introduzione: cambiamento e continuità, potere e creatività
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Introduzione: cambiamento e continuità, potere e creatività■ Una panoramica su alcuni cambiamenti – L’importanza della continuità
■ Perché le industrie culturali sono importanti?
Le industrie culturali producono e mettono in circolazione testi
Le industrie culturali organizzano e mettono in circolazione la creatività
Le industrie culturali sono fattori di cambiamento economico, sociale e culturale
■ Schema dell’esposizione
■ Questioni di definizione
■ Termini alternativi
■ Dall’industria culturale alle industrie culturali
■ Le industrie produttrici di testi: tratti distintivi
Attività rischiosa
Creatività vs. commercio
Alti costi di produzione, bassi costi di riproduzione
Beni semi-pubblici: il bisogno di creare scarsità
Compensazione di mancati successi mediante creazione di repertori
Concentrazione, integrazione e aggregazione della pubblicità
Scarsità indotta artificialmente
Ricorso ai format: star, generi e serializzazione
Controllo debole sui creatori di prodotti culturali, controllo forte
sulla distribuzione e sul marketing
■ L’autore al lettore
2 LE INDUSTRIE CULTURALI
Una panoramica su alcuni cambiamentiL’importanza della continuità
Quasi tutti i commentatori convengono sul fatto che le industrie culturali hanno
subito, a partire dai primi anni Ottanta, modificazioni di rilievo. Si elencano qui
alcune delle più importanti trasformazioni di cui si tratterà in seguito.
• In molti paesi e in larga parte del mondo, le industrie culturali si sono progres-
sivamente avvicinate al centro della scena economica. Le società che operano
nell’industria culturale non possono più essere considerate secondarie rispetto
all’economia «reale», in cui sono prodotti beni durevoli e «utili». Alcune di
queste società sono oggi imprese globali di grandi dimensioni, annoverate fra le
più discusse e criticate aziende del pianeta.
• Proprietà e organizzazione delle industrie culturali sono radicalmente mutate. Le
società più grandi non sono più specializzate in un singolo ambito dell’industria
culturale – cinema, editoria, televisione o musica; operano invece trasversalmente
in numerose, differenti industrie culturali. Vero è che queste conglomerate media-
li sono in concorrenza, ma, oggi più che mai, sono connesse – tra loro e con altre
industrie – a formare reti complesse di alleanze, partnership e joint venture.
• Ciò nonostante, un numero crescente di piccole e medie imprese è attivo nel-
l’economia della cultura, mentre contemporaneamente aumenta la complessità
delle relazioni tra grandi, medie e piccole società.
• I prodotti culturali circolano in misura crescente al di là dei confini nazionali. Si
può rilevare un flusso senza precedenti di prestiti e adattamenti di immagini,
suoni e narrazioni; il che produce certo nuovi ibridi, ma ribadisce anche, in talu-
ni casi, il valore dell’autenticità culturale. La prolungata egemonia degli Stati
Uniti nella distribuzione culturale parrebbe in calo.
• Si è verificata una notevole proliferazione di nuove tecnologie comunicative,
segnatamente di Internet, e di nuove applicazioni delle tecnologie preesistenti.
• Il modo in cui le industrie culturali concepiscono le loro audience sta cambian-
do. Si attribuisce maggiore importanza alla ricerca sull’audience, al marketing e
alla conquista di pubblico di nicchia.
• La politica culturale e la relativa regolamentazione hanno subito trasformazio-
ni rilevanti. Tradizioni consolidate in materia di proprietà pubblica e regolamen-
tazione sono state smantellate. Decisioni strategiche importanti vengono assun-
te in misura crescente a livello internazionale. Al tempo stesso, le industrie cul-
turali hanno acquisito maggior peso nelle politiche urbane e sociali locali, come
mezzi per rilanciare l’economia e acquisire vantaggi competitivi su altre città e
regioni.
• Si è verificato un forte incremento nelle somme di denaro che le industrie desti-
nano alla pubblicità. Ciò ha contribuito ad alimentare la straordinaria crescita
delle industrie culturali.
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 3
• I gusti e le abitudini culturali delle audience sono divenuti più complessi. La
produzione e il consumo di testi, così come l’obsolescenza dei gusti e delle
mode, si sono fatti più rapidi.
• I testi1 (secondo chi scrive, il miglior termine disponibile per designare l’insie-
me delle «opere» prodotte dalle industrie culturali: programmi televisivi, film,
riproduzioni audio, libri, fumetti, immagini, periodici, quotidiani ecc.) hanno
subito trasformazioni radicali. Si è verificata una crescente infiltrazione di mate-
riali promozionali e pubblicitari in domini precedentemente protetti: ciò vale
particolarmente per le televisioni europee, ma anche per un buon numero di
altre industrie culturali. Vi sono sempre più prodotti di ogni tipo, disseminati su
un più ampio spettro di generi e un più ampio spettro di forme di attività cul-
turale. Diverse forme di autorità culturale sono in misura crescente oggetto di
critica e satira.
È tuttavia da chiedersi se, e in quale misura, siffatti cambiamenti nelle industrie
culturali costituiscano davvero trasformazioni importanti ed epocali del modo in
cui la cultura viene prodotta e consumata. Dopo tutto, in concomitanza con tali
cambiamenti, sussistono molte importanti continuità, che potrebbero essere oscu-
rate da un eccesso di enfasi sul cambiamento. Per esempio, la televisione continua
a giocare un ruolo significativo nella vita quotidiana come fonte di informazione e
di intrattenimento; le star rimangono il principale meccanismo mediante il quale
le società operanti nell’industria culturale promuovono i loro prodotti; gli Stati
Uniti sono ancora percepiti, in tutto il mondo, come il centro planetario della cul-
tura popolare; il copyright rimane essenziale per la comprensione delle industrie
culturali. Poiché tali continuità sono frammiste ai cambiamenti appena menziona-
ti, si farà d’ora in poi riferimento alle diverse modalità di cambiamento/continuità
nelle industrie culturali. Questo problema – l’interconnessione di cambiamento e
continuità – è il tema centrale del libro.
Perché le industrie culturali sono importanti?
Le industrie culturali producono e mettono in circolazione testi
Più di altri tipi di produzione, le industrie culturali partecipano alla produzione e
alla distribuzione di prodotti – vale a dire di testi – che influenzano la nostra com-
prensione del mondo. La discussione sulla natura e la portata di tale influenza
costituisce «il nucleo contestato della ricerca sui mezzi di comunicazione», per
riprendere qui una preziosa messa a punto concettuale (Corner 2000, p. 376). I
migliori contributi a tale discussione sostengono la natura complessa, negoziata e
1 Nel libro, si ricorrerà al corsivo in grassetto per indicare i concetti-chiave presenti nel glossario,al grassetto per evidenziare asserzioni–chiave e al semplice corsivo per i titoli e per i termini cuisi intende dare risalto.
4 LE INDUSTRIE CULTURALI
spesso indiretta dell’influenza esercitata dai mezzi di comunicazione, ma non
lasciano adito a dubbi su un punto: essi la esercitano effettivamente. Siamo
influenzati da testi informativi come i quotidiani, i telegiornali, i documentari e i
saggi, ma anche dall’intrattenimento. I film, come le serie televisive, i fumetti, la
musica e i videogame forniscono continue rappresentazioni del mondo, e agisco-
no pertanto come una sorta di resoconto su di esso. In modo altrettanto decisivo,
essi sfruttano e contribuiscono a formare la nostra vita interiore, privata, e il nostro
sé pubblico: le nostre fantasie, emozioni e identità. Contribuiscono fortemente al
nostro senso di identità e di che cosa significhi essere donna o uomo, africano o
arabo, canadese o newyorchese, eterosessuale o omosessuale. Per queste semplici
ragioni, i prodotti dell’industria culturale sono ben più di un mero passatempo –
un semplice diversivo rispetto a cose diverse e più importanti. Ugualmente, la
notevole quantità di tempo spesa nella fruizione, seppur distratta, di questi testi, è
sufficiente a rendere le industrie culturali un fattore importante delle nostre vite.
Pertanto, lo studio delle industrie culturali ci può aiutare a capire come i testi
assumano la forma che hanno, e come essi siano giunti a occupare un ruolo così
centrale nelle società contemporanee. È rilevante osservare come la maggior parte
dei testi che consumiamo sia messa in circolazione da potenti corporation. Queste
corporation, come ogni impresa, sono interessate a realizzare profitti e tendono a
promuovere le condizioni affinché le imprese in generale – in particolare le loro –
possano realizzare grandi profitti. Il che solleva un problema decisivo: le industrie
culturali sono in ultima istanza al servizio degli interessi dei loro proprietari, dei
loro amministratori, dei loro alleati politici ed economici?
