il ritorno di inna-mok

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di Max Giorgini Inna-mok, potentissimo mago del Popolo degli Spettri, è stato sconfitto mentre tentava di asservire la Terra di Ruhel. Tutti lo credono neutralizzato per sempre, lui però si è solo trasferito in un'altra dimensione. Quando torna, deciso a vendicarsi, dovrà vedersela con Rash e Nystrid, due giovani di razza umana: lui, aristocratico e ribelle, si è unito a un bracconiere; lei, sfigurata da uno stregone barbaro, vedendosi rifiutata dalla sua gente la abbandona. Venuti a conoscenza della minaccia che incombe sulla Terra di Ruhel, si trovano al contempo investiti della responsabilità di poterla salvare. Infatti c'è una speranza: Venorè, giovanissima maga dei Figli dell'Aria, prima di morire prematuramente ha presagito il ritorno di Inna-mok e fabbricato un oggetto incantato – andato perduto – in grado di annientarlo. L'esito della loro ricerca, non priva di risvolti personali e colpi di scena, rimarrà appeso a un filo fino alla fine. Perché anche il negromante è sulle trac

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MAX GIORGINI

IL RITORNO DI INNA-MOK

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IL RITORNO DI INNA-MOK Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-706-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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a Patrizia

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Durante la prima era nella Terra di Ruhel vivevano molte razze, ognuna nei luoghi che trovava più adatti a se stessa.

Mappa della Terra di Ruhel, prima era Dal libro degli dei e degli eroi: La Terra di Ruhel

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La Terra di Ruhel All’epoca dei grandi guerrieri celesti accadde che Ruhel, mentre vagava libero da una stella all’altra, venne colpito alla tempia da una cometa. Sul punto di perdere i sensi, tenendosi la testa fra le mani cercò un posto in cui rifugiarsi. Per fortuna c’era un mondo a breve distanza sotto di lui. Quando lo raggiunse si accorse che era spoglio e completamente disabitato. L’ideale per riprendersi. Si distese e cadde subito in un sonno profondo. Riaprì gli occhi molto tempo dopo. Ancora frastornato si toccò la tempia, appurando che la ferita era ormai in via di guarigione. Allora balzò in piedi e, poiché aveva una sete tremenda, si avventurò in mezzo alla pianura. A ogni passo le sue gambe gigantesche divoravano distanze enormi. Solo dopo che ebbe camminato a lungo gli apparve in lontananza un grande lago. Con l’animo rallegrato si lanciò immediatamente in quella direzione, facendo tremare il terreno sotto il suo peso. Giunto in prossimità della riva si tuffò nell’acqua purissima e bevve con avidità. Poi uscì gocciolante dal lago e aspirò l’aria a pieni polmoni. Si sentiva completamente rinfrancato, per cui cominciò di nuovo a correre, sempre più velocemente, infine con una falcata più lunga si staccò da terra e riprese il suo viaggio senza meta attraverso il cielo. Ma all’acqua che Ruhel aveva sparso al suolo si era mescolata la polvere di stelle che lui aveva sulla pelle e fra i capelli. L’effetto fecondatore fu prodigioso, le gocce cadendo produssero la nascita della vita in forme innumerevoli. Fu così che in quella distesa brulla e deserta comparvero i vari popoli, e anche gli animali e le piante. Per tale motivo, da allora, viene chiamata Terra di Ruhel. [dal Libro degli dei e degli eroi]

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Prologo Stava calando la sera. Attraverso uno squarcio nello spesso strato di nuvole era apparsa Korel, la luna maggiore, che sorgeva a est. Le raffiche di vento fresco provenienti dai Kaltar gonfiavano le vesti delle numerose figure che, da sole o a gruppetti, erano disseminate qua e là sulle ampie gradinate dell’imponente anfiteatro di Ultor. Nell’aria crepitavano piccole scariche bluastre. C’era molto Potere concentrato in quel luogo. Al centro dello spiazzo rotondo un braciere illuminava una rozza colonna di granito cui era addossato un essere completamente nudo. Il ciuffo di capelli robusti che gli cresceva al centro della testa glabra, la carnagione pallida e i lineamenti eleganti lo rivelavano immediatamente come un appartenente al popolo degli spettri. Le sue mani scomparivano dentro al pilastro, le gambe erano piantate nel basamento di pietra. Inoltre un grosso piolo scuro gli trapassava la fronte, inchiodandogli la testa alla colonna, e una museruola di metallo serrava la parte inferiore della faccia. Una creatura alata atterrò morbidamente nel cerchio di luce creato dal treppiede. Ankar, re del popolo del vento e capo della Grande Coalizione. «Inna-mok, ultimo sopravvissuto del popolo degli spettri» disse, e la sua voce rimbombò fra le gradinate «che tu sia maledetto! Che tu sia maledetto cento volte! Che tu sia maledetto mille volte!» L’altro, impossibilitato a parlare a causa della museruola, gli riservò soltanto uno sguardo sdegnoso. Ankar allora girò tutt’intorno il viso allungato, poi i suoi grandi occhi tornarono a fissarsi sul prigioniero. «Hai provocato innumerevoli sofferenze. Sei stato la rovina della tua gente. Qualsiasi morte sarebbe per te una condanna inadeguata. Neanche cento morti sarebbero sufficienti a farti pagare interamente il prezzo delle tue immonde sperimentazioni, delle tante sciagure che hai causato, del tuo odio verso tutto ciò che è buono.» S’interruppe. Una raffica più violenta delle altre fece pericolosamente incurvare le fiamme che ardevano nel braciere. Il silenzio permise di udire, qua e là nell’anfiteatro, piccoli movimenti. «E comunque, anche volendo, non saremmo in grado di ucciderti» a queste parole un lampo di trionfo balenò negli occhi verde chiaro di Inna-mok «per cui noi, il concilio delle razze, ti condanniamo a restare per sempre immobilizzato contro questa colonna di granito, racchiuso dentro a un involucro che ti isoli completamente dal resto del mondo. Non sappiamo quanto durerà la tua esecrabile esistenza, ma finché vivrai resterai sepolto qui, a meditare su tutto il male che hai commesso.» Il prigioniero era rimasto impassibile.

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“Non avete capito niente, poveri ingenui” pensò “non conoscete il segreto di Inna-mok.” Ankar fece un passo indietro. «Bene, abbiamo perso anche troppo tempo. È ora di dare inizio all’incantesimo.» Dietro di lui, in alto sugli spalti, una creatura ricoperta da una corta peluria bianca si levò in piedi. Litanka, la vecchissima strega degli adoratori di Issht. Nell’aria quasi buia le sue pupille erano due punti incandescenti, che scomparvero quando chiuse le palpebre e cominciò con voce lagnosa a recitare una cantilena. Subito dopo, a metà della gradinata opposta, due figure basse e tozze protesero le braccia in avanti. Erano i fratelli Ermol e Feweral, i due maghi più forti della piccola gente. Le loro voci grosse e potenti cominciarono a salmodiare all’unisono con quella sottile e stentata della strega albina. All’improvviso lo spostamento di un ammasso nuvoloso fece comparire Endimas, la luna capricciosa che non segue un ciclo determinato e non ha una colorazione fissa. In quel momento aveva assunto una tonalità lilla. Quando i suoi raggi avvolsero l’anfiteatro, negli occhi di Inna-mok ci fu un guizzo. “Sorella, sei venuta a dirmi addio?” pensò “ti ringrazio. Anch’io ti saluto, in attesa di poterti rivedere. Quando tornerò a prendermi la mia vendetta.” Intanto su una delle gradinate più basse un’esile figura avvolta in un mantello chiaro si era librata di alcune dita nell’aria. Si trattava di Venorè, del popolo degli alberi. Pur essendo ancora ragazzina aveva già dato prova di un’enorme potenza. Tenendosi entrambe le mani premute contro le tempie, anche lei cominciò a recitare la litania. Fu poi la volta di Mirovastel, che assunse come al solito la forma di una gigantesca salamandra, quindi dell’arcigno Tolamekis. E di seguito, uno dopo l’altro, tutti i più grandi stregoni della Terra di Ruhel sopravvissuti alla guerra si unirono all’incantesimo. Sul corpo del prigioniero cominciò a formarsi una patina. A fatica, perché Inna-mok, il negromante di gran lunga più grande che fosse mai esistito, benché completamente neutralizzato emetteva un’aura difensiva difficile da superare. Comunque le forze congiunte dei maghi della Grande Coalizione ebbero ragione della sua resistenza, la patina un po’ alla volta s’ingrossò e divenne più solida. Finché lo stregone del popolo degli spettri venne interamente ricoperto da un bozzolo spesso e duro, nel quale la sua forma restava visibile solo vagamente.

* * *

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Erano passati molti e molti giorni dal grande incantesimo che aveva avuto luogo nell’anfiteatro di Ultor, la capitale distrutta del popolo degli spettri. La Terra di Ruhel aveva cominciato a curare, per quanto possibile, le terribili ferite lasciate dalla guerra contro il malvagio negromante. Mirovastel si era ritirata da tempo nella propria stanza da letto, un profondo silenzio avvolgeva la casa e la notte era serena. Nonostante ciò Venorè non riusciva a chiudere occhio. I tratti ancora in parte infantili del suo volto si allungarono in uno sbadiglio. Si rigirò un’altra volta, facendo oscillare dolcemente l’amaca, infine si decise a scendere. Indossò una blusa bianca foderata di capretto, poi camminò a piedi nudi sull’assito fino alla finestra. Attraverso i vetri trapelava un tenue chiarore. Era Napigi, la luna più piccola, che tentava di rischiarare il cielo come poteva. Sarebbe tornato. La memoria della strega adolescente andò indietro nel tempo. Dopo che l’avevano ridotto all’impotenza, era risultato impossibile giustiziare Inna-mok. Era diventato invulnerabile. Forse addirittura immortale. Avevano quindi stabilito di racchiuderlo dentro a un involucro magico. Ma poco prima che la vecchia Litanka desse inizio all’incantesimo… ebbene, Venorè, che si trovava vicino alla base degli spalti, a poca distanza dalla colonna, aveva colto un guizzo in quella mente crudele, come se lui stesse pregustando la futura libertà. Lì per lì non vi aveva dato peso. Forse si era sbagliata a interpretare quel fremito, oppure si era trattato soltanto dell’impudenza che aveva alimentato la folle illusione di dominio del negromante. Col passare dei giorni, però, il pensiero non l’aveva più lasciata, era stato come una goccia che lentamente scava il suo percorso nella roccia. Invece di dissolversi, quel vago presentimento era andato rafforzandosi sempre più. Inna-mok aveva preparato il proprio ritorno. Per vendicarsi. Non era chiaro come né quando, ma si sarebbe liberato. Non subito, anzi, probabilmente avrebbe atteso con pazienza che chi l’aveva combattuto fosse scomparso, e che di lui stesso si parlasse ormai come di una leggenda. Sì, ne era certa, la Grande Coalizione si era solo illusa di averlo sconfitto una volta per sempre. Ma forse lei poteva fare qualcosa. Venorè si passò una mano sugli occhi stanchi, strappando uno scintillio allo splendido braccialetto che aveva al polso, dono personale di Ankar. Poi si allontanò dalla finestra, scomparendo di nuovo nell’oscurità quasi assoluta che regnava nella stanza. Sedette sulla preziosa pelliccia di martora del Daken distesa in mezzo al pavimento di legno e piegò le gambe, in modo da potersi scaldare i piedi con le mani. La mente della maga ragazzina tornò alla battaglia finale. Il negromante si era ritirato con le poche forze di cui ancora disponeva dietro alle imponenti fortificazioni che proteggevano la collina di Ultor.

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Dopo che le macchine d’assedio del piccolo popolo avevano aperto numerosi varchi nei bastioni, da parte dell’alleanza era stata lanciata l’offensiva finale: supportato da squadre di alati che bersagliavano i difensori dall’alto, un esercito di giganti dell’Oka-hor aveva iniziato a risalire il pendio. Alla maggioranza degli stregoni, sotto la guida della grande Litanka, era stato assegnato il compito di sostenere l’attacco con incantesimi da combattimento. Gli altri, a capo dei quali si trovava il gigantesco Lomus, dovevano invece disturbare la concentrazione di Inna-mok, e lei era stata inserita in questo secondo gruppo. Proprio durante lo scontro, subito dopo che un mago del popolo del vento era stramazzato scalciando accanto a lei, Venorè nella mente del nemico aveva incontrato… la visione era stata così fulminea che non era riuscita nemmeno a rendersi conto di che cosa si trattasse, ma si era sicuramente imbattuta in qualcosa di incongruo, un elemento che non quadrava col resto. Nella frenesia della battaglia non vi aveva quasi prestato attenzione, né se n’era ricordata nei momenti immediatamente successivi, trascorsi in preda alla stanchezza e all’euforia per la vittoria. La fugace apparizione le era venuta in mente solo dopo, e a quel punto non le aveva dato peso perché ormai il negromante, ridotto all’impotenza, era in attesa di essere sepolto sotto una crosta incantata. Ma ora, man mano che cresceva la sua convinzione che Inna-mok si sarebbe liberato, le sorgeva una speranza: forse in quell’elemento incongruo si nascondeva la chiave per annientarlo definitivamente. Mosse le dita dei piedi dentro alle mani, per riscaldarle. Il soffio di Arvatuli, rivelatosi prestissimo in lei con una potenza formidabile, le aveva dato molto ma anche preso molto. Investendola già in giovanissima età di enormi responsabilità, l’aveva in definitiva privata dell’infanzia. E ancora adolescente si era vista trascinare in una guerra disperata e tremenda. Bambina non si era mai sentita, né ora si sentiva alle soglie della giovinezza. Anzi, era con l’animo e la determinazione di un adulto che stava addossandosi un compito cui dedicare la propria vita da quel momento in avanti. A ogni costo. Al prezzo di qualsiasi sacrificio. Avvertì dentro di sé fremere il Potere. Non rammentava nulla di quel particolare visto fugacemente, ma il ricordo dentro di lei c’era. Grazie alla magia poteva cercare di recuperarlo.

