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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 Incontrare per incontrarsi I fattori facilitanti la crescita e il cambiamento nei gruppi d’incontro Aida Marrone Il gruppo d’incontro ha accompagnato e sostenuto il cammino di crescita personale e professionale intrapreso da me e dai miei colleghi quattro anni fa, lo ha ritmato, rendendolo ancora più intenso e significativo. Ci ha aiutato a conoscere meglio gli altri, ma soprattutto noi stessi, a sperimentare e vivere sentimenti di vario tipo, dalla noia all’interesse, dalla rabbia alla paura, dallo stupore alla commozione, dall’ansia alla serenità, dalla solitudine all’affetto, dalla delusione all’invidia, alla gioia, alla tenerezza, a... chi più ne ha più ne metta! Il gruppo d’incontro, fedele compagno di viaggio, mi ha consentito di incontrare gli altri e di incontrare me stessa, mi ha permesso di scoprire che più s’incontrano gli altri più si incontra se stessi e maggiore e più profondo è il contatto con se stessi, migliore è la qualità dell’incontro con gli altri. Il gruppo d’incontro, quindi, è al centro di questo lavoro; ho tentato di focalizzarne alcuni aspetti, alla luce della letteratura che ho ritenuto più significativa a tale scopo – con particolare attenzione alle teorie rogersiane – e di confrontare quanto riportato da Rogers, Yalom e altri autori con le opinioni sul gruppo espresse da alcuni partecipanti. L’interesse, nel presente lavoro, è concentrato sui fattori facilitanti la crescita e il cambiamento nei gruppi d’incontro. Nel primo paragrafo, dopo una breve introduzione generale e a carattere storico- concettuale, sono esposte a grandi linee le teorie di Yalom e di Rogers sull’argomento. A un tentativo di confronto/incontro tra esse, segue la presentazione dei risultati di uno studio condotto da Paul Dierick e Germain Lietaer (1990). Il secondo paragrafo concerne un’esperienza concreta di gruppi d’incontro in un contesto carcerario, le sue caratteristiche, le difficoltà, le potenzialità. 5

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  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    Incontrare per incontrarsi I fattori facilitanti la crescita e il cambiamento nei gruppi d’incontro

    Aida Marrone

    Il gruppo d’incontro ha accompagnato e sostenuto il cammino di crescita

    personale e professionale intrapreso da me e dai miei colleghi quattro anni fa, lo ha ritmato, rendendolo ancora più intenso e significativo. Ci ha aiutato a conoscere meglio gli altri, ma soprattutto noi stessi, a sperimentare e vivere sentimenti di vario tipo, dalla noia all’interesse, dalla rabbia alla paura, dallo stupore alla commozione, dall’ansia alla serenità, dalla solitudine all’affetto, dalla delusione all’invidia, alla gioia, alla tenerezza, a... chi più ne ha più ne metta!

    Il gruppo d’incontro, fedele compagno di viaggio, mi ha consentito di incontrare gli altri e di incontrare me stessa, mi ha permesso di scoprire che più s’incontrano gli altri più si incontra se stessi e maggiore e più profondo è il contatto con se stessi, migliore è la qualità dell’incontro con gli altri.

    Il gruppo d’incontro, quindi, è al centro di questo lavoro; ho tentato di focalizzarne alcuni aspetti, alla luce della letteratura che ho ritenuto più significativa a tale scopo – con particolare attenzione alle teorie rogersiane – e di confrontare quanto riportato da Rogers, Yalom e altri autori con le opinioni sul gruppo espresse da alcuni partecipanti.

    L’interesse, nel presente lavoro, è concentrato sui fattori facilitanti la crescita e il cambiamento nei gruppi d’incontro.

    Nel primo paragrafo, dopo una breve introduzione generale e a carattere storico-concettuale, sono esposte a grandi linee le teorie di Yalom e di Rogers sull’argomento. A un tentativo di confronto/incontro tra esse, segue la presentazione dei risultati di uno studio condotto da Paul Dierick e Germain Lietaer (1990).

    Il secondo paragrafo concerne un’esperienza concreta di gruppi d’incontro in un contesto carcerario, le sue caratteristiche, le difficoltà, le potenzialità.

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    Nel successivo sono riportate le opinioni – raccolte mediante un questionario a risposta multipla – dei partecipanti ai gruppi, riguardanti i fattori facilitanti il cambiamento e la crescita. Esse, per una lettura più agevole, sono sintetizzate in grafici e tabelle. Non si tratta di un lavoro che possa avanzare pretese di significatività statistica, considerato il campione piuttosto ristretto, ma di un lavoro che può avere un suo valore a livello fenomenologico per chi – abbracciando una visione umanistico-esistenziale della persona e della psicologia – crede nell’esperienza soggettiva e nella possibilità che il mondo fenomenologico delle persone entri a pieno titolo nella scienza psicologica.

    Il gruppo d’incontro: stimolo psicologico alla crescita

    Forse la cosa più importante di tutte è che ho un’immagine migliore di me stessa, e quando non sono soddisfatta in alcun modo di me, penso che posso vivere con le mie limitazioni... (dalla lettera di una partecipante ad un gruppo d’incontro, Ellen) (in Rogers, tr. it. 1976, p. 105).

    Rogers crede che si possa uscire dal disagio esistenziale attraverso il

    contatto con gli altri. La condivisione di un proprio disagio e la comprensione altrui, o anche il confronto con gli altri, secondo lui, rendono possibile il superamento del proprio malessere, il cambiamento, la crescita.

    Rogers non parla di terapia di gruppo, la sua ottica è esistenziale; allo stesso modo preferisce non parlare di effetti terapeutici delle esperienze di gruppo (Gibb, 1970), ma «dire che il gruppo ha l’effetto di uno stimolo psicologico all’accrescimento» (Rogers, tr. it. 1976, p. 118).

    Fondamenti storico-concettuali

    Carl Rogers ritiene che il movimento verso l’esperienza intensiva di gruppo si basi su due fondamenti concettuali che, storicamente, si sono andati sviluppando più o meno nello stesso periodo ad opera di Kurt Lewin, da una parte, e dallo stesso Rogers e collaboratori, dall’altra.

    Lewin dedicò molto del suo tempo e delle sue energie allo studio dei gruppi e dei loro processi, avanzando «l’idea che l’addestramento all’arte dei rapporti umani, benché importante, fosse un tipo di istruzione trascurato...» (Rogers, tr. it. 1976, p. 10). Egli considerò il gruppo come un’entità a sé, qualcosa di diverso dalla semplice somma dei suoi componenti. Presso l’Università di Berlino, dove insegnò dopo la I Guerra Mondiale, conobbe e approfondì la teoria della Gestalt e ne abbracciò le idee, non diventando mai, comunque, rigidamente “ortodosso” (Johnson e Johnson, 1991). Quando Hitler salì al potere, Lewin fu costretto ad emigrare negli Stati Uniti e, dopo aver lavorato in diverse università ed istituti di ricerca, nel Massachusetts Institute of Technology, insieme al suo staff e ai suoi allievi, si adoperò al fine di creare gli strumenti per applicare le conoscenze alla formazione di membri e di leader in grado di promuovere un funzionamento efficace di gruppi democratici. Non riuscì ad assistere alla nascita del primo T-group,

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    che si tenne a Bethel, nel Maine, l’anno dopo la sua improvvisa morte. I T-group ebbero una vasta diffusione e furono presto applicati a vari settori.

    Negli stessi anni, cioè nel 1946-47, anche Rogers ed i suoi colleghi del Counseling Center dell’Università di Chicago mettevano a punto un’esperienza di gruppo che fosse in grado di formare persone: si trattava della formazione di counselor che si occupassero di reduci di guerra. Fu, così, sperimentata una modalità di formazione che unisse l’aspetto personale a quello professionale. Questa esperienza diede l’avvio al proliferare di gruppi (chiamati poi “d’incontro”) che avevano la loro principale finalità nella crescita della persona, nel miglioramento della comunicazione e dei rapporti interpersonali, che avevano, quindi, «un più accentuato orientamento sperimentale e terapeutico rispetto ai T-group» (Rogers, tr. it. 1976, p. 10).

    A partire dagli anni Sessanta «si verificò una vera e propria esplosione nel movimento dei gruppi» (Scilligo, 1988, p. 18). Nacque il centro di Esalen, in cui lavorarono per la Gestalt anche Perls e Simkin, nacque il Western Institute for Group and Family Therapy a Watsonville, che rivolse la sua attenzione alla Gestalt e all’Analisi Transazionale e, soprattutto, nacque a La Jolla (San Diego) il Western Behavioral Science Institute e, successivamente, fondato da Rogers, il Center for the Study of the Person.

    Il gruppo d’incontro: caratteristiche e finalità

    Il gruppo d’incontro è generalmente costituito da un numero non troppo vasto di persone, che si riuniscono in una situazione poco strutturata, in cui sono libere di gestire i tempi a disposizione autonomamente, senza direttive, nel rispetto di pochissime regole essenziali: il rispetto dei tempi d’inizio e di conclusione, il divieto di acting-out e l’invito, al contrario, a verbalizzare – se lo si ritiene opportuno – i propri sentimenti e impulsi aggressivi.

    Il gruppo d’incontro «tende ad esaltare la crescita della persona e lo sviluppo e il miglioramento della comunicazione e dei rapporti interpersonali, attraverso un processo di esperienza diretta» (Rogers, tr. it. 1976, p. 12). Esso ha quale suo fine lo sviluppo, la maturazione, la crescita, quel processo di “autorealizzazione” (Goldstein, 1940) che è promosso e diretto dalla tendenza attualizzante, «una tendenza costruttiva» (Rogers, tr. it. 1978, p. 213) all’autoregolazione, «una tendenza dell’organismo a procedere nel senso della maturazione» (Rogers, tr. it. 1997, p. 317).

    Migliora le capacità di relazione interpersonale, lenisce la solitudine. Rende più flessibili, in contatto con i propri bisogni ed i propri sentimenti, maggiormente capaci di esprimersi.

    Vivendo un clima di grande libertà, “i membri del gruppo” diventano «più spontanei, più flessibili, più rispondenti ai propri sentimenti, più aperti alla loro esperienza, più strettamente intimi ed espressivi nei loro rapporti interpersonali» (Rogers, tr. it. 1976, p. 162).

    Non sono casuali il dissenso, le critiche e gli attacchi che, fin dagli anni Sessanta, hanno accompagnato l’espandersi delle esperienze di gruppo d’incontro da parte di ambienti di destra e reazionari. Chi teme il cambiamento, chi esercita il potere – o crede che il potere debba essere esercitato – in modo autoritario, non può amare i gruppi d’incontro, anzi non può che considerarli pericolosi, perché costituiscono esperienze di autentica

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    libertà che conducono «a una maggiore indipendenza personale, a tenere meno celati i sentimenti, a una maggiore volontà di innovazioni, a una maggiore opposizione alle rigidezze istituzionali» (Rogers, tr. it. 1976, p. 19).

    Possiamo dire con Rogers che il gruppo d’incontro rappresenta la «strada maestra alla realizzazione e alla crescita personali» (Rogers, tr. it. 1976, p. 157).

    Fattori facilitanti la crescita

    Numerosi in letteratura sono gli studi miranti a focalizzare i fattori, propri della situazione di gruppo d’incontro, di crescita personale o psicoterapeutico, che facilitano il cambiamento. Alcuni autori preferiscono parlare di “fattori terapeutici” (Gibb, 1970; Yalom, 1970, 1995; Dierik e Lietaer, 1990), altri – e tra questi Rogers (Rogers, tr. it. 1976) – di fattori facilitanti la crescita o il cambiamento.

    La maggior parte di tali fattori sembra essere insita nella stessa esperienza di gruppo, altri sono invece determinati dal comportamento e dall’atteggiamento del facilitatore e dalle sue modalità di gestione del gruppo.

    Uno dei primi studi sistematici dei fattori facilitanti la crescita e il cambiamento nei gruppi è stato pubblicato nel 1955 da Corsini e Rosenberg. Successivamente, numerose pubblicazioni hanno individuato e focalizzato elenchi di fattori, generalmente da un minimo di 9 ad un massimo di 12 (Yalom, 1970, 1995).

    Le teorie di Yalom Irvin David Yalom è senza dubbio uno degli studiosi che maggiormente –

    ed in modo più ampio e diffuso – si è occupato dell’argomento, apportando un contributo notevole all’individuazione e all’esame di quelli che egli inizialmente definisce “fattori di guarigione”, successivamente – nelle ultime due edizioni del suo interessantissimo libro – “fattori terapeutici”, in considerazione del fatto che «il risultato della psicoterapia non è la guarigione [...] ma si tratta invece di cambiamento, di crescita» (Yalom, tr. it. 1997, p. 8). Egli, pur considerando particolarmente i gruppi terapeutici, riporta dati, ipotesi di lavoro e conclusioni che risultano molto utili anche in riferimento ai gruppi d’incontro. Lo scopo dell’esperienza di gruppo, sia terapeutico sia d’incontro, è il cambiamento. Lo stesso Yalom si riferisce ai fattori terapeutici come a “meccanismi essenziali del cambiamento”.

    D’altro canto, i suoi studi costituiscono un riferimento per quanti si occupano di esperienze di gruppo e per tutti i ricercatori che indagano sperimentalmente tali esperienze al fine, soprattutto, di individuare i fattori facilitanti il cambiamento e la crescita.

    Yalom, sulla base di dati derivanti dall’esperienza sua personale e di altri terapeuti, dai pareri dei partecipanti ai gruppi e dalla ricerca, elenca dieci categorie di fattori (Yalom, tr. it. 1974): 1. Informazione 2. Infusione della speranza 3. Universalità

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    4. Altruismo 5. Riepilogo correttivo del gruppo primario familiare 6. Sviluppo di tecniche di socializzazione 7. Comportamento imitativo 8. Apprendimento interpersonale 9. Coesione di gruppo 10. Catarsi.

    A queste, recentemente (Yalom, tr. it. 1997), ne aggiunge un’altra: “Fattori esistenziali”.

    È importante sottolineare che, sebbene considerati separatamente, tali fattori sono in realtà interdipendenti, hanno confini molto sfumati e sono presenti in grado diverso in gruppi diversi, ma anche, all’interno dello stesso gruppo, nelle varie persone o nei diversi momenti.

    Nella categoria “Informazione” Yalom include gli aspetti educativi sulla salute mentale, derivanti da un processo generalmente implicito, e i consigli, i suggerimenti offerti dagli altri membri del gruppo. Benché, com’è noto, ricevere consigli raramente dimostri di essere d’aiuto, anzi, a volte, rappresenti un vero e proprio ostacolo alla comunicazione (Gordon, tr. it. 1991, p. 61), «indirettamente [...] può essere proficuo poiché implica e rende palese una reciproca cura e un reciproco interessamento» (Yalom, tr. it. 1997, p. 28).

    La speranza sembra essere estremamente facilitante il processo di cambiamento. Essa scaturisce sia da aspettative positive circa il processo di crescita possibile nel gruppo, sia dalla constatazione che altri, pur avendo problemi o situazioni esistenziali simili (notiamo qui la stretta interrelazione con un’altra categoria: l’ “Universalità”), sono riusciti ad affrontarli in modo efficace o hanno tratto giovamento dall’esperienza di gruppo.

    Molto spesso si vive il disagio esistenziale nella convinzione di essere soli ad avere certe problematiche, certe idee, a provare determinati sentimenti. Nel confronto con gli altri ci si accorge, invece, che essi sono condivisi, che altre persone hanno vissuti simili. Rendersi conto dell’universalità di tali esperienze, a fronte dell’unicità che prima si sentiva profondamente, oltre a dare sollievo, spinge all’apertura e infonde la speranza.

    Nel corso dell’esperienza di gruppo appare essere di notevole spinta alla crescita l’altruismo, cioè il sentirsi utile o addirittura necessari per gli altri. In effetti, in tutti i gruppi le persone rivelano un potenziale di aiuto che per manifestarsi ha bisogno solo della libertà di poterlo fare (Rogers, tr. it. 1976, p. 28). Ascoltare gli altri componenti del gruppo, condividere pensieri e sentimenti, prendersi cura dei loro vissuti, sostenerli in momenti particolarmente difficili, offrire sostegno e supporto, oltre a costituire esperienze di aiuto per chi riceve tali attenzioni, si dimostra particolarmente importante per chi può finalmente iniziare a pensarsi come a una persona capace di dare, potenziando, così, la propria autostima.

    Nel gruppo, secondo Yalom, le persone tendono a reincarnare ruoli appresi nella propria famiglia d’origine, a rivivere schemi di comportamento appresi in passato, ma ciò che è importante è che «essi vengono rivissuti in modo correttivo» (Yalom, tr. it. 1997, p. 32). Non tutti gli Autori concordano su tale fattore. Bloch e Crouch (1985), ad esempio, eliminano la ricapitolazione correttiva del gruppo primario familiare dalla loro lista di fattori terapeutici.

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    Lo sviluppo di tecniche di socializzazione, cioè delle competenze necessarie per poter entrare in contatto con gli altri in modo arricchente e maturo, è un aspetto sempre presente nelle esperienze di gruppo. I componenti del gruppo, interagendo tra loro, assumono consapevolezza dei propri comportamenti sociali inefficaci, non adattivi, ricevono informazioni importanti riguardo quanto gli altri pensano di loro, le loro abitudini sociali e possono, conseguentemente, sperimentare comportamenti più efficaci e acquisire abilità sociali più complesse.

    Anche il comportamento imitativo sembra giocare un ruolo nel cambiamento che si attiva in situazione di gruppo, ma soprattutto nelle sue prime fasi; nelle ricerche riportate da Yalom nel suo lavoro, tuttavia, appare chiaramente che l’imitazione è considerata dai partecipanti ai gruppi uno dei fattori aventi minor peso nello stimolare il processo di crescita personale (Yalom, tr. it. 1997, p. 108). D’altra parte, Bandura (1963) ha ottenuto dalle sue ricerche risultati che fanno pensare all’imitazione come ad una forza terapeutica efficace.

    L’apprendimento interpersonale, fattore ampio e complesso, è strettamente legato allo sviluppo sociale. Il gruppo si presenta come un microcosmo sociale in cui emergono i comportamenti sociali sia efficaci sia disfunzionali e che permette, grazie anche ai feedback degli altri partecipanti, di migliorare la propria funzionalità. La situazione di gruppo offre, inoltre, numerose occasioni per poter vivere “esperienze emotive correttive” (Alexander e French, 1946). Secondo Yalom (tr. it. 1997, p. 62), il disagio psicologico trae origine e si esprime proprio nelle relazioni interpersonali disturbate, per cui l’obiettivo di ogni processo di crescita e di cambiamento non può che essere l’imparare a instaurare rapporti gratificanti e funzionali. Poiché il gruppo viene a costituirsi come un microcosmo sociale, ogni persona che vi fa parte osserverà il proprio comportamento sociale e la reazione degli altri a esso, e riceverà inoltre il feedback altrui, divenendo via via più consapevole dei propri punti di forza e di debolezza, degli atteggiamenti disfunzionali e delle distorsioni. In tal modo può gradualmente modificare il proprio comportamento e sperimentare nuove modalità di interazione. Si mette, così, «in moto una spirale adattiva, prima all’interno e poi all’esterno del gruppo» (Yalom, tr. it. 1997, p. 63).