Si devono assolutamente evitare risposte semplicistiche a questo problema cru-
ciale. Nel corso di questo studio, si sosterrà una concezione delle industrie cultu-
rali – e dei testi che esse producono – come complesse, ambivalenti e contraddit-
torie. (Alcune importanti e prestigiose analisi delle industrie culturali hanno sot-
tovalutato tali aspetti: a questo riguardo si veda il Capitolo 1). In società nelle quali
le industrie culturali rappresentano un grosso business, le imprese operanti nell’in-
dustria culturale tendono a favorire le condizioni in cui grandi gruppi industriali e
i loro alleati politici possono realizzare profitti: condizioni che includono una
costante domanda di nuovi prodotti, una regolamentazione minima da parte dello
Stato eccettuata una generica legislazione sulla concorrenza, una relativa stabilità
politica ed economica, una forza-lavoro motivata a lavorare sodo. Tuttavia, nelle
società contemporanee, molti dei testi prodotti e distribuiti dalle industrie cultura-
li non favoriscono univocamente tali condizioni. Molto spesso, non solo occasio-
nalmente, essi tendono a orientare le loro audience verso modi di pensare che non
coincidono con gli interessi del capitale, come per esempio della dominanza strut-
turale del maschio sulla donna o del razzismo istituzionalizzato (il tema sarà ulte-
riormente trattato nel Capitolo 2).
Se ciò è vero, perché accade? In parte, per il semplice motivo economico che le
industrie culturali devono competere e difendere le condizioni generali dell’accu-
mulazione, e pertanto tendono a superarsi a vicenda soddisfacendo la domanda
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 5
dell’audience anche per ciò che è scandaloso, blasfemo e ribelle. In parte, a causa
di fattori socio-culturali profondamente interiorizzati in molte società, relativi a
quel che ci si attende dall’arte e dallo spettacolo. Il che ci conduce alla seconda tesi
in ordine d’importanza esposta in questo libro, e a un ambito che è stato trascura-
to nella discussione, accademica e pubblica, degli ultimi anni.
Le industrie culturali organizzano e mettono in circolazionela creatività
Le industrie culturali si occupano essenzialmente dell’organizzazione e della vendi-
ta di un particolare tipo di lavoro. Fin dal Rinascimento – e soprattutto dal
Romanticismo del XIX secolo – si è largamente affermata la tendenza a pensare
l’«arte» come una delle massime forme di creatività umana. Sociologi e marxisti
hanno sostenuto, per contro, che il lavoro artistico non è molto diverso da ogni
altro tipo di lavoro, in quanto entrambi sono finalizzati alla produzione di oggetti o
di esperienze (Wolff 1993, fornisce, nel primo capitolo, un’ottima sintesi del dibat-
tito). È una concezione importante per contrastare l’idea che gli «artisti» siano
diversi dal resto dell’umanità, che siano dotati di una forma speciale, mistica, di
creatività. Nondimeno, nell’area di creatività, spesso detta «arte», v’è un nucleo
distintivo. L’invenzione e/o l’esecuzione di storie, canzoni, immagini, poemi, motti
di spirito ecc., in qualsivoglia forma tecnologica, comporta uno specifico tipo di
creatività: la manipolazione di simboli allo scopo di intrattenere, informare e, forse,
anche “illuminare”. Anziché il termine «arte», con le sue connotazioni di genialità
individuale e ispirazione mistica, si preferisce qui usare la più ingombrante espres-
sione creatività simbolica2 e, anziché «artisti», l’espressione creatori di testi3 per
quanti inventano, interpretano o rielaborano storie, canzoni, immagini4 ecc.
I creatori di testi sono stati quasi totalmente ignorati nelle recenti teorizzazioni
delle industrie culturali, per via di una comprensibile, ancorché eccessiva, reazione
al feticismo dell’«eccezionalità» del lavoro artistico. Per molti anni, negli studi cul-
turali e in quelli sui media, questa reazione ha assunto la forma di un’accentuazio-
ne della creatività dell’audience e di quanti non operano professionalmente come
creatori di testi. Negli anni Novanta, tuttavia, un certo numero di studiosi ha inizia-
to a riportare l’attenzione sui creatori di testi (Born 1993a, 1993b; McRobbie 1998;
2 Il termine è dovuto a Willis (1990), dalla cui accezione tuttavia ci si discosta: laddove egli sioccupa della creatività dei giovani come consumatori, ci si concentra qui sulla creatività simbo-lica industrializzata.
3 (N.d.C.) L’espressione originale usata da Hesmondhalgh in questo contesto è “symbolic crea-tors”. Poiché una traduzione italiana letterale di questo concetto si è rivelata inefficace, si è pre-ferito adottare l’idea di “creatore di testi” o di “creatore/ideatore di prodotti culturali” comealternativa al concetto di artista, poiché i prodotti dell’industria culturale sono in effetti identi-ficati dall’autore come “testi” (Cfr. ad esempio il Capitolo 10).
4 Secondo il mio uso del termine, i giornalisti e quanti operano nei settori più orientati all’infor-mazione delle industrie culturali sono anch’essi creatori di testi. Gli studi sul giornalismo van-tano una lunga e gloriosa tradizione nel richiamare l’attenzione sui creatori di testi per eccel-lenza – vale a dire i giornalisti.
6 LE INDUSTRIE CULTURALI
Toynbee 2000). Dopo tutto, essi sono i principali operatori nella produzione di pro-
dotti culturali. I testi, per definizione, non esistono senza di loro, benché essi, per
converso, dipendano da sistemi industriali quanto a riproduzione, distribuzione,
promozione e remunerazione del lavoro, ma ciò non significa che si debba esaltare
romanticamente il lavoro di tutti i musicisti, sceneggiatori, registi ecc. In conclusio-
ne, l’interesse che qui si indirizza ai creatori di testi deriva, come quello che ha
mosso le indagini di Born, McRobbie e Toynbee, dalla percezione che la creatività
simbolica può arricchire la vita quotidiana, anche se spesso ciò non accade.
Altri filoni di studio si sono concentrati su ideatori di prodotti culturali particolar-
mente ricchi di talento o celebrati, facendo talvolta appena menzione dei mezzi con
cui autori, musicisti ecc. hanno raggiunto il loro pubblico. Alcuni di questi studi sfo-
ciano in una devota, compiacente celebrazione dei risultati della civiltà occidentale
(Clark 1969). I lavori di Raymond Williams (1981) e Pierre Bourdieu (1996), tra gli
altri, suggeriscono modi migliori di storicizzare la creatività simbolica, mostrando
come essa sia stata una presenza quasi costante nella storia dell’umanità, benché la
sua organizzazione e circolazione abbiano assunto forme altamente differenziate in
società differenti. In Europa, per esempio, talune forme di mecenatismo diedero ori-
gine, nel corso dell’Ottocento, all’organizzazione di mercato della creatività simboli-
ca. Fu in quel momento che le industrie culturali cominciarono a emergere. Dai
primi del Novecento, l’organizzazione del mercato ha cominciato ad assumere forme
nuove e complesse (Capitolo 2). L’indagine sui cambiamenti nelle industrie cultura-
li ci permette di riflettere su come la creatività simbolica sia stata organizzata e messa
in circolazione nel nostro tempo e sui modi in cui ciò potrebbe cambiare.
Ma vorremmo ancora insistere sulla natura fondamentalmente ambivalente delle
industrie culturali. Il modo in cui esse organizzano e fanno circolare la creatività sim-
bolica rispecchia le acutissime disuguaglianze e ingiustizie visibili nelle società capi-
talistiche contemporanee (divisioni di classe, genere, etnia e d’altro tipo). Esistono
profonde disparità d’accesso alle industrie culturali. Quanti ottengono l’accesso sono
spesso trattati in modo indegno, e molti di coloro che vogliono creare testi lottano
per un salario indecoroso. Il fallimento è di gran lunga più frequente del successo.
Forti pressioni spingono alla produzione di certi tipi di testi anziché di altri, ed è dif-
ficile ottenere informazioni circa l’esistenza di organizzazioni e testi che seguano vie
divergenti. Alcuni tipi di testi sono resi più disponibili di altri. Questi sono gli aspet-
ti oscuri nel paesaggio dell’industria culturale; ma poiché la creatività simbolica, ori-
ginale e distintiva, è altamente apprezzata, e le industrie culturali non la possono mai
controllare interamente, proprietari e dirigenti elargiscono concessioni ai creatori e
agli ideatori di prodotti culturali, garantendo loro un’autonomia (autodeterminazio-
ne) molto superiore a quella goduta da produttori di pari status in altre industrie, e
dalla maggior parte dei produttori nella storia. Paradossalmente, tale libertà – in fin
dei conti limitata e provvisoria – può quindi operare come forma di controllo, man-
tenendo desiderabili lavori precari e mal retribuiti. Tuttavia, può anche aiutare a
spiegare l’ambivalenza dei testi cui già si è fatto riferimento.