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Durante la seconda era nella Terra di Ruhel, già abitata dalle razze antiche, arrivò il nuovo popolo, gli uomini. Vennero da ovest e si diffusero rapidamente.

Mappa della Terra di Ruhel, seconda era

Dal libro degli dei e degli eroi: La notte dello sciacallo

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La notte dello sciacallo Una notte d’estate Aleia, svegliatasi di soprassalto, si accorse che il suo sposo Ollumar non dormiva disteso accanto a lei. “Forse è solo uscito in cerca di un po’ di refrigerio” pensò. Ma colta da un vago presentimento, si alzò e andò a cercarlo. Una volta all’esterno udì dei rumori provenire da dietro a un cespuglio di mirto. Incuriosita si avvicinò, e nella pallida luce lunare scorse il suo sposo fare all’amore con una creatura del bosco. A quella vista la dea fu assalita da un dolore grande e inconsolabile. Fuggita nel deserto, vagò in lacrime per molti giorni, ferendosi il viso sulle piante spinose e i piedi sulle pietre, finché una sera cadde esausta e in fin di vita. Al sorgere del sole fu svegliata dalla marmotta, che depositò davanti a lei una focaccia dicendo: «Tieni, ti ho portato del cibo.» La dea però rifiutò, rispondendo che ormai desiderava solo morire. Il tempo trascorse lento sotto il sole rovente. Era già iniziato il pomeriggio quando il falco volò fino a lei recando nel becco adunco una piccola anfora piena di latte, affinché potesse dissetarsi. Aleia però declinò l’offerta con queste parole: «Ti ringrazio, ma bevendo prolungherei la mia vita, che invece a causa del dolore desidero piuttosto abbreviare.» Il sole continuò paziente il suo cammino finché non scese l’oscurità, ravvivata da Endimas che inondava la distesa sassosa con una luce rosso scarlatto. La dea allora fu raggiunta dallo sciacallo, che in silenzio cominciò a leccarle le ferite. «Ti sono grata, adesso sto meglio» disse Aleia «perché mi hai dato conforto, ed è di conforto che ha bisogno chi soffre.» Dopo queste parole si levò in piedi e, accompagnata dall’animale, camminò verso la salvezza. Da allora le rare notti in cui l’imprevedibile Endimas assume una tonalità rosso acceso vengono chiamate notti dello sciacallo, e sono ritenute particolarmente adatte agli incantesimi. [dal Libro degli dei e degli eroi]

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Parte prima

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Al termine di un’oziosa mattinata invernale, Lonedyr stava passeggiando sotto il portico che delimitava il cortile interno. Era la vita tranquilla che poteva finalmente concedersi da quando, lasciata la cancelleria di Onoth che aveva diretto per molti anni, era andato ad abitare presso la figlia a Esnogar, un villaggio situato all’estremo nord del territorio dei Liberi Minatori di Arvenor. Improvvisamente dalla parte opposta del loggiato emerse una figuretta incappucciata che corse verso di lui attraverso il soffice quadrato ricoperto di neve. «Nonno! Nonno!» «Tarin!» Si chinò su di lei e le scoprì il capo per accarezzarle i riccioli spettinati. «Da dove vieni?» le chiese, poi raddrizzò cautamente la schiena tenendosi una mano sul fianco. «Siccome è una bella giornata di sole, la mamma mi ha mandata insieme a Rog a trovare il babbo al fondaco.» Il genero di Lonedyr era un ricco mercante che comprava, per rivenderli a Onoth e nella Colonia Waazai, l’ardesia, il ferro e le pellicce provenienti dalle miniere e dalle foreste della zona. «Lungo la strada ho raccolto delle viole invernali. Guarda!» «Ma sono bellissime!» La bambina sorrise soddisfatta. «Senti, nonno…» «Dimmi…» «In piazza c’era un cantastorie che cantava la ballata di una principessa…» «Una principessa?» «Sì, una principessa che si chiamava Venorè…» «Ah, sì…» annuì l’uomo. «Ho chiesto a Rog di parlarmene, ma lui ha cominciato come al solito a brontolare dicendo di essere un povero ignorante, e di non tormentarlo con le mie domande. Sai com’è Rog, vero?» «So anche quanto riesce a essere insistente una bambina di mia conoscenza…» affermò bonariamente Lonedyr. Lei fece finta di non cogliere l’allusione. «Nonno, mi parli della principessa Venorè?» «Si tratta di una fiaba, Tarin. Comunque, tanto per cominciare, Venorè non era una principessa, ma una maga. Una grande maga del popolo degli

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alberi.» «Popolo degli alberi?» «Hanno ricevuto questo nome perché costruiscono le loro case in cima agli alberi, piante gigantesche dette eycalotir. Sono chiamati anche “figli dell’aria”.» «Era bella Venorè?» «Si dice che fosse bellissima. Ma soprattutto, nonostante la giovane età, era una maga formidabile.» «Mi racconti la sua storia?» «Forse sei ancora troppo piccola, potrebbe farti paura. Sarebbe meglio…» «Io non sono piccola. E non ho paura…» Il vecchio sospirò. «Aspetta, che comincio a essere stanco» non senza sforzo sollevò la nipote per depositarla sul muretto del chiostro, al sole, poi si sedette accanto a lei «dunque, devi sapere che una volta nella Terra di Ruhel c’era un popolo che adesso non c’è più. Veniva chiamato “il popolo degli spettri”.» «Perché?» «Perché la loro religione affermava che erano tutti la reincarnazione di entità spirituali vissute in un altro mondo tantissimo tempo prima.» «Ah» forse la bambina aveva trovato il concetto un po’ complicato «e com’erano fatti?» «Erano creature molto belle. Alte, slanciate eppure forti e robuste. Per quanto riguarda l’aspetto somigliavano un po’ a noi uomini, ma con varie differenze. Per esempio avevano l’attaccatura dei capelli parecchio più alta, inoltre…» «E cosa c’entrano con Venorè?» lo interruppe Tarin impaziente. «Calma, ci stavo arrivando» il vecchio fece una pausa «purtroppo all’interno del popolo degli spettri comparve un malvagio negromante che si chiamava Inna-mok…» «Cos’è un negromante?» «È un mago. Questo Inna-mok era potentissimo, era il mago più potente che sia mai esistito. Ed era cattivo. Più che cattivo. Era cattiveria pura…» «Perché ti sei fermato?» «Continuo a chiedermi se è opportuno che una bambina della tua età ascolti…» «Uffa, nonno. Io non ho paura! E poi ormai hai cominciato. Non si interrompono le fiabe a metà!» «Hai ragione» ammise lui con un sospiro. E riprese: «Dunque, dicevo, questo perfido stregone aveva una tremenda sete di dominio, voleva addirittura regnare su tutta la Terra di Ruhel, e usando il Potere ridusse in schiavitù gli altri appartenenti al suo popolo…» «Diventavano schiavi come quelli che nelle terre del sud lavorano nei campi? Me ne ha parlato Rog…» «Peggio. Quelli sono schiavi solo nel corpo, Inna-mok invece asserviva le

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menti, trasformando gli altri in pupazzi che obbedivano ciecamente ai suoi ordini.» «Perché?» «Te l’ho detto, per dominare su tutto. Solo molto tardi le altre razze se ne accorsero. Ormai lo stregone aveva completamente sottomesso alla propria volontà tutto il popolo degli spettri, e stava per partire all’attacco. Allora si formò una grande alleanza di tutti gli abitanti della Terra di Ruhel, dagli alati che vivevano nelle scogliere del mare di Ebenaut alle gigantesche creature dell’Oka-hor.» Si fermò a riprendere fiato. La bambina lo guardava ammutolita, aspettando che continuasse. «Per fortuna il negromante non era ancora abbastanza potente da poter prevalere sugli altri popoli riuniti. Il suo esercito, più volte sconfitto, fu costretto a retrocedere sempre più, finché anche la capitale, Ultor, venne presa.» «Dev’essere stata una guerra molto dura…» «Durissima. Oltretutto Inna-mok poteva fornire alle proprie truppe un eccezionale supporto magico. Per contrastarlo la Grande Coalizione - si chiamava così l’alleanza che era stata costituita contro di lui - fu costretta a mettere in campo gli stregoni più forti, e non furono in pochi a morire. Ma alla fine la guerra fu vinta. Purtroppo gli appartenenti al popolo degli spettri, ormai contaminati senza rimedio dal malefico potere del negromante, dovettero essere tutti sterminati» qui fece una pausa «tutti tranne uno, a dire il vero…» «Chi?» «Lo stesso Inna-mok. Era divenuto talmente forte che non fu possibile ucciderlo. Per cui, affinché non fosse più in grado di nuocere, venne prima immobilizzato contro una colonna, poi ricoperto con una specie di involucro fatato.» Lonedyr, con una smorfia di sofferenza nel volto, si mosse per sistemarsi meglio sul muretto. «E Venorè?» «Ecco, è proprio adesso che entra in campo Venorè.» Tarin a queste parole s’illuminò. «Venorè» riprese il nonno «era una ragazzina appena più grande di te. Però aveva già una potenza magica formidabile. Per questo era stata chiamata a combattere contro Inna-mok. Ma a guerra finita, una notte ebbe una premonizione: il cattivo negromante aveva un segreto grazie al quale gli sarebbe stato possibile liberarsi. Allora lei costruì un oggetto fatato in grado di scatenare una magia che l’avrebbe eliminato una volta per tutte.» Il vecchio s’interruppe per schiarirsi la gola. «Dai, va’ avanti!» «Quel manufatto le costò uno sforzo enorme. Probabilmente fu proprio a causa di tale fatica che morì quando era ancora giovanissima. Si può dire

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che sacrificò la propria vita alla preparazione di quell’arma incantata.» «Poverina!» Tarin abbassò gli occhi, dispiaciuta. Ma quasi subito li rialzò, cambiando espressione «e dov’è l’oggetto fatato?» «Non si sa.» «Non si sa? E allora quando il cattivo stregone tornerà come faremo ad affrontarlo?» Il nonno sorrise, rassicurante. «Non tornerà. Te l’ho detto: è solo una fiaba.»

* * * Due occhi si aprirono nel buio, una mente ancora confusa si guardò intorno. L’animale si tirò su e brancolò intorno a sé con gli arti anteriori, tagliandosi contro una sporgenza acuminata. Dolore. Liquido. Si portò la zampa ferita alla bocca e succhiò. Era una sostanza nutriente. Era vitale ed energetica. Grazie a un formicolio diffuso il piccolo essere andava riacquistando consapevolezza delle proprie membra. Intanto la nebbia interiore si diradava, gradualmente ricomparivano i ricordi. Aspirò profondamente, non perché avesse bisogno di aria, ma per captare meglio gli odori. La polvere. Il sangue che usciva dal taglio. La pelliccia su cui era giaciuto. Il suo corpo setoloso. Finalmente seppe cosa era. Chi era. E subito avvertì un intensissimo senso di mutilazione. Era una parte, la frazione di un’esistenza divisa. Desiderò ardentemente il ricongiungimento con l’altro sé, l’io che da secoli attendeva imprigionato dentro a un involucro magico. Represse il desiderio. Non era ancora il momento. Sarebbe venuto, il tempo della riunificazione. Fino a quel giorno bisognava sopportare. Riprese con estrema cautela a esplorare l’oscurità circostante. Cominciava a orientarsi. Perché lui conosceva quel luogo. Mosse qualche passo incerto appoggiandosi alla parete alla sua sinistra. Fu costretto a fermarsi traballando, poi riprese ad avanzare. A un certo punto i polpastrelli unghiuti che protendeva in avanti incontrarono la roccia. Allora cominciò a spostarsi lateralmente. L’uscita era sbarrata da una lastra dura e impenetrabile. Dura e impenetrabile per tutti e tutto, ma non per lui. Allungò una zampa: vi sparì facilmente all’interno, come affondasse nell’acqua. Per tutti, ma non per lui. Perché quella era casa sua, il suo rifugio segreto. Dall’altra parte del passaggio c’era un pendio di pietra scura spazzato da un forte vento. Nel cielo brillava un fioco sole blu. Fioco ma, per i suoi occhi abituati al buio più totale, neanche poi tanto. Il piccolo animale vagò con lo sguardo attraverso la distesa sottostante, brulla e deserta, intanto cresceva l’intensità con cui percepiva la vita variegata e selvaggia di quel mondo, i popoli e le bestie che lo abitavano, la

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multiforme vegetazione che vi cresceva. Lo colse un’ebbrezza sfrenata. Dentro di lui si fece strada una forza inarrestabile. Uno dei tozzi arti anteriori si tese in avanti, i polpastrelli sprigionarono un dardo di fuoco che spaccò in due una grossa pianta spinosa che cresceva poco lontano. “Sono io!” urlò la sua mente “sono tornato!”

* * * La neve scendeva tranquilla a piccoli fiocchi, seppellendo i tetti, le strade e i giardini di Ekmera sotto a un soffice manto bianco. Non tirava un alito di vento, l’aria era gelida. Ma dentro alla taverna dell’Iguana Cornuta il fuoco che ardeva nel grande camino e i numerosi avventori accalcati intorno ai tavoli producevano un caldo soffocante. La sottile foschia causata dal cattivo tiraggio della canna fumaria irritava gli occhi, e gli schiamazzi assordanti riempivano il vasto locale come un liquido denso e oleoso. Il gruppo maggiormente rumoroso era forse quello seduto nell’angolo più lontano dall’ingresso. Era composto da una dozzina di persone, uomini e donne d’ogni età, le cui voci si accavallavano di continuo, esplodendo ogni tanto in una risata fragorosa che coinvolgeva tutta la compagnia. «E quindi cosa hai fatto?» «Ho aspettato nascosto dietro al carro che venisse più vicino, poi…» L’uomo che stava parlando, un tipo magro con la faccia butterata, s’interruppe per bere. «Poi?» lo incalzò una donna scarmigliata di circa cinquant’anni. «Poi gli ho affondato il manico dell’ascia nello stomaco!» Dopo averlo detto cominciò a sghignazzare sguaiatamente, trascinando con sé tutti gli altri. «Avreste dovuto sentire che verso ha fatto!» continuò «o-ooof!» Rideva, strabuzzando gli occhi e dilatando la bocca. «Proprio così: o-ooof!» Nell’enfasi del divertimento sbatté violentemente il boccale sul tavolo. «Argol, dannazione, vacci piano con la mia roba, o fra un po’ sentiremo il tuo, di lamento!» gli urlò l’oste da dietro al banco. «Ma piantala, rompiscatole! Portaci un’altra brocca di idromele, piuttosto!» rispose l’uomo cambiando posizione sulla panca. «Poi non protestare per quello che ti faranno gli sgherri del principe quando riusciranno a beccarti! Se li tratti in questo modo…» commentò uno della brigata dal capo opposto della tavola. «Che vuoi, io sono fatto così. Non sono mica un signore educato come il nostro Rash!» indicò un ragazzo castano, con appena un accenno di barba, seduto accanto a lui «dicci, Rash: tu come ti saresti comportato?» L’interpellato non si fece pregare.

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«Io gli avrei detto» qui assunse un tono riguardoso e cerimonioso «scusi tanto, armigero del principe di Odelia, vuole avere la compiacenza di mettersi una mano davanti alla bocca, così che quando le affonderò il manico della mia ascia nel pancione eviterà di svegliare tutta la brava gente che abita nel vicolo? A quel punto…» e qui fece l’atto di colpire allo stomaco Argol, che si scansò mentre tutti ridevano. «Eh, si vede che sei figlio di aristocratici» commentò una voce. Subito dopo la ragazza seduta di fianco a Rash sull’altro lato, un tipo molto carino con il viso ovale e i capelli rossicci, si chinò a baciarlo, fra urletti e sghignazzamenti. «Una di queste notti lo trovo a far l’amore con Namya durante un appostamento» affermò con un’espressione di bonario compatimento un uomo dalla corporatura tarchiata, suscitando un’ondata di risate. Si trattava di Doyn, che era considerato uno dei più abili cacciatori di frodo di tutto il principato. «A proposito» gli chiese Argol, alzando la voce per sovrastare il clamore «che ci dici della prossima spedizione?» «Parla più piano, zotico, c’è la prigione a vita per i bracconieri» fu il rimprovero di Doyn. Che poi, sempre a voce bassa, aggiunse: «Comunque ci è stata commissionata una volpe…» si udì un fischio «sì, le pagano bene. Soprattutto in questa stagione, quando la pelliccia diventa bianca. E ne sono rimaste poche in giro. Ma nella riserva del principe di Odelia qualcuna si trova ancora. E una di queste notti…» «Alla volpe bianca, allora» disse solennemente Argol, e tutti levarono i boccali per brindare. Rash si stava guardando intorno felice. Quando aveva lasciato il castello di famiglia in urto col padre, di cui non sopportava il carattere autoritario, quest’ultimo aveva sprezzantemente preconizzato che, immaturo e incapace com’era, non sarebbe riuscito a badare a se stesso e presto avrebbe fatto ritorno con la coda fra le gambe. Invece no. Non solo se l’era cavata, ma si era addirittura procurato una nuova vita, libera e spensierata. In parte per merito suo, cosa di cui andava orgoglioso, e in parte, doveva riconoscerlo, grazie all’incontro con Doyn. L’esperto bracconiere infatti, da cui era stato praticamente adottato, gli aveva insegnato a cacciare di frodo e l’aveva introdotto in un gruppo di amici che si aiutavano e si volevano bene. «Alla volpe bianca» ripeté Rash unendosi al brindisi.

* * * Stava appena sorgendo l’alba, preannunciando una giornata grigia e senza sole, battuta dalle raffiche di vento gelido provenienti dal Daken. A Dorsigen, la grande fattoria fortificata situata al confine orientale della

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Colonia Waazai, tutti erano ancora nei loro giacigli. Tutti tranne Nystrid, che si era già alzata e, a piedi nudi sull’assito, stava eseguendo esercizi con la spada. Suo padre, che da giovane era stato guerriero, aveva insegnato anche a lei a combattere. Secondo lo stile ruud, cioè senza scudo, impugnando l’arma a due mani. Nystrid era forte e si allenava con la spada, comunque era carina, assennata e aveva modi molto fini. Da sempre il barone Bostur nutriva un debole nei suoi confronti, si diceva addirittura che progettasse di farla sposare a Follenag, il suo primogenito. Del resto lei, figlia del sovrintendente di Dorsigen, se non aveva origini aristocratiche non era neppure una contadina. Uno scricchiolio nel corridoio, poi contro la porta furono battuti con discrezione un paio di colpi. «Nys? Già in piedi?» Si fermò, col sudore che le colava lungo il viso. Con un gesto scostò i robusti capelli biondi che le erano scesi davanti agli occhi, poi aprì. Un uomo ormai avanti con gli anni entrò zoppicando. «Buongiorno, padre. Mi esercitavo. Durante il giorno non trovo il tempo…» Nella Colonia Waazai, benché la suddivisione dei compiti in base al sesso non fosse del tutto rigida, alcune mansioni erano fondamentalmente riservate alle donne. Ma Nystrid, che contrariamente alla sorella maggiore non aveva mai mostrato una particolare propensione verso le attività femminili, preferiva aiutare il genitore nell’organizzazione della vita quotidiana della grande dimora. «Comunque, quando ti ho insegnato a usare la spada, non avevo in mente di fare di te una guerriera. Visto fra l’altro il guadagno che ne ho tratto, dal saper impugnare le armi…» si batté il palmo contro la gamba claudicante. «Tranquillo padre, non lo diventerò» in quel momento suonò il corno che svegliava tutta Dorsigen «be’, adesso bisogna che vada.» Stampò un bacio sulla fronte rugosa dell’uomo e si precipitò fuori. I due battenti della porta esterna erano ancora chiusi, ma per lei non era un problema. Attraversò la corte, lasciando profonde impronte sullo strato di neve soffice caduto il giorno prima, e salì sulla palizzata. A questo punto passò attorno a uno dei tronchi appuntiti la corda che aveva portato con sé e si calò agilmente dall’altra parte. Poi aggirò il villaggio e corse oltre una macchia di nepissemi induriti e spogli. Qui, al riparo da occhi indiscreti, si svestì completamente e si rotolò nella neve, massaggiandosi come se fosse immersa nell’acqua. Rialzatasi frizionò energicamente la pelle, provando nelle membra una piacevole sensazione di calore, poi si rivestì. Attraverso gli arbusti riusciva a distinguere la fattoria fortificata. Chiusa là dentro per tutta la vita, senza vedere niente del mondo. Era questo che l’aspettava? E, seconda domanda, era questo che voleva? Girò lo sguardo dall’altra parte, verso la vastità innevata che si estendeva a perdita d’occhio.

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* * * Grazie alla sua enorme potenza mentale Inna-mok si era procurato non solo qualcosa di simile all’immortalità, ma anche la possibilità di sdoppiarsi, cioè di scindere dall’unità psico-fisica principale una parte spirituale dotata di vita indipendente. Così, quando i nemici avevano travolto anche l’ultima linea di difesa e si apprestavano a catturarlo, si era diviso in due, e il suo io immateriale era andato a nascondersi in uno dei mondi da lui scoperti vagando attraverso l’universo ultrasensibile. In tale mondo, un luogo sinistro e inospitale il cui nome era Ktorè, aveva in precedenza costruito un rifugio, e all’interno di questo la parte sdoppiata, insediatasi nel corpo di un animale indigeno, era volontariamente caduta in un lunghissimo sonno. Intanto nella Terra di Ruhel sarebbero morti tutti coloro che avevano combattuto il grande stregone del popolo degli spettri, e della sua esistenza, al di fuori delle storie che si raccontano la sera davanti al fuoco per impressionare i bambini, sarebbero rimaste sempre meno tracce. Ora, finalmente, era giunto il momento della vendetta. Inna-mok rimase un po’ su Ktorè, per recuperare le forze, poi si sentì pronto a rimettere piede nella Terra di Ruhel. Uscito per l’ultima volta dalla caverna, si fermò un attimo a contemplare la landa desolata che si estendeva a perdita d’occhio sotto di lui. Nel cielo in quel momento brillavano entrambi i soli, quello blu e quello scarlatto, più intenso, diffondendo una luminosità violacea. Il piccolo quadrupede in cui risiedeva si avviò saltellando lungo il pendio accidentato. Improvvisamente un gracchiare minaccioso proveniente dall’alto lo avvertì che stava calando su di lui una bestia dotata di lunghe ali spigolose e di enormi mascelle a forma di becco. Era una delle tante specie di predatori che infestavano quel mondo infido e pericoloso. Ma lui non era la vittima inerme e indifesa che sembrava. Con un rapido movimento protese all’insù una zampa, proiettando un globo incandescente. L’assalitore, colpito in pieno, si lasciò sfuggire una specie di rauco gemito. Per qualche istante perse quota, poi riuscì a riprendersi e si allontanò nel cielo paonazzo emettendo di tanto in tanto lamenti laceranti. Inna-mok riprese ad avanzare e, raggiunta la base del pendio, cominciò a vagare nella pianura spoglia, disseminata qua e là di blocchi della stessa pietra scura da cui era costituita l’altura dove si trovava la sua grotta. La fortuna lo aiutò, perché non ci mise molto a trovare ciò che stava cercando. Si trattava di bipedi di media grandezza, con due arti superiori forniti di estremità prensili. Quegli esseri erano tutt’altro che prede inoffensive, anzi, in gruppo e armati sapevano difendersi egregiamente dagli spietati cacciatori che infestavano Ktorè. Inoltre avevano una costituzione estremamente robusta, resistente alla

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fatica e a tutte le condizioni climatiche. Insomma, il loro corpo rappresentava l’ideale per il ritorno nella Terra di Ruhel. Inna-mok si avvicinò con circospezione, poi pronunciò mentalmente un incantesimo. Uno dei bipedi lasciò cadere l’ascia di pietra e rimase immobile con le braccia lungo i fianchi. Gli altri invece, intuito che qualcosa non andava, si allontanarono frettolosamente. Mentre si dirigeva verso il suo nuovo corpo l’io immateriale del mago vibrava di eccitazione. L’ora della vendetta si avvicinava.

* * * Il grosso topo morto che faceva da esca era appena distinguibile in mezzo alla piccola radura coperta di neve. Tutt’intorno il bosco risuonava dei versi cupi degli uccelli notturni, e il cielo era rischiarato dalla contemporanea presenza di Korel e di Endimas, che era apparsa in una tonalità cupa di blu. Namya si batté le mani sulle spalle a braccia incrociate, per riscaldarsi. «Hai freddo?» Le parole di Rash, accovacciato accanto a lei dietro a un cespuglio, si trasformarono in una nuvola di vapore. «Un po’» rispose lei facendo ondeggiare i capelli color rame «è un sacco di tempo che siamo fermi qui.» «Zitti!» sussurrò eccitato Doyn «mi è sembrato di vedere qualcosa!» Rash scrutò davanti a sé nella debole luce lunare. Non aveva l’occhio esperto di Doyn, quindi ci mise un po’, ma poi anche lui credette di individuare una piccola figura immobile vicino al margine del bosco. Stava fiutando l’aria. La volpe, dopo che ebbe esaminato la situazione, venne avanti con cautela. Si trattava di uno splendido esemplare, dalla folta pelliccia immacolata. Era ormai giunta a pochi passi dalla tagliola, quando all’improvviso si udì il ringhio di un cane, seguito da un’imprecazione soffocata. «Ci hanno trovati!» gridò Doyn «ai cavalli!» Scattarono immediatamente attraverso la radura. Intanto il bosco si era animato di voci. Un corno lacerò l’aria. Iniziava una nuova caccia, e non erano più loro i cacciatori. Corsero a rotta di collo verso il posto dove avevano lasciato le cavalcature, circondati dai rumori - grida, latrati, rami spezzati - del semicerchio che si andava stringendo alle loro spalle. Quando però i loro animali erano ormai vicini Rash inciampò in una radice invisibile sotto alla neve e rovinò malamente a terra. Si rialzò subito, ma appena provò ad appoggiare lo stivale al suolo sentì una fitta dolorosissima. Namya, che lo seguiva di qualche passo, gli fu subito accanto e si curvò su di lui.

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«Cos’hai?» chiese ansimando. «La caviglia… aiutami…» Sostenuto da lei ce l’avrebbe fatta a raggiungere i cavalli. Ma quello che lesse nel bel viso ovale della ragazza, illuminato da un riflesso color zaffiro, era un addio. «Namya!» gridò dietro alla sagoma snella che spariva in mezzo alla neve. Provò a trascinarsi, ma fu presto raggiunto da alcuni mastini che lo circondarono latrando minacciosamente. Allora Rash estrasse il coltello, l’unica arma che aveva, e cominciò ad agitarlo freneticamente intorno a sé nel tentativo di non farli avvicinare. Poco dopo arrivarono i guardaboschi del principe. Prima lo malmenarono, poi lo legarono. Quando però tentarono di condurlo via si accorsero che, un po’ per la distorsione e un po’ per le botte, non era in grado di reggersi in piedi, per cui dovettero trasportarlo con una barella di fortuna. Lui, frastornato e dolorante, si sentiva agitato da un confuso tumulto interiore. Pensava che era stato catturato e a Namya che l’aveva abbandonato, e non sapeva cos’era a farlo soffrire di più.

* * * Contemporaneamente, molto lontano da lì, Nystrid veniva svegliata da passi affrettati e voci concitate che si rincorrevano fuori dalla sua stanza. Balzò giù dal letto, si vestì in fretta e uscì nel corridoio. Proprio in quel momento passava Tarsil, il fratello del barone Bostur. «Che succede, signore?» chiese. L’uomo si fermò e cominciò a parlarle con un atteggiamento di estrema urgenza. «Fiamme all’orizzonte. In direzione di Beyr.» Si trattava di uno dei più lontani fra i villaggi dipendenti da Dorsigen. «È stato attaccato?» «Non si sa. Forse» mentre rispondeva stava già correndo via. Nystrid lo seguì fuori dal grande edificio di legno. Nel debole chiarore notturno, cui Endimas infondeva una sfumatura bluastra, scorse immediatamente delle figure allineate lungo il cammino di ronda del lato nord della palizzata. Pochissimo tempo dopo era là anche lei, con le mani appoggiate sui pali appuntiti. Tutti gli occhi fissavano il minuscolo bagliore che si scorgeva in lontananza. Beyr, senza dubbio. Poteva certamente trattarsi di un incendio dovuto a cause accidentali. Non capitava di rado, nella Colonia Waazai. Era una regione povera di pietra e di argilla, per cui come materiale da costruzione, anche per le dimore signorili, veniva largamente usato il legno. Ma non si poteva escludere un’incursione. Quella terra, che rappresentava in un certo senso un avamposto della civiltà, era minacciata sia dai predoni che

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infestavano le coste meridionali del Daken, sia dalle orde di nomadi che talvolta oltrepassavano il Farn a scopo di razzia. Il barone si stava consultando col fratello. La questione era se sguarnire la fattoria fortificata per mandare aiuti che comunque sarebbero arrivati troppo tardi. Alla fine Bostur decise di inviare solo un piccolo gruppo di armati, con a capo il fratello, a vedere cosa era successo. Nystrid riportò l’attenzione sul punto luminoso che tremolava in lontananza. Di qualsiasi cosa si trattasse, lei si sentiva pronta.

* * * Non volendo assolutamente correre il rischio di essere notato, per rimettere piede nella Terra di Ruhel l’io sdoppiato di Inna-mok scelse un luogo sperduto in mezzo ai Kaltar, nel territorio della nazione Kargh. Gli ci volle un po’ di tempo per riaversi, almeno parzialmente, dal grande sforzo che gli era costato il ritorno. Poi cercò di farsi una prima idea sulla situazione, e capì subito che era pieno inverno, perché sulle vette della grande catena la neve era perenne, ma non alla quota più bassa a cui si era materializzato. Ciò comunque non costituiva un problema: la creatura di cui aveva preso possesso indossava soltanto una rozza blusa di pelliccia senza maniche, ma era abituata alle violente escursioni termiche di Ktorè. L’aver trovato ad accoglierlo la sua luna prediletta, Endimas, il cui disco risplendeva di un blu appena più chiaro della notte, fu da lui considerato di buon auspicio. Si orientò velocemente guardando il cielo, poi con l’ascia appoggiata sulla spalla s’incamminò in mezzo alla distesa innevata. L’odore intenso degli abeti e dei rododendri gli impregnava le narici, e nell’aria gelida risuonava l’ululato lontano di un branco di lupi. L’io immateriale dello stregone avrebbe potuto insediarsi in un grande rapace e dirigersi immediatamente verso Ultor ma, a parte il dispendio di forze che il passare da un corpo all’altro avrebbe comportato per il suo Potere già parecchio debilitato, un simile comportamento non sarebbe stato prudente. Non sapeva quali cambiamenti fossero intervenuti nella Terra di Ruhel, né lo stato di cose che avrebbe trovato nella sua antica capitale. No, meglio essere cauti e tentare di capire ciò che era successo durante la sua lunghissima assenza. Quindi innanzitutto doveva cercare gli abitanti di quelle montagne, il piccolo popolo. Bassi e tozzi, erano straordinariamente robusti e intelligenti. Con i loro guerrieri, le loro macchine da guerra e i loro negromanti avevano fornito un contributo decisivo alla sconfitta delle sue truppe. Fra l’altro appartenevano alla piccola gente i due fratelli che avevano forgiato il grande chiodo incantato che gli era stato conficcato attraverso la testa, per disturbare la sua capacità di concentrazione e impedirgli di pronunciare

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incantesimi mentalmente. Questo pensiero riacutizzò in lui, bruciante come un ferro rovente, la consapevolezza della divisione dall’altro sé. Decise, nonostante si sentisse molto debole, di fare un primo tentativo di contatto. Affondando le estremità callose nella neve fresca raggiunse un grande abete alla ricerca di un po’ di riparo. Fratello, puoi sentirmi? Restò in ascolto, tutto il suo essere proteso a cogliere anche la più fioca risposta. Fratello, sono tornato! Puoi sentirmi? Niente. Solo vento e lupi. Si sforzò di intensificare il richiamo. Fratello! Sono io! Puoi sentirmi? Presto torneremo a essere uno, e allora nessuno potrà fermare Inna-mok! Attese, contraendo la faccia sferzata dal pulviscolo bianco sollevato dalle raffiche. Le grosse labbra, serrate con forza, sembravano una ferita mal cicatrizzata. Ma anche stavolta non captò alcun segnale. Erano troppo lontani. La frustrazione si trasformò velocemente in un violentissimo attacco di rabbia, che lo travolse come un’onda. Aprì le mani a ventaglio e vi attirò un piccolo rapace notturno che stava passando in volo poco lontano. Sotto l’effetto dell’ira le tozze dita della creatura di Ktorè si strinsero, schiacciando la preda. “Verrà il momento” pensava Inna-mok “verrà!” Infine, incapace di dominare la collera, si portò il piccolo corpo piumato alla bocca e lo serrò tra i denti, facendo crocchiare le fragili ossa. Un rivolo di sangue gli colò sul mento glabro. “Verrà il momento…” Parzialmente placato, chinò il viso e sputò il boccone di carne e penne nella neve.

* * * Rash, la faccia pesta e la caviglia gonfia, si sentì infliggere dal giudice il carcere a vita. Era ancora così frastornato che gli sembrava di vivere un sogno. Poi, zoppicando penosamente, fu costretto a seguire tre guardie lungo un corridoio e poi giù per una scala umida. Già prima di iniziare a scendere il giovane cominciò ad avvertire un odore sgradevole, che crebbe d’intensità a ogni passo finché, in fondo ai gradini, la puzza si rivelò veramente irrespirabile. A emanarla era una piccola folla di infelici ammassata in condizioni pietose

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al di là di una grata. Rash fu preso in consegna da alcuni carcerieri che, dopo avergli slegato le mani, aprirono un cancello cigolante e senza tanti complimenti lo scaraventarono nell’immensa cella, dove fu accolto da imprecazioni, grida di scherno, allusioni erotiche. “Sarà dura” pensò Rash “sarà maledettamente dura.” E infatti nel breve periodo in cui rimase lì vide di tutto. Zuffe più o meno violente si accendevano di continuo per un commento, un pezzo di cibo o un posto vicino al muro. Un uomo morì, di malattia probabilmente, un altro, colto da un attacco isterico, venne portato via dai guardiani con la schiuma alla bocca. Un altro ancora fu stuprato. Due tipi dall’aria lubrica presero di mira anche lui che evidentemente, per l’età e la gradevolezza dei lineamenti, esercitava una certa attrattiva. Nessuno lo aiutò, ma si difese strenuamente provocando un parapiglia tale da scatenare una rissa generale. A quel punto i carcerieri entrarono in massa riportando l’ordine a colpi di frusta. Finché un mattino fu aperto il cancello a un numeroso gruppo di uomini che cominciarono a camminare fra i prigionieri, esaminandoli sommariamente e portando fuori quelli che apparivano in condizioni migliori. Anche Rash, giovane e, nonostante i segni delle percosse, di aspetto sano, fu tra i prescelti. Poco dopo lui e molti altri si trovarono radunati all’estremità di uno stanzone spoglio e pieno di spifferi gelidi, tenuti d’occhio da sgherri con armi e molossi. Uno alla volta venivano portati al cospetto di una coppia di individui dall’aria importante in attesa sul lato opposto. All’interno del gruppo cominciò a circolare la voce che uno dei due fosse l’incaricato di un mercante di schiavi inviato a fare acquisti fra i condannati a vita. Arrivò anche il turno di Rash, che avanzò zoppicando. Quello che in effetti pareva proprio essere lì per rifornirsi di merce umana lo fece denudare completamente, poi cominciò a girargli intorno, esaminandolo con occhio critico. Gli ordinò di aprire la bocca per controllare lo stato dei denti e si chinò a guardare la caviglia, rialzandosi però quasi subito con una smorfia di noncuranza. Infine si rivolse all’uomo che stava insieme a lui, e che evidentemente rappresentava gli interessi del principe, e fece un’offerta. Fra i due ebbe luogo una breve contrattazione, poi il ragazzo fu fatto rivestire. Subito dopo un fabbro gli applicò ai piedi una catena che consentiva di compiere solo un passo molto corto. Sulla fascia metallica stretta intorno alla gamba sinistra era impresso un numero. Infine, con la faccia deformata dal dolore che i ceppi gli causavano alla caviglia lesionata, Rash fu accompagnato nel cortile del carcere, dove stava in attesa una fila di carri che erano in pratica gabbie a quattro ruote.

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* * * Inna-mok vagava per i Kaltar ormai da qualche giorno quando, dal fondo della valle che stava percorrendo, udì echeggiare l’eco di colpi di scure. Immediatamente si diresse nella direzione da cui provenivano, deciso ad approfittare dell’occasione per liberarsi della stupida creatura in cui il suo io immateriale aveva preso dimora su Ktorè. Era stata utile per fare ritorno nella Terra di Ruhel, ma ora andava sostituita prima che finisse col dare nell’occhio. Era necessario - si ripeteva di continuo - che stesse attento a non farsi scoprire, in modo da avere più tempo a disposizione per tessere con calma le sue trame. Non doveva commettere lo stesso errore della prima volta… Avvicinandosi al crinale cominciò a sentire anche il raspare delle seghe che si facevano strada nel legno. Quando si affacciò oltre la sommità ebbe la conferma che, come aveva previsto, si trattava di un campo di lavoro della nazione Kargh. Circa una ventina di individui, tutti maschi, perché all’interno del piccolo popolo vigeva una rigidissima divisione sessuale dei compiti. Erano intenti ad abbattere alberi e a sfrondare dai rami i tronchi già tagliati. Maledetti! Non poté fare a meno, rivedendoli, di tornare con la memoria alle catapulte della piccola gente che abbattevano i bastioni di Ultor. Ma quella razza di mostriciattoli avrebbe pagato per quello che gli aveva fatto. In quel momento uno dei boscaioli si accorse di lui, e subito si immobilizzò. Il suo comportamento attirò anche l’attenzione degli altri, che uno dopo l’altro smisero di lavorare e diressero gli occhi verso la strana figura che li fissava dall’alto. I piccoli lavoratori cominciarono a consultarsi ad alta voce, incuriositi e incerti. Poi i più vicini si diressero verso la misteriosa creatura impugnando le scuri. Ma non ebbero il tempo di raggiungerla. Dal negromante si sprigionò una vampata semicircolare di fuoco che al suo passaggio uccise e devastò tutto ciò che incontrò. La neve si sciolse, alberi e cespugli furono istantaneamente carbonizzati, i boscaioli vennero trasformati in carcasse annerite. Inna-mok, sopraffatto dai sentimenti che tumultuavano dentro di lui, rimase a lungo immobile a contemplare quello scenario di distruzione. Poi lo notò. Uno dei lavoratori, che doveva essersi allontanato dal campo prima del suo arrivo, dalla sommità del versante opposto della valle guardava istupidito lo spettacolo terrificante che aveva davanti. Quindi ne era sopravvissuto uno, per fortuna. Lo stregone, che aveva ritrovato il controllo, gli diresse contro un incantesimo che lo fece cadere bocconi sulla neve. Poi si avviò con calma verso di lui; era ora di cambiare corpo.

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* * * Tarsil, il fratello minore del barone, al ritorno da Beyr aveva riferito di aver trovato il villaggio completamente distrutto e i suoi abitanti orribilmente massacrati. Ovunque c’erano i segni di un’atrocità terribile, del tutto inutile e ingiustificata. Rispetto ai colpevoli non c’erano dubbi, l’incursione era stata compiuta da un’orda di nomadi delle steppe. Lo testimoniavano gli oggetti ritrovati, in particolare le barbariche asce con la testa di pietra che erano la loro arma preferita, nonché la direzione presa dai predoni dopo aver effettuato la razzia. Appreso ciò, Bostur aveva affidato al fratello la fattoria fortificata e si era messo sulle tracce dell’orda con un piccolo esercito composto di armigeri ma anche di cacciatori, contadini e pastori richiamati in gran fretta dalla campagna. I viveri e le tende erano stati caricati su slitte che gli inseguitori trainavano a turno. Nystrid aveva voluto a tutti i costi partecipare alla spedizione, e i tentativi del padre di farle cambiare idea erano stati inutili. Quanto al barone, dopo una blanda resistenza le aveva concesso di aggregarsi. Che vedesse o no in lei la futura moglie del figlio, non rientrava certo nei suoi principi impedire di mettersi alla prova a chi era pronto a farlo. Così ora la ragazza era una delle tante figurine scure che avanzavano sulla distesa ghiacciata, abbastanza dura da non rendere per il momento necessario l’uso delle racchette. Era ormai il quarto giorno di cammino, e aveva constatato con una punta di orgoglio che stava reggendo bene la fatica. A un certo punto Nystrid scorse un piccolo branco di sciacalli allontanarsi sulla sinistra finché non ebbe raggiunto una distanza di sicurezza. Poco dopo la colonna si fermò. Nell’aria grigia, in cui volteggiavano fiocchi leggerissimi, gli inseguitori si guardavano interrogativamente e pestavano i piedi per scaldarsi, esalando nuvole nell’aria. Il tempo passava, ma la fila non si muoveva, così qualcuno cominciò ad abbandonare il suo posto per andare avanti a vedere. Dopo un po’ anche la ragazza cedette alla curiosità e, sfilatasi dalle spalle le cinghie della slitta che stava trainando, si diresse verso la testa della colonna. Purtroppo i suoi timori trovarono conferma. C’erano numerosi cadaveri sparsi in mezzo alla neve e, nonostante le loro pietose condizioni, le fu presto chiaro che si trattava di un gruppo di cacciatori partito da Dorsigen molti giorni prima per una battuta di caccia al lupo. Evidentemente si erano trovati sul percorso dei predoni in ritirata e non erano riusciti a mettersi in salvo. Alcuni per loro fortuna erano morti combattendo, abbattuti dalle tremende asce dei nomadi. Altri però, fatti prigionieri, erano stati torturati in modo

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spaventoso. Il barone, che si era accovacciato presso uno dei corpi, quando si rialzò aveva il volto deformato dal desiderio di vendetta. «Guardateli!» urlò ruotando gli occhi tutt’intorno «guardateli bene! E quando sarà il momento, ricordatevi di quello che avete visto qui!»

* * * Inna-mok non riusciva a perdonarsi. Si era comportato in modo imprudente, trovandosi così costretto a ricorrere a una magia devastante. Una bella stupidaggine, per uno che non voleva farsi notare! La notizia della distruzione di un intero campo di lavoro avrebbe fatto presto a diffondersi. Ovviamente era impossibile che si pensasse a lui come responsabile, ma un primo allarme era stato suscitato, maledizione. Non doveva più succedere. Aveva giurato a se stesso che da quel momento in poi si sarebbe comportato con la massima cautela. Naturalmente non si era neppure messo alla ricerca della comunità cui appartenevano i boscaioli che aveva ridotto a resti fumanti. Il suo spirito sdoppiato aveva preso possesso dell’unico sopravvissuto, gli avrebbero fatto troppe domande. Così, dopo aver riempito uno zaino con delle provviste, un mantello e un sacco a pelo scampati miracolosamente all’incenerimento, si era allontanato alla svelta. Nel nuovo corpo si era ambientato subito. Pur appartenendo a una razza che viveva sui Kaltar, era meno resistente al freddo della creatura di Ktorè, e aveva un olfatto meno sviluppato. Ma, nonostante le gambe corte e tozze, si mostrava molto adatto alla montagna perché era forte e instancabile. Quanto al gelo, i vestiti e l’equipaggiamento che Inna-mok aveva con sé erano sufficienti ad affrontarlo. Dopo aver vagato per alcuni giorni in mezzo ai pendii innevati, disseminati di abeti e di larici, quando scorse varie spirali di fumo snodarsi pigramente nel cielo il negromante decise di essere ormai abbastanza distante dal campo devastato e andò in quella direzione. Oltretutto ne aveva abbastanza di gelide notti trascorse all’aperto. Si trattava di un agglomerato di tozzi edifici in pietra e legno, costruito in una posizione riparata e circondato da un massiccio muro di sasso. Sembrava a prima vista un villaggio di piccole dimensioni, ma Inna-mok sapeva che la piccola gente viveva e lavorava preferibilmente sottoterra, per cui una parte consistente dell’insediamento era certamente costituita da antri e caverne scavati sotto la parte visibile. Grazie ai suoi poteri aveva facilmente ucciso alcuni animali da pelliccia, in modo da poter essere scambiato per un cacciatore, e verso sera emerse dalla macchia di ontani e rododendri in cui era rimasto nascosto e si diresse verso l’ingresso, situato in una solida torre quadrata.

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La porta era presidiata da alcuni guerrieri. Indossavano corazze brunite ed elmi, ed erano equipaggiati con le armi preferite dal piccolo popolo, scuri e balestre. Lo squadrarono con insistenza, accarezzandosi le lunghe barbe, mentre passava davanti a loro col suo grappolo di scoiattoli e martore appesi allo zaino, ma lo lasciarono passare senza dirgli niente. Bene, entrare era entrato. Finalmente avrebbe avuto la possibilità di farsi un’idea generale rispetto a ciò che era cambiato nella terra di Ruhel. Era stato via per centinaia d’anni… Ma doveva stare attento a non destare sospetti. Tanto per cominciare, poteva provare a vendere gli animali che aveva con sé.

* * * I carri avanzavano lentamente lungo la strada resa pesante dal fango e dalla neve. Erano passati molti giorni dalla partenza da Ekmera, ma a Rash la caviglia faceva ancora male. A ciò si aggiungevano il disagio procurato dalla forzata immobilità, il fastidio dei ceppi e la debolezza causata dalla scarsità e bassa qualità del cibo. Per non parlare del freddo. Nonostante fosse pieno inverno, la gabbia non aveva altra protezione che lo strato di assi che rivestiva la parte superiore, e tutto ciò che gli occupanti avevano per difendersi dalla temperatura rigida e dal vento erano vecchie pelli puzzolenti. Dentro al carro vi era stato un processo, in parte violento, di assestamento, finché ognuno si era stabilizzato in un posto ben preciso. Ormai, a parte fiammate sempre più rare, la vita dei prigionieri trascorreva all’insegna dell’abulia. Gli sgherri di scorta ogni tanto li maltrattavano, per sedare le risse e i diverbi oppure per puro divertimento, ma senza esagerare, perché quella che era stata loro affidata era merce preziosa, che non solo doveva arrivare a Tolemon, ma doveva arrivarvi in buono stato. Rash, che nonostante l’età ancora giovane e il fisico non particolarmente muscoloso sapeva comunque farsi rispettare, nella gerarchia stabilitasi dentro alla gabbia aveva finito con l’occupare una posizione intermedia. Così, tagliato fuori dalle dispute per il primato e non dovendo subire le soperchierie che affliggevano gli ultimi, tendeva a non stringere legami con gli altri, gentaglia con cui sentiva di non avere nulla in comune, e a rimuginare fra sé e sé. Spesso pensava al suo passato. Era il primogenito di una famiglia aristocratica che possedeva vasti terreni a nord di Odelia, e fin da piccolo aveva mostrato una forte insofferenza nei confronti dell’autorità. Per questo motivo, mentre aveva sviluppato buoni rapporti con la madre, che lo trattava con grande dolcezza, e anche con i fratelli minori, era entrato in crescente dissidio col padre, uomo dispotico e inflessibile. Finché, dopo aver subito una punizione più severa del solito, gli si era

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ribellato apertamente e se n’era andato di casa. Per un po’ aveva vagato attraverso il principato, arrangiandosi come poteva. Poi un giorno, mentre si aggirava per le vie di Ekmera, aveva casualmente stretto amicizia con Doyn, che l’aveva preso con sé e aveva instaurato con lui un rapporto da maestro ad allievo, insegnandogli un sacco di cose. In particolare a cacciare di frodo nella vasta riserva che il principe di Odelia possedeva presso Ekmera. In seguito i due avevano conosciuto Namya, cui da poco era morta di malattia la madre prostituta. Lei si era unita a loro e aveva finito col diventare la sua ragazza. Per un paio d’anni Rash aveva vissuto così, abbattendo animali in barba ai guardacaccia e tirando tardi in taverna. Era una vita che gli piaceva, anche perché la continua sfida alla legge che comportava soddisfaceva il suo temperamento ribelle. Ma ora era finita. Era stato acquistato da un mercante di schiavi di Tolemon, e aveva ben chiara la consapevolezza di quale sarebbe stato il suo destino: sgobbare dall’alba al tramonto in una piantagione o in un frutteto, con poco cibo e molte percosse. E prevedibilmente morire precocemente di fatica o di stenti. A meno che non fosse riuscito a fuggire. Le catene spezzano la volontà. L’aveva sentito ripetere spesso da Doyn, che vedeva nella libertà il valore principale. Rash, afferrando le due fasce di metallo chiuse intorno alle sue gambe, non smetteva di ripeterselo: non spezzeranno la mia, di volontà, dentro di me non diventerò mai uno schiavo. Io voglio scappare, e lo vorrò sempre, finché non sarò libero o finché non sarò morto. E pensava che, dopo la fuga, come prima cosa sarebbe tornato da Namya. Solo per dirle: sono ancora vivo e libero, nonostante te. Nient’altro. Non avrebbe fatto o detto nient’altro. Solo questo. Le labbra del giovane s’incurvarono in una smorfia triste. Era la sua ragazza, erano compagni di caccia. Avrebbe potuto aiutarlo. Avrebbe dovuto. Il tempo c’era. Lui l’avrebbe fatto, per lei e per Doyn. Invece l’aveva lasciato lì… Cosa aveva raccontato a Doyn? Gliel’aveva detto, che l’aveva abbandonato ai cani e agli sgherri del principe? Rash ne dubitava fortemente.

* * * La piccola armata procedeva senza perdere tempo ma anche evitando di forzare molto la marcia: Bostur intendeva prendere i razziatori di sorpresa, quindi non voleva raggiungerli troppo presto. Un piccolo gruppo di cacciatori, badando a non farsi scorgere, seguiva i predoni da vicino per mantenere il contatto. Un giorno, quando già a est era spuntata Shalla annunciando la sera, uno di loro tornò indietro a riferire che gli scorridori avevano raggiunto il luogo

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dove erano stati lasciati in attesa le donne e i bambini. Quella notte avrebbero probabilmente fatto baldoria per vantarsi della loro impresa, quindi c’era da aspettarsi che non sarebbero stati molto in guardia. Il piccolo esercito di Dorsigen non si fermò, ma continuò ad avanzare anche col buio finché non giunse nei pressi del campo dei barbari. Korel e Napigi, avendo entrambe superato da poco il plenilunio, diffondevano abbastanza luce da permettere di scorgere chiaramente l’accampamento, eretto su un rialzo del terreno. In mezzo alle tende tremolavano i resti di qualche fuoco che non si era ancora estinto. Il barone suddivise le sue forze in due gruppi. Il più numeroso, guidato da lui, avrebbe attaccato da quel lato. Il compito assegnato all’altro, posto al comando del figlio maggiore, era quello di aggirare il colle per aggredire i nomadi alle spalle e impedire loro la fuga. L’avvicinarsi del primo combattimento della sua vita aveva portato Nystrid al culmine della tensione. Assegnata al contingente di Bostur, trovava l’attesa insopportabile. Comunque finalmente a est apparvero le prime luci. Vide che l’uomo che le stava accanto afferrava l’arco e, agganciata la corda, provava alcune volte a tenderlo. Era ora di prepararsi. Anche lei estrasse la spada e cominciò a eseguire movimenti di riscaldamento. Il barone, che stava passando in rassegna i suoi, le si fermò di fronte. «Nystrid, ti senti pronta?» «Sì, signore» rispose la ragazza assumendo l’espressione determinata di una vera guerriera. «Fa’ attenzione, cercheremo di prenderli alla sprovvista, ma si difenderanno come furie.» «Starò in guardia» assicurò lei. «Bene» disse Bostur, e proseguì. Poco dopo il barone impartì l’ordine di muoversi. Il cielo era schiarito abbastanza da assicurare una discreta visibilità, e ormai la schiera guidata da Follenag aveva avuto il tempo necessario a mettersi in posizione. Aperti a ventaglio avanzarono lentamente finché, quando ormai avevano superato la metà del pendio, i lupi addomesticati dei nomadi li fiutarono e iniziarono a ringhiare. A quel punto Bostur ordinò a gran voce di attaccare, e tutti si slanciarono verso l’alto, urlando per darsi la carica. Gli assalitori erano già arrivati sul limitare del campo quando dalle tende cominciarono a uscire i primi barbari. Nacque una mischia furibonda. I difensori, pur essendo stati colti di sorpresa, combattevano ferocemente, ed erano forse più numerosi di quanto ci si aspettava. Inoltre, benché presso i nomadi delle steppe l’uso delle armi fosse strettamente riservato agli uomini, nell’occasione anche le donne fornivano il loro contributo. Quanto a Nystrid, il padre le aveva consigliato di muoversi il più possibile, per evitare di diventare un facile bersaglio per i barbari, che non solo erano

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temibili nell’usare le asce nello scontro ravvicinato, ma sapevano anche lanciarle con grande precisione. Quindi raggiunto l’accampamento continuò a correre, un po’ spaesata. Mentre vagava in mezzo al trambusto incrociò un razziatore che gridava roteando furiosamente una grossa mazza dentata. Quando si scontrarono la foga dell’uomo la mise immediatamente sulla difensiva, ma grazie alla propria agilità, e forse anche al fatto che la baldoria della notte precedente appesantiva ancora i riflessi dell’altro, la giovane non ebbe difficoltà a parare i colpi. Poi fu quasi come se la confusione stessa della battaglia li dividesse, e lei lo perse di vista. Allora si slanciò a portare aiuto a uno dei suoi in evidente difficoltà contro un gigantesco predone, ma prima che potesse arrivare il barbaro fu centrato in mezzo alla schiena da una freccia e piombò al suolo. Nystrid ricominciò a correre fra le tende, alcune delle quali erano state date alle fiamme, ma incontrò solo una nomade che fuggiva terrorizzata. A un certo punto si fermò, ansimando per la fatica e l’eccitazione, ma quasi subito le passò accanto uno dei suoi che urlava “Laggiù! Bisogna correre là!” indicando un punto più avanti, spostato verso sinistra. Lei e alcuni altri che si trovavano nei paraggi si affrettarono in quella direzione. Ormai in gran parte dell’accampamento la battaglia stava terminando, però nella zona indicata dal guerriero i razziatori resistevano ancora fieramente. Anzi, il gruppetto di cui faceva parte arrivò proprio mentre questi provavano a contrattaccare. Ma il tentativo ebbe breve durata, perché ben presto la gente di Dorsigen, resa più numerosa dai rinforzi che accorrevano da ogni parte e guidata dal barone in persona, fu in grado di tornare alla carica. Nystrid, aggregatasi prontamente a quello che con ogni probabilità avrebbe rappresentato il capitolo finale dello scontro, venne quasi per caso a trovarsi in prima linea. Una donna che si trovava di fianco a lei, e che combatteva secondo lo stile xyr, parò con lo scudo un colpo d’ascia e abbatté il barbaro che le stava davanti con un preciso fendente. La giovane da parte sua fronteggiò un assalitore, che però ripiegò per non farsi accerchiare. Ormai anche quell’estrema barriera di difesa stava cedendo. Fu in quel momento che, proprio davanti a Nystrid, da una tenda uscì un uomo. Nonostante la stagione fredda indossava solo un perizoma che gli lasciava scoperta gran parte del corpo, magrissimo e completamente ricoperto di cicatrici rituali. Al naso, alle labbra e agli orecchi portava un numero incredibile di anelli, e nella destra stringeva un corto bastone variopinto. Si trattava senza dubbio di uno sciamano. Stranamente si muoveva con estrema lentezza, come se la battaglia che si svolgeva tutt’intorno non lo riguardasse. Aveva gli occhi chiusi e

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un’espressione concentrata, e recitava a bassa voce una litania. Per un lungo istante fu come se il tempo si fosse fermato. Poi una, due, tre frecce lo centrarono in rapida successione. Lui però, mostrando una resistenza e una vitalità incredibili, restò in piedi. Continuando a salmodiare mosse barcollando alcuni passi. Infine, allo stremo delle forze, cadde in ginocchio e, col braccio destro proteso davanti a sé, riuscì rantolando a pronunciare ancora alcune parole. Improvvisamente un raggio accecante si sprigionò dall’estremità del bastone che stringeva fra le dita. Subito dopo lo sciamano cadde pesantemente sulla neve fangosa. Nystrid, che si trovava proprio di fronte a lui, venne colpita in pieno dalla lama di luce. Fu come se un fulmine l’avesse trapassata, bruciando le parti più profonde del suo essere. Si accasciò senza un grido. Con il volto chinato verso terra, stordita, aspettò che la vista si schiarisse e la realtà circostante smettesse di ondeggiare. Poi, a fatica, provò a rialzare la schiena mettendosi in ginocchio. La guerriera che le stava accanto aveva cominciato ad avvicinarsi, premurosa. Ma di colpo si bloccò. Sulla faccia le era comparsa un’espressione sbigottita. Lei stava per chiederle che cosa avesse da guardare, poi si accorse che tutti la fissavano in modo strano. In quel mentre sopraggiunse il barone Bostur. Fu il primo, dopo un lungo momento di sconcerto, a ritrovare la parola e a chiederle esterrefatto: «Nystrid, cosa ti è successo?»

* * * Seduto su una panca, con i gomiti appoggiati al lungo tavolo, Inna-mok sorseggiava la birra dal boccale. Era buona. Non l’aveva mai assaggiata in precedenza, ma doveva riconoscere che era piuttosto buona. Intanto si guardava intorno nel vasto ambiente rischiarato da enormi lanterne, godendosi il caldo dopo tutto il freddo patito in mezzo alla neve. Si trovava lì a Raddog già da alcuni giorni. Essendosi reso conto del fatto che il piccolo popolo usava sì la sua stessa lingua, ma con modalità e inflessioni diverse, cercava di ascoltare molto e parlare poco. E comunque gradualmente si stava adeguando, perché lui imparava in fretta. Che durante i secoli in cui era rimasto assente sarebbero avvenuti dei cambiamenti, se lo aspettava. Ma stentava a credere ad alcune delle informazioni che aveva appreso. Gli alati del Daken - gli era ancora sconosciuta la causa - si erano estinti. In compenso era comparsa una nuova razza, gli uomini. Ed erano già abbastanza diffusi. Da alcuni brandelli di discorso captati qua e là aveva desunto che erano un po’ più grossi dei figli dell’aria, e che quindi avevano più o meno la stessa taglia del suo popolo. Di cui peraltro lui, con la parte imprigionata a Ultor

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sotto la crosta magica, rappresentava l’unico sopravvissuto. La nuova razza era divisa in varie comunità, e una di queste, i clan della brughiera, era ai ferri corti proprio con la piccola gente. Non si poteva parlare di una guerra vera e propria, non ancora almeno, bensì di uno stato di tensione permanente che vedeva le due parti guardarsi in cagnesco e colpirsi a vicenda con incursioni fulminee e sanguinose. Uno scoppio di risa proveniente da un tavolo vicino lo distrasse momentaneamente, facendolo girare. Poi tornò a immergersi nei propri pensieri. Dalla lista dei nemici poteva togliere il popolo del vento, e ciò non gli dispiaceva certo. Un nemico in meno. Occorreva però prendere in considerazione gli uomini. A differenza delle altre razze, i cui appartenenti in linea di massima vivevano raggruppati in comunità omogenee, i nuovi arrivati si erano sparsi un po’ dappertutto, in insediamenti contraddistinti da caratteri molto diversi. Ed erano piuttosto bellicosi, tanto che entravano facilmente in conflitto non solo con gli altri popoli, ma anche fra loro. L’io sdoppiato di Inna-mok si lisciò la lunga barba ricciuta che gli cadeva sul corpetto. Chissà, forse la presenza degli uomini, invece di rappresentare una minaccia in più, avrebbe potuto addirittura rivelarsi un vantaggio… In quel momento un individuo dall’aria gioviale venne a sedersi vicino a lui appoggiando sul tavolo un elegante boccale di terracotta. Il negromante notò che indossava abiti di ottimo taglio e portava al dito un grosso anello d’oro. «Posso mettermi qui?» gli chiese l’altro. Non era certo il caso di rifiutare. Sarebbe parso strano perché, a quanto aveva capito, in quella grande sala riservata al tempo libero dei maschi, incontri di quel genere erano abbastanza usuali. Inoltre si trattava di un’occasione in più per imparare qualcosa di nuovo. «Ma certo!» rispose Inna-mok «cosa c’è di meglio che chiacchierare mentre si sorseggia una buona birra? Il mio nome è Donival.» «Io invece mi chiamo Unagir. Sono un geniere che si occupa della manutenzione delle miniere» bevve una lunga sorsata che deglutì con un’espressione di piacere, poi lo guardò intensamente «non ricordo di averti mai visto qui a Raddog…» «In effetti è la prima volta che ci vengo. Vado a caccia di animali da pelliccia, e ho provato a cambiare zona» per qualche istante i suoi occhi si persero dentro al boccale «sono arrivato tre giorni fa.» «Ah sì? E da dove? Senza offesa, ma hai un accento un po’ strano…» Si era preparato a una domanda come quella. «Me lo dicono tutti. Credo dipenda dal fatto che passo molto tempo da solo, in giro per la montagna.» Fissò Unagir per tentare di capire se aveva preso per buona la spiegazione. Comunque era meglio sviare il discorso. «Appena arrivato ho sentito di quel misterioso massacro avvenuto a nord…»

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la notizia era già giunta a Raddog, poteva tranquillamente mostrare di esserne a conoscenza «tu che ne pensi?» L’altro era concentrato a guardare il dito rugoso con cui accarezzava il piano di quercia finemente levigato. «Di sicuro si è trattato di una grande magia. Ma, a quanto ho capito, non si sa assolutamente chi possa esserne stato l’autore.» «Già. Però…» «Però?» Unagir aveva aggrottato le sopracciglia. «Considerati i brutti rapporti che abbiamo con i clan, può darsi che dietro ci sia stato il loro zampino.» Il geniere assunse un’espressione scettica. «È difficile pensare che si siano spinti così al di là delle nostre linee. In genere le loro incursioni colpiscono molto più in basso.» Inna-mok ritenne opportuno mostrarsi condiscendente. «Sì, in effetti. Ma allora chi potrebbe essere stato?» Unagir appoggiò il boccale sul tavolo, poi accostò familiarmente il viso al suo. Il falso Donival sentì la sua barba sfregare contro la propria. «Io non escluderei gli adoratori di Issht. Sono pazzi e imprevedibili. Non ci si può fidare di loro.» Un’ipotesi plausibile, in fondo. Finse di soppesare l’affermazione. «Forse non hai tutti i torti. Nemmeno a me hanno mai ispirato simpatia…» L’altro lo fissò per qualche istante con un’espressione indecifrabile, poi alzò il boccale per invitarlo a bere insieme a lui. Inna-mok lo assecondò. Intanto si stava chiedendo se, per qualche motivo, aveva suscitato i suoi sospetti. Ma di una cosa era sicuro: la prudenza consigliava di andare via da Raddog il prima possibile.

* * * Dopo l’incantesimo che l’aveva colpita, Nystrid non era più Nystrid. Probabilmente il fatto che lo sciamano fosse stato ferito a morte mentre lo pronunciava ne aveva completamente stravolto l’effetto, il risultato comunque era stato quello di alterare il corpo della ragazza in modo spaventoso. La sua pelle, anche quella del viso, si era ricoperta di radi peli castani, e adesso anche i capelli, prima biondi, presentavano la stessa colorazione. Inoltre in tutte le membra erano comparse modificazioni: le unghie delle mani e dei piedi si erano irrobustite fino a diventare quasi degli artigli, le articolazioni apparivano ingrossate… Ma i cambiamenti più evidenti avevano interessato la faccia, riconoscibile solo a stento: zigomi rialzati, naso largo e schiacciato, orecchie sporgenti, denti affilati, labbra prominenti e quasi nere. Gli occhi si erano ristretti e le iridi avevano assunto un colore giallastro. Insomma, il suo aspetto era di colpo diventato assolutamente innaturale.

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Mostruoso. In un primo momento si era aggrappata alla speranza che si trattasse di una mutazione temporanea, ma col passare del tempo aveva dovuto rassegnarsi. L’effetto velenoso che l’incantesimo impazzito dello sciamano aveva avuto su di lei era permanente. E così già sulla via del ritorno verso Dorsigen erano cominciati per lei giorni terribilmente amari. Tutti quelli che fino a quel momento le avevano voluto bene ora la tenevano a distanza. All’inizio si era trattato più che altro di imbarazzo e disagio, col passare del tempo però tale atteggiamento si era trasformato prima in diffidenza, poi in aperta ostilità. Era contagiosa? Poteva diventare pericolosa? Queste erano le domande che leggeva negli occhi malevoli con cui la guardavano. E la cosa peggiore era che non riusciva a dar loro torto, perché lei stessa sentiva il proprio corpo come estraneo e provava nei suoi confronti un senso di totale repulsione. Si passava una mano sul volto, si accarezzava le braccia irsute, e non si riconosceva. “Cosa sono diventata?” si chiedeva angosciata “cosa sarà di me?” Si rifiutava e insieme si faceva pena. Così per Nystrid la marcia verso casa fu lastricata di disperazione. E mentre tutti gli altri attraversavano la distesa innevata impazienti di arrivare, lei era terrorizzata anche solo al pensiero del momento in cui avrebbe varcato la porta di Dorsigen. Come l’avrebbe accolta la sua gente? E la sua famiglia? Soprattutto le si stringeva il cuore quando pensava a ciò che avrebbe provato suo padre. Dopo che qualche anno prima gli era morta la moglie, ora stava per ricevere un altro colpo tremendo. E, benché del tutto involontariamente, sarebbe stata lei a infliggerglielo.

* * * La schiavitù, presente solo in forma marginale in quasi tutte le regioni della Terra di Ruhel abitate dagli uomini, era invece molto diffusa nel Daeren, dove gli schiavi venivano largamente utilizzati per i lavori agricoli. E Tolemon, una città-stato situata a sud-ovest del principato di Odelia, rappresentava il principale emporio di merce umana. Per gli uomini racchiusi nelle gabbie il viaggio verso di essa era stato molto duro, in particolare per il freddo. Uno di loro, per come tremava e tossiva, non sembrava avere molte possibilità di sopravvivenza. Il convoglio arrivò in vista della città sotto un cielo grigio e triste, e a quel punto non pochi fra i prigionieri si riscossero dall’apatia che si era impossessata di loro e si girarono verso l’esterno, affacciandosi alle sbarre. Ai loro occhi apparvero prima le mura massicce, intervallate da torri rotonde, poi, quando i carri oltrepassarono la porta, una distesa di edifici sgraziati e squallidi con i tetti ricoperti di neve.

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Tolemon era davvero una brutta città, sembrava che il commercio umano su cui si basava parte della sua economia l’avesse irrimediabilmente contaminata. Al passaggio del convoglio lungo le vie fangose le persone si scansavano, rivolgendo agli occupanti delle gabbie sguardi indifferenti e imprecando se venivano investite dagli schizzi sollevati dalle ruote o dagli zoccoli dei cavalli. Dopo aver attraversato quasi mezza città i carri entrarono in un grande cortile pieno di pozzanghere. Su un lato era delimitato da un alto muro, sugli altri tre da edifici tetri e disadorni. Quasi tutte le finestre erano munite di pesanti inferriate. I prigionieri, che a causa delle catene e della prolungata immobilità camminavano a fatica, furono fatti uscire dalle gabbie e ammassati a colpi di frusta, sotto la sorveglianza di guardiani che tenevano al guinzaglio grossi mastini. Rash, uno degli ultimi a scendere, poté constatare che, se non altro, la caviglia andava molto meglio. Uno degli sgherri, che già durante il viaggio si era accanito alcune volte contro di lui, gli assestò un calcio incitandolo a fare alla svelta. Il giovane si girò di scatto colpendolo a mani giunte allo stomaco. L’uomo arretrò di qualche passo imprecando, e subito altri due sorveglianti si avventarono su Rash con pugni e spinte fino a farlo cadere. A meno di una spanna da lui il muso di un molosso latrava e sbavava come un demone infuriato. L’aguzzino che era stato colpito si prese la sua vendetta percuotendolo alcune volte col manico della frusta, poi il ragazzo fu fatto rialzare e, ancora piegato in due dal dolore, mandato a raggiungere gli altri prigionieri. Nell’edificio centrale venne aperto un portone dall’aria robusta. Al di là di esso s’incontravano prima un ambiente piccolo e spoglio, che aveva tutta l’aria di essere una specie di corpo di guardia, poi un corridoio fiancheggiato su un lato da comparti chiusi da sbarre. Erano vuoti, in attesa di infelici che li riempissero.

* * * Dopo essersene andato da Raddog, Inna-mok aveva raggiunto un altro villaggio della nazione Kargh, Ommerik, e vi si trovava ormai da qualche giorno. Siccome cercava di sfruttare tutte le occasioni che gli si presentavano per accumulare nuove informazioni, il quadro che si stava facendo di ciò che era accaduto nella Terra di Ruhel durante la sua lunghissima assenza diventava sempre più preciso. Piuttosto interessante si era rivelata una conversazione, intrattenuta con un boscaiolo durante un’abbondante bevuta, che aveva avuto come oggetto gli

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uomini. Il falso Donival ne aveva approfittato per imparare molto su di essi. In quella circostanza gli era anche stato possibile apprendere qualcosa sulla loro provenienza. In verità a quel punto il suo interlocutore era già parecchio ubriaco, e non appariva di conseguenza del tutto attendibile, comunque in base alle sue parole un po’ vaneggianti gli uomini erano originari di Riva Lontana, il grande e quasi leggendario continente situato a ovest. Erano giunti a ondate successive, in certi casi via mare e in altri - ma tale affermazione appariva quanto meno singolare, essendo la Terra di Ruhel completamente circondata dall’acqua - dopo una lunga marcia. E pareva che il loro arrivo fosse stato preceduto da terremoti, eruzioni vulcaniche e sconvolgimenti climatici d’ogni genere. Lo stregone ebbe inoltre la conferma di essere stato quasi completamente dimenticato. Anche lì a Ommerik di lui restavano pochissime testimonianze. Ciò, se da un lato feriva il suo amor proprio, dall’altro gli faceva piacere. Gli sarebbe stato più facile preparare la vendetta. Oltre ad alcuni affreschi ormai sbiaditi, l’unica traccia di sé che aveva trovato era una lunga iscrizione, quasi certamente molto antica anch’essa, in cui veniva narrato l’epico conflitto combattuto dalla Grande Coalizione contro il malvagio Inna-mok. Quella cronaca parietale fino a un certo punto non aveva aggiunto nulla a ciò che già sapeva. Era però diventata estremamente interessante nella parte finale, dove compariva una strega ancora adolescente, Venorè, che avendo presagito l’evasione dello stregone sconfitto si era dedicata allo studio di un sistema per toglierlo definitivamente di mezzo. La piccola maga dei figli dell’aria sarebbe riuscita nel suo intento e, morendo prematuramente, avrebbe lasciato all’amica Mirovastel istruzioni molto chiare: un oggetto incantato da lei costruito andava posto nel suo sepolcro e, qualora si fosse ripresentata la minaccia di Inna-mok, doveva essere collocato in una ben precisa posizione dentro alla tomba stessa per attivare la magia. In che cosa questa consistesse l’iscrizione non lo specificava, si limitava a informare che purtroppo il manufatto era stato trafugato e non si sapeva quale fine avesse fatto. A Inna-mok la storia era apparsa avvolta da un’atmosfera così vaga e indeterminata che riusciva difficile distinguere fra realtà e leggenda, comunque ne era rimasto profondamente colpito. Nel corso della guerra tutti i maghi nemici, a partire da quel vecchio rudere di Litanka e da quel bestione presuntuoso che era Lomus, avevano mostrato di essere, al suo confronto, dei patetici dilettanti. Solo col numero erano riusciti a vincere, come i corridori della brughiera che scacciano la lince grigia unicamente perché sono in venti contro uno. D’altro canto però, avendo già a suo tempo sentito parlare di Venorè e dei suoi eccezionali poteri, Inna-mok non riteneva fosse il caso di sottovalutare la faccenda. Avrebbe avuto piacere, tanto per cominciare, di saperne di più. Per questo, benché sentisse in modo sempre più doloroso la separazione

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dalla parte di sé prigioniera in mezzo all’anfiteatro, e fosse di conseguenza impaziente di raggiungere Ultor per porvi termine, aveva deciso di fermarsi lì ancora un po’.

* * * Dopo il ritorno a Dorsigen, l’esistenza di Nystrid fu ancora più infelice. Camminare tutto il giorno sulla neve era maggiormente tollerabile del fare i conti con una quotidianità terribilmente amara. Solo in pochi, e comunque si trattava di un gruppo in continua diminuzione, mostravano compassione. Dopo un’iniziale reazione di meraviglia, infatti, quasi tutti gli abitanti della grande dimora avevano preso a guardarla con aperta avversione. La respingevano e la trattavano con prepotenza. Lo stesso Bostur, che durante tutto il viaggio era apparso piuttosto indeciso circa l’atteggiamento da tenere nei suoi confronti, ora si comportava con lei in modo sprezzante. Quanto a Follenag, di cui in precedenza si vociferava come suo futuro marito, la evitava in modo sistematico. I bambini partecipavano a modo loro a tale considerazione generale prendendola in giro, e se Nystrid reagiva anche solo verbalmente la coprivano di insulti e arrivavano perfino a lanciarle sassi. Le cose non andarono molto diversamente all’interno della sua famiglia. Infatti, superato lo sbalordimento iniziale, anche i parenti le voltarono le spalle. Uno scontro particolarmente duro l’ebbe con la sorella del padre, una delle prime a schierarsi apertamente contro di lei. La zia le rimproverò di aver precipitato la sua famiglia in una situazione difficile, esponendola all’inimicizia di tutti e mettendo suo padre in grave imbarazzo nei confronti del barone. A Nystrid non servì molto ribattere che dentro non era cambiata, e che comunque ciò che le era capitato non era imputabile a lei, ma anzi le era accaduto mentre combatteva al servizio del suo signore. Mai come in quei giorni la giovane sentì la mancanza della madre, morta tanti anni addietro. Lei, ne era sicura, non l’avrebbe rinnegata. L’unico a non uniformarsi a questo atteggiamento di totale chiusura fu suo padre, che anzi le appariva in grande difficoltà, in preda a un insieme di sentimenti contrastanti. Non riusciva ad accettarla e non voleva rifiutarla. La difendeva dagli altri, ma, si capiva, stentava a difenderla dentro di sé. A vederlo così lacerato interiormente le faceva perfino pena. Nystrid era disperata. Di giorno tutto ciò che poteva fare era isolarsi sempre più in compagnia di un corpo che le suscitava ripugnanza. E neppure di notte riusciva a trovare pace, perché era perseguitata dallo stesso incubo, che la costringeva a rivivere il momento maledetto in cui lo sciamano, mentre moriva, scagliava su di lei l’incantesimo che aveva provocato la sua rovina.

* * *

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Era uscito da Ommerik a prendere una boccata d’aria. Mentre, fermo sul ciglio di una strada tortuosa, contemplava oziosamente il panorama innevato, una voce lo fece sussultare. «Donival! Ci si rivede!» Girandosi di scatto vide Unagir, il geniere conosciuto a Raddog, scendere verso di lui. Maledizione! Non si aspettava certo di incontrarlo lì. Si sforzò di apparire contento di vederlo. «Salve! Anche tu da queste parti?» «Già» assentì l’altro stringendosi nella sua elegante pelliccia di marmotta «ogni tanto per lavoro sono costretto a spostarmi. Stai tornando a casa? A proposito, non mi hai detto di dove sei…» Inna-mok, che cercava sempre di sottrarsi alle domande troppo dirette, aveva comunque messo a punto risposte plausibili da fornire in caso di necessità. Ciò valeva anche per la località di provenienza del falso Donival, scelta a caso sulla vecchia mappa che occupava un’intera parete del mercato delle pellicce di Raddog. «Sono di Krashgord.» Unagir stava distrattamente scrollando la neve da un cespuglio di lumysia che cresceva a lato della strada. «Krashgord…» ripeté dopo qualche istante, continuando ad assestare colpetti ai rami della pianta «non avevo mai incontrato qualcuno che fosse di Krashgord. Ciò significa una cosa ben precisa…» «Cosa?» gli chiese il negromante guardandolo di sbieco. «Che tu sei il primo!» rispose l’altro esplodendo in una fragorosa risata. «Già!» ribatté lui costringendosi a sghignazzare a sua volta «questo è poco ma sicuro!» «Immagino che sarai ansioso di tornarci…» continuò l’altro ridiventando serio. «Certo. Laggiù c’è la mia famiglia. Sai, anche un tipo errabondo come me non può che apprezzare la pace e la tranquillità della sua casa.» «Ovvio, amico mio» affermò il geniere battendogli confidenzialmente una mano sulla spalla «bene, è ora che rientri. Ci vediamo» e proseguì per la propria strada, diretto verso l’entrata di Ommerik. Inna-mok lo guardò allontanarsi, socchiudendo gli occhi. Stavolta era sicuro, Unagir non si fidava di lui. Di certo non aveva potuto intuire la sua vera identità, ma si era reso conto che aveva qualcosa da nascondere. Poco male. Era rimasto anche troppo fra la piccola gente. Anche se in merito all’incantesimo di Venorè non era riuscito a scoprire assolutamente nulla, la mattina seguente si sarebbe messo in cammino per raggiungere la pianura. Continuò ancora per un po’ a salire, godendosi la bella giornata luminosa, poi fece dietrofront per rientrare. Ma non era neppure arrivato a metà strada che, appena superato un tornante, si trovò improvvisamente davanti alcune figure. Una era Unagir, gli altri tre

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guerrieri, due armati di ascia e uno di balestra. «È lui» disse Unagir rivolto a un armigero dalla barba liscia e la faccia severa. Quest’ultimo gli si parò davanti, sbarrandogli la strada. «Che c’è?» chiese Inna-mok con aria innocente, cercando di mostrare l’atteggiamento sorpreso di chi non ha nulla da temere. «Sono il comandante del reparto di guardia alle porte di Ommerik. Vorrei rivolgerti qualche domanda.» «Mi spiace, ma non permetto a nessuno di apostrofarmi in questo modo» detto questo, il mago passò oltre con aria sdegnosa. «Donival, o comunque ti chiami, fermati!» gli intimò l’ufficiale. Inna-mok continuò a procedere senza voltarsi. Dentro di sé gli sembrava di vedere i quattro impalati sulla strada a guardarlo. «Ti ho detto di fermarti!» urlò ancora il capo degli armigeri «Krashgord non esiste più! È stata distrutta dai clan moltissimo tempo fa!» Ecco cos’era stato a insospettire Unagir, pensò il negromante. In effetti, a pensarci ora, quella mappa appariva piuttosto vecchia… «Per l’ultima v…» Quando il falso Donival si girò di scatto, ruotando il piccolo braccio, il movimento della sua mano si prolungò in una falce gigantesca che fendette l’aria. Un attimo dopo i quattro crollavano con il corpo squarciato, spargendo chiazze scure sulla neve pressata della strada. “Di questo passo” si rammaricò lo spirito sdoppiato dello stregone contemplando il macello appena compiuto “finirò con il lasciare dietro di me una vera e propria scia.”

* * * All’interno del carcere del mercante di Tolemon la vita risultava un po’ più sopportabile di quanto non fosse nell’orribile scantinato di Ekmera. La ragione era evidente: dove stava ora avevano tutto l’interesse a conservare la mercanzia in buone condizioni. A Rash capitò di fare amicizia con un uomo abbastanza più vecchio di lui che già si trovava lì. Goran, questo era il suo nome, aveva vissuto a lungo ai margini della società, commettendo piccoli furti che gli erano costati brevi periodi di detenzione. Ma una notte, mentre rubava all’interno di una villa patrizia, era stato sorpreso dal proprietario. L’uomo l’aveva aggredito e lui istintivamente, per difendersi, l’aveva ucciso. Era però rimasto a sua volta ferito, per cui non era potuto sfuggire alla cattura. E stavolta gli era stata comminata la reclusione a vita, condanna che spesso nel principato di Odelia rappresentava, come del resto era accaduto anche a Rash, l’anticamera della vendita in schiavitù. Nei loro discorsi l’argomento più ricorrente era il futuro che li aspettava, presumibilmente spezzarsi la schiena nelle risaie o nelle piantagioni di

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cotone, oppure svolgere un altro dei lavori pesanti che nel Daeren venivano in gran parte eseguiti da manodopera in catene. Davanti a una prospettiva del genere c’era di che perdere la fiducia, ma Goran tentava di rincuorare Rash: «Io ormai sono piuttosto avanti negli anni, e non resisterò molto. Tu però sei giovane. Devi sforzarti di pensare che la tua vita può essere ancora lunga, e riservarti parecchie sorprese.» E allo sconfortato scetticismo del ragazzo ribatteva che era impossibile prevedere che cosa ci fosse in serbo per lui nella mente di Nur. Però, avendo assistito alla sua ribellione nei confronti del guardiano, aggiungeva che doveva stare molto attento al suo carattere. Reazioni di quel tipo potevano risultargli più pericolose delle disumane condizioni di lavoro riservate agli schiavi. Rash si vedeva costretto a dargli ragione, ma non sapeva fino a che punto sarebbe stato capace di controllarsi. Inoltre non era così sicuro che la sua giovane età gli avrebbe permesso di sopportare la fatica tanto a lungo. Oltretutto non era mai stato abituato a lavorare. La difficoltà ad accettare la sua miserevole situazione gli provocava accessi di sorda rabbia nei confronti di Namya. In fondo era soprattutto colpa sua se si trovava lì. Rash proprio non riusciva a dimenticare l’espressione che, nonostante l’oscurità, le aveva visto in volto nel momento in cui lo stava abbandonando. Ma sempre più spesso lo tormentava il pensiero della madre. Da moltissimo tempo non sapeva più niente di lui. Cosa immaginava gli fosse capitato? Quanto avrebbe sofferto se avesse visto che fine aveva fatto? E suo padre? Il giovane si sentiva fremere quando cercava di raffigurarsi il modo, un misto di disprezzo e di trionfo, in cui avrebbe accolto la notizia. Uno schiavo, tutto qui quello che era stato capace di diventare il suo primogenito sfrontato e disobbediente… Un mattino, di buon’ora, li portarono all’esterno, dove li aspettavano un sole freddo e un’aria limpida. La neve si era sciolta quasi completamente, ne rimanevano solo alcuni cumuli ai bordi del cortile. Dovettero togliersi gli abiti, ormai ridotti a stracci puzzolenti, poi lavarsi in grandi vasche piene di acqua gelida. In seguito, mentre ancora rabbrividivano, un uomo anziano dai modi impersonali ed efficienti li esaminò a uno a uno, rivolgendo loro anche alcune domande sull’età, la provenienza, le capacità. Uno scrivano riportava il tutto su una pergamena, indicando per ognuno il numero impresso nei ceppi che aveva ai piedi. Infine, interamente nudi, i prigionieri furono condotti in un’ampia sala dove, seduti su una piccola gradinata di forma semicircolare, li aspettavano i compratori. Quando venne la volta di Rash, prima di metterlo all’asta l’uomo anziano illustrò brevemente le sue qualità. Dopo che ebbe finito, quasi subito un

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individuo altero ed elegante chiese di avere una dimostrazione di quanto fosse capace di leggere e scrivere. Ed evidentemente rimase soddisfatto, perché con una serie di offerte successive mise a tacere tutti quelli che mostravano interesse nei suoi confronti. Terminata la vendita, lui e gli altri prigionieri acquistati dallo stesso compratore furono presi in consegna da un gruppo di individui che indossavano livree blu e grigio. Ora Rash sapeva di chi era diventato schiavo: si trattava dei colori del re del Daeren.

* * * Gli altri la evitavano o addirittura la respingevano, e Nystrid per reazione tendeva a starsene sempre più per conto proprio. Prima d’ora non aveva neppure lontanamente immaginato che cosa fosse la solitudine. Perfino suo padre aveva smesso di affidarle i soliti incarichi. D’altronde il loro espletamento l’avrebbe portata a contatto con le altre persone, e quindi dietro a tale comportamento si poteva anche leggere il tentativo di risparmiarle l’ostilità di cui sarebbe stata oggetto. Comunque nemmeno lui, benché dilaniato da sentimenti contrastanti, riusciva ad accettarla. In presenza della figlia cercava di non guardare altrove, ma il modo forzato e sofferto con cui manteneva gli occhi posati su di lei la addolorava talmente che più di una volta fu sul punto di pregarlo di risparmiarsi la fatica. Il colpo decisivo arrivò un pomeriggio. Per appartarsi si era nascosta in una stalla, andando a rifugiarsi sopra un grande soppalco di legno sul quale era stato ammucchiato del fieno immagazzinato per l’inverno. A un certo punto uno dei battenti dell’entrata fu aperto e dei passi avanzarono all’interno. Sbirciando attraverso una fessura vide che si trattava del padre, venuto probabilmente a ispezionare le scorte di foraggio. Poi sopraggiunse un’altra persona. Non poté scorgere di chi si trattava, perché il nuovo arrivato si era arrestato poco oltre la soglia, ma subito dopo udì la voce del barone chiamare suo padre. Lui non rispose. Aveva capito di cosa voleva parlargli. «Arben» ripeté Bostur andandogli vicino «non si può continuare così.» Il tono con cui parlava faceva trapelare tutto il disagio che quella conversazione gli comportava. «Signore, io…» «Tutti hanno paura di lei. Anche le bestie.» Era vero. In certi casi reagivano alla presenza di Nystrid mostrando nervosismo, aggressività oppure timore. «Ma insomma, non la vedi? Non sappiamo cosa le sia veramente successo. E come sia cambiata dentro. Non è più una di noi. Forse è addirittura infetta.»

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«Signore» disse accorato Arben «è mia figlia. È la mia Nystrid.» Per la giovane le parole del barone erano state altrettanti pugni nello stomaco. Ma quando udì la sofferenza che trapelava dalla voce del padre fu come se un ramo spinoso le venisse stretto intorno al cuore. «Lo so» ribatté Bostur in modo dolce e comprensivo. Nystrid, appoggiata di schiena alla paratia, non stava più spiando, ma immaginò che gli mettesse un braccio intorno alle spalle. «Lo so. Proprio perché è tua figlia è a te che lo dico. Per il rispetto che ti porto. Pensaci tu.» Seguì un lungo momento di attesa. Un carro passò cigolando davanti alla stalla, un cavallo nitrì. «Per Aleia, Arben» ora nelle parole del signore di Dorsigen era comparsa una nota di esasperazione «è necessario! Per te sarebbe peggio, se lo chiedessi a qualcun altro» si interruppe per qualche istante «devi liberartene.» Più che due parole, per Nystrid erano stati due colpi d’ascia. Di nuovo un penoso intervallo di silenzio. Quando il padre alla fine parlò, fu evidente che durante quella pausa dentro di lui era stata combattuta una battaglia, e il suo tono rassegnato rivelò subito quale parte fosse uscita vittoriosa. «Signore, ditemi come devo fare.» La giovane, disperata, si stava premendo le grosse dita contro le labbra scure. Dunque era così, anche il padre le voltava le spalle. D’altronde aveva un’altra scelta? Doveva o no pensare al resto della famiglia? «Lascio a te decidere come, vecchio mio. Ma devi farlo. E senza perdere tempo.» Poi se andò, lasciando l’uomo solo e, senza saperlo, Nystrid ancora più sola. Quella notte la ragazza non chiuse occhio, ma all’alba aveva deciso cosa fare. Ci avrebbe pensato lei a risolvere il problema. Con le guance solcate da lacrime brucianti ficcò un po’ di cose in uno zaino, poi indossò la casacca più pesante che possedeva e, badando a non fare rumore sull’assito scricchiolante, uscì nel corridoio. Appena ebbe aperto la porta esterna un vento tagliente la investì. Socchiuse gli occhi e si avventurò nel piazzale ghiacciato. Prima entrò in un magazzino, dove prelevò provviste, una piccola slitta e l’equipaggiamento che riteneva potesse servirle. Poi raggiunse il camminamento di ronda, buttò tutto all’esterno della palizzata e si calò come faceva di solito. Subito dopo, fissato il bagaglio allo slittino, era pronta a partire. Trovarsi riuniti attorno al camino, festeggiare seduti al grande tavolo di noce, sentirsi protetti al riparo della robusta palizzata della casa-fortezza… Mentre si allontanava piangendo in mezzo alla neve Nystrid pensava che tutto questo ormai per lei era finito per sempre. E che cosa cominciava non lo sapeva. Fine anteprima.CONTINUA...