannou, capo della delegazione di Ate­ne, non aveva infatti ricevuto, in materia, le istruzioni necessarie dal suo governo35. Inol­tre, i greci si preoccupavano per quello che avrebbe potuto essere l’atteggiamento degli italiani riguardo ai colloqui che maturavano

l’accordo balcanico. Temevano che questi ul­timi potessero fare pressioni per ostacolarli, ma soprattutto volevano evitare che Belgra­do sospettasse un possibile condizionamento italiano su Atene. Perciò, quando venne il lo­ro turno di organizzare il colloquio successi­vo, invitarono la delegazione jugoslava ad un incontro il 25 dicembre, prima di una visita, già programmata, del premier italiano Alcide De Gasperi36.

Nel corso di questi colloqui gli jugoslavi presentarono un’accurata descrizione dello scenario che avrebbe potuto determinarsi in seguito ad un attacco scatenato dal blocco sovietico ai danni della penisola balcanica. Secondo le stime di Belgrado, Mosca avrebbe potuto impegnare circa 90 divisioni, ed avrebbe molto probabilmente lanciato un’of­fensiva attraverso il varco di Lubiana con l’o­biettivo di prendere Trieste e la zona intorno a Fiume prima di spingersi verso il Nord Ita­lia. Contemporaneamente, essa avrebbero

a Belgrado, non a caso espresse preoccupazioni circa la possibilità che il suo paese diventasse un’altra “Corea”, ossia teatro di un conflitto localizzato senza nessuna assistenza esterna. Cfr. “The Ambassador in Yugoslavia (Alien) to thè Department of State”, 22 dicembre 1952, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, p. 1323.33 Questa politica ebbe i suoi effetti visto che, come riferiva Tarchiani, ambasciatore italiano a Washington, nei riguardi della Jugoslavia gli americani avevano incrementato gli aiuti militari cui provvedevano organicamente attraverso una missione militare permanente (furono tra l’altro forniti aerei a reazione F84 Sabre). Questa linea, come notava Tarchia­ni nel suo dispaccio, preoccupava notevolmente l’Italia che, per scoraggiarla, prospettò al Dipartimento di Stato ame­ricano tre ipotesi: 1. che, in caso di guerra, in Jugoslavia si verificasse un colpo di stato grazie al quale i “cominformisti” s’impadronissero del potere e delle armi incautamente affidate a Tito dagli Stati Uniti; 2. che l’esercito jugoslavo si ri­tirasse sulle montagne conducendo una guerra partigiana, vanificando, così, l’utilità dell’armamento pesante; 3. che l’e­sercito jugoslavo operasse una ritirata verso i confini italiani, investendo con la propria massa le forze armate italiane e compromettendone lo schieramento difensivo. A questi ragionamenti gli americani obiettarono che la Jugoslavia si sta­va dimostrando capace di organizzare un apparato militare efficiente e pertanto, se sufficientemente aiutata, di organiz­zare una difesa del territorio; essi sottolinearono inoltre che i loro calcoli erano basati fondamentalmente sull’ipotesi che la pace non fosse turbata. In altre parole, l’obiettivo americano era quello di evitare una guerra, creando una situazione di forza che scoraggiasse l’Unione Sovietica dall’aggredire l’Europa occidentale. In definitiva, una Jugoslavia armata, anche con gli ultimi ritrovati tecnologici dell’Occidente, poteva essere un elemento fondamentale di questa situazione di forza e pertanto l’Italia, secondo Washington, avrebbe dovuto sentirsi, più che preoccupata, rassicurata. Cfr. Tarchiani a De Gasperi, prot. n. 8558, in ASMAE, Affari politici, b. 601; si veda anche Francesco Ripandelli, Il Tattalo di amicizia turco-greco-jugoslavo del 1953, “Politica internazionale”, giugno-luglio 1954, n. 4, p. 234.34 Le elezioni del novembre del 1952 in Grecia sembravano aver complicato la situazione, visto che avevano portato al potere il maresciallo Alexander Papagos (il vincitore di Marcos e dei ribelli spalleggiati da Tito), non molto ben dispo­sto, almeno apparentemente, nei confronti di Belgrado. Cfr. “The Chargé in Greece (Yost) to thè Department of State”, 19 novembre 1952, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, p. 810.35 Cfr. “Military Discussion between Greece and Yugoslavia”, 28 dicembre 1952, in National Archives of Canada, Ot­tawa, (d’ora in avanti NAC), Department of External Affairs (d’ora in avanti DEA), 50030-V-40.36 Cfr. “Military Discussion between Greece and Yugoslavia”, 28 dicembre 1952, loc. cit a nota 35.

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attaccato partendo dalla Bulgaria verso Skoplje, con l’obiettivo di tagliare il collega­mento tra le forze greche e jugoslave. In ri­sposta a questo possibile piano d’azione, i militari jugoslavi puntavano sulla difesa di Salonicco, l’unico porto, se Trieste fosse ca­duta, attraverso il quale avrebbero potuto ot­tenere i rifornimenti essenziali per far fronte all’attacco sovietico. I vertici militari jugosla­vi chiedevano inoltre ad Atene 10 divisioni, di cui una corazzata, da affiancare alle loro 40 per respingere la possibile offensiva russa nel settore balcanico.

Lo Stato Maggiore greco fu particolar­mente soddisfatto dei risultati dei colloqui, anche se, prima di organizzare ulteriori in­contri, avrebbe dovuto aspettare l’esito delle discussioni a livello politico in corso tra le rappresentanze dei governi greco, turco e ju­goslavo. Ankara, infatti, pur avendo iniziato il processo di riavvicinamento con Belgrado, era ora particolarmente preoccupata che i piani difensivi dell’Alleanza Atlantica potes­sero essere rivelati a Tito prima della conclu­sione di un accordo politico per un’azione congiunta^7.

Il 16 gennaio, frattanto, il ministro degli Esteri turco Koprulu, partiva per Belgrado con l’intento di proporre al maresciallo Tito di “entrare” a far parte della Nato o, quanto­meno, di costituire un’Alleanza regionale, collegata in modo più o meno formale al Pat­to Atlantico, visto che la Jugoslavia aveva manifestato l’intenzione di stipulare un ac­cordo difensivo.

Queste proposte, però, furono giudicate inopportune, almeno per il momento, dal Fo-

reign Office britannico, il quale cercò, riu­scendovi, di portare Koprulu su posizioni più realistiche. La Gran Bretagna riteneva in­fatti che la situazione non fosse ancora matu­ra per incoraggiare Belgrado ad entrare nella Nato, dal momento che l’Italia avrebbe potu­to porre il veto all’adesione jugoslava, com­promettendo di conseguenza tutto l’impo­nente lavoro diplomatico che era stato con­dotto fino a quel momento.

Anche gli Stati Uniti, d’altronde, pur inco­raggiando i progressi della cooperazione gre­co-turco-jugoslava, chiedevano tempo per giudicare i modi e i mezzi attraverso i quali fosse possibile “integrare” nella struttura mi­litare atlantica Belgrado. Una tale decisione, affermava il Dipartimento di Stato, avrebbe dovuto essere presa al più alto livello gover­nativo e di concerto con tutti gli altri membri dell’Alleanza37 38.

Esisteva, dunque, una grande cautela negli ambienti diplomatici e politici statunitensi e del Regno Unito, preoccupati per l’eventuali­tà di scontri all’interno del blocco occidenta­le, che avrebbero potuto avere conseguenze del tutto imprevedibili per la stabilità dell’Al­leanza stessa. Anche i turchi esprimevano cautela. Koprulu, infatti, prima di recarsi nella capitale ellenica, alla fine della sua visi­ta in Jugoslavia, in una conferenza stampa tenuta il 24 gennaio, alla domanda se fossero stati raggiunti accordi circa un piano difensi­vo comune tra Grecia, Turchia e Jugoslavia, rispose in modo molto cauto, dicendo che i colloqui da lui condotti erano stati di natura bilaterale, anche se per il futuro prevedeva sviluppi ricchi di conseguenze. Era infatti

37 La visita del primo ministro italiano ad Atene, il 13 gennaio 1953, contrariamente alle previsioni, non compromise il buon esito dei colloqui in corso tra i tre paesi balcanici. De Gasperi, negli incontri con Papagos, si dimostrò amichevole (il premier greco, tra l’altro, espresse un’alta opinione sulla sua abilità politica) e non fece accenni polemici riguardo la possibilità di un patto difensivo balcanico anche se, ponendo in evidenza il problema di Trieste, ottenne l’assicurazione che la Grecia non avrebbe stretto accordi con Tito in contrapposizione con il Trattato dell’Atlantico del Nord. Cfr. “Vi­sit of Italian Prime Minister to Athens” , 30 gennaio 1953, in NAC, DEA, 50030-V-40 “D”; si veda anche “Military Discussion between Greece and Yugoslavia”, 28 dicembre 1952, loc. cit. a nota 35.38 Qy *‘Yjje Counselor of Embassy in Turkey (Rountree) to Ambassador in Turkey (McGhee) at Istambul” , 16 gen­naio 1953, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, pp. 607-610.