Le società operanti nell’industria culturale devono affrontare anche un’altra dif-
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 7
ficoltà: trovare un’audience per i testi prodotti. Di norma, il problema non è quel-
lo di massimizzare l’audience per un prodotto: gruppi diversi tendono a sviluppa-
re gusti diversi, sicché gran parte del compito delle società operanti nell’industria
culturale consiste nell’adattare i testi alle audience, nel trovare i modi appropriati
per far circolare i testi in quelle audience e nel rendere nota alle audience l’esisten-
za di quei testi. Come si vedrà, è un business ad alto rischio. Molti testi si rivelano
insuccessi – anche quelli da cui le società si attendevano il contrario. La risultante
di tali processi è che le aziende esercitano un controllo molto più stretto sulla cir-
colazione che non sulla produzione dei testi.
L’importanza della creatività simbolica spiega perchè questo libro si concentra
prevalentemente sulle modalità di cambiamento/continuità nelle industrie cultu-
rali anziché, per esempio, di cambiamento/continuità nei testi prodotti da tali
industrie, o sul modo in cui le audience comprendono i testi. Come dovrebbe esse-
re ormai chiaro, ciò non significa che qui ci si limiti a considerare le industrie cul-
turali come sistemi produttivi; l’interesse fondamentale va alle relazioni tra siste-
mi produttivi e testi. Ma poiché chiunque scriva, dati i limiti di tempo e di ener-
gia, deve decidere a che cosa rivolgere prioritariamente la propria attenzione, l’in-
teresse primario del nostro libro – anziché andare ai testi e, solo secondariamente
e di riflesso, alle industrie – si focalizzerà sulle industrie culturali.
Le industrie culturali sono fattori di cambiamento economico, sociale e culturale
Il terzo e ultimo motivo che giustifica una ricerca sul cambiamento e la continuità
nelle industrie culturali, dipende dal fatto che esse sono fonti sempre più importan-
ti di profitto e occupazione in molte economie. Quantificare tale importanza è diffi-
cile, ed esistono controversie, raramente utili e spesso noiose, sul miglior modo di
calcolarla (Capitolo 6). Molto dipende dalla definizione che si dà delle industrie cul-
turali – e che vedremo più avanti in questa Introduzione. Pare corretto assumere,
tuttavia, che il peso economico della produzione culturale è in aumento, ancorché
non tanto o tanto rapidamente come sostenuto da commentatori e vertici strategici.
Che le industrie culturali possano produrre maggior ricchezza e occupazione è
un fatto significativo in sé; esso ha inoltre conseguenze sul modo in cui compren-
diamo i rapporti tra cultura, società ed economia. Molte delle discussioni più
importanti dell’ultimo trentennio circa tali rapporti si sono concentrate su quelle
che si potrebbero chiamare «teorie della transizione». Le società industriali si sono
effettivamente trasformate in società postindustriali o dell’informazione, basate su
una valorizzazione più che mai spinta della conoscenza? Si tratta di un orienta-
mento introdotto negli anni Sessanta e Settanta, fra gli altri, dagli studi di Daniel
Bell (ad esempio, Bell 1974), e proseguito negli Ottanta e Novanta da studiosi
come Manuel Castells (1989, 1996). È vero che le nostre società si sono trasforma-
te da «moderne», con più accentuati tratti di effimero, frammentario e transitorio,
a una condizione che si potrebbe meglio caratterizzare come «postmoderna», in
8 LE INDUSTRIE CULTURALI
cui quei tratti si accentuano al punto che razionalità e significato paiono implode-
re (Harvey 1989; Lyotard 1984)? In un resoconto della discussione, alcuni autori
(segnatamente Castells 1996; Lash e Urry 1994) hanno ipotizzato che la creatività
simbolica e/o l’informazione vadano assumendo un ruolo sempre più nodale nella
vita economica e sociale. Un importante corollario, esplicitato più ampiamente da
Lash e Urry che non da Castells, era che le industrie culturali avrebbero perciò for-
nito modelli sempre migliori per la comprensione delle trasformazioni sopravve-
nute in altre industrie. Altri sostenevano, per contro, che le industrie culturali si
andassero assimilando alle altre industrie, perdendo quindi le loro specificità eco-
nomiche settoriali (Padioleau 1987).
Sul finire dei Novanta, la nascita di Internet e del World Wide Web diede ulte-
riore impulso a questa discussione. Analisti d’impresa e del management ripresero
i temi enucleati dagli accademici, valorizzando sempre più i valori immateriali,
soprattutto i valori del brand (una versione divulgativa è in Wolf 1999). La marca
può essere valorizzata solo mediante massicci interventi sul nome dei prodotti e sul
logo, oltre che sul modo in cui essi vengono rappresentati e messi in circolazione.
Società operanti nell’industria culturale, come Disney, vista la loro esperienza nella
valorizzazione del brand (in un certo senso, ogni film, ogni star, ogni libro costitui-
scono in qualche misura un brand) erano spesso menzionate insieme a società
come Nike, e a marchi più tradizionali come Coca-Cola, tra i leader del settore.
Quello del marchio, tuttavia, era solo un aspetto dell’incessante ritornello sul
ruolo crescente dell’informazione, della cultura e della conoscenza nelle economie
moderne. Vi fu un profluvio quasi inarrestabile di saggi sul «mondo senza peso»
(Coyle 1999) o su come, nella futura economia della conoscenza, saremmo vissu-
ti di «aria rarefatta» (Leadbeater 2000) anziché di beni materiali. Parallelamente,
negli Stati Uniti in particolare, fu tributata enorme attenzione alla «nuova econo-
mia» (per un riesame critico, Henwood 2003), in cui il tradizionale ciclo economi-
co di espansione e di frenata sarebbe stato sostituito da una crescita continua. Le
tecnologie della comunicazione, i marchi, l’informazione e la cultura erano visti
tutti come elementi nodali della nuova configurazione. Nei primi anni del XXI
secolo, tali concetti sono stati associati sempre più a un concetto nuovo, diretta-
mente rilevante per ciò di cui tratta questo libro: la cosiddetta «economia creati-
va» (Howkins 2001)5.
Sarebbe un grave errore credere che, con l’esplosione della cosiddetta «bolla
dot.com» nel 2000-2001, tali idee siano tramontate. Certo, il linguaggio della lette-
ratura divulgativa non è oggi più millenaristico com’era sul finire del XX secolo, ma
riformulazioni dell’idea che viviamo in società ed economie basate sull’informazio-
ne, la conoscenza e la cultura hanno seguitato a proliferare in periodici influenti e
largamente diffusi come Wired e Newsweek. Quest’ultimo, per esempio, nel 2006 ha
5 Nel Capitolo 5 si discuterà ampiamente l’assunto che la «creatività» sia diventata sempre più
rilevante nelle economie e nelle società moderne. Mosco ha elaborato un’analisi estremamen-
te accurata dei modi in cui i computer e il cyberspazio hanno contribuito a tale pensiero «miti-
co» dell’economia e della società del futuro (Mosco 2004).
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 9
dedicato il consueto numero speciale sulle previsioni per l’anno nuovo alla «rivo-
luzione della conoscenza», con ampi dibattiti sulla nuova, magica parola «creati-
vità» (Florida 2002 e 2005). Studiosi, nel frattempo, sostenevano che la creatività
«sarà il pilota del cambiamento sociale ed economico nel secolo venturo» (Hartley,
2005, p. 1). Se è vero che le industrie culturali hanno un ruolo centrale in tali ipo-
tetiche transizioni – verso la società dell’informazione o della conoscenza, verso
economie basate sui marchi, sui segni e i significati, sulla creatività – sorprende la
rarità di analisi sistematiche e storicamente documentate dei cambiamenti in dette
industrie, condotte da quanti hanno partecipato alle discussioni. Analisi del genere
potrebbero contribuire alla chiarificazione delle nozioni qui menzionate, e del pos-
sibile eccesso d’enfasi sul cambiamento a scapito della continuità.
Schema dell’esposizione
In relazione alle modalità di cambiamento/continuità nelle industrie culturali, due
problemi paiono rivestire importanza cruciale; entrambi ne comportano di ulterio-
ri, con una serie di questioni a loro volta importanti. In primo luogo, com’è possi-
bile spiegare tali modalità? Quali forze hanno spinto al cambiamento e garantito
la continuità? Quali gruppi hanno assunto le decisioni chiave nel determinare
nuove modalità di cambiamento/continuità? Di quali interessi erano portatori?
In secondo luogo, com’è possibile valutare il cambiamento e la continuità? Ciò
implica due ulteriori passi: la considerazione dell’entità del cambiamento e la sua
misurazione. Quali fenomeni costituiscono le trasformazioni fondamentali nella
produzione culturale, e quali invece sono semplici cambiamenti di superficie? Su
quali principi politici ed etici ci possiamo basare per stabilire gli aspetti positivi e
negativi del modo in cui le industrie culturali sono strutturate, governate e orga-
nizzate sul finire del XX secolo e agli inizi del XXI?
Nel prosieguo dell’Introduzione si abbozza la definizione operativa delle industrie
culturali cui ci si atterrà nel corso della trattazione. Vi si spiega quindi l’etimologia
del termine e le ragioni che inducono a preferirlo rispetto a termini alternativi, enu-
cleando i tratti distintivi delle industrie culturali. Tali tratti sono importanti per gli
sviluppi successivi, in quanto concorrono a spiegare i cambiamenti e le continuità
nel modo in cui le industrie culturali sono strutturate, organizzate e governate.
La Parte Prima, che segue l’Introduzione, consta di tre capitoli che definiscono
i riferimenti analitici del libro e tratteggiano la storia del cambiamento e della con-
tinuità nelle industrie culturali dal 1980. Il Capitolo 1 prepara il terreno alla valu-
tazione e alla spiegazione, considerando i principali approcci all’industria cultura-
le. Esso propone un approccio basato su un tipo particolare di spiegazione in ter-
mini di economia politica e, insieme, sulla tradizione prevalentemente europea
degli studi sulle industrie culturali (anziché sulla tradizione americana che viene
spesso identificata con l’economia politica). Si sottolinea inoltre l’importanza dei
contributi della sociologia della cultura e degli studi sulle comunicazioni di matri-
10 LE INDUSTRIE CULTURALI
ce liberal-pluralistica allo studio delle industrie culturali, ma al contempo se ne
evidenziano alcuni limiti. L’assunto è che i migliori contributi forniti dagli studi
culturali siano potenzialmente compatibili con le migliori interpretazioni fondate
sull’economia politica. Benché il capitolo possa essere tralasciato da lettori privi di
interesse per le questioni accademiche, esso introduce alcune importanti categorie
a sostegno delle analisi e delle tesi esposte in seguito.
Il Capitolo 2 è nodale, in quanto tratta del modo in cui si possono valutare le
modalità di cambiamento/continuità nelle industrie culturali. A tale scopo, esso
fornisce una sintesi degli aspetti chiave di quella che, parafrasando Raymond
Williams, si può definire l’epoca professionale complessa della produzione cultu-
rale. Tale forma altamente professionalizzata di produzione ha visto la luce nelle
società industriali avanzate degli inizi del XX secolo e, dalla metà del secolo, è dive-
nuta dominante.
Gli aspetti chiave sono discussi utilizzando le seguenti categorie:
• il ruolo complessivo della produzione culturale nelle economie e nelle società
(incluso il processo di lungo periodo di mercificazione della cultura)
• la proprietà e la struttura delle imprese operanti nell’industria culturale
• l’organizzazione della produzione (inclusi i problemi dell’autonomia o dell’indi-
pendenza dei produttori creativi dal controllo commerciale e statale)
• la natura del lavoro culturale e della sua remunerazione
• l’internazionalizzazione della produzione culturale e l’egemonia ivi detenuta
dall’industria statunitense
• i cambiamenti testuali.
La discussione di ciascun aspetto suscita due tipi di problemi. Il primo riguarda
l’entità dei cambiamenti sopravvenuti dal 1980. Un obiettivo essenziale del libro è
stabilire se i cambiamenti avvenuti a partire da quella data abbiano significato la
nascita di un’epoca del tutto nuova nella produzione culturale, oppure se essi
costituiscano modificazioni interne all’epoca professionale complessa e pertanto un
insieme di trasformazioni limitate ancorché potenzialmente significative. Il secon-
do riguarda la misurazione dei cambiamenti e delle continuità. Viene delineato un
insieme di criteri normativi del perché si valutino importanti le industrie cultura-
li, dipendente dall’esame delle interpretazioni abbozzate nel Capitolo 1 e dallo
schema reperibile nell’Introduzione.
Il Capitolo 3 discute di come sia possibile spiegare il cambiamento, valutando le
interpretazioni concorrenti che accentuano i fattori economici, politici, tecnologici
e socioculturali. Esso introduce alla vicenda dei recenti cambiamenti/continuità
nelle industrie culturali esaminando come un certo numero di tali fattori abbiano
interagito nel determinare una crisi economica, politica e culturale nelle società
occidentali dei tardi anni Sessanta e Settanta. Si sostiene qui che tali crisi intercon-
nesse abbiano dato il via a molti dei cambiamenti strutturali discussi nel libro. La
«recessione» delle economie industriali avanzate a partire dai tardi Sessanta è un
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 11
contesto essenziale per comprendere sviluppi anche recentissimi. La crisi ha concor-
so a suscitare un’importante risposta politica e normativa che, in generale, coinci-
de sia con la nascita del neoliberismo sia, soprattutto per i settori dell’informazione
e della cultura, con la nascita del discorso sulla società dell’informazione. Tuttavia,
il capitolo sostiene anche la necessità di comprendere tre ulteriori forme di cambia-
mento che hanno guidato i mutamenti nella produzione e nel consumo culturale.
Si tratta dei cambiamenti avvenuti nella strategia commerciale, dei cambiamenti
socioculturali e testuali e dei cambiamenti tecnologici. Sottolineando tale moltepli-
cità di fattori si eviterà il pericolo di una visione riduzionista.
I Capitoli 4 e 5 costituiscono la Seconda Parte del libro. In essi, verranno deli-
neate le trasformazioni politiche fondamentali nel determinare alcuni dei cambia-
menti esaminati in seguito. Il Capitolo 4 analizza come i governi abbiano mutato
le politiche delle telecomunicazioni e del broadcasting tra gli anni Ottanta e gli
anni Novanta, incoraggiando lo sviluppo di industrie culturali commerciali me-
diante la privatizzazione di corporation pubbliche, nonché «allentando» la norma-
tiva in materia di mezzi di comunicazione e cultura. La storia della privatizzazione
e della deregulation suonerà familiare ad alcuni lettori. La spiegazione tentata qui
si discosta tuttavia da altre per l’accento posto sul contesto internazionale e per la
periodizzazione del cambiamento.
È possibile individuare quattro ondate sovrapposte di trasformazione nelle poli-
tiche della comunicazione attuate dai diversi governi nazionali:
• la prima negli Stati Uniti degli anni Ottanta
• la seconda in altri paesi industriali avanzati, dalla metà degli Ottanta alla metà
dei Novanta
• la terza nelle società di transizione dopo il 1989
• la quarta, che perdura tutt’oggi, e tocca contemporaneamente tutte le aree
menzionate, coinvolgendo la controversa convergenza delle industrie culturali
con i settori delle telecomunicazioni e dell’informatica.
Il Capitolo 5 tratta dei cambiamenti in altri due settori politicamente cruciali: la
politica culturale e le leggi sul copyright. Come già sottolineato, tali cambiamenti
politici sono stati un’importantissima base per altri cambiamenti. Essi rappresenta-
no mutamenti nel modo in cui creatività e produzione culturale sono concepite in
relazione al mercato e al capitale.
La Parte Terza si basa poi sui principi introdotti nella Parte Prima e Seconda per
esaminare i cambiamenti e le continuità nei diversi aspetti dell’epoca professiona-
le complessa della produzione culturale delineata nel Capitolo 2. I singoli capitoli
non si limitano a misurare l’entità dei cambiamenti, ma tentano di fornire criteri
di valutazione dei fatti.
Nel Capitolo 6, vengono presi in esame i cambiamenti e le continuità nella pro-
prietà e struttura d’impresa, e nella posizione delle industrie culturali all’interno
delle economie moderne. A seguito della recessione economica e della sua dure-
12 LE INDUSTRIE CULTURALI
vole influenza, le imprese operanti nell’industria culturale hanno adottato forme
differenziate di organizzazione societaria e di strategia organizzativa, per compete-
re efficacemente fra loro e con imprese operanti in altri settori. Le industrie cultu-
rali erano già tendenzialmente soggette al dominio di poche, potenti società; ten-
denza che si intensificherà tuttavia dopo il 1980. Esistono importanti cambiamen-
ti nelle conglomerate che dominano la produzione e la distribuzione di beni e ser-
vizi culturali: società indipendenti hanno seguitato a proliferare – e a fallire; si sono
stabilite nuove relazioni fra conglomerate e indipendenti. A questo punto, va
posto il problema della misura in cui le industrie culturali costituiscono una quota
importante delle economie nazionali e del mercato globale. Si sostiene qui la tesi
che la sempre maggior importanza assunta da tali industrie vada compresa come
una fase della mercificazione di lungo periodo della cultura. Le conseguenze ambi-
valenti di tutto ciò saranno tratteggiate in seguito.
Il Capitolo 7 tratta dei cambiamenti e delle continuità nell’organizzazione della
produzione e del lavoro culturale. Le interminabili dispute sulla prevenzione dei
rischi e l’organizzazione della creatività hanno ricevuto risposte nuove e significa-
tive a partire dagli anni Ottanta. Soprattutto, un’attenzione crescente si è concen-
trata sul marketing e le ricerche di mercato. Si sono verificati anche cambiamenti
significativi nella cornice e nelle condizioni del lavoro culturale. Questi cambia-
menti hanno rappresentato una svolta fondamentale nei rapporti sociali di produ-
zione culturale?
Uno dei modi più importanti in cui le imprese hanno tentato di competere nel
nuovo contesto di mercato creato dalla recessione e dal successivo declino e da sva-
riati cambiamenti socioculturali concomitanti, è stata l’internazionalizzazione delle
operazioni. Le conseguenze di ciò sono valutate nel Capitolo 8.
L’internazionalizzazione delle industrie culturali ha concorso alla produzione di
una maggiore complessità nei flussi internazionali di cultura, ma ha anche significa-
to una crescente presenza globale di grandi corporation. Pertanto, è necessario
domandarsi se si debba pensare alla recente internazionalizzazione delle industrie
culturali come a una nuova tappa dell’imperialismo culturale, oppure come a un
indice di un’inedita interconnessione globale dagli effetti potenzialmente democrati-
ci (in questo capitolo ci si chiede anche se il dualismo imperialismo–interconnessio-
ne sia un modo adeguato di porre problemi fondamentali).
Le imprese operanti nell’industria culturale hanno altresì tentato di competere
introducendo e utilizzando nuove tecnologie di comunicazione. Il Capitolo 9 si
concentra su quello che è generalmente accettato come lo sviluppo chiave dell’ul-
timo ventennio – la digitalizzazione. La digitalizzazione ha effettivamente determi-
nato una trasformazione radicale delle industrie culturali? Aspetti particolarmen-
te significativi della digitalizzazione sono la nascita di Internet e la televisione mul-
ticanale. La digitalizzazione è spesso menzionata come un fattore decisivo nella
trasformazione dell’organizzazione e della fruizione della produzione culturale. In
particolare, i discorsi sulla convergenza tra industrie culturali, telecomunicazioni e
informatica sono spesso basati su luoghi comuni, al punto da rasentare l’insignifi-
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 13
canza. Com’è possibile valutare gli effetti di Internet e della televisione digitale? In
quale misura le innovazioni hanno alterato i rapporti di potere finora prevalenti
nelle industrie culturali? Nel capitolo verranno altresì considerati i videogames
come nuovi media.
Il Capitolo 10 tratta degli effetti di tutte quelle modalità di cambiamento/conti-
nuità sul punto in cui, presumibilmente, le industrie culturali esercitano i più
profondi effetti sulla vita sociale e culturale: i testi. Come i testi prodotti dall’indu-
stria culturale e il loro consumo da parte delle audience sono (o non sono) cam-
biati in modo significativo tra gli anni Ottanta e i Novanta? In quali modi ciò ha
influenzato le istituzioni, le forme organizzative e l’economia delle industrie cul-
turali, o ne è stato influenzato? Saranno egualmente considerati tre importanti ma
complessi aspetti della valutazione dei testi: la loro diversità, la loro qualità e la
misura in cui essi servono gli interessi delle imprese operanti nell’industria cultu-
rale e dei loro alleati politici.
Infine, il capitolo conclusivo compendia le tesi avanzate nel libro e ne ribadisce
l’importanza per comprendere le mutevoli relazioni tra potere e giustizia sociale
nell’ambito della produzione culturale.
Questioni di definizione
Il termine «industrie culturali» presenta notevoli difficoltà di definizione. Se defi-
niamo la cultura, nella più vasta accezione antropologica, come «“il modo di vive-
re globale” di un popolo distinto o di un altro gruppo sociale» (Williams 1983, p.
19)6, è possibile sostenere che tutte le industrie sono industrie culturali, in quan-
to implicate nella produzione e nel consumo di cultura. Secondo questa definizio-
ne, infatti, gli abiti che indossiamo, il mobilio delle nostre case e dei luoghi di lavo-
ro, le automobili, i bus e i treni che usiamo per spostarci, il cibo e le bevande di cui
ci abbuffiamo fanno egualmente parte della nostra cultura, e sono quasi tutti pro-
dotti in modo industriale allo scopo di trarne profitto.
Tuttavia, va rilevato che un’accezione tanto estesa rischia di cancellare la diffe-
renza tra l’industria culturale e altre industrie. Il termine «industrie culturali» è
stato tendenzialmente impiegato in un’accezione assai più ristretta, implicitamente
basata su una definizione di cultura come «il sistema significante attraverso il quale
(sebbene in concomitanza con altri mezzi) un sistema sociale viene trasmesso,
riprodotto, sperimentato e esplorato» (Williams 1983, p. 21, corsivo dell’autore).
Semplificando, le industrie culturali sono state concepite abitualmente come quel-
le istituzioni (soprattutto imprese basate sul profitto, ma anche imprese pubbliche
e organizzazioni non-profit) che sono direttamente implicate nella produzione di
6 (N.d.C.) Qualora di un testo sia disponibile la traduzione italiana si farà riferimento a essa per le
citazioni. I riferimenti biblliografici completi dall’originale citato e della traduzione sono reperi-
bili nella sezione Riferimenti bibliografici.
14 LE INDUSTRIE CULTURALI
significati socialmente condivisi. Così, quasi tutte le definizioni di «industrie cultu-
rali» includeranno televisione (anche via cavo e satellite), radio, cinema, quotidia-
ni, periodici, case editrici, case discografiche, pubblicità e arti sceniche. Attività, in
definitiva, il cui scopo primario è comunicare con un’audience e creare testi.
Tutti i materiali culturali sono testi, nel senso che sono aperti all’interpretazio-
ne. Un’automobile, per esempio, ha un valore significante, e gran parte delle auto-
mobili presenti sul mercato implicano un design significativo e input di marketing.
Tuttavia, lo scopo primario delle automobili non è significare, bensì trasportare.
Ciò che definisce un testo è quindi questione di gradi, di equilibrio tra aspetti fun-
zionali e comunicativi (per una tesi analoga, Hirsch 1990/1972). Nei testi (canzo-
ni, narrazioni, performance) la significazione ha peso maggiore rispetto alla fun-
zionalità: essi sono concepiti innanzitutto in vista di uno scopo comunicativo. Il
box 0.1 presenta le principali industrie culturali, alla cui analisi questo libro si limi-
ta. Sono industrie culturali centrali perché hanno essenzialmente a che fare con
la produzione e la circolazione industriale di testi.
C’è un altro insieme di industrie culturali che si potrebbero definire «periferi-
che». Si tratta di industrie comunque importanti, e il termine non ha alcuna
intenzione di sminuire la creatività di quanti sono impegnati in quel lavoro. Al
pari delle industrie culturali centrali, le industrie più periferiche sono essenzial-
mente dedite alla produzione di testi. Ma la produzione impiega in questi casi
metodi semi-industriali o non industriali. Il teatro, per esempio, ha adottato solo
di recente quelle che si potrebbero definire forme industriali di produzione e
riproduzione (Capitolo 7). Produzione, esposizione e vendita di opere d’arte
(dipinti, installazioni, sculture) generano ogni anno enormi flussi di denaro e di
cronache, ma la riproduzione è limitata o non esiste affatto. L’industria della gra-
fica, ad esempio, limita artificialmente la riproduzione, e impiega procedimenti
laboriosi per aggiungere valore alle copie. In seguito ci riferiremo talora ad alcu-
ne di queste industrie, ma per rendere più leggibile il libro, ho preferito focaliz-
zarmi sulle principali industrie culturali elencate nel Box 0.1. È tuttavia impor-
tante osservare che le industrie centrali e quelle periferiche interagiscono signifi-
cativamente. Per esempio attori e scrittori possono lavorare tanto per la televisio-
ne quanto per il teatro, mentre le scuole d’arte formano artisti che si muovono
liberamente fra diverse forme di produzione commerciale, incluse la regia cine-
matografica, la pubblicità e la musica.
Come in ogni definizione di fenomeni complessi, vi sono parecchi casi-limite
significativi:
• Lo sport. Industrie come il calcio e il baseball programmano spettacoli dal vivo
che sono, sotto molti aspetti, estremamente simili al settore di intrattenimento
live delle industrie culturali. I consumatori pagano per essere intrattenuti in
diretta, in presenza di giocatori di grande talento (o di scarso talento, a secon-
da della squadra per cui uno tifa). Eppure, vi sono notevoli differenze rispetto
all’intrattenimento live delle industrie culturali. Lo sport è fondamentalmente
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 15
competitivo, laddove la creazione simbolica non lo è. I testi, nell’accezione che
qui si usa del termine, tendono a essere più sceneggiati, o quanto meno preor-
dinati, rispetto agli sport, che sono essenzialmente improvvisati sulla base di un
certo numero di regole di gioco7.
• Elettronica per il consumo/hardware dell’industria culturale. La realizzazione di un
programma televisivo dipende da un atto intenzionale di comunicazione cultu-
rale, e dovrebbe essere inclusa in qualsivoglia definizione dell’industria cultura-
le. Ma la fabbricazione di apparecchi televisivi fa parte dell’industria culturale?
Le industrie di elettronica per il consumo progettano e producono macchine
mediante le quali si fruiscono i testi. Tali industrie sono estremamente importan-
ti per la comprensione del cambiamento e della continuità nelle industrie cultu-
rali, poiché forniscono l’hardware attraverso il quale i testi sono riprodotti o tra-
smessi (hi-fi, apparecchi televisivi, lettori MP3 e DVD). Questi prodotti, assieme
ad altri beni (frigoriferi, forni a microonde), dipendono dall’input decisivo di
designer e di operai, spesso sottopagati, della catena di montaggio, ma non sono
centrati sulla produzione di beni primariamente simbolici al modo delle industrie
culturali. Essi escono dunque dalla definizione che qui si intende adottare.
• Software. L’industria del software presenta notevolissimi paralleli con le indu-
strie culturali. Squadre di creativi lavorano insieme per sperimentare e produr-
re risultati significativi, ma l’aspetto finale del software non assume forma di
testo. I suoi aspetti funzionali – svolgere certi compiti computerizzati – vanno
oltre le pur importantissime dimensioni estetiche della progettazione.
• Moda. La moda è un affascinante ibrido di industria culturale, nel senso qui
usato del termine. L’alto grado di equilibrio tra funzionalità e significazione la
rende un caso particolarmente complesso, reso ancor più interessante dalle spe-
cifiche forme organizzative (si veda l’importante contributo di McRobbie 1998).
Si potrebbe proseguire a lungo, trattando i casi-limite che hanno tratti comuni
alle industrie culturali, ma che sono in realtà sufficientemente distinti da richiede-
re uno studio separato. In ogni caso, la posizione qui espressa dovrebbe risultare
chiara: verranno prese in considerazione le industrie basate sulla produzione e cir-
colazione industriale di testi che dipendono fondamentalmente dal lavoro di crea-
tori e ideatori.
Per alcuni studiosi, la centralità attribuita alla creatività simbolica rappresenta
un problema. Keith Negus (2006, pp. 201-202) ha rivolto obiezioni all’impiego di
tale concetto come base definitoria delle industrie culturali, sostenendo che la
creatività e la circolazione di significati potenzialmente influenti sono caratteristi-
che della musica e della televisione quanto «della ristorazione, dell’attività banca-
ria, dell’industria del tabacco e delle assicurazioni». Negus ha ragione nel sostene-
re che le industrie culturali non sono l’unico luogo in cui si esplichi la creatività
simbolica, e si può convenire che gli operatori delle industrie culturali non vada-
7 Grazie a Jason Toynbee per avermi chiarito queste differenze.
16 LE INDUSTRIE CULTURALI
no mitizzati come individui eccezionali. Ed è certo vero che le sigarette così come
i conti in banca possiedono un significato culturale alla stregua di programmi tele-
visivi e canzoni. Tuttavia, attenuando le differenze, si perde qualche cosa di essen-
ziale. Per comprendere in modo adeguato la produzione culturale, dobbiamo pun-
tare sulla specificità delle industrie culturali. Il che significa valorizzare la differen-
8 Laddove il termine sembra designare la pubblicazione di spartiti, abbraccia invece un dominio
assai più ampio, che comprende la proprietà e il controllo dei diritti sulle composizioni musicali.
BOX 0.1 Le principali industrie culturali
Le industrie elencate operano essenzialmente nella produzione e nella circolazione industriale
di testi, e costituiscono pertanto quelle che, ai fini del libro, saranno individuate come le indu-
strie culturali centrali:
• broadcasting: le industrie radio-televisive, incluse le forme più recenti (tv via cavo, satellitare,
digitale)
• industrie cinematografiche: includono la diffusione di film in video, DVD e altri supporti, e la
loro messa in onda televisiva
• elementi di contenuto dell’industria di Internet: altri elementi fanno parte dell’industria dei
computer o delle telecomunicazioni
• industrie musicali: registrazione (che ovviamente include la registrazione di suoni non musi-
cali, ma è essenzialmente registrazione di musica), edizione8 ed esecuzione dal vivo
• editoria a stampa ed elettronica: include libri, CD-ROM, database online, servizi d’informazio-
ne, periodici e quotidiani
• videogame• pubblicità e marketing: a paragone di altre industrie culturali, i prodotti pubblicitari e di marke-
ting tendono ad aver maggior valenza funzionale, in quanto ideati per vendere e promuove-
re altri prodotti. Tuttavia, si basano sulla creazione di testi, e richiedono il lavoro di ideatori e
creativi (Capitolo 2 per una più approfondita disamina di come il marketing risponda ai crite-
ri definitori delle industrie culturali).
Tutte le industrie culturali centrali hanno dinamiche specifiche, che verranno discusse in capito-
li diversi del libro. Nondimeno, una delle conclusioni più importanti dell’elaborazione teorica
sulle «industrie culturali» è stata la scoperta delle loro complesse interazioni e interconnessioni.
Ciò dipende in larga misura dalla reciproca concorrenza per le stesse risorse. Le risorse più
importanti sono (Garnham 1990, p. 158):
• una quantità ristretta di reddito disponibile del consumatore
• una quantità limitata di entrate pubblicitarie
• un tempo limitato da dedicare alle attività di consumo
• forza-lavoro specializzata, sia creativa sia tecnica.
Vista la competizione per le stesse risorse, così come le loro comuni caratteristiche di produttri-
ci di testi, le industrie culturali possono essere considerate come un settore o un sistema arti-
colato di produzione (nelle analisi economiche e di mercato si discute circa l’espressione più
appropriata, ma il punto non è qui in questione). L’aspetto non è colto sempre chiaramente,
neppure dagli specialisti.
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 17
za tra attività strutturalmente connesse alla fabbricazione di prodotti che constano
prioritariamente di simboli, e attività sociali di altro genere. I banchieri, dopo tutto,
non somigliano ai musicisti.
Termini alternativi
«Industrie culturali» è indubbiamente termine controverso e difficile, la cui problema-
ticità, come si può evincere da quanto detto, discende da difficoltà nella definizione di
«cultura» (per tacere di «industria»). Considerati tutti i problemi di definizione, perché
non abbandonare semplicemente il termine «industrie culturali» per un termine alter-
nativo? Una certa gamma di possibilità pare offrirsi spontaneamente. Un libro sulle
«industrie dell’informazione» potrebbe trattare dell’industria culturale come di un
esempio parziale del crescente predominio dell’informazione nelle economie, società e
culture contemporanee9. Un libro dettagliato come The Leisure Industries (Roberts
2004), si occupa di sport e turismo oltre a quelle che qui si definiscono industrie cultu-
rali. Chi si occupa di analisi economico-finanziaria d’impresa ricorre spesso al termine
«industria dell’intrattenimento», specialmente negli Stati Uniti. I riferimenti alle indu-
strie culturali si intrecciano spesso con quelli alle «industrie dei mass media»: ma nep-
pure il concetto di mezzi di comunicazione di massa è scevro di problemi definitori.
Indubbiamente l’alternativa di gran lunga prevalente a «industrie culturali» è industrie
creative. Molti politici e taluni studiosi accademici si avvalgono attualmente del termi-
ne; il Capitolo 5 offre una panoramica su alcuni problemi connessi a esso, inclusa la
discussione degli aspetti in cui quelle che i politici etichettano come «industrie creative»
differiscono, in generale, da quelle etichettate come «industrie culturali».
Il tempo libero, l’informazione, l’intrattenimento, i mezzi di comunicazione sono
oggetti di trattazione in questo libro; tuttavia, il termine «industrie culturali» è qui
preferito alle alternative disponibili. Esso infatti non fa solo riferimento a un tipo di
attività industriale, bensì rimanda a una precisa tradizione di studi sulla predetta atti-
vità e sulle relazioni tra cultura ed economia, testi e industria, significato e funzione.
Dall’industria culturale alle industrie culturali
La storia del termine prende le mosse da un testo di Theodor W. Adorno e Max
Horkheimer, due filosofi tedeschi di origine ebraica, legati all’Institut für
Sozialforschung di Frankfurt, l’Istituto per la Ricerca Sociale o Scuola di Francofor-
9 Il termine «industria dell’informazione» era in auge nei tardi Ottanta e Novanta (Sadler 1997
offre un’interessante analisi dell’industria discografica come industria dell’informazione); tutta-
via, anche tra quanti lo impiegavano c’era chi (per esempio Wasko 1994) riconosceva come esso
relegasse al margine l’intrattenimento, nonché gli aspetti artistici, espressivi e culturali della
creazione di segni. Per una discussione delle relazioni tra informazione e cultura si rimanda a
Schiller 1994.
18 LE INDUSTRIE CULTURALI
te (Adorno e Horkheimer 1977/1944). Benché fosse stato impiegato anche prima,
il termine industria culturale è parte del titolo di un capitolo della loro Dialettica
dell’Illuminismo (Dialektik der Aufklärung), composta negli Stati Uniti nei primi anni
Quaranta, dopo l’esilio dalla Germania nazionalsocialista. Il libro scaturiva dalla
convinzione che la vita nella democrazia capitalistica statunitense fosse, per certi
aspetti, altrettanto vuota e superficiale della vita nella Germania da cui Adorno e
Horkheimer erano espatriati, ancorché non altrettanto brutale e tremenda.
“Industria culturale” era un concetto coniato per colpire. Adorno e Horkheimer,
come molti di coloro che hanno impiegato il termine «cultura» nel XIX e nel XX
secolo, identificavano il modello ideale della cultura con l’arte e con forme specia-
li, eccezionali, di creatività umana. Per loro, e per l’intera tradizione filosofica hege-
liana da cui provenivano, l’arte poteva agire come una forma di critica sul resto
della vita, e fornire una visione utopica di come sarebbe possibile una vita miglio-
re. Nella concezione di Adorno e Horkheimer, tuttavia, la cultura ha quasi comple-
tamente perduto la capacità di agire come critica utopica, giacché è mercificata –
qualcosa, cioè, che può essere comprato e venduto. Cultura e Industria sono pen-
sate, in quella concezione, come opposte; ma, nella moderna democrazia capitali-
stica, esse sono naufragate insieme. Di qui l’industria culturale10.
Nei tardi anni Sessanta divenne evidente che cultura, società e impresa si stava-
no intersecando in misura inedita, poiché le multinazionali investivano nel cine-
ma, nella televisione, nell’industria discografica, e tali concentrazioni assumevano
una crescente importanza sociale e politica. Adorno, Horkheimer e altri membri
vecchi e nuovi della Scuola di Francoforte, conquistarono una notorietà interna-
zionale quando studenti e intellettuali di sinistra ne ripresero le idee per interpre-
tare quelle trasformazioni. Il termine «industria culturale» divenne di largo impie-
go nelle polemiche contro le avvertibili limitazioni della moderna vita culturale.
Esso fu ripreso da alcuni sociologi francesi (soprattutto Morin 1962 Huet et al.
1978; Miège 1979), nonché da militanti e politici11, e venne trasformato in quello
di «industrie culturali».
Perché optare per la forma plurale anziché per quella singolare? La differenza è
rivelatrice, e più significativa di quanto possa apparire a prima vista. I sociologi
francesi che usavano «industrie culturali» respingevano l’uso al singolare di
Adorno e Horkheimer, giacché esso postulava un «campo unificato», in cui tutte
le molteplici forme di produzione culturale coesistenti nella modernità sono sup-
poste obbedire alla medesima logica. Il loro intento era invece di mostrare quanto
10 Steinert (2003, p. 9) chiarisce che Adorno e Horkheimer usavano il termine in due accezioni
distinte: «industria culturale» designava la «produzione di merci come principio di una forma
specifica di produzione culturale», mentre «l’industria culturale» designava un ramo specifico
di produzione.11 Il termine si diffuse internazionalmente nella sfera politica grazie alla mediazione dell’UNESCO.
Nel 1979-1980, l’UNESCO promosse un programma internazionale ad ampio raggio di ricerca
comparata sulle industrie culturali, che culminò nella conferenza di Montréal del giugno 1980,
i cui atti furono pubblicati in inglese dall’UNESCO nel 1992.
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 19
complesse siano le industrie culturali, e di individuare le differenti logiche in atto
nei diversi tipi di produzione culturale: per esempio come le industrie di broadca-
sting operino in modo estremamente diverso dai giornali o da industrie ispirate a
modelli di produzione «editoriali» o a stampa (Miège 1987). Di conseguenza, pre-
ferivano parlare di industries culturelles, al plurale12.
I sociologi delle industrie culturali respingevano l’approccio di Adorno e
Horkheimer anche per diversi, consistenti motivi, com’è stato chiarito dal più auto-
revole rappresentante della scuola francese, Bernard Miège, nella prefazione alla
traduzione inglese di una miscellanea dei suoi saggi (Miège 1989, pp. 9-12)13. In
primo luogo, essi ricusavano la nostalgia di Adorno e Horkheimer per le forme
preindustriali di produzione culturale. Seguendo altri critici della Scuola di
Francoforte, fra cui l’amico e contemporaneo di Adorno Walter Benjamin, Miège
argomentava che il passaggio della produzione culturale all’industrializzazione e alle
nuove tecnologie ha sì condotto a una crescente mercificazione, ma anche a nuovi,
stimolanti sviluppi e innovazioni. La mercificazione della cultura, pertanto, è pro-
cesso di gran lunga più ambivalente di quanto non concedesse il pessimismo cultu-
rale di Adorno e Horkheimer (come si vedrà nel prossimo capitolo, l’intuizione è
condivisa da alcuni approcci ispirati alla tradizione degli studi culturali). In secondo
luogo, anziché assumere il processo di mercificazione della cultura come lineare e
incontrastato, i sociologi delle industrie culturali hanno studiato la natura parziale e
incompleta dei tentativi di estendere all’ambito della cultura il modo di produzione
capitalistico. In altre parole, essi hanno concepito le industrie culturali come con-
tradditorie – un’area di conflitto permanente – laddove, in Adorno e Horkheimer,
domina l’impressione che la battaglia sia già stata perduta, che la cultura sia già stata
sussunta dal capitale e dal sistema astratto della «ragione strumentale».
Tali modificazioni delle tesi di Adorno e Horkheimer sull’industria culturale costitui-
scono autentici sviluppi. Non si tratta semplicemente di dimostrare che i due intellet-
tuali, scrivendo alla metà del XX secolo, sbagliavano. Adorno e Horkheimer sono
importanti per molte ragioni, compresa la formulazione di una versione assai interes-
sante e sofisticata di un modo di pensare ancora diffuso. Si possono spesso leggere o
ascoltare opinionisti di quotidiani che liquidano la cultura industrializzata come impo-
verita. Scrittori, insegnanti e studenti cadono spesso in preda a un pessimismo analo-
go a quello del capitolo sull’industria culturale della Dialektik der Aufklärung, anche
quando fruiscono e si sentono arricchiti da molti prodotti delle industrie culturali.
Adorno e Horkheimer formulano una versione più ricca e acuta rispetto alla visione
estremistico-pessimista dell’industrializzazione della cultura. Per Miège e altri, tuttavia,
anche la versione sofisticata del pessimismo culturale non coglie nel segno. Rifiutare
tale estremo pessimismo non significa celebrare compiacenti le industrie culturali esi-
12 Molti autori (per esempio, Lash e Urry 1994, e Garnham 2000 – ma non Garnham 1990) usano
il termine «industrie della cultura». La differenza è poco rilevante, ma si preferisce qui «indu-
strie culturali» poiché indica il superamento dell’approccio della Scuola di Francoforte.13 La mediocre edizione inglese costituisce la fonte principale per la conoscenza dei lavori della
scuola sociologica francese sulle industrie culturali. Si vedano anche Lacroix e Tremblay 1997.
20 LE INDUSTRIE CULTURALI
stenti. Le parole chiave sono, va ripetuto, complesse, ambivalenti e contraddittorie. Tali
termini guidano lo sforzo che si tenterà nel seguito di spiegare e valutare le industrie
culturali. L’uso del termine «industrie culturali» indica sia la consapevolezza dei pro-
blemi dell’industrializzazione della cultura, sia il rifiuto di banalizzarne valutazione e
spiegazione.
Industrie che producono testi: tratti distintivi
Alla luce dei lavori di Miège e altri (incluso soprattutto Garnham, 1990) è possibi-
le enucleare i tratti distintivi delle industrie culturali in relazione ad altre forme di
produzione capitalistica. Essi sono ricapitolati nel Box 0.214. I primi quattro tratti
consistono nei problemi specifici affrontati dalle industrie culturali, mentre i cin-
que successivi consistono nelle più comuni risposte, o tentativi di soluzione, ten-
tate dalle imprese operanti nell’industria culturale. Questi tratti distintivi hanno
implicazioni di rilievo per il resto del libro: essi aiutano a spiegare le strategie ricor-
renti nella gestione e organizzazione della produzione culturale da parte delle
società attive nell’industria culturale e a cogliere le costrizioni operanti su chi
intenda lavorare come creatore di testi o creare proprie organizzazioni culturali,
indipendenti e/o alternative. Offrono inoltre gli strumenti per capire le differenze
tra industrie culturali, poiché alcuni tratti sono più visibili in certe industrie che in
altre, ovvero gli stessi tratti assumono forme diverse.
Attività rischiosa
Tutte le attività industriali comportano un certo grado di rischio, ma le industrie
culturali sono un tipo di attività particolarmente rischiosa (come dimostra il titolo
del libro sull’industria cinematografica di Prindle 1993, probabilmente in omaggio
al divertente film del 1983 con Tom Cruise), poiché si basano sulla produzione di
testi da comprare e vendere. Per Garnham, influenzato da Bourdieu 1984, il
rischio dipende dal fatto che le audience usano le merci culturali in modi altamen-
te volatili e imprevedibili, spesso per esprimere la loro differenza rispetto agli altri
(Garnham 1990, p. 161)15. Ne risulta che oggetti o stili di moda, benché fortemen-
te commercializzati, possono improvvisamente venire percepiti come obsoleti; e
che, per converso, altri testi possano ottenere un successo imprevisto. Tali rischi,
che originano dal consumo e dai modi in cui le audience tendono a usare i testi,
14 Un certo numero di autori ha tentato di definire le caratteristiche delle industrie prioritariamen-
te impegnate nella produzione e circolazione di beni simbolici, pur senza impiegare il termine
«industrie culturali». Molte di esse sono in ultima analisi compatibili con i termini usati da
Garnham nel suo schema classico (notevoli gli esempi offerti da Caves 2000; Baker 2002; Grant
e Wood 2004). Lo schema qui offerto si distingue perché presenta tali caratteristiche come insie-
me di problemi e tentativi di soluzioni o risposte.15 Anche se non consideriamo il problema in questo modo, è evidente che il consumo di testi è
suscettibile di essere altamente soggettivo e irrazionale.
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 21
sono aggravati da due ulteriori elementi connessi alla produzione. In primo luogo,
come già visto, le società assicurano ai creatori di prodotti culturali una limitata
autonomia, nella speranza che costoro realizzino qualche cosa di abbastanza origi-
nale e diverso da risultare un successo. Il che però significa anche che le società
operanti nell’industria culturale sono impegnate in una lotta incessante per il con-
trollo di quel ci si attende che i creatori producano. In secondo luogo, una singo-
la società operante nell’industria culturale (Società A) si appoggia su altre società
operanti nell’industria culturale (Società B, C, D ecc.) onde comunicare all’audien-
ce l’esistenza di un nuovo prodotto, o i benefici e piaceri connessi alla fruizione del
prodotto. Anche se la società A è proprietaria delle società B o F, non è possibile
controllare il tipo di accoglienza che il testo potrà ricevere, poiché è difficile preve-
dere come critici, giornalisti, radio, produttori e presentatori televisivi ecc., potran-
no valutare i testi.
Tutti questi fattori significano che le società operanti nell’industria culturale
affrontano problemi peculiari di rischio e imprevedibilità. Ecco alcuni dati statistici:
• nel 1998, sono usciti negli Stati Uniti circa 30.000 album, dei quali meno del
2% ha venduto più di 50.000 copie (Wolf 1999, p. 89);
• gli 88 campioni di incassi del 1999 – lo 0,03% delle uscite – hanno totalizzato
un quarto delle vendite discografiche degli Stati Uniti (Alderman 2001);
• Neuman (1991, p. 139) cita una regola empirica dell’editoria, per cui l’80% dei
profitti deriva dal 20% dei titoli pubblicati;
• Bettig (1996, p. 102) sostiene che solo 10 dei circa 350 film usciti ogni anno negli
Stati Uniti, nel periodo considerato dal suo studio, sono stati campioni di incasso;
• Driver e Gillespie (1993, p. 191) riferiscono che solo un numero compreso tra
la metà o un terzo dei periodici inglesi hanno un bilancio in pareggio, e solo un
quarto realizza utili;
• secondo i dati citati da Moran (1997, p. 444) circa l’80% dei 50.000 libri pub-
BOX 0.2 I tratti distintivi delle industrie culturali
Problemi:• Attività rischiosa• Creatività vs. commercio• Alti costi di produzione, bassi costi di riproduzione• Beni semi-pubblici: il bisogno di creare la scarsità
Risposte:• Compensazione di mancati successi mediante creazione di un repertorio• Concentrazione, integrazione e aggregazione della pubblicità• Scarsità indotta artificialmente• Ricorso ai format: star, generi e serializzazione• Controllo debole sui creatori di prodotti culturali, controllo forte sulla distribuzione
e il marketing
22 LE INDUSTRIE CULTURALI
blicati annualmente negli Stati Uniti alla metà degli Ottanta sono stati insuc-
cessi commerciali.
È tuttavia importante capire che, prendendo le industrie culturali nel loro com-
plesso, il rischio è affrontato con successo dalle società di dimensioni maggiori:
• secondo Neuman (1991, p. 136), i profitti della televisione ammontano tradi-
zionalmente al 20% del fatturato;
• Compaine (1982, p. 34, citato da Neuman 1991, p. 136) sostiene che, negli Stati
Uniti, i profitti dell’industria cinematografica tendono a superare i profitti medi
di una percentuale variabile tra il 33 e il 100%. Tali profitti, tuttavia, sono alta-
mente fluttuanti per effetto della competizione all’interno e all’esterno delle
industrie;
• Dale (1997, p. 20) cita dati del 1992, che mostrano i crescenti margini di profit-
to (ricavi d’esercizio/spese) in differenti industrie:
– televisione via cavo: 20%;
– televisione broadcast: 17,5% circa;
– stampa ed editoria: 12% circa;
– musica, network televisivi e periodici: poco sotto il 10%;
– cinema e agenzie pubblicitarie: valori inferiori al 10%;
• i profitti dell’industria cinematografica sono caduti dalla media del 15% negli
anni Settanta al 10% circa dei primi Ottanta, fino al 5-6% circa dei tardi
Ottanta, per recuperare poi nei primi Novanta (Dale 1997, p. 20);
• nei primi anni del XXI secolo, le grandi compagnie in posizione dominante nelle
industrie culturali denunciavano o altissime perdite temporanee, riflesso dell’e-
levata spesa per fusioni o investimenti, o bassi tassi di profitto: meno del 5% per
Disney, e meno del 3% per Viacom nel 2002 (Grant e Wood, 2004, p. 100).
Le industrie culturali, pertanto, possono essere altamente profittevoli nonostan-
te il livello particolarmente elevato di rischio di molti investimenti, benché per le
singole società sia sempre più difficile raggiungere alti livelli di profitto.
Creatività vs. commercio
Quanto sostenuto a pagina 5 potrebbe indurre a credere che i creatori di prodotti
culturali lavorino in condizioni relativamente autonome nelle industrie culturali,
poiché tale relativa autonomia è generosamente concessa loro dalle società. La
realtà, tuttavia, è assai più complessa. Una tale autonomia è al tempo stesso il pro-
dotto di un modo storicamente determinato di intendere la creatività simbolica; in
particolare, della concezione per cui l’arte (o, per usare il termine qui preferito, la
creatività, da intendersi come creatività simbolica – vedi il paragrafo Le industrie
culturali organizzano e mettono in circolazione la creatività) è incompatibile con
la ricerca del profitto. Le concezioni romantiche dell’arte nelle società