    La coesione di gruppo, che, nell’opinione di Yalom, più che un fattore di cambiamento è una condizione di base necessaria per intensificare lo sviluppo di altri fattori terapeutici, rappresenta il corrispettivo, nel gruppo, del rapporto terapeuta-cliente, dell’alleanza terapeutica nella psicoterapia individuale. La coesione è definita da Pagès (tr. it. 1991) come il legame di gruppo alla cui base è posta l’esperienza affettiva della relazione; da Cartwright e Zander (1962) come la risultante di tutte le forze che agiscono sui membri del gruppo per trattenerli nel gruppo; da J. Frank (1957) come l’attrattiva che un gruppo esercita sui suoi componenti; da Bloch e Crouch (1985) come la condizione dei membri del gruppo che percepiscono calore e si sentono a proprio agio nel gruppo, che sentono di appartenervi, che apprezzano il gruppo e a loro volta si sentono apprezzati, incondizionatamente accettati e sostenuti dagli altri membri. Braaten (1990) sostiene che il fare esperienza della coesione di gruppo accresce il processo di autoaccettazione. Truax (1961), invece, si occupa dei rapporti tra coesione,

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    autoconsapevolezza e autoesplorazione, trovando una correlazione positiva tra il grado di coesione di gruppo e la disponibilità a impegnarsi in una profonda esplorazione di sé, misurata con la scala di Rogers-Rablen. Altrettanto positiva appare essere la correlazione tra il grado di coesione di gruppo e la frequenza della partecipazione alle riunioni dei componenti. In uno studio sui gruppi d’incontro si trovò un’alta correlazione tra bassa coesione e abbandono dell’esperienza di gruppo (Lieberman, Yalom e Miles, 1973). I gruppi coesivi manifestano in grado maggiore non solo accettazione, livello di intimità, solidarietà, ma anche conflitti, aggressività, rabbia verso i membri stessi del gruppo e verso il facilitatore, permettendo di affrontare i conflitti e di trarne beneficio.

    La catarsi implica il riuscire a esprimere forti emozioni. Rogers la inserisce tra i metodi di antica origine e la identifica con la confessione, ritenendola, anche se certamente non sufficiente, certamente utile perché «non solo libera l’individuo dalle paure e dai sentimenti di colpa di cui è cosciente, ma [...] può rivelare attitudini più recondite che esercitano anch’esse un’influenza sul comportamento» (Rogers, tr. it. 1971, p. 25). La catarsi permette la libera espressione dei sentimenti del soggetto e per questo rappresenta senza dubbio una delle strade più sicure «per giungere alle questioni di fondo» (Rogers, tr. it. 1971, p. 129). Anche nel gruppo essa assume importanza perché favorisce la coesione e l’apprendimento interpersonale, «tuttavia essa è solo una parte del processo» (Yalom, tr. it. 1991, p. 104), così come lo è anche per la psicoterapia individuale, come già sostenuto da Freud dopo i suoi famosi studi sull’isteria.

    La categoria fattori esistenziali include aspetti diversi, ma tutti molto importanti per la crescita delle persone: la solitudine fondamentale, la vita e la morte, la responsabilità. In molte ricerche si è visto che essa viene classificata dai partecipanti ai gruppi ai propri posti, fra i fattori facilitanti. Essere consapevole di tali aspetti dell’esistenza, secondo Yalom (tr. it. 1991, p. 104), dà all’individuo il potere di cambiare.

    Carl Rogers e i fattori facilitanti il cambiamento Pur non avendone stilato un elenco, nel suo libro sui gruppi d’incontro

    (Rogers, tr. it. 1976), Rogers parla diffusamente dei fattori facilitanti il cambiamento e la crescita in essi insiti e, a una lettura attenta, essi sono sicuramente rintracciabili.

    Per quanto riguarda i fattori propri del gruppo, egli ritiene che la conditio sine qua non perché si inneschi un processo di cambiamento è vivere un clima psicologico di sicurezza, nel quale sentirsi liberi di esprimersi e poter abbassare il livello delle proprie difese.

    In tal modo, a mano a mano emergono i veri sentimenti, i partecipanti si rivelano «più profondamente e compiutamente di quanto non abbiano mai fatto nell’ambito della propria famiglia» (Rogers, tr. it. 1976, p. 16). L’espressione dei propri vissuti segue un processo particolare nel corso dell’esperienza di gruppo: inizialmente i partecipanti descrivono sentimenti riferiti al passato; quando iniziano a riferirsi al “qui ed ora”, emergono sentimenti negativi, verso il facilitatore o i membri del gruppo, che Rogers

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    spiega o come tentativi di “saggiare” l’affidamento del gruppo, di metterlo alla prova per capire se poter riporre in esso fiducia, o come tentativi volti a iniziare a rivelare sentimenti meno pericolosi nella misura in cui «se dico di volerti bene, sono vulnerabile ed esposto alla più atroce reiezione. Se dico di odiarti, al più sono soggetto a un attacco dal quale posso difendermi» (Rogers, tr. it. 1976, p. 25); con l’aumentare del livello di fiducia nel gruppo, le persone cominciano a esprimere con sempre maggior libertà sentimenti, sia positivi sia negativi, nei confronti di uno o più compagni di gruppo.

    L’espressione e l’accettazione dei sentimenti provocano un continuo approfondirsi del senso di appartenenza al gruppo, dell’intimità, in una parola della coesione. Le persone si rivelano al gruppo con libertà perché sono giunte “a rendersi conto che” quello è il loro “gruppo” (Rogers, tr. it. 1976, p. 26).

    In tale clima, la persona sente di poter gradualmente abbandonare le “facciate”, lasciare il “Sé pubblico” per rivelare qualcosa del “Sé privato” (Rogers, tr. it. 1976, p. 23). Il passaggio non è sempre semplice. Il “guscio di comportamenti esterni” (Rogers, tr. it. 1976, p. 108) da cui ci siamo fatti ricoprire per rispondere alle aspettative altrui e assicurarci, così, l’accettazione delle persone per noi significative – il guscio, cioè, che rende difficile contattare il nostro Sé Reale – può essere più o meno spesso, fino ad essere così massiccio da identificarci con esso, perdendo ogni contatto con il mondo dei nostri bisogni e delle nostre emozioni più vere. Quando, grazie all’esperienza di gruppo (o di psicoterapia individuale, o ad altre esperienze di crescita), si rende poco a poco il guscio più sottile, “riacquistando” gradualmente il proprio vero Sé, ci si sente più vulnerabili e spesso più soli, si pensa che gli altri probabilmente non accetteranno come si è realmente. Ma, grazie al supporto del gruppo, i partecipanti possono essere meno costretti nelle percezioni dei propri comportamenti e sentirsi abbastanza sicuri da lasciare che sentimenti di cui conoscono o di cui apprendono l’esistenza, fino ad allora tenuti nascosti, affiorino alla consapevolezza e si rivelino (Lifton, 1972). Vivere questi momenti in un gruppo caratterizzato da un clima di base di fiducia e rispetto, in cui si può fare esperienza della frequenza con la quale anche gli altri provano sentimenti, vissuti, fantasie simili, allevia senza dubbio il senso di solitudine e di paura della non accettazione esterna e alimenta la speranza. Qui è il potenziale di crescita dell’autorivelazione.

    Condividere esperienze così profonde, inoltre, alimenta la coesione di gruppo e la fiducia negli altri.

    Fa anche sì che le persone imparino ad accettare se stesse: «[…] l’accettazione di se stessi […] è l’inizio del cambiamento” (Rogers, tr. it. 1976, p. 30).

    Il cambiamento è anche facilitato dall’imparare dagli altri. Nessuno, ad ogni modo, può insegnare. Il vero apprendimento passa attraverso la scoperta autonoma (Rogers, tr. it. 1973). Osservare e ascoltare gli altri può far imparare nuove modalità di comportamento, così come diventare capaci di vedersi attraverso gli occhi degli altri può contribuire alla conoscenza di sé (Lifton, 1972).

    Importante, quindi, è anche ricevere feedback dagli altri. «[…] Ogni individuo viene a sapere come egli appare agli altri e quale impatto ha sui

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    rapporti interpersonali» (Rogers, tr. it. 1976, p. 14). Quando questo accade in un clima generale di fiducia, ha un notevole effetto come stimolo al cambiamento o come potenziamento dell’autostima. Luft distingue vari tipi di feedback, tra cui informare una persona dell’effetto che ha provocato con ciò che ha detto (reazione personale), valutare una persona esprimendo proprie opinioni (reazione giudicante), dare una spiegazione del comportamento altrui collegandolo a qualche causa (interpretazione) (Luft, 1975).

    Strettamente collegato al feedback è il confronto, nel quale «un individuo ne affronta un altro» (Rogers, tr. it. 1976, p. 37). Si tratta di un’esperienza altamente significativa, perché concorre a formare un’idea più realistica dei rapporti interpersonali, ad abbassare la paura dell’aggressività propria e altrui, a utilizzare in modo funzionale il proprio potere personale, a migliorare le proprie abilità comunicative. Tutto ciò a patto che avvenga in un clima facilitante, in cui i partecipanti non sentano di doversi chiudere in atteggiamenti rigidamente difensivi.

    Nel gruppo si entra in un contatto reciproco senza dubbio più intenso e profondo di quanto accada nella quotidianità e questo è «uno degli aspetti più fondamentali, intensi e originatori di cambiamento dell’esperienza di gruppo» (Rogers, tr. it. 1976, p. 38). Non ci si sente più soli, ma veramente vicini ad altre persone. Si tratta dell’incontro tra “veri Sé” (Rogers, tr. it. 1976, p. 115).

    Nelle situazioni di gruppo d’incontro si rileva spesso la presenza non solo di comportamenti e atteggiamenti di aiuto dei membri verso gli altri, ma anche di una vera e propria “capacità curativa”, cioè di una naturale abilità nel trattare con il dolore e la sofferenza. Il dare e il ricevere aiuto, quindi, permettono di attivare e portare avanti processi di intensa crescita personale. A volte nei gruppi, sostiene Rogers sulla base della sua esperienza, si incontrano persone che «possiedono in misura incredibile il dono di guarire» (Rogers, tr. it. 1976, p. 38), che ci fanno «capire quale straordinario potenziale di aiuto sia insito nelle persone comuni, non specificamente addestrate, a patto soltanto che siano libere di usarlo» (Rogers, tr. it. 1976, p. 62).

    Il processo di cambiamento è caratterizzato dall’esperienza di insight, a volte anche dolorosi, dai quali emergono nuovi concetti, nuovi modi di pensare, nuovi modi di costruire e rappresentare la realtà, sulla base anche dei bisogni e delle emozioni che arrivano alla consapevolezza. Ovviamente, l’insight si acquista gradatamente, «man mano che l’individuo acquisisce una solidità psichica sufficiente a consentirgli percezioni nuove» (Rogers, tr. it. 1971, p. 174). Una delle cose di cui la persona si rende conto nel gruppo ristretto è il suo “potere”, la sua «capacità di influenzare, di comunicare e partecipare» (Rogers, tr. it. 1978).

    Il cambiamento naturalmente si manifesta anche a livello comportamentale, sia nel gruppo (cambiano gesti, atteggiamenti, tono della voce...) sia all’esterno, nel proprio ambiente di vita e di lavoro, anche se Rogers avverte che a volte tali cambiamenti «non sono durevoli» (Rogers, tr. it. 1976, p. 43). Il gruppo d’incontro può rappresentare un’ottima palestra in cui poter sperimentare, provare nuovi comportamenti ed esercitarsi al fine di rendere più stabili i cambiamenti.

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    Rogers individua anche tra i fattori facilitanti il cambiamento quelli propri del facilitatore e dell’atteggiamento con cui assolve al suo compito all’interno del gruppo.

    È necessario, per promuovere la crescita e il cambiamento, secondo Rogers, che il facilitatore abbia una notevole capacità d’ascolto, che riesca, cioè, a essere attento e a recepire tutti i messaggi – verbali e non verbali – lanciati sia dai singoli componenti sia dal gruppo nel suo insieme. Questo è importantissimo non solo per la creazione di quel clima psicologico di agio e sicurezza che egli ritiene indispensabile perché le persone possano aprirsi all’esperienza, ma anche per poter riuscire a seguire il processo che va sviluppandosi nei singoli e nel gruppo e poter, di conseguenza, svolgere un’azione di facilitazione più efficace e funzionale.

    Tre importantissimi fattori sono, ovviamente, quelle condizioni facilitanti il cambiamento a cui egli attribuisce le qualità “necessarie e sufficienti” (Rogers, tr. it. 1970): l’accettazione, o considerazione, positiva incondizionata, la comprensione empatica – il processo dell’ “essere” con il cliente, lasciando “la propria cornice di riferimento” per adottare ”la cornice di riferimento” dell’altra persona (Mearns e Thorne, 1988) –, la congruenza. Anche un uso ponderato e armonico della trasparenza può aiutare il gruppo a comunicare in modo più funzionale e le persone a procedere in direzione del progresso e della crescita.

    Rogers considera rilevanti, a tali fini, anche le capacità di dare feedback onesti, quando opportuno, e di gestire il confronto (Rogers, tr. it. 1976, pp. 58-59).

    Appare importante che il facilitatore creda nella “potenzialità terapeutica del gruppo” (Rogers, tr. it. 1976, p. 61) e delle persone che lo compongono.

    Da evitare sono, invece, gli esercizi, il dare interpretazioni, in poche parole gli atteggiamenti direttivi e rigidi (Rogers, tr. it. 1976, p. 60-61).

    Rogers e Yalom: esperienze a confronto Possiamo affermare che le opinioni di Rogers e di Yalom sono tutt’altro

    che contrastanti e non può essere altrimenti, considerato che esse scaturiscono da anni di esperienza e di studio sui processi di gruppo.

    Numerosi sono i punti di contatto. Entrambi gli autori ritengono che la coesione di gruppo sia un

    importantissimo fattore facilitante il cambiamento. Yalom la considera addirittura la condizione di base perché possano agire tutti gli altri, funzione che Rogers attribuisce invece al clima psicologico di sicurezza.

    Rogers riconosce una grande potenzialità – nell’innescare e nel sostenere processi di cambiamento – all’espressione dei vissuti, all’autorivelazione, alla condivisione di esperienze profonde. In tutto ciò possiamo certamente rintracciare un aspetto catartico, ma il nostro Autore va oltre, sottolineando l’esistenza di forti legami fra questi e la coesione, la capacità di contatto e la speranza, che scaturisce dall’esperire che altri hanno avuto o hanno problemi, vissuti, pensieri simili ai nostri. La valenza “terapeutica” dell’autorivelazione non è solo nella catarsi, come per Yalom, ma nelle

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    ricadute positive a livello interpersonale, ma anche intrapersonale (autoaccettazione, integrazione cognitiva dell’esperienza, autostima...).

    Sia Rogers sia Yalom considerano fondamentali il ricevere, ma soprattutto il dare aiuto. Se è di aiuto, infatti, ricevere il sostegno, il supporto, le attenzioni altrui, soprattutto in momenti di particolare disagio, difficoltà, è forse ancora più di aiuto potersi sperimentare come persone capaci di offrire ciò agli altri, potenziando, così, la propria autostima e alimentando la speranza nelle proprie possibilità di crescita e di cambiamento.

    Yalom considera in un certo senso interdipendenti lo sviluppo di tecniche di socializzazione, il comportamento imitativo e l’apprendimento interpersonale.

    Anche Rogers parla di fattori facilitanti inerenti tale area, individuando principalmente l’imparare dagli altri (inteso sia come imitazione sia come apprendimento interpersonale), il confronto e il ricevere feedback.

    Nessun cenno sembra poter essere rintracciato, invece, per quanto concerne la riepilogazione correttiva del gruppo primario familiare, sebbene sia chiaro che, parlando di possibilità di lasciare il guscio di comportamenti esterni necessario per assicurarci l’accettazione delle persone significative (Rogers, tr. it. 1976, p. 108), Rogers si riferisca appunto a esperienze emotive correttive di quelle vissute nella famiglia d’origine.

    Rogers ritiene facilitanti anche gli insight e la possibilità di provare nuovi comportamenti, fattori non citati da Yalom. Egli, cioè, sottolinea l’importanza dell’emergere di nuovi modi di pensare, di costruire e rappresentare la realtà, di nuovi modi di agire e di comportarsi. Considera, inoltre, fondamentale l’accettazione di sé che segna l’inizio del cambiamento (Rogers, tr. it. 1976, p. 30) e che Braaten (1990) collega strettamente alla coesione.

    Egli, infine, individua caratteristiche e atteggiamenti del facilitatore che possono stimolare e sostenere processi di cambiamento e di crescita, mentre Yalom non si sofferma – nell’elencare i suoi fattori terapeutici – su quelli inerenti il “terapeuta”.

    Uno studio sistematico Più recentemente, Paul Dierick e Germain Lietaer (1990) hanno esposto le

    proprie conclusioni sui fattori terapeutici nei gruppi terapeutici e di crescita, tratte da uno studio condotto sulla base delle valutazioni sugli aspetti di aiuto del gruppo espresse da partecipanti, osservatori partecipanti e facilitatori o terapisti (in Lietaer, Rombauts e Van Balen, 1990, pp.741-770). La domanda da cui partono è: “i consueti elenchi da nove a dodici fattori terapeutici che troviamo nella letteratura sono esaustivi?”. La loro aspettativa è, in effetti, riuscire a creare, partendo dai dati raccolti nella loro ricerca, un più ampio elenco di categorie.

    Le risposte raccolte e protocollate hanno costituito la base che ha permesso l’individuazione dei principali fattori facilitanti il cambiamento, suddivisi, per maggiore chiarezza in tre ampie aree: A: clima relazionale e aspetti strutturali del gruppo; B: interventi specifici dei membri del gruppo e del facilitatore; C: aspetti del processo dei membri del gruppo.

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    Per quanto riguarda la prima area, tra gli aspetti strutturali si sono evidenziati la composizione del gruppo – cioè, ad esempio, il fatto che in esso tutte le età siano rappresentate o che sia composto da persone motivate a lavorare sul proprio processo di crescita e disponibili al cambiamento – e gli aspetti strutturali delle sessioni: organizzazione, rispetto dei tempi, ecc. Tra i fattori inerenti il clima relazionale, invece, è stata citata la coesione, come senso di appartenenza e “sentirsi a casa” (sentirsi accettato e voluto nel gruppo), come dedizione e coinvolgimento degli altri – quindi come motivazione degli altri componenti del gruppo a lavorare sui propri problemi, ma anche come attenzione, interesse, empatia, calore ricevuti dagli altri membri e dal facilitatore –, ma anche come rispondere con rimandi a quanto un’altra persona dice o chiede o comunque non ignorarlo e come provocare una reazione negli altri; a questi è possibile aggiungere il contatto informale fuori dagli incontri di gruppo (sembra, infatti, di aiuto anche lo sperimentare nuovi comportamenti stando insieme su basi d’amicizia e vivere esperienze da poter discutere successivamente anche nel gruppo). Oltre la coesione, altri fattori inerenti il clima relazionale sono lo spazio e la libertà, cioè il sentire che c’è posto per tutti i tipi di contributo e di reazione personale, vivere un clima di apertura, tolleranza, accettazione, mancanza di giudizio, sperimentare la libertà e il rispetto per la privacy di ognuno; l’empatia e il sentirsi capiti a livello profondo; la conferma, l’apprezzamento e il supporto che si riceve dal gruppo, anche nei momenti più dolorosi o difficili; infine, l’autenticità e la disponibilità all’autorivelazione degli altri partecipanti.

    Per quanto concerne la seconda area – interventi specifici dei membri del gruppo e del facilitatore – un fattore è stato individuato negli interventi strutturati e di stimolo, volti, ad esempio, a sollecitare il parlare di più di se stessi, o l’andare più in profondità in una determinata questione, o ancora il descrivere qualcosa più concretamente. Altri fattori sono gli interventi di chiarificazione, gli interventi empatici, quelli interpretativi – in cui i componenti del gruppo o il facilitatore, parlando da una diversa cornice di riferimento, contribuiscono a far avere un insight. Ultimo fattore elencato in tale area è “feedback e confronti”: uno o più membri del gruppo, o lo stesso facilitatore, danno la propria impressione circa un altro componente, indicano certi aspetti che osservano in lui o rivelano pensieri e sentimenti che egli evoca in loro; oppure, un partecipante è confrontato su aspetti di sé che egli non vede o che è difficile per lui accettare, ricevendone tuttavia un aiuto.

    L’ultima area – aspetti del processo nel membro del gruppo – comprende numerosi fattori: il coinvolgimento personale (lavoro personale, coinvolgimento con gli altri partecipanti o con ciò che accade nel gruppo, interventi empatici), l’autenticità e l’apertura interiore, cioè l’esperienza di essere in contatto con i sentimenti propri e con quelli altrui, la disponibilità a conoscere sia i sentimenti positivi, sia quelli negativi, sia le qualità sia i limiti, l’apportare elementi personali nel gruppo (rivelare problemi ed esperienze personali, affrontare argomenti di cui non si parla in altri luoghi, discutendone “finalmente” apertamente), il diventare capaci o coraggiosi nel parlare, soprattutto di argomenti “difficili”, intimi (tale fattore reca in sé, ovviamente, anche un aspetto catartico). A questi gli autori aggiungono:

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    l’esplorazione di sé; l’esplorazione interpersonale (le relazioni sono discusse ed esplorate, si chiariscono incomprensioni ed equivoci, e si dissipano pregiudizi; si esprimono direttamente sentimenti, positivi e negativi, verso gli altri componenti del gruppo, compreso il facilitatore, e si possono dare feedback critici; si conoscono e si accettano maggiormente gli altri e si impara a vederli da altri punti di vista); il diventare consapevoli (qualcosa di cui si è parlato o che è accaduto nel gruppo evoca esperienze o problemi personali e spinge alla riflessione, stimola a pensare a cose fino ad allora nascoste, a discutere argomenti esistenziali, sessuali o comunque delicati); l’insight, che permette di scoprire cose nuove o parzialmente consapevoli circa se stessi (modalità relazionali, connessioni tra problemi presenti ed esperienze passate...). Un altro fattore individuato è la cosiddetta terapia da spettatore, che comprende l’apprendimento mediante l’osservazione e l’ascolto degli altri e l’esperienza di “universalità”, che permette di capire che non si è soli con certi pensieri, domande, vissuti. Il successivo concerne il versante comportamentale – esperienze con nuovi comportamenti – e comprende il provare nella situazione di gruppo un nuovo comportamento, la pianificazione di nuovi comportamenti da mettere in atto al di fuori del gruppo e le esperienze correttive, intendendo con quest’ultima espressione le esperienze emotive correttive (Alexander e French, 1946). Gli ultimi due fattori compresi in quest’area sono “sperimentare speranza e progresso, capacità di aiutare ed aiuto” ed “esperire il potenziale d’aiuto del gruppo”. Nel primo confluiscono la speranza e la consapevolezza di essere una persona capace di aiutare e che è degna di ricevere l’aiuto e il conforto del gruppo. Nell’altro lo sperimentare che i componenti del gruppo sono disponibili e capaci di aiutarsi gli uni gli altri e che quella di gruppo è un’esperienza arricchente, che conduce ad una maggiore forza, ad una maggiore maturità.

    La maggior parte delle persone intervistate ha segnalato, come di aiuto, i fattori che sono stati inseriti nell’area C, quindi il processo che le persone fanno personalmente nel gruppo. Tale area, infatti, contiene il più vasto numero di categorie. Quelle riportate più frequentemente sono: coinvolgimento personale, autenticità e autorivelazione, terapia da spettatore, sperimentare speranza e progresso, capacità di aiutare ed aiuto, insight. Al contrario, la categoria meno citata risulta essere “esperire il potenziale d’aiuto del gruppo”.

    Riguardo la prima area, gli aspetti strutturali sono menzionati solo di rado come di aiuto; un’importante serie di eventi d’aiuto è, invece, rintracciabile nel clima relazionale, con particolare riferimento alla coesione di gruppo.

    Nella seconda area, sono più frequenti i riferimenti al feedback e confronto e meno rappresentati, almeno nell’opinione dei partecipanti ai gruppi, gli interventi di chiarificazione e interpretazione.

    Numerosissime le divergenze di opinione dei terapisti. Essi, infatti, sembrano non notare la terapia da spettatore come fattore facilitante la crescita e citano l’esperienza interna in modo significativamente minore rispetto alle autovalutazioni dei membri del gruppo. Indicano d’aiuto due volte di più “feedback e confronto” e il 10% più spesso, rispetto agli altri membri del gruppo, gli interventi terapeutici specifici. Sembra, quindi, che i

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    terapisti di gruppo siano poco in contatto con alcuni aspetti del processo (Dierick e Lietaer, 1990, p. 760).

    Confrontando le opinioni, riportate sui questionari, di membri di gruppi Gestalt e membri di gruppi di orientamento centrato sul cliente (gruppi d’incontro), non emergono differenze rilevanti nella frequenza in cui le categorie d’aiuto sono menzionate, a eccezione del fattore “offerta di tecniche terapeutiche”, che non compare affatto nei gruppi ad orientamento rogersiano ed è invece citato sei volte negli altri Dierick e Lietaer, 1990, p. 763).

    Un’altra esperienza a confronto Molti dei fattori d’aiuto focalizzati sono sovrapponibili a quelli che

    possiamo trovare in letteratura; in particolare, appare evidente che i risultati di tale lavoro sono in linea con le teorie di Yalom e, soprattutto, di Rogers.

    La coesione di gruppo, che, come abbiamo visto, troviamo sia in Yalom sia in Rogers, è stata qui estesa a includere aspetti del clima relazionale del gruppo: spazio e libertà, empatia, autenticità, conferma, apprezzamento, supporto, sentirsi capiti a livello profondo… Risalta, tra tutti, la presenza delle condizioni che, per Rogers, sono necessarie e sufficienti per promuovere il cambiamento.

    L’autoesplorazione e l’autorivelazione, presenti anche tra i fattori focalizzati da quest’ultimo studio sperimentale, comprendono vari elementi d’aiuto: il coinvolgimento personale, l’autenticità, l’apertura interiore, la disponibilità a farsi conoscere apportando aspetti personali, il diventare sempre più capaci e coraggiosi nel parlare.

    Tale studio conferma l’importanza di uno dei fattori sottolineati da Rogers, l’insight, che include l’iniziare a pensare a determinati argomenti, il porsi domande, la chiarificazione, che include, cioè, un lavoro personale che avviene a livello non solo cognitivo ma anche emotivo.

    L’apprendimento interpersonale, categoria inserita da Yalom nel suo elenco, si manifesta nelle forme evidenziate da Rogers – l’imparare dagli altri, il feedback, il confronto – e concorre a migliorare le capacità sociali, anche attraverso l’espressione di sentimenti verso gli altri componenti del gruppo. Da questo recente studio sembra di poter concludere che l’apprendimento interpersonale possa assumere anche la forma di “terapia da spettatore”, in qualche misura vicina al comportamento imitativo citato da Yalom.

    Anche per Dierick e Lietaer, la catarsi è solo un aspetto – seppure essenziale – dell’autorivelazione, dell’autoesplorazione e dell’esplorazio-ne interpersonale, intesa come espressione di sentimenti provati verso gli altri.

    L’esperienza di nuovi comportamenti – categoria isolata dagli autori – include non solo il provare nuovi comportamenti, come sottolineato da Rogers, ma anche il vivere esperienze correttive e la cosiddetta “terapia da spettatore”.

    Esperire il proprio progresso e la speranza sono considerati d’aiuto dai componenti dei gruppi intervistati nello studio, in linea con quanto già affermato da Yalom e Rogers.

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    Possiamo dire lo stesso della categoria “essere capaci di aiutare gli altri”, pur se essa è menzionata occasionalmente.

    Anche ricevere consigli o informazioni sembra essere di secondaria importanza, in linea con la tesi di Rogers.

    La riepilogazione correttiva del gruppo primario familiare non è presente nelle risposte degli intervistati. D’altro canto, lo stesso Yalom riferisce che tale fattore, pur essendo da lui incluso nell’elenco dei principali fattori terapeutici, è menzionato raramente dai membri dei gruppi.

    Dierick e Lietaer lo considerano «con Yalom un fattore terapeutico che opera a un altro livello di consapevolezza» (Dierick e Lietaer, 1990, p. 767).

    La più evidente diversità con Rogers concerne gli interventi interpretativi, da lui considerati di ostacolo. I risultati mostrano, infatti, che a volte essi possono essere di aiuto, in quanto promuovono l’insight.

    Gli autori concludono il loro studio sottolineando la similarità tra i fattori terapeutici emergenti secondo l’opinione di clienti di psicoterapia individuale centrata sul cliente e quelli riferiti dai componenti dei gruppi (Lietaer e Neirinck, 1986).

    L’esperienza di “incontro” in un contesto carcerario

    L’esperienza di cui si tratta in questo paragrafo riguarda i gruppi d’incontro organizzati nell’ambito delle attività promosse dal Presidio Tossicodipendenze di una Casa Circondariale.

    A partire dalla riforma penitenziaria del 1975 e, successivamente, con la Legge “Gozzini” del 1986, abbiamo assistito al modificarsi della considerazione della pena detentiva e delle sue finalità: da una funzione di prevenzione e di difesa sociale a una funzione preminentemente di recupero sociale, attraverso il processo di trattamento. Il problema del reinserimento si fa sempre più pressante, in considerazione del numero, negli ultimi anni sempre crescente, dei detenuti tossicodipendenti, che si trovano a dover scontare una pena la stragrande maggioranza delle volte per reati legati alla tossicodipendenza.

    La decisione di comprendere nelle attività trattamentali – e quindi volte al recupero e al reinserimento – il gruppo d’incontro rivela senza dubbio coraggio, ma soprattutto una grande fiducia nella persona, nelle sue potenzialità di crescita, di maturazione, di cambiamento; nonché una grande fiducia nel gruppo e nelle sue potenzialità terapeutiche.

    Nel contesto carcerario può esserci lo spazio per i gruppi di incontro. L’autoaccettazione, la “rottura delle facciate”, l’espressione dei sentimenti positivi e negativi, la capacità di confronto, il cambiamento... costituiscono tutti obiettivi raggiungibili nell’ambito di un processo di gruppo.

    Forse alla base di tutto c’è quello che Giangiulio Ambrosini chiama “il punto fondamentale”: «...il rispetto della dignità umana, anche in carcere, soprattutto in carcere, dove per definizione la dignità è ridotta al minimo o è del tutto soppressa» (1999).

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    La cornice

    Il contesto Nella Casa Circondariale di cui si tratta sono recluse circa 180 persone,

    con reati vari e con pene di diversa durata. I tossicodipendenti rappresentano circa il 33% del totale, una percentuale leggermente superiore alla media nazionale, che è del 30%. Per essi è attivato un apposito presidio avente la sua precipua finalità nel trattamento dei detenuti tossicodipendenti. Numerose sono le attività organizzate, a cui possono accedere facendone richiesta, naturalmente nei limiti dei posti disponibili: corsi professionali di vario genere, attività musicali, teatrali, corsi di pittura, ecc. Il gruppo d’incontro rappresenta un’altra opportunità.

    I tossicodipendenti Il DSM-IV definisce la dipendenza da sostanze «una modalità patologica

    d’uso della sostanza che conduce a menomazione o a disagio clinicamente significativi».

    Ciò che accomuna le persone dipendenti da una o più sostanze è, dunque, l’uso eccessivo e non equilibrato di una sostanza che richiede dosi sempre crescenti, che provoca astinenza nei periodi di mancata assunzione, che rende impossibile ridurne o controllarne l’uso, che condiziona la vita al punto di trascorrere la maggior parte del tempo «in attività necessarie a procurarsi la sostanza […], ad assumerla […], o a riprendersi dai suoi effetti», inficiando in tal modo la qualità stessa della vita, provocando ovvi problemi lavorativi, familiari, affettivi ecc.

    Dal punto di vista delle caratteristiche di personalità, le opinioni sono discordanti. Secondo alcuni autori, non c’è relazione tra queste e la tossicodipendenza, per cui possiamo trovare, tra i tossicodipendenti, persone con caratteristiche assai diverse (Crowley e Riggs, 1995). Altri ritengono che la tossicodipendenza sia l’epifenomeno di un’organizzazione borderline della personalità (Gasca, 1999, in Leone e Migliore, pp. 99-105); altri, ancora, che alla base ci sia la depressione (Treece, 1984). Alberto Zucconi e Valeria Vaccari (1997) sostengono che effettivamente «la maggioranza dei tossicodipendenti risente di una sofferenza psicologica propria del registro depressivo e precedente l’instaurarsi dell’abuso […] che […] presenta […] due tratti tipici: […] l’incapacità di darsi degli obiettivi traendo piacere nel realizzarli […] e l’abbassamento dell’autostima» (pp. 19-30); inoltre, presenta tratti compulsivi: «l’individuo prova il bisogno incoercibile di una specifica o, al limite, di una qualsiasi sostanza che gli assicuri un momentaneo soddisfacimento» (pp. 23-24). Tutto ciò, insieme a un sicuro legame con il Disturbo Antisociale di Personalità, tuttavia, non è sufficiente a far individuare una specificità in un’ottica psicodinamica.

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    Qualsiasi sia il substrato di personalità, tutti i tossicodipendenti presentano un “Sé fragile”, che «non è in grado di tollerare la tensione conflittuale», la frustrazione, che non riesce a mediare efficacemente i rapporti «tra il mondo interno […] e la realtà esterna» (Leone e Migliore, 1999, p. 44). Sono caratterizzati da una carente gestione delle emozioni, tanto che esse sono o totalmente negate – mancando qualsiasi contatto con il proprio “sentire” (Sé Reale), determinando quella condizione chiamata alessitimia che spesso li caratterizza – o vissute in modo esplosivo, incostante, fugace: «Il soggetto è imprigionato nel qui ed ora depressivo o euforico, angosciato o relativamente tranquillo...» (Leone e Migliore, 1999, p. 48). Altre caratteristiche del tossicodipendente sono l’inaffidabilità, la sfuggevolezza, la tendenza a manipolare se stesso e gli altri, alla ricerca della “via più facile e breve per ottenere l’affermazione delle proprie istanze, senza curarsi del valore della verità” (Vaccari e Zucconi, 1997, p. 27), senza tener conto delle regole sociali e dei diritti altrui.

    Tali caratteristiche di personalità e tali modalità comportamentali, com’è ovvio, sono altamente disfunzionali, causando forti problemi, oltre che a livello personale, anche a livello sociale, determinando fenomeni di allontanamento, esclusione, sentimenti di rabbia e di frustrazione negli altri, soprattutto nelle persone più vicine (famigliari, amici, colleghi, ecc.).

    Le maschere Quella detentiva è la situazione più di ogni altra connotata da mancanza di

    libertà. Le possibilità di scelta, che ogni persona generalmente – e quotidianamente – ha davanti a sé, sono molto limitate per i detenuti. Essi sono costretti a indossare una maschera, o meglio varie maschere, a seconda delle occasioni: con gli operatori dell’area trattamentale, con gli agenti di custodia, con il personale direttivo, con gli altri detenuti e perfino con i propri familiari! Adattarsi alla vita del carcere significa forse proprio questo. Come possiamo allora non parlare di de-personalizzazione?

    Dover vivere in una struttura che si sente fredda ed ostile, dove i cancelli sono così tanti

    da dover essere numerati, con persone che inevitabilmente appaiono minacciose, dividendo la cella con uno o più sconosciuti, trascorrendo le giornate in compagnia di persone con cui non si condivide niente altro che la situazione oggettiva di detenuto, non poter godere di momenti di privacy, essere sempre pronti ad “andar via” a causa di un trasferimento, è molto duro. Altrettanto duro è abituarsi all’igiene essenziale, al cibo scarso e non molto invitante, alla presenza degli agenti di custodia che controllano ogni momento delle lunghe giornate, vivere con la spada di Damocle di una possibile punizione sempre sospesa sulla testa, abituarsi all’inattività, alla noia, perché le possibilità di un lavoro che permetta di guadagnare qualcosa per le proprie necessità – e, soprattutto, di far trascorrere più velocemente il tempo che, all’interno del carcere, sembra procedere con una lentezza esasperante – e di sentirsi, al tempo stesso, utili, capaci di produrre, degni di fiducia sono molto scarse, a causa degli scarsi finanziamenti statali e del numero sempre crescente degli aspiranti” (Marrone, 1998).

    A tutto questo – alla tragica realtà carceraria ordinaria – dobbiamo

    aggiungere, per i tossicodipendenti, la mancanza di libertà causata dalla dipendenza da sostanze stupefacenti.

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    Anche i colloqui individuali con gli operatori spesso sono falsati dal sentirsi in dovere di mostrare sempre il lato migliore di sé.

    L’aspetto che emerge subito prepotentemente è la mancanza di spontaneità, l’opacità che caratterizza la persona a colloquio, che molto spesso sembra “recitare” per poter trasmettere un’immagine di sé il più possibile positiva, indossando la “maschera per l’occasione” di cui parla il Merani, considerato che il parere dello psicologo può concorrere a rendere possibili benefici premiali o concessione di misure alternative.

    Tale situazione non può, quindi, non condizionare l’andamento dei colloqui con – nel nostro caso – uno psicologo che spesso è visto come un “tramite” con l’istituzione, una persona che, a seconda dei casi, può essere di aiuto o di ostacolo alla realizzazione dei propri progetti personali.

    Se questo è vero per i colloqui individuali, non è a maggior ragione ancor più vero per un gruppo d’incontro, in cui si potrebbe pensare a uno sforzo ancora maggiore: riuscire a conciliare l’immagine che si vuole dare allo psicologo con quella che invece si vuole conservare con gli altri componenti del gruppo, anch’essi detenuti?

    Può l’esperienza di gruppo d’incontro riuscire a sbloccare tale situazione di partenza, dando l’avvio a un reale processo di conoscenza personale e interpersonale, di crescita e di cambiamento? Può contribuire ad attivare quei processi di autocomprensione e autoregolazione che permettono a ognuno di noi di dirigere le nostre energie verso il progresso, la crescita, la maturazione? (Rogers, tr. it. 1997).

    Il quadro: i gruppi d’incontro Il gruppo d’incontro è aperto ai detenuti tossicodipendenti, autorizzati

    dalla Direzione, e che abbiano avuto almeno un colloquio individuale preliminare con la psicologa/facilitatrice volto a mettere a fuoco le motivazioni e le aspettative riguardo l’esperienza da intraprendere.

    A seconda del numero delle richieste, operano uno o due gruppi, ognuno formato da 8 a 12 persone. Il gruppo inizialmente si riuniva una volta a settimana; successivamente, a causa delle pressanti richieste dei partecipanti, nonché del parere espresso dagli operatori, gli incontri settimanali sono stati portati a due. La loro durata è di 90 minuti.

    È inutile nascondere le difficoltà con cui i partecipanti – facilitatori compresi – si scontrano molto più spesso di quanto si possa immaginare, legati alla rigidità dell’istituzione, alla disponibilità non sempre presente da parte degli agenti di custodia, ai trasferimenti che nella maggior parte dei casi arrivano all’improvviso, sconvolgendo l’assetto del gruppo, a volte perfino a improvvisi “divieti d’incontro” con uno o più detenuti, che costringono a interrompere violentemente (con la finalità dichiarata di salvaguardare l’integrità fisica e la vita del detenuto!) l’esperienza di incontro.

    Nonostante tutte queste difficoltà, i detenuti partecipano volentieri ai gruppi, ne rispettano le regole fondamentali (non agire sentimenti negativi, soprattutto l’aggressività, allontanarsi dal gruppo non più di una volta e per pochi minuti, solo quando lo si ritiene assolutamente indispensabile, essere

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    puntuali...) e manifestano il desiderio di poter vivere tale esperienza ancora più frequentemente.

    Psicologi penitenziari, che hanno condotto attività di gruppo con detenuti tossicodipendenti, concordano nel ritenere tale modalità “terapeutica” più efficace dei colloqui individuali, in quanto riesce ad attivare più velocemente e in modo più stabile le risorse progettuali dei componenti, migliorando le capacità relazionali e intessendo una fitta rete di rapporti – con compagni e facilitatori – a grande valenza terapeutica (vedi, ad esempio, Leone e Migliore, 1999).

    I fattori facilitanti: l’opinione dei partecipanti

    In questo paragrafo sono riportati i dati raccolti intervistando 15 partecipanti ai gruppi d’incontro organizzati nella Casa Circondariale e le conclusioni che sulla loro base si possono trarre.

    Si tratta di uno studio fenomenologico, che, a causa del ridotto numero degli intervistati, non può avere nessuna pretesa di significatività statistica, ma che comunque cerca di indagare riguardo ai fattori maggiormente promuoventi la crescita e il cambiamento in un contesto così particolare, dalle caratteristiche tanto peculiari.

    Oggetto d’indagine è, quindi, il gruppo d’incontro – più precisamente gli elementi che maggiormente concorrono a promuovere la crescita delle persone e del gruppo – e gli strumenti utilizzati sono le esperienze soggettive. Lo stesso Rogers sostiene che «la ricerca è lo sforzo […] volto a trarre senso ed ordine dai fenomeni dell’esperienza soggettiva» (Rogers, tr. it. 1970). Egli ritiene che un approccio fenomenologico-esistenziale alla scienza psicologica ne determini un ampliamento, la faccia diventare più comprensiva e profonda (Rogers, tr. it. 1970). «Tale concezione sottolinea l’importanza che assume nella ricerca della verità il potersi fidare delle proprie esperienze soggettive, del proprio mondo fenomenologico» e di quelli altrui (Zucconi, 1986).

    Finalità

    Il presente studio ha lo scopo di individuare i fattori considerati di maggior aiuto per attivare e sostenere processi di cambiamento e di crescita, sulla base delle esperienze soggettive dei partecipanti, in un piccolo campione di persone provenienti da una popolazione carceraria tossicodipendente.

    Il questionario

    Ai soggetti intervistati è stato somministrato un questionario contenente 21 affermazioni, con possibilità di scegliere, per ognuna, tra sei alternative, da ‘sempre’ a ‘mai’, e una ventiduesima a risposta aperta su eventuali suggerimenti e proposte volti a migliorare e a rendere più efficace l’esperienza di gruppo d’incontro.

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    Gli item sono stati formulati in modo da raccogliere l’opinione degli intervistati su aspetti inerenti le prime dieci categorie di “fattori terapeutici” individuate da Yalom, e sul loro grado di utilità per il processo di crescita individuale.

    I risultati Allo scopo di rendere più visibili i risultati, sono riportate la tabella A, contenente

    i punteggi grezzi relativi alla frequenza con cui le varie alternative sono state scelte (tra parentesi sono riportate le rispettive percentuali). L’ordine degli item è quello del questionario.

    Di seguito, quindi, saranno visualizzati i risultati, suddivisi per “categoria”, secondo l’ordine proposto dallo stesso Yalom.

    Tabella A – Frequenze (vengono indicati i punteggi grezzi; tra parentesi sono riportati i punteggi in %) sempre molto

    spesso spesso a volte quasi

    mai mai

    Dagli incontri di gruppo ho tratto informazioni utili relative alla tossicodipendenza.

    2 (13.3)

    3 (20)

    4 (26.6)

    6 (40)

    0 0

    Ho incontrato altre persone che avevano problemi simili, o uguali ai miei.

    2 (13.3)

    5 (33.3)

    3 (20)

    3 (20)

    0 2 (13.3)

    Il gruppo mi ha aiutato a sopportare le paure del cambiamento.

    2 (13.3)

    0 3 (20)

    7 (46.6)

    2 (13.3)

    1 (6.6)

    Ho aiutato, dando il mio contributo, gli altri membri del gruppo

    1 (6.6)

    0 6 (40)

    5 (33.3)

    3 (20)

    0

    Mi sono sentito una persona degna di stima, nonostante le mie sofferenze.

    9 (60)

    2 (13.3)

    0 3 (20)

    1 (6.6)

    0

    Mi sono sentito aiutato dagli altri membri del gruppo.

    2 (13.3)

    0 4 (26.6)

    5 (33.3)

    3 (20)

    1 (6.6)

    Ho migliorato la mia capacità di stare con gli altri.

    4 (26.6)

    1 (6.6)

    3 (20)

    5 (33.3)

    0 2 (13.3)

    Ho rivissuto dentro di me alcune esperienze avute nella mia famiglia d’origine.

    2 (13.3)

    3 (20)

    2 (13.3)

    6 (40)

    0 2 (13.3)

    Ho parlato nel gruppo della mia famiglia d’origine.

    1 (6.6)

    2 (13.3)

    3 (20)

    6 (40)

    1 (6.6)

    2 (13.3)

    Ho avuto la possibilità di sapere cosa gli altri componenti del gruppo pensavano di me.

    1 (6.6)

    1 (6.6)

    1 (6.6)

    4 (26.6)

    4 (26.6)

    4 (26.6)

    Ho individuato alcuni miei comportamenti che rendevano difficili i rapporti con gli altri.

    1 (6.6)

    6 (40)

    0 3 (20)

    1 (6.6)

    4 (26.6)

    Ho potuto vedere come gli altri affrontavano e vivevano alcune situazioni.

    0 3 (20)

    10 (66.6)

    2 (13.3)

    0 0

    Ho pensato che, se altri lavoravano su un problema, potevo farlo anch’io.

    5 (33.3)

    4 (26.6)

    2 (13.3)

    3 (20)

    0 1 (6.6)

    Ho sperimentato che la relazione del gruppo migliorava con il tempo.

    3 (20)

    3 (20)

    4 (26.6)

    3 (20)

    2 (13.3)

    0

    Mi sono sentito accettato. 7 (46.6)

    1 (6.6)

    1 (6.6)

    4 (26.6)

    2 (13.3)

    0

    24

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    Mi sono sentito compreso. 2 (13.3)

    2 (13.3)

    2 (13.3)

    6 (40)

    2 (13.3)

    1 (6.6)

    Ho provato forti emozioni. 3 (20)

    3 (20)

    5 (33.3)

    2 (13.3)

    1 (6.6)

    1 (6.6)

    Ho espresso le mie emozioni. 3 (20)

    2 (13.3)

    4 (26.6)

    4 (26.6)

    1 (6.6)

    1 (6.6)

    Altri componenti del gruppo hanno espresso forti emozioni.

    1 (6.6)

    4 (26.6)

    1 (6.6)

    7 (46.6)

    2 (13.3)

    0

    Ho capito che potevo sperare in un futuro migliore.

    8 (53.3)

    3 (20)

    1 (6.6)

    2 (13.3)

    0 1 (6.6)

    Nell’ambito degli incontri di gruppo ho modificato la mia opinione sulla tossicodipendenza.

    6 (40)

    2 (13.3)

    1 (6.6)

    2 (13.3)

    2 (13.3)

    2 (13.3)

    Il gruppo fornisce informazioni

    13,30%20%

    26,60%

    40%

    0 00,00%

    10,00%

    20,00%

    30,00%

    40,00%

    50,00%sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Dagli incontri di gruppo ho tratto informazioni utili relative alla

    tossicodipendenza”

    25

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    Il gruppo promuove la speranza (infusione della speranza)

    0,00%5,00%

    10,00%15,00%20,00%25,00%30,00%35,00%40,00%45,00%50,00%

    13,30%

    26,60%

    46,60%

    13,30%

    6,60%

    0%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%

    10,00%

    20,00%

    30,00%

    40,00%

    50,00%

    60,00%53,30%

    20%

    6,60%

    13,30%

    6,60%

    0

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Il gruppo mi ha aiutato a sopportare le paure del cambiamento”

    “Ho capito che potevo sperare in un futuro migliore”

    Consente di percepire l’universalità dei problemi, dei sentimenti, dei

    pensieri... (universalità)

    0%

    10%

    20%

    30%

    40%

    50%

    60%60%

    13,30%

    0,00%

    20%

    6,60%

    0,00%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    13,30%

    33,30%

    20% 20%

    13,30%

    0

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho incontrato altre persone che avevano i miei stessi problemi”

    “Mi sono sentito una persona degna di stima, nonostante le mie sofferenze”

    26

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    Consente di aiutare e di essere aiutati (altruismo)

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    13,30%

    26,60%

    33,30%

    20%

    6,60%

    0%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    40,00%

    6,60%

    40%

    33,30%

    20%

    0% 0%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho aiutato, dando il mio contributo, altri membri del gruppo”

    “Mi sono sentito aiutato dagli altri membri del gruppo”

    Consente di rivivere l’esperienza della famiglia d’origine (riepilogo correttivo del gruppo primario familiare)

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    40,00%

    6,60%

    13,30%

    20%

    40%

    6,60%

    13,30%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    40,00%

    13,30%

    20%

    13,30%

    40%

    13,30%

    0

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho rivissuto dentro di me alcune

    esperienze avute nella mia famiglia d’origine”

    “Ho parlato nel gruppo della mia famiglia d’origine”

    Sviluppa le capacità di socializzazione

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    26,60%

    6,60%

    20%

    33,30%

    13,30%

    0

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho migliorato la mia capacità di stare con gli altri”

    Fornisce modelli di comportamento (comportamento imitativo)

    27

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    0,00%

    10,00%

    20,00%

    30,00%

    40,00%

    50,00%

    60,00%

    70,00%

    20%

    66,60%

    13,30%

    0,00% 0 0,00%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00% 33,30%

    26,60%

    13,30%

    20%

    6,60%

    0

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho potuto vedere come gli altri

    affrontavano e vivevano certe situazioni”

    “Ho pensato che, se altri lavoravano su un problema, potevo farlo anch’io”

    Sollecita l’apprendimento interpersonale

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    40,00%

    6,60%

    40%

    20%

    6,60%

    26,60%

    0,00%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    6,60% 6,60% 6,60%

    26,60%26,60%26,60%sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho individuato alcuni miei

    comportamenti che rendevano difficili i rapporti con gli altri”

    “Ho avuto la possibilità di sapere cosa gli altri componenti del gruppo

    pensavano di me.”

    Sviluppa la percezione della coesione del gruppo

    0%

    5%

    10%

    15%

    20%

    25%

    30%

    20% 20%

    26,60%

    20%

    13,30%

    0,00%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0,00%5,00%

    10,00%15,00%20,00%25,00%30,00%35,00%40,00%45,00%50,00% 46,60%

    6,60% 6,60%

    26,60%

    13,30%

    0,00%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho sperimentato che la relazione nel

    gruppo migliorava con il tempo”

    “Mi sono sentito accettato”

    28

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    0,00%

    5,00%

    10,00%

    15,00%

    20,00%

    25,00%

    30,00%

    35,00%

    40,00%

    13,30%13,30%13,30%

    40%

    13,30%

    6,60%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Mi sono sentito compreso”

    Favorisce la catarsi

    0%

    5%

    10%

    15%

    20%

    25%

    30%

    35%

    20% 20%

    33,30%

    13,30%

    6,60% 6,60%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    0%

    5%

    10%

    15%

    20%

    25%

    30%

    20%

    13,30%

    26,60% 26,60%

    6,60% 6,60%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Ho provato forti emozioni” “Ho espresso le mie emozioni”

    0,00%5,00%

    10,00%15,00%20,00%25,00%30,00%35,00%40,00%45,00%50,00%

    6,60%

    26,60%

    6,60%

    46,60%

    13,30%

    0,00%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Altri componenti del gruppo hanno espresso forti emozioni”

    Nel questionario è stata, infine, inserita un’affermazione avente lo scopo di

    indagare se e quanto, secondo i partecipanti intervistati, gli incontri di gruppo abbiano influito – nella loro esperienza personale – nel modificare l’opinione che avevano prima, riguardo la tossicodipendenza.

    Possiamo includere tale item in una categoria a sé, non specificamente individuata da Yalom, sottolineata tuttavia da Rogers (1970] e trovata anche da Dierick e Lietaer (1990) nello studio presentato: “insight”.

    29

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    Si tratta, infatti, di un nuovo modo di organizzare l’esperienza, di un nuovo modo di “vedere le cose”, della modificazione di un costrutto che gioca un ruolo estremamente importante nella vita di persone segnate dalla tossicodipendenza al punto da dover sperimentare un’esperienza di reclusione, con forte limitazione della libertà personale, per reati ad essa connessi.

    Segue, quindi, il grafico che sintetizza i risultati ottenuti per ciò che concerne tale area.

    Insight

    0%

    5%

    10%

    15%

    20%

    25%

    30%

    35%

    40%40%

    13,30%

    6,60%

    13,30%13,30%13,30%

    sempremolto spessospessoa voltequasi maimai

    “Nell’ambito degli incontri di gruppo ho modificato la mia opinione sulla tossicodipendenza”

    Commenti e conclusioni

    Ad uno sguardo d’insieme, i risultati appaiono complessivamente positivi, nel senso che i fattori di crescita e cambiamento elencati da Yalom – e rintracciabili in Rogers – sono considerati dagli intervistati presenti nella loro esperienza piuttosto frequentemente.

    La maggior parte degli intervistati dichiara di essersi sentita sempre o molto spesso degna di stima, nonostante le proprie sofferenze, e di aver capito di poter sperare in un futuro migliore. Possiamo, quindi, dire che la coesione di gruppo, il clima facilitante e accettante che lo caratterizza, e la speranza che l’esperienza d’incontro concorre a infondere, o alimentare, siano i fattori che il nostro campione ritiene più esperibili e più significativi nell’ambito della propria esperienza. L’accettazione, infatti, è un’altra caratteristica menzionata come propria delle situazioni di gruppo d’incontro che possiamo considerare tipica di un gruppo coeso e facilitato in modo funzionale. A ulteriore conferma, il 66,6% delle persone che hanno partecipato alla rilevazione concorda nel riferire di aver sperimentato che la relazione nel gruppo migliorava con il tempo “spesso”, “molto spesso” o “sempre”.

    Anche l’affermazione “Ho pensato che, se altri lavoravano su un problema, potevo farlo anch’io” – che possiamo includere per la valutazione dei fattori individuati da Yalom come “Comportamento imitativo” e “Universalità” – è riconosciuta come vicina ai propri vissuti dalla maggioranza dei componenti.

    Una delle categorie valutate meno presenti è “Informazione”. Tale dato mi sembra in linea con le teorie rogersiane nonché con i risultati ottenuti da Dierik e Lietaer nella ricerca precedentemente citata.

    30

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    Circa l’80% delle persone ha dichiarato di aver ricevuto feedback dai compagni solo “a volte” o, addirittura, “quasi mai” o “mai”. Sebbene l’altra affermazione volta alla valutazione della presenza della categoria “Apprendimento interpersonale” – “Ho individuato alcuni miei comportamenti che rendevano difficili i rapporti con gli altri” – abbia ottenuto una frequenza abbastanza elevata di risposte “mai” (il 26,6%), non possiamo considerarla alla stessa stregua della precedente, poiché quasi la metà degli intervistati riferisce di averla potuta vivere “molto spesso” o “sempre”. Per poter commentare tale dato – apparentemente sorprendente – dobbiamo ricordare il contesto in cui sono organizzati i gruppi. I detenuti solo molto difficilmente rivelano apertamente agli altri ciò che pensano di loro, nonostante vivano insieme lunghe ore ogni giorno per mesi o anni. È come se ci fosse un tacito accordo, una norma comune da rispettare che detta appunto di non farlo, che impone di indossare la “famosa” maschera, una maschera di “persona che non valuta e non giudica” chi condivide l’esperienza detentiva.

    Finora abbiamo considerato gli item che hanno avuto risposte “estreme”, cioè o molto positive o molto negative.

    A livello intermedio si collocano tutti gli altri. Per quanto riguarda l’“universalità”, ad esempio, il 13,3% dei “valutanti”

    dichiara di non aver incontrato, nel gruppo, altre persone che avevano gli stessi problemi, a fronte del 46,6% che afferma, invece, di averle incontrato “molto spesso” o “sempre”.

    Il dare e ricevere aiuto sono esperienze meno frequenti nel nostro campione, esperienze che si vivono “a volte” o “spesso”. Il 6,6%, inoltre, non si è mai sentito aiutato dagli altri membri del gruppo.

    Solo “a volte” la maggior parte degli intervistati ritiene di aver rivissuto l’esperienza della famiglia d’origine, ma quello che emerge visionando i risultati è la diversità nelle esperienze individuali riguardanti tale area. Lo stesso vale per l’essersi sentiti compresi.

    Più della metà del campione afferma di aver migliorato, grazie agli incontri di gruppo, le proprie capacità relazionali “spesso”, “molto spesso” o “sempre”.

    Una frequenza intermedia è invece attribuita all’esperienza di poter vedere come gli altri affrontano e vivono certe situazioni (“Comportamento imitativo”).

    Un terzo degli intervistati dichiara di non aver “mai” o “quasi mai” individuato nel gruppo comportamenti che rendono difficili i rapporti con gli altri; i restanti due terzi, al contrario, ha potuto rintracciarli molto “spesso” (40%), “a volte” (20%), “sempre” (6,6%).

    La maggioranza degli intervistati ha provato forti emozioni durante le riunioni del gruppo, un po’ meno frequente si è rivelata l’espressione delle proprie emozioni. Solo “a volte” si valuta che gli altri abbiano espresso le loro emozioni.

    Per ciò che concerne la modificazione delle proprie opinioni circa la tossicodipendenza – item inserito in considerazione della popolazione di riferimento – il 40% ritiene di averla sempre vissuta nell’ambito degli incontri di gruppo; le altre alternative sono state contrassegnate quasi in eguale misura dal restante 60%. Ci sembra, dunque, che, come sostenuto da Rogers –

    31

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

    e confermato dai dati sperimentali di Dierik e Lietaer –, l’insight abbia un ruolo importante come fattore che facilita la crescita e il cambiamento.

    Riguardo l’ultima domanda, a risposta aperta, solo tre persone hanno apportato suggerimenti volti a migliorare la qualità e l’efficacia dell’esperienza di gruppo d’incontro. Una proposta riguarda il setting: riunirsi in una stanza più grande e accogliente. Essa conferma – se ce ne fosse bisogno – l’importanza che anche elementi che potrebbero sembrare secondari, come lo spazio utilizzato, gli arredi ecc., rivestono ai fini di un efficace processo di gruppo e, quindi, di un efficace processo individuale di crescita e di cambiamento. Una seconda rivela la necessità di aumentare il numero degli incontri settimanali (sono già due!) e la durata di ogni riunione (attualmente un’ora e trenta minuti). Questa è comprensibilissima, considerato che i partecipanti vivono una situazione di quasi totale inattività, con vissuti di noia e di inutilità anche molto profondi. L’ultima proposta riguarda il trattamento in generale: affiancare alle riunioni di gruppo altre attività trattamentali per poter meglio conoscersi e stilare il proprio “progetto di vita”.

    32

  • ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001

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    34

    Il gruppo d’incontro: stimolo psicologico�alla crescitaFondamenti storico-concettualiIl gruppo d’incontro: caratteristiche e finalitàFattori facilitanti la crescitaLe teorie di YalomCarl Rogers e i fattori facilitanti il cambiamentoRogers e Yalom: esperienze a confrontoUno studio sistematicoUn’altra esperienza a confronto

    L’esperienza di “incontro” in un contesto carcerarioLa corniceIl contestoI tossicodipendentiLe maschere

    Il quadro: i gruppi d’incontro

    I fattori facilitanti: l’opinione dei partecipantiFinalitàIl questionarioI risultatiSviluppa le capacità di socializzazioneSollecita l’apprendimento interpersonaleInsight

    Commenti e conclusioni

    Bibliografia