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possibile, nel breve periodo, la convocazione dei rappresentanti dei tre paesi proprio per discutere piani di mutua cooperazione. A chi lo intervistava, Koprulu confermò che erano state esaminate le relazioni tra Ankara e Belgrado con particolare attenzione riguar­do ai problemi della difesa comune. Poiché gli venivano chieste informazioni anche sui difficili rapporti tra il governo italiano e quello jugoslavo, il ministro turco affermò che era intenzione di Ankara impegnarsi af­finché le incomprensioni tra i due paesi po­tessero finire; forte del fatto di aver ricevuto, dai componenti della delegazione jugoslava, incoraggianti segnali circa la volontà di tro­vare una soluzione al problema triestino ac­cettabile sia per l’Italia sia per il loro paese, Koprulu, in definitiva, si dimostrava abba­stanza ottimista riguardo lo sviluppo futuro delle relazioni italo-jugoslave39.

In un successivo colloquio con un rappre­sentante del Foreign Office al suo ritorno ad Ankara, nei primi giorni di febbraio, Ko­prulu ribadì che era particolarmente soddi­sfatto dei risultati ottenuti durante la sua lun­ga visita a Belgrado. Egli era convinto che il governo jugoslavo fosse desideroso di coope­rare con gli occidentali su basi concrete e che Tito, in particolare, avesse ormai accettato l’idea d’inserirsi nell’ambito della struttura Atlantica, affermando che non vi erano osta­coli interni, dal suo punto di vista, a che la Jugoslavia aderisse in qualche modo alla Na­to. A queste affermazioni del leader jugosla­vo, Koprulu asserì di aver replicato spiegan­do che per varie ragioni, tra le quali il conten­zioso italo-jugoslavo, una piena associazione

con il Patto Atlantico non era per il momento praticabile, e come perciò fosse più opportu­no procedere lentamente affrontando un pro­blema alla volta40.

Il premier jugoslavo, riferì ancora il mini­stro turco, aveva allora lanciato l’idea di co­stituire un patto tripartito tra Grecia-Tur- chia-Jugoslavia, al quale Koprulu si era di­chiarato pronto ad aderire, fermo restando il fatto che tale accordo dovesse essere limita­to, poiché non avrebbe potuto avvenire un completo scambio di informazioni militari, in quanto sia Ankara che Atene avevano ob­blighi derivanti dalla loro partecipazione alla Nato. L’accordo, dunque, avrebbe dovuto assumere la forma classica del “ trattato di amicizia e non aggressione” , con contenuti economici e culturali. Koprulu, inoltre, eser­citò pressioni su Belgrado perché un tale pat­to fosse lasciato aperto anche a una possibile futura adesione italiana41, cercando di per­suadere il maresciallo Tito, il quale aveva espresso molti dubbi circa le reali ambizioni italiane, che il governo guidato da De Gaspe- ri non nutriva assolutamente mire espansio­nistiche. Secondo Koprulu, inoltre, era nel­l’interesse degli stessi jugoslavi aiutare il pre­mier italiano e rafforzarlo alla vigilia delle elezioni politiche in Italia. Il nuovo governo infatti avrebbe potuto comprendere elementi più ostili al negoziato e intransigenti di quan­to non fosse De Gasperi. Proprio grazie a queste pressioni, gli jugoslavi, alla fine, accet­tarono l’idea di lasciare la porta aperta agli italiani.

L’intervento di Koprulu non faceva altro che mettere in evidenza come esistesse una

39 Cfr. “ From Belgrade to Foreign Office”, 26 gennaio 1953, in PRO, FO 371/107842, Wy 1076/20.40 Cfr. “From Belgrade to Foreign Office”, 27 gennaio 1953, in PRO, FO 371/107842, Wy 1076/28.41 Questa proposta fu anche vagliata dai rappresentanti di Regno Unito, Stati Uniti e Francia che vi si dichiararono favorevoli. Cfr. memorandum del Foreign Office, 7 gennaio 1953, in PRO, FO 371/107842, Wy 1076/13. Nel testo de­finitivo del trattato, l’art. 9 prevedeva la possibilità che l’Italia, in futuro, potesse aderire al Patto. Il segretario generale aggiunto del ministero degli Esteri turco, Nuri Birghi, affermò che la linea politica del suo paese sarebbe stata quella di ottenere la partecipazione italiana al Patto di Ankara, in modo da saldarlo alla Nato. Cfr. appunto del 4 maggio 1953, telegr. 6293/C, 4 maggio 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.

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certa convergenza fra Roma ed Ankara. Questa convergenza era il risultato del lavoro dei diplomatici italiani, che avevano cercato di sfruttare le titubanze del governo turco, nei confronti di Tito42, pensando a quanto convenisse allTtalia, e alle sue possibilità d’i­niziativa nel settore balcanico, rafforzare i le­gami con la Turchia43.

Il 20 febbraio 1953 iniziarono ad Atene le trattative che portarono alla stesura e all’ap­provazione del Patto di Ankara, o Patto Bal­canico, siglato il 28 febbraio dai ministri degli Esteri dei tre paesi: il turco Koprulu, il greco Stephanapoulus e lo jugoslavo Popovic44.

Nella prima fase delle discussioni politi­che, la rappresentanza di Belgrado sottopose una bozza del trattato che includeva un arti­colo nel quale veniva specificato che gli ac­cordi riguardanti la collaborazione militare, concordati dagli stati maggiori dei tre paesi, avrebbero dovuto, dopo l’approvazione dei governi delle parti contraenti, essere recepiti dal trattato stesso. I greci, per parte loro, proposero un preambolo al trattato che, pur riconoscendo l’importanza di organizza­re una difesa comune, prevedeva consultazio­ni solo in caso di eventuali ostilità nei con­fronti di una delle parti contraenti e che riser­vava alla Grecia e alla Turchia la possibilità di evitare azioni che potessero essere in con­traddizione con la Carta delle Nazioni Unite e il Trattato dell’Atlantico del Nord45.

Queste due proposte preoccuparono però gli Stati Uniti, informati costantemente sul­l’evoluzione delle conversazioni non solo da parte greca ma anche da parte turca46. Il se­gretario di Stato Foster Dulles riteneva che un trattato di “mutua assistenza” , invece che di amicizia e consultazione, avrebbe po­tuto sollevare seri problemi in ambito inter­nazionale e in particolare all’interno della Nato. L’amministrazione americana fece pertanto pressioni su Belgrado perché fosse ridisegnato il testo dell’accordo. Le pressioni ebbero effetti positivi dal momento che, nella stesura finale nell’articolo 3, forse il più signi­ficativo per le sue implicazioni, si parlava so­lo di consultazioni tra gli stati maggiori da sottoporre all’approvazione dei governi delle parti contraenti47.

Veniva, dunque, adottata una formula che volutamente suonava “ vaga” per quanto concerneva gli impegni militari dei tre paesi. E che comunque prevedeva che ogni progetto eventualmente elaborato dagli stati maggiori dei tre paesi dovesse essere sottoposto alla supervisione dell’organo del Patto Atlantico istituito per il settore greco-turco (sotto co­mando statunitense)48 piuttosto che a quella del Consiglio del Nord Atlantico. In questo modo, la Nato non solo manteneva il con­trollo sulla pianificazione militare nei Balca­ni, ma soprattutto evitava che ciò avvenisse attraverso gli organi di una sede nella quale

42 Cfr. “ Patto Balcanico: Italia, Jugoslavia e Turchia”, telespr. 1088/525, 1 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 668.43 Cfr. “Appunto per il Direttore Affari Politici” , 7 agosto 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.44 Per il testo del Patto in italiano, che comprendeva un preambolo e 10 articoli, si veda II Patto Balcanico firmato ad Ankara, “Relazioni internazionali”, 7 marzo 1953, n. 10, pp. 228-229.45 Cfr. “Greco-Yugoslav-Turkish Pact” , 24 febbraio 1953, in PRO, FO 371/107843.46 Cfr. la Edilorial Note n. 325, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, p. 623.47 Cfr. “The Secretary of State to thè Embassy in Greece”, 21 febbraio 1953, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, pp. 624-627.

Al momento dell’entrata di Grecia e Turchia nel Patto Atlantico, l’Italia aveva avanzato la proposta di estendere aisettori greco e turco l’area sottoposta al comando delle Forze terrestri alleate del Sud Europa (Ftase), il cui responsabile era un generale italiano. Ciò però si scontrò con le riserve nazionalistiche greco-turche e soprattutto con le diffidenze di Atene nei confronti di un ex nemico, suffragate sul piano militare dalla diversità dei problemi strategici e geografici delle due aree. Proprio per queste riserve fu creato per il Sud Europa un sotto-settore greco-turco al comando di un generale americano. Cfr. B.C., Patto Atlantico, Mediterraneo e importanza dell'antemurale balcanico, “Relazioni internazionali” , 26 luglio 1952, n. 30, pp. 824-825.

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i delegati italiani avrebbero anche potuto (e probabilmente lo avrebbero fatto) sollevare problemi e obbiezioni, creando difficoltà non indifferenti per ragioni loro particolari. Così, se lo sviluppo degli eventi lo avesse con­sentito, e se nelle circostanze future fosse ap­parso utile, il trattato avrebbe comunque po­tuto avere ulteriori sviluppi nella direzione di una collaborazione più concreta, nel settore militare, rispetto a quella che per il momento veniva definita.

Il Patto di Ankara, in ogni caso, come af­fermò Hugh Seaton Watson, legava la Jugo­slavia alla Grecia e alla Turchia in modo molto particolare: pur essendo “ meno di un’Alleanza militare, costituiva un importan­te accordo politico”49.

La reazione italiana

Gli italiani non avevano potuto fare nulla per impedire la firma del Patto Balcanico e si trovavano ora a fronteggiare una situazio­ne molto delicata. Negli ambienti diplomati­ci, soprattutto, si avvertiva come fosse pro­blematico, nella nuova situazione, conciliare interessi militari e politici nazionali contrap­posti50.

Le dichiarazioni rilasciate da esponenti politici di Belgrado, tra i quali il ministro de­

gli Affari esteri Koca Popovic, apparivano preoccupanti. Vi si sottolineava infatti l’a­spetto essenzialmente militare del trattato e si diceva che, dopo la firma, i tre governi avrebbero dovuto dare sostanza alle clausole dell’accordo attraverso misure adeguate, ri­ferendosi in particolare a quelle relative alla difesa comune. Anche l’agenzia di stampa Jugo Press dedicava la maggior parte di un suo comunicato agli aspetti militari del trat­tato, osservando che esso “ era un solido anello nel sistema generale di difesa, creazio­ne di tre piccole nazioni, senza la partecipa­zione delle grandi potenze” 51. Il dispaccio si concludeva facendo notare che il Patto di Ankara avrebbe potuto avere un forte potere di attrazione sui paesi dominati da Mosca e in special modo sull’Albania, la Bulgaria e la Romania. In base a tutto ciò, gli italiani, erano dunque legittimati a ritenere che Bel­grado volesse ritagliarsi una propria sfera d’influenza nel settore balcanico, escludendo completamente l’Italia. Inoltre, negli am­bienti militari jugoslavi si affermava che i Balcani potevano essere difesi senza la parte­cipazione italiana e che invece l’Italia senza l’aiuto di Belgrado avrebbe potuto difficil­mente contrastare un attacco del blocco so­vietico. Ciò era più che sufficiente perché l’atteggiamento degli jugoslavi venisse rece­pito, dagli ambienti politico-diplomatici ita-

49 Cfr. Hugh Seaton Watson, La Russia e l ’Europa Orientale, in Golo Mann, Giacomo Perticone (a cura di), I Propilei, 10 voi., voi. X, Verona, Mondadori, 1969, p. 313.50 In passato, i vertici militari italiani, in alcuni studi redatti nel 1952 relativi all’apporto della Repubblica jugoslava alla difesa dell’Occidente, avevano auspicato la conclusione di accordi politico-militari tra Roma e Belgrado atti a consen­tire, anche attraverso sconfinamenti temporanei di truppe italiane in territorio jugoslavo, una più efficiente difesa delle Alpi Giulie e del porto di Trieste. L’antemurale adriatico, rappresentato da una Jugoslavia schierata e integrata nel si­stema difensivo atlantico, avrebbe avuto, secondo il Centro alti studi militari, effetti benefici sia riguardo le linee di ri- fornimento delle truppe italiane operanti nel settore del Friuli e della Carnia, sia sulla sicurezza delle coste adriatiche. Un allontanamento dal confine italiano della cosiddetta cortina di ferro avrebbe dato, in caso di conflitto, un lasso di tempo maggiore per approntare gli apparati difensivi, attenuando di conseguenza gli effetti di un eventuale attacco a sorpresa operato dalle forze sovietiche. Tutte queste considerazioni erano, però, in contrasto con la politica seguita dal governo di Roma. L’esecutivo italiano, infatti, poneva come pregiudiziale ad ogni ulteriore progresso nelle relazioni con Tito la soluzione del problema triestino. Cfr. Centro alti studi militari, 3* sessione, “Apporto della Jugoslavia della Grecia e della Turchia alla difesa occidentale” , Roma, 1952, non pubblicato, pp. 34-40; cfr. anche B.C., Patto Atlantico, Mediterraneo, cit.51 Cfr. “Trattato di Amicizia e Collaborazione Grecia, Turchia e Jugoslavia”, telespr. 14/..., 6 marzo 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 667.

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liani, come manifestazione dell’intendimen­to ad arroccarsi nella nuova posizione acqui­sita, dalla quale si temeva che Tito potesse negoziare, chiedendo il massimo in termini di aiuti militari ed economici, ogni ulteriore spostamento verso Occidente. E ciò anche perché le autorità di Belgrado ritenevano che un’organizzazione difensiva balcanica avrebbe potuto essere efficiente di per sé, al punto da considerare necessario soltanto un coordinamento o collegamento con altre organizzazioni militari (leggi Nato)52. Que­sta condotta politica era particolarmente te­muta da Roma in quanto avrebbe potuto compromettere seriamente i tentativi italiani di ritagliarsi spazi, sia commerciali che poli­tici e diplomatici, nell’area balcanica e nel Mediterraneo orientale. Ciò proprio quan­do, invece, nell’ambito dell’Alleanza Atlan­tica, sembrava possibile che quegli spazi si aprissero in relazione al, e in funzione del, ruolo di mediazione politica che l’Italia pen­sava di potersi assumere53.

In quel periodo, fra l’altro, i diplomatici italiani erano impegnati alla costruzione di una situazione favorevole alla conquista di mercati per l’industria militare in paesi come Grecia e Turchia, un progetto che sembrava avere buone prospettive di sviluppo. Nel marzo del 1953, nell’ambito delle discussioni del Consiglio Atlantico riguardo i problemi produttivi nei settori della difesa, furono pre­si contatti con un dirigente turco delle indu­strie di Stato per la fabbricazione degli arma­

menti, che si era dichiarato interessato ad in­staurare una collaborazione tra Italia e Tur­chia, in particolar modo riguardo alla produ­zione delle artiglierie di piccolo calibro, delle armi portatili e delle munizioni54. Tale colla­borazione industriale era vista dagli italiani come un punto di partenza per l’adozione di una nuova strategia produttiva nel settore degli armamenti da parte, anche, di altri pae­si mediterranei. L’obiettivo di Roma era quello di arrivare, in ambito Nato, all’orga­nizzazione in Europa di tre maggiori sistemi di approvvigionamento e produzione milita­re: uno settentrionale con equipaggiamento secondo standard britannici, un altro centra­le con equipaggiamento secondo tipi francesi ed un terzo meridionale secondo tipi fabbri­cabili in Italia. In tale modo, in caso di “guer­ra calda” , i paesi membri della Nato che si af­facciavano o gravitavano sul bacino mediter­raneo avrebbero potuto abbreviare le loro li­nee di approvvigionamento sia aeree che ma­rittime, potendo contare su rifornimenti logi­sticamente vicini, come sarebbero stati quelli dislocati in Italia. Di conseguenza, anche i ri­schi connessi alla necessità di cercare approv­vigionamenti distanti si sarebbero per loro ri­dotti.

Questa linea politica avrebbe dovuto es­sere sviluppata sia per aumentare la “politi­ca attiva” italiana nel settore della produ­zione Nato, con evidenti ricadute positive sull’apparato industriale, sia per contrastare la possibilità che la Jugoslavia togliesse a

52 Cfr. “Trattato di Amicizia e Collaborazione Grecia, Turchia e Jugoslavia”, 6 marzo 1953, loc. cit. a nota 51.53 Già al momento della discussione della costituzione del Middle East Defence Command, alla fine del 1951, l’Italia aveva tentato di proporsi come mediatrice tra le esigenze difensive dell’Occidente e le aspirazioni dei nazionalismi arabi. Non a caso l’ambasciatore Pietromarchi, da Ankara, affermava che l’Italia era stata l’unico dei paesi occidentali che aveva saputo guadagnarsi le simpatie del mondo arabo. Simpatie queste, che potevano ora essere sfruttate per trarne vantaggi economici e “possibilità politiche” , visto che nessuna accusa d’imperialismo e colonialismo veniva addebitata. Cfr. Pie­tromarchi a Zoppi, lettera 17, sd., in ASMAE, Affari politici, b. 780; si veda anche il progetto di costituire un Patto nel Mediterraneo, 24 novembre 1952, in ASMAE, Affari politici, b. 678; si veda infine Ezio Ferrante, Il Mediterraneo nella coscienza nazionale, “Rivista marittima”, giugno 1987, n. 6, p. 105.54 Nel marzo del 1950 era stato firmato un Patto di amicizia tra Italia e Turchia che rappresentava un momento di enor­me importanza nella politica che il ministero degli Esteri italiano intendeva attivare nel Mediterraneo e, nello stesso tempo, una premessa e una conferma per sviluppare rapporti più solidi tra Roma ed Ankara. Cfr. trafiletto senza firma, “Relazioni internazionali” , 1 aprile 1950, n. 13, p. 180.

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Roma la sfera d’influenza che l’Italia voleva ritagliarsi nei Balcani e nel Mediterraneo Orientale55 56.

Per portare avanti una strategia di questo tipo era però necessario cercare di “control­lare” il processo d’integrazione della Jugosla­via all’interno del Patto Atlantico, soprattut­to dopo la firma del Trattato di Ankara, al fi­ne di evitare che Belgrado potesse avere spazi di manovra più ampi di quanto non gli fosse­ro stati fino a quel momento concessi.

Non a caso, durante la seduta riservata del Consiglio Atlantico del 18 marzo 1953, la de­legazione italiana si preoccupò di rispondere a coloro che ritenevano l’alleanza tra Grecia, Turchia e Jugoslavia l’embrione di un futuro sistema difensivo balcanico integrato nella Nato. Il delegato Rossi Longhi, infatti, chie­se che gli sviluppi di carattere politico dell’al­leanza fossero comunicati, da parte di Grecia e Turchia, al Consiglio Atlantico attraverso i normali canali diplomatici, mentre quelli di carattere militare avrebbero dovuto seguire l’iter che, dai Comandi regionali interessati, andava, attraverso il Quartier generale delle potenze alleate in Europa (Shape, Supreme Headquarters Allied Powers Europe), allo Standing Group, al Comitato dei rappresen­tanti militari e, in ultima istanza, al Comitato militare.

Tutto questo era concepito in modo tale che eventuali impegni di carattere militare, i quali preoccupavano notevolmente l’Italia ma anche altri membri dell’Alleanza, avreb­bero potuto essere esaminati e approvati pre­

ventivamente, insomma, controllati. La di­plomazia italiana, in definitiva, attraverso queste azioni cercava di agire con fermezza sia nell’ambito del Consiglio Atlantico sia presso i singoli governi dei paesi maggior­mente interessati alla questione, in modo da far capire al maresciallo Tito, e non solo a lui, che forse sarebbe stato opportuno tenere in maggiore considerazione le esigenze di Ro-„,„56ma .

Si aprì, cosi, tra i diplomatici italiani inte­ressati alla questione (in particolar modo quelli delle sedi di Atene, Ankara e Belgrado) un vasto dibattito su quali fossero le migliori soluzioni per tutelare gli interessi dellTtalia. Il ministro Francesco Paolo Vanni d’Archi- rafi, in un suo rapporto dalla legazione di Belgrado, esaminando la situazione in cui si veniva a trovare l’Italia dopo la stipulazione del Patto Balcanico, si diceva abbastanza si­curo che, almeno per un certo periodo, un at­tacco nei confronti della Jugoslavia, da parte di uno o più satelliti dell’Urss, non avrebbe portato ad una conflagrazione a livello euro­peo, ma sarebbe rimasto localizzato.

Secondo Vanni d’Archirafi, infatti, l’inte­resse delle maggiori potenze occidentali era quello di collegare e graduare i sistemi di di­fesa in modo tale che potessero entrare in azione a secondo delle circostanze e di pari passo con la loro efficienza difensiva57. Que­sto indirizzo era provato, sempre secondo il diplomatico italiano, dalla costante preoccu­pazione che soprattutto Stati Uniti e Regno Unito avevano nell’evitare di assumere impe-

55 L’organizzazione di tre maggiori fonti di produzione e approvvigionamento (Nord, Centro e Sud), se applicata, avrebbe procurato un non trascurabile vantaggio all’industria italiana interessata nella produzione militare. In sede Na­to, infatti, si era fatto strada il principio della produzione coordinata ed integrata su base rigorosamente economica, che avrebbe portato ad indirizzare gli ordini verso quelle industrie in grado di realizzare una produzione di massa a bassi costi. L’Italia, geograficamente vicina ai Balcani, avrebbe avuto minor costi di trasporto e quindi, per i suoi prodotti, che sarebbero stati meno cari, avrebbe potuto contare su una “zona di influenza”. Cfr. “Collaborazione industriale ita- io-turca nel settore della difesa” , telespr. 22/00153, 17 marzo 1953, in ASMAE, Direzione generale degli affari econo­mici (d’ora in avanti Affari economici), b. 678.56 Cfr. “Accordo Grecia Turchia Jugoslavia”, telespr. 785/401, 20 marzo 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 668.57 In un certo senso d’Archirafi anticipava la dottrina della risposta flessibile, adottata ufficialmente in ambito Nato a partire dagli anni sessanta.

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gni precisi o di fornire garanzie che legassero in azioni automatiche la loro politica a quella di paesi che, per la loro collocazione geogra­fica, si trovavano in zone nevralgiche e parti­colarmente esposte al pericolo di conflitti.

Alla luce di queste considerazioni, d’Ar- chirafi affermava che l’entrata della Jugosla­via nella Nato probabilmente non era deside­rata dalle stesse maggiori potenze occidenta­li, per preoccupazioni non tanto di carattere ideologico quanto piuttosto di carattere stra­tegico, visto che il settore balcanico era ad al­to rischio. Che Stati Uniti, Regno Unito e Francia intervenissero per evitare l’inclusio­ne di clausole di automaticità nel testo del Patto di Ankara andava dunque visto non soltanto nell’ottica degli interessi diplomatici italiani, ma anche in quella degli interessi sta­tunitensi, francesi e inglesi, se questi paesi vo­levano evitare di trovarsi automaticamente impegnate nel settore balcanico.

Una partecipazione italiana al trattato avrebbe dovuto tenere conto di queste eventualità. L’Italia, infatti, secondo il di­plomatico italiano, aveva nel quadro della difesa occidentale il dovere di dare tutto l’apporto che le competeva nei settori geo­grafici di sua pertinenza, però in proporzio­ne alle sue capacità. Pur geograficamente vicina ai paesi balcanici, Roma, per Vanni d’Archirafi, non aveva impegni morali d’in­tervento superiori a quelli degli altri paesi europei. Gli interessi italiani nel settore bal­canico presupponevano il mantenimento dell’indipendenza dei paesi della regione

(soprattutto quella dell’Albania) e di rap­porti amichevoli. Solo così si sarebbe con­sentito all’Italia una larga partecipazione economica al progresso di quei paesi, sfrut­tando la vicinanza geografica e l’alto livello industriale e culturale italiano58.

Un’adesione immediata dell’Italia al Patto Balcanico, secondo il diplomatico italiano, avrebbe potuto essere addirittura contropro­ducente, in quanto avrebbe sollevato timori e preoccupazioni all’interno di alcuni paesi balcanici. Perciò egli suggeriva che il governo italiano, per evitare ingerenze, seguisse una politica improntata all’equidistanza, senza rinunciare a riarmarsi, in modo tale da tro­varsi nella condizione, qualora le circostanze lo avessero richiesto, di agire con fermezza per “garantire la sicurezza degli interessi ita­liani sull’altra sponda dell’Adriatico”59.

Il suggerimento di Vanni d’Archirafi, in ef­fetti, difettava di realismo; egli, in sostanza, proponeva una politica che puntava a co­struire per l’Italia un ruolo regionale che si sarebbe inevitabilmente trovato in contrap­posizione con quelli che erano gli interessi britannici. Londra, infatti, sembrava orien­tarsi verso il progetto di un’integrazione della Jugoslavia nel sistema difensivo occidentale, cosi da riconquistare parte del tradizionale prestigio nel settore balcanico grazie ai buoni rapporti che Whitehall intratteneva con Tito. Questa eventualità, se attuata, avrebbe chiu­so alFItalia gli spazi che il progetto di Vanni d’Archirafi (e anche di altri al ministero degli Esteri) mirava ad aprire60.

58 Una dichiarazione formulata dai tre contraenti, nel 1953 ad Ankara, dopo la stipula del Patto Balcanico, riaffermava il principio dell’indipendenza albanese; ma d’Archirafi faceva notare che, per concorde desiderio greco-jugoslavo, al quale i turchi avevano ritenuto utile sottostare nell’intento di rendere più efficace militarmente il Patto Balcanico, si evitò di parlare “d’integrità” del territorio d’Albania. Cfr. Francesco Paolo Vanni d’Archirafi, “Jugoslavia, Grecia e Turchia ed il Patto Balcanico” , Roma, 1955-1956, p. 12, in Istituto di guerra marittima, Livorno, Archivio (d’ora in avanti IGM), 35-M-00/06.59 Cfr. “Situazione dell’Italia di fronte al Patto Greco, Turco, Jugoslavo”, telespr. 917/592, 27 marzo 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 668.60 La visita di Tito a Londra del 16-20 marzo del 1953 sembrava confermare come il Regno Unito avesse preso una strada ‘indipendente’ dal resto dell’Alleanza Atlantica, almeno per quanto riguardava i Balcani. Ciò impensieriva no­tevolmente il ministero degli Affari esteri italiano in quanto tutto quello che accadeva nei Balcani toccava gli “interessi vitali” dell’Italia. Era perciò necessario che le rappresentanze italiane di Atene, Ankara e Belgrado agissero di concerto

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In qualche modo diverse erano invece le considerazioni di Pietromarchi, responsabile della rappresentanza italiana ad Ankara; egli faceva notare come l’Italia si fosse impegnata a far entrare la Grecia e la Turchia nel Patto Atlantico e che perciò era necessario prende­re atto delle conseguenze che questa estensio­ne dell’Alleanza comportava. Dal punto di vista strettamente militare, era necessario sal­dare il settore del Mediterraneo orientale al sistema difensivo Nato del Sud Europa. Il Patto Balcanico era una logica conseguenza deH’allargamento dell’alleanza. Esso però, a detta del diplomatico italiano, doveva essere rafforzato con l’entrata dell’Italia61. Quello dell’apporto italiano era uno dei punti essen­ziali emersi dagli studi elaborati sia dagli or­gani atlantici sia dagli stati maggiori dei paesi interessati. L’Italia, in qualità di membro dell’Alleanza Atlantica, doveva concorrere al rafforzamento del fronte comune in quan­to, come diceva Pietromarchi “ Non si può nello stesso tempo appartenere a un sistema e rifiutarsi di fare quanto occorre per la sua solidità”62.

Per il diplomatico, dunque, anche l’Italia aveva interesse a che il Patto Balcanico evol­vesse verso una forma che portasse Belgrado nell’Organizzazione Atlantica. D’altronde, le valutazioni di parte degli ambienti militari italiani, se non di tutti, convergevano con le dichiarazioni di Pietromarchi. Il generale Marras, già capo di Stato Maggiore, per esempio, considerava che per l’esercito italia­no fosse utile quella politica che gli permet­tesse di contare sulla concentrazione delle forze jugoslave sul passo di Lubiana, in mo­

do da poter disporre, in caso di conflitto, del tempo necessario per ritardare l’urto sulle linee di difesa al confine nord-orientale63.

L’Italia, in definitiva, visto che il Patto di Ankara era sostenuto sia militarmente che politicamente dalle maggiori potenze atlanti­che, non avrebbe dovuto, secondo le conclu­sioni di Pietromarchi, attuare una politica ostruzionista nei confronti del processo d’in­tegrazione della Jugoslavia nel blocco occi­dentale. Un tale atteggiamento, infatti, sa­rebbe risultato infruttuoso e avrebbe danneg­giato la posizione italiana all’interno della Nato, mettendo il nostro paese in una perico­losa situazione d’isolamento che avrebbe po­tuto accelerare, piuttosto che rallentare, il progetto diretto ad inserire Belgrado nel Pat­to Atlantico, complicando anche la questione di Trieste che, senza l’appoggio statunitense e britannico, non avrebbe potuto risolversi a vantaggio di Roma.

L’atteggiamento più positivo, almeno a detta del rappresentante italiano ad Atene Alessandrini, le cui considerazioni non si di­scostavano molto da quelle di Pietromarchi, sarebbe stato quello di riuscire contempora­neamente sia a risolvere la questione triestina sia ad aderire al Patto firmato ad Ankara nel febbraio del 1953. L’Italia avrebbe potuto cosi tutelare i propri interessi nell’area e so­prattutto nei confronti dell’Albania, la cui “indipendenza” stava particolarmente a cuo­re al governo italiano64.

Come si può notare, il dibattito in corso tra i diplomatici, che dalle sedi interessate ri­spondevano alle sollecitazioni del ministero degli Esteri, portava in luce una situazione

con Palazzo Chigi, in modo tale da elaborare una linea politica ben precisa, sfruttando la possibile collaborazione della Turchia che si presumeva fosse la più interessata ad avere l’Italia nel Patto Balcanico, non solo per un interesse pura­mente strategico-militare, ma anche in funzione equilibratrice. Ankara temeva infatti una combine tra Grecia e Jugosla­via (con il sostegno britannico) per una spartizione della zona. Cfr. mittente sconosciuto a Zoppi, telepr. 612, 4 aprile 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 668.61 Cfr. Pietromarchi a Toscano, 8 aprile 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 668.62 Cfr. Pietromarchi a Toscano, 8 aprile 1953, loc. cit. a nota 61.63 Cfr. Pietromarchi a Toscano, telespr. 613, sd., in ASMAE, Affari politici, b. 668.64 Cfr. “Italian Attitude to a Balkan Entente” , 14 gennaio 1953, in PRO, FO 371/107292.

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complessa: circa la linea da seguire riguardo la questione balcanica si stava producendo una frattura che i rapporti in arrivo a Palazzo Chigi evidenziavano in tutta la sua ampiezza.

Da una parte, Vanni d’Archirafi si faceva portavoce dell’affermazione degli interessi nazionali italiani in un modo tale da far prevedere anche la possibilità di uno scon­tro con gli altri alleati. Dall’altra, Pietro- marchi e Alessandrini, invece, raccomanda­vano un atteggiamento più prudente, che lasciasse la strada aperta a politiche non ostruzioniste, ma costruttive, in modo che fosse comunque possibile evitare le perico­lose situazioni d’isolamento che la posizio­ne d’Archirafi, se adottata, avrebbe alla fi­ne prodotto.

Questa frattura veniva a complicare note­volmente l’azione politico-diplomatica italia­na e finiva con l’incidere sulla capacità di prendere decisioni del ministero: infatti, di fronte all’esigenza di tutelare gli interessi na­zionali e, nello stesso tempo, pressati dalla ne­cessità di non rinchiudersi in posizioni che isolassero il paese, mettendolo in contrasto con gli alleati riguardo a importanti questio­ni, si stentava a definire le prospettive della politica estera. I programmi restavano impre­cisi e vaghi quando invece le circostanze avrebbero imposto l’adozione di tempi rapidi.

Se probabilmente le osservazioni di Vanni d’Archirafi non erano sbagliate e giustificata appare oggi la sua preoccupazione di salva­guardare gli interessi nazionali, ugualmente non avevano torto, dai loro rispettivi punti di vista, anche Pietromarchi e Alessandrini, che sottolineavano l’impossibilità per il paese di lanciarsi in avventurose esperienze che pote­vano metterlo in situazioni di difficili contrasti con gli altri membri dell’Alleanza Atlantica.

Mancò, e invece sarebbe stata assoluta- mente necessaria, la mediazione tra le diverse proposte, e quindi la scelta di una linea che tenesse conto delle complessive, e valide, con­siderazioni di tutti i diplomatici coinvolti nel­la discussione. Ciò comportò una inutile di­spersione di risorse umane e, anche, materia­li, cosa che impedi forse al paese di orientarsi su obiettivi politici e strategici coerenti e con­soni al proprio status internazionale e alla ef­fettive possibilità di manovra che si presenta­vano in quel periodo.

L’Alleanza Balcanica

Proprio la mancanza di una linea d’azione precisa e coerente impedi all’Italia d’inserirsi in quelli che furono gli sviluppi del Patto di Ankara quando, a Bled, nell’agosto del 1954, fu firmato un patto militare tra Grecia, Turchia e Jugoslavia (l’Alleanza Balcanica), attraverso il quale Belgrado divenne de facto un membro della Nato65.

A partire dal giugno del 1953, infatti, era­no iniziate ad Atene discussioni militari fra i tre firmatari del Patto di Ankara. Lo stesso ammiraglio Robert Carney, comandante del settore sud dell’Alleanza Atlantica (Cinc- south, Commander in Chief Allied Forces Southern Europe), aveva disposto la prepa­razione di studi, da condurre direttamente con lo Stato Maggiore jugoslavo, che pren­devano in esame il problema della coopera­zione militare con la Repubblica jugosla­va66. Gli Stati Uniti, fra l’altro, sembravano sostenere ormai apertamente lo sviluppo dell’art. 3 del Patto di Ankara e la costitu­zione di un Comando unico nella zona balcanica67. Nello stesso tempo, venivano

Cfr. Vendulka Kubàlkova, Albert Cruickshank, Marxism and International Relations, Oxford, Oxford University Press, 1989, p. 132.66 Cfr. “Appunto per il Direttore degli Affari Politici” , 7 agosto 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.

La costituzione di un Comando unico veniva a rappresentare, secondo il colonnello Testa, addetto militare italiano in Turchia, un problema serio in quanto pregiudicava, dal punto di vista italiano, le possibilità di un successivo colle-

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forniti nuovi equipaggiamenti militari all’e­sercito di Belgrado68.

Questa situazione accresceva notevol­mente le preoccupazioni dell’Italia che ve­deva indebolire la sua posizione internazio­nale, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti. Era, infatti, difficile opporsi efficace­mente alle manovre che sembravano “inte­grare” , in maniera ormai definitiva, la Ju­goslavia nel Patto Atlantico. Secondo il mi­nistro della Difesa italiano, Randolfo Pac- ciardi, l’unica via praticabile, per evitare che tutta la pianificazione strategica in am­bito Nato si orientasse verso gli interessi dei tre paesi firmatari del Patto di Ankara, era che Roma prendesse una chiara posizione all’interno del Consiglio Atlantico tramite il suo rappresentante permanente, l’amba­sciatore Rossi Longhi69.

La linea che sembrava prevalere ne\Yesta­blishment politico-diplomatico italiano era quella ostruzionista: essa prevedeva di sfrut­tare l’appoggio che poteva derivare dal go­verno turco che, pur essendo sostanzialmente favorevole all’integrazione di Belgrado nella Nato, avanzava forti riserve sulle reali inten­zioni di Tito e pertanto convergeva di fatto con le opinioni italiane70.

Rossi Longhi, secondo le istruzioni rice­vute dal ministero degli Affari esteri e da quello della Difesa, avrebbe dovuto, nel ca­so in seno al Consiglio Atlantico fosse stata

avanzata la proposta di un’integrazione del Patto di Ankara nella Nato, far presente che non era opportuno né urgente, in quella situazione, mettere all’ordine del giorno questa eventualità71. A Roma infatti, ogni qual volta si prospettava l’ipotesi di far en­trare Belgrado nel Patto Atlantico, si solle­vava il problema di Trieste e lo spauracchio del Partito comunista italiano, facendo leva sull’importanza dell’Italia e della sua fun­zione di pilastro della difesa atlantica nel Mediterraneo.

Nonostante l’attivismo, almeno apparen­te, della diplomazia italiana e le titubanze del governo di Ankara, le conversazioni mili­tari tripartite, dopo le difficoltà iniziali, ri­presero nella maniera più soddisfacente, por­tando a un pieno accordo dei tre paesi sulle questioni tecnico-militari e ciò grazie anche all’atteggiamento della delegazione militare jugoslava che, a detta dei greci, non aveva la­sciato alcun dubbio circa la sua determina­zione nel procedere sulla strada di un accor­do militare a tre72.

Durante i colloqui, inoltre, si registrò un fatto spiacevole per gli italiani. Roma aveva espressamente richiesto che nessun osserva­tore Nato assistesse alle riunioni dei delegati dei tre paesi: tale richiesta, in effetti, fu rispet­tata, ma i corridoi dello stabile dove si svol­geva la conferenza brulicavano di ufficiali americani con i quali i rappresentanti greci

gamento di questa area con quelle adiacenti e nel caso specifico con l’Italia. Cfr. “Conversazioni militari Turchia Grecia Jugoslavia di Atene (3-12 giugno 1953)”, 26 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.68 In questo periodo furono consegnati 280 carri armati Sherman, 25 Patton, 150 bombardieri Thunderbolts e 4 caccia- bombardieri a reazione T33. Cfr. elenco indicativo del materiale bellico fornito alla Jugoslavia dagli alleati (Usa), te- lespr. 1189/C, 10 luglio 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 670.69 Cfr. “Cooperazione militare della Jugoslavia e suo coordinamento con i piani Nato”, 11 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.7,1 A detta di alcuni esponenti turchi, Tito veniva considerato un megalomane dalle ambizioni smisurate, che cercava solamente di mettersi alla testa di un movimento “federalista” balcanico in modo tale da creare una sua esclusiva zona d’influenza in tutta la penisola balcanica. Cfr. “Il Patto Balcanico e la Jugoslavia”, telespr. 1034/507, 15 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 668.71 Cfr. “ Schema di istruzione a Italnato in relazione al problema di una eventuale integrazione della Jugoslavia o del Patto Balcanico nel [rie] Nato”, Roma, 17 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.72 Cfr. “Patto Balcanico. Collegamento Jugoslavia-Nato”, telegr. 6316/C, 30 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.

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discutevano dopo ogni seduta73. Ciò non fa­ceva altro che rafforzare la posizione di Bel­grado. Esponenti militari di Belgrado furo­no, tra l’altro, invitati a partecipare a Wash­ington a discussioni con le potenze occiden­tali facenti parte dello Standing Group (Usa, Regno Unito e Francia) in materia di assistenza militare74.

Tutto ciò esasperò la situazione, peraltro già difficile, in cui versava la diplomazia italia­na. I dispacci di Tarchiani, ambasciatore a Washington, rispecchiano in modo evidente le frustrazioni dell’establishment politico-di­plomatico italiano, che constatava l’inutilità di tutti i suoi sforzi volti a bloccare sia l’attivi­smo jugoslavo sia quello americano nei con­fronti di Belgrado. L’amministrazione Eisen­hower, secondo Tarchiani, faceva prevalere le considerazioni strettamente militari su tutte le altre affrontando la politica balcanica con troppa faciloneria. Gli interessi italiani erano completamente trascurati dagli statunitensi, influenzati dal Regno Unito (Tarchiani a pro­posito della Gran Bretagna parlava di “tradi­zionale perfidia britannica”) e in parte anche dalla Francia definita “traballante tra simpa­tie, sospetti, rancori e timori”75.

In quella grave situazione d ’isolamento dell’Italia all’interno della comunità occiden­tale, anche in uomini equilibrati come l’am­basciatore Tarchiani affioravano sentimenti nazionalisti; egli infatti dichiarava: “ Noi non dobbiamo naturalmente fare una politi­ca da Sparafucili; ma dobbiamo, è ormai in­dispensabile, continuare a dire nel modo più

chiaro a tutti (non esclusi i nostri cari amici europei) che difenderemo i nostri interessi ac­canitamente, e, d’ora in poi, su di un piano di assoluta e strenuante [ite] difesa reciprocità; e dobbiamo agire in ogni circostanza, stretta- mente in modo conforme”76.

Queste frasi, pronunciate da una persona di fede atlantica e prò americana come il nostro ambasciatore negli Stati Uniti, facevano pen­sare gli statunitensi che gli italiani seguissero una politica intesa a salvaguardare esclusiva- mente gli interessi nazionali senza preoccupar­si del rischio che ciò potesse provocare una rottura all’interno dell’Alleanza occidentale. De Gasperi, del resto, in un discorso tenuto al­la stampa inglese e americana nel luglio 1953, assunse un atteggiamento molto critico nei confronti degli alleati e dell’America in parti­colare, dichiarando che l’invito rivolto a una delegazione jugoslava di recarsi a Washington per colloqui militari era da considerarsi l’ulti­ma goccia che aveva fatto traboccare il vaso, e che esso andava interpretato come un atto “poco amichevole” e persino una violazione del Patto Atlantico che avrebbe potuto avere ripercussioni “disgraziate” sulla collaborazio­ne tra Italia e Occidente77. E probabile che De Gasperi, dopo il mancato passaggio della leg­ge che premiava il blocco di maggioranza alle elezioni di giugno (il 7 agosto egli lascerà il go­verno dopo la caduta in parlamento del suo ottavo ministero), cercasse di allinearsi con le diffuse idee nazionalistiche, correggendo in qualche misura il suo disegno sovranazio- nale europeista78. Lo statista, infatti, attac-

73 Cfr. “Patto Balcanico. Collegamento Jugoslavia-Nato”, telegr. 6316/C, 30 giugno 1953, loc. cit. a nota 72.74 Cfr. “La Jugoslavia è invitata ad una Conferenza per l’assistenza militare”, telespr. 1795/038, 18 giugno 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.75 Cfr. “Posizione internazionale dell’Italia”, telespr. 10186, 19 luglio 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.76 Cfr. “Posizione internazionale dell’Italia”, telespr. 10186, 19 luglio 1953, loc. cit. a nota 75.77 Queste dichiarazioni, abbastanza astiose, furono immediatamente riprese dalla stampa jugoslava, per mettere in luce come l’Italia avesse aderito al Patto Atlantico non per opporsi ad una aggressione, ma solamente per ottenere un ap­poggio militare alle sue rivendicazioni imperialiste. Cfr. “Cooperazione militare tra Jugoslavia e Occidente”, telespr. 1255, 18 luglio 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 669.78 Sull’allontanamento di De Gasperi dal suo disegno europeista si veda S. Galante, Alla ricerca della Potenza perduta, cit., p. 174.

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cando duramente gli alleati, sembrava “ab­bandonarsi” a velleità balcaniche e mediterra­nee (d’altronde si trattò di un atteggiamento transitorio, infatti De Gasperi, come scrive Pastorelli, anche fuori da ogni incarico gover­nativo, si adoperò per l’affermazione dei prin­cipi europeisti con ogni mezzo)79 che forse erano il risultato della esclusione e della mar- ginalizzazione del paese dalla grande politica. Queste velleità celavano l’incapacità di trova­re una collocazione regionale e ‘funzionalisti- ca’ nel contesto bipolare80.

Nonostante, però, questo fermento ‘antia- tlantico’ all’interno delle file dell’apparato politico-diplomatico italiano, l’amministra­zione americana e il Regno Unito, pur cer­cando di sdrammatizzare la situazione, conti­nuarono a tessere i loro contatti con il mare­sciallo Tito e a spingere per la costituzione di un blocco militare balcanico.

Nel mese di novembre del 1953, dopo che si era verificato un forte aumento della ten­sione tra Italia e Jugoslavia, con movimenti di truppe lungo la frontiera tra i due paesi che avrebbero potuto portare, nel caso l’eser­cito jugoslavo fosse entrato nella Zona A, an­che ad un intervento della Nato ai sensi del- l’art. 6 del trattato istitutivo del Patto Atlan­tico81, ripresero i colloqui tra i membri del

Patto di Ankara. I rappresentanti dei tre pae­si si riunirono prima in Turchia (dove furono delineati i problemi inerenti alla difesa comu­ne), poi ad Atene, dove si decise sulla struttu­ra da adottare per attuare la cooperazione ed infine a Belgrado, dove discussero i piani strategici da predisporre in caso di conflit­to82. Nel corso dell’ultima riunione fu anche firmato un accordo di “ mutua assistenza” che, però, non contemplava l’obbligo per nessuno dei firmatari di inviare truppe al di là delle proprie frontiere83.

Questa tornata di colloqui mise in evidenza come, tra gli alleati balcanici, si sentisse l’esi­genza di costituire un sistema di sicurezza effi­ciente e credibile. Lo stesso uso, nei comunica­ti ufficiali, della parola “Alleanza” indicava la volontà di porre il sistema balcanico sullo stesso piano di quello atlantico. Sembrava or­mai inevitabile che Part. 8 del Patto di Anka­ra, che in certo modo vincolava la Grecia e la Turchia a non impegnarsi in alleanze di carat­tere militare al di fuori del contesto atlantico, venisse a perdere ogni significato. Nel proto­collo finale delle conversazioni svoltesi a Bel­grado dal 10 al 20 novembre, infatti, era stata apposta una clausola che impegnava i tre pae­si ad entrare in guerra nell’eventualità che uno dei membri fosse attaccato84.

19 Quando Pella, in un suo discorso, subordinò alla questione del Territorio libero di Trieste, la fedeltà alle alleanze e la collaborazione europea, De Gasperi intervenne immediatamente per fargli constatare la pericolosità del ragionamento. Cfr. Pietro Pastorelli, La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 198-199.80 Cfr. Carlo M. Santoro, La politica estera di una media potenza, cit., p. 175.81 Secondo M.H. Wershof, capo della Defence Liaison Division canadese in Europa, De Gasperi, nell’ottobre del 1953, aveva affermato che il governo italiano, nel caso le truppe jugoslave fossero entrate nella Zona A, avrebbe dovuto ri­chiedere l’assistenza degli altri membri della Nato ai sensi dell’art. 5 del trattato. I canadesi considerarono questa pos­sibilità ed arrivarono alla conclusione che un intervento dell’Alleanza Atlantica avrebbe potuto effettivamente verificar­si, ai sensi però non dell’art. 5 ma dell’art. 6. Trieste infatti non poteva essere considerato come territorio italiano, dunque l’art. 5 non era applicabile, ma l’art. 6 invece riguardava attacchi alle forze di occupazione, come lo erano quelle inglesi e americane stazionate a Trieste. Cfr. “Memorandum from Defence Liaison to European Division”, 16 ottobre 1953, in Documents on Canadian External Relations, edited by Donald Barry, Ottawa, 1991 (d’ora in poi Dcer), 1953, voi. 19, pp. 762-763.82 Cfr. “The Ambassador in Greece (Cannon) to The Department of State” , 28 novembre 1953, in Frus, 1952-1954, voi. Vili, p. 634.83 Cfr. “Conversazioni tra gli Stati Maggiori Greci, Turchi e Jugoslavi a Belgrado”, telespr. 1747/C, 30 novembre 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 667.84 Questa clausola fu accolta favorevolmente anche dal governo turco che fino ad allora aveva avanzato dubbi sull’ef­fettiva affidabilità jugoslava. Il giornale “Istanbul” , riprendendo il discorso del ministro della Difesa nazionale greco,

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Se questa clausola fosse stata approvata dalle autorità politiche dei tre paesi, il Patto avrebbe assunto una dimensione nettamente militare con caratteri addirittura più precisi ed impegnativi di quanto non fossero quelli del Patto Atlantico. Roma, invece, voleva che tale clausola fosse approvata da tutti i membri della Nato, in quanto essa avrebbe potuto mettere in moto il sistema difensivo del Patto Atlantico per un casus belli che non riguardava nessuno dei paesi atlantici ma solo la Jugoslavia, che firmataria del Pat­to non era85. All’Italia sembrava dunque ne­cessario che si aprisse un dibattito all’interno della Nato per esaminare gli effetti della or­mai sempre più probabile “integrazione” ju­goslava nella comunità atlantica.

Nell’avanzare questa proposta, la diplo­mazia italiana trovò l’appoggio dei canadesi, i quali ritenevano necessario sviluppare il ruolo del Consiglio del Nord Atlantico come foro di discussione di interessi comuni a tutti i membri dell’Alleanza86. Il dipartimento de­gli Affari esteri canadese elaborò, nel dicem­bre del 1953, proprio al fine di una discussio­ne del problema jugoslavo nell’ambito del Consiglio Atlantico, un interessante memo­randum.

Secondo i diplomatici di Ottawa che si oc­cuparono della redazione del rapporto, i van­taggi che la Nato avrebbe potuto trarre, dalla presenza al suo interno della Jugoslavia, sa­rebbero stati essenzialmente militari: innan­zitutto Belgrado avrebbe completato lo

schieramento difensivo occidentale collegan­do Grecia e Turchia al resto dell’Organizza­zione atlantica; in secondo luogo, disponen­do di un esercito di 300.000 uomini, avrebbe contribuito attivamente alla difesa del settore balcanico e mediterraneo centro-orientale. La Nato, inoltre, avrebbe potuto avere un controllo diretto sul materiale militare forni­to alla Jugoslavia.

Dal punto di vista politico, invece, l’unico vantaggio sarebbe stato quello di mostrare come il Patto Atlantico fosse aperto a tutti quegli Stati che volevano difendersi dalla do­minazione di Mosca e rimanere indipenden­ti87, mentre gli svantaggi sarebbero stati enormi: primo fra tutti il sospetto nei con­fronti di Tito nutrito da parte di alcuni stati all’interno dell’Alleanza, che avrebbe impe­dito una effettiva cooperazione all’interno della Nato. Secondo gli analisti canadesi, in­fatti, il modo di scambiare le informazioni con Belgrado sarebbe stato differente da pae­se a paese ed in ogni caso limitato. Soltanto Grecia e Turchia, che vedevano la Nato come un’alleanza militare, considerata anche la lo­ro vicinanza geografica al blocco sovietico, avrebbero accettato la Jugoslavia come membro a pieno titolo, visti gli enormi van­taggi militari che ciò avrebbe loro procurato. All’estremo opposto si sarebbe invece collo­cata la posizione dell’Italia, definita nel me­morandum come “doubtless a most reluctant partner of thè new Communist member” . Per gli italiani, l’entrata di Belgrado nella Nato

Panayoti Cannellopoulous, cosi scriveva: “I tre paesi balcanici hanno deciso di darsi un’assistenza reciproca immediata in caso di aggressione nello spazio geografico comune. I tre Stati Maggiori lavorano ora come se appartenessero ad una sola Nazione”. Cfr. “Trattato Turco-Greco-Jugoslavo. Conversazioni militari di Belgrado (10-20 novembre 1953)”, 22 novembre 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 667.85 Cfr. “Conversazioni militari a tre a Belgrado. Impegni di mutua assistenza” , telespr. 2176/1069, 30 novembre 1953, in ASMAE, Affari politici, b. 667.86 II ministro degli Affari esteri di Ottawa, Lester B. Pearson, aveva già in precedenza dichiarato: “We appreciate the desire of the Italians, and indeed of the others members of the Council, that the Big Three should not make decisions on matters of common concern without consulting their friends; and even though our channels of consultations with the big powers are better than those of some other countries, we too are most anxious that the habit of political discussion in the Council should be developed” . Cfr. “Secretary of State for External Affairs to Acting Permanent Representative to North Atlantic”, luglio 1953, Deer, 1953, voi. 19, p. 731.8' Cfr. “Yugoslavia and the North Atlantic Treaty Organization”, 7 dicembre 1953, in NAC, DEA, 50030-D-40.

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avrebbe compromesso il concetto originario che aveva portato alla costituzione dell’Al­leanza Atlantica, riducendo anche il carattere difensivo di quest’ultima88.

Anche i canadesi si preoccupavano che lo spirito dell’Alleanza non venisse compromes­so e facevano notare che si correva il rischio di trasformare il Trattato dell’Atlantico del Nord da un’organizzazione di stati apparte­nenti alla comunità occidentale in una sem­plice alleanza militare antisovietica. Essi sot­tolineavano infine come i paesi che più spin­gevano per un’integrazione di Belgrado fos­sero proprio la Grecia e la Turchia, dove non si erano ancora affermate solide istitu­zioni democratiche89. Tra Italia e Canada dunque, riguardo il problema dell’Alleanza Balcanica, si veniva a creare una certa con­vergenza di posizioni, anche se per finalità di­verse.

Nonostante all’interno del Consiglio Atlan­tico gli italiani cercassero di costituire un fron­te contro il progetto d’integrazione militare balcanico, Grecia, Turchia e Jugoslavia, forti dell’appoggio dell’amministrazione america­na e anche del governo britannico (che ormai si preoccupavano essenzialmente di come fos­se possibile operare un collegamento tra la struttura militare del Patto Atlantico e i tre paesi balcanici) riaffermarono la loro inten­zione di stipulare a breve scadenza un’alleanza militare. Lo stesso maresciallo Tito, durante una sua visita in Turchia nel maggio del 1954, ricordò che il Patto di Ankara aveva svolto efficientemente la sua funzione e che era necessario arrivare alla sua logica conclu­sione, a un’alleanza militare90.

A questo punto, la diplomazia italiana ca­pì che una linea politica troppo rigida avreb­

be compromesso i rapporti all’interno della Nato e che, soprattutto, a soffrirne sarebbero state le relazioni italo-greche e italo-turche, mentre a Belgrado sarebbe stata offerta la possibilità di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Non a caso, quando nel luglio, al­l’interno del Consiglio Atlantico, si discusse dell’Alleanza Balcanica (il cui testo finale era ormai pronto per l’approvazione ), il rap­presentante italiano fece un discorso abba­stanza moderato: Rossi Longhi si dichiarò infatti solidale con il rafforzamento degli ac­cordi di difesa nell’area balcanica, pur affer­mando la necessità che le relazioni italo-jugo- slave venissero normalizzate prima che si sta­bilissero legami diretti con la Nato91. In so­stanza egli veniva a riconoscere che discutere all’interno del Consiglio Atlantico sulla com­patibilità o meno dell’Alleanza Balcanica con la Nato, come in precedenza era stato propo­sto, sarebbe stato, forse, un errore, vista la probabilità, molto concreta, che nessuno de­gli alleati avrebbe appoggiato la proposta ita­liana. Anche i canadesi, infatti, pur facendo presente che in quel momento non esistevano le condizioni favorevoli per un’estensione de­gli impegni derivanti dal Trattato dell’Atlan­tico del Nord, non presero una posizione chiara, ma preferirono restare su posizioni neutrali92.

Il comportamento, a dir poco ‘schizofreni­co’, di Palazzo Chigi metteva in evidenza la grande confusione che regnava al ministero degli Esteri in un momento così delicato. Confusione che, come abbiamo visto, era an­che il frutto della mancata mediazione dei di­versi punti di vista. Si riproponevano, in so­stanza, i problemi e i caratteri strutturali del­la politica estera italiana: la sua subordina-

88 Cfr. “Survey of Comments on the Yugoslav Memorandum”, 14 ottobre 1953, in NAC, DEA, 50030-V-40.89 Cfr. “Survey of Comments on the Yugoslav Memorandum”, 14 ottobre 1953, loc. cit. a nota 88.90 Cfr. “Visit of Marshal Tito”, sd„ in NAC, DEA, 50030-V-40, 42-42.91 Cfr. B.C., Dal problema di Trieste all’Alleanza Balcanica, “Relazioni internazionali” , 10 luglio 1954, n. 28.92 Cfr. “From the Permanent Representative of Canada to the Secretary of State for External Affairs” , 7 luglio 1954, in NAC, DEA, 50030-P-40, 31-31.

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zione, il più delle volte, alla politica interna; la dispersione e l’incostanza nel perseguire gli obiettivi da parte dell’apparato statale; una condotta ‘opportunista’, senza visione strategica di ampio respiro, diretta solo a cer­care vantaggi dove possibile, momentanei93.

Il 9 agosto 1954 veniva firmato a Bled, in Jugoslavia, il Patto Balcanico, attraverso il quale Tito diventava un membro “minore” della Nato94. È vero che poi, nella sostanza, questa ‘integrazione’ di Belgrado nel sistema difensivo occidentale non fu né organica né definitiva. Ma ciò fu dovuto non tanto alla politica italiana quanto alle decisioni della stessa Jugoslavia che, al contrario di Roma,

seppe sfruttare al meglio tutte le possibilità che si presentavano nel periodo della guerra fredda, inserendosi abilmente negli spazi di azione che il contesto bipolare lasciava aperti a quella categoria di stati definiti medie po­tenze. A partire dal 1955 Tito, infatti, assu­mendo la leadership del Movimento dei non allineati95, perdeva interesse nei confronti dell’Occidente e di fatto svuotava di ogni si­gnificato strategico e politico l’alleanza mili­tare firmata l’anno precedente; creando, in­vece, un movimento terzaforzista che avreb­be avuto notevoli influenze nella politica in­ternazionale.

Francesco Torcoli

93 Cfr. Carlo M. Santoro, La politica estera di una media potenza, cit., pp. 84, 93.94 Cfr. V. Kubàlkova, A. Cruickshank, Marxism and International Relations, cit., p. 132.95 Per quanto riguarda le questioni relative al Movimento dei non allineati, che esordiva ufficialmente con la Conferen­za di Bandung, si veda Giampaolo Calchi Novati, I Paesi non allineati dalla Conferenza di Bandung ad oggi, in Romain H. Rainero (a cura di), Storia dell'Età presente. I problemi del mondo dalla I I guerra mondiale ad oggi, 3 voi., Milano, Marzorati, 1985, vol. I, pp. 183-272; si veda anche V. Kubàlkova, A. Cruickshank, Marxism and International Relations, cit., pp. 131 sg.

Francesco Torcoli, dottore di ricerca in Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche del­l’Università di Pisa, ha effettuato studi sulla politica estera italiana e canadese negli anni cinquanta. At­tualmente è borsista presso il dipartimento di Scienza della politica dell’Università di Pisa.

RIVISTA STORICA DELL’ANARCHISMOSommario del n. 7, 1997

Ettore Cinnnella, Franco Venturi e il populismo russo-, Enzo Santarelli, Camillo Berneri; Marco Scavino, Berneri, Gobetti e la rivoluzione italiana: Marco Gervasoni, Il filo rosso de irinappartenenzaCam illo Berneri e Angelo Tasca, Franco Schlrone, Umanità nova in esilio. Francia 1932-1933: Roberto Bernardi, Umberto Mincigrucci (1905-1926). Note sull’anarchismo bresciano: Marcello Zane, Relatar la utopia. Viaggio nel mondo letterario libertario della Spagna ottocentesca: Claudio Albertani, Volin raccontato e disegnato da Vlady Kibalchich figlio di Victor Serge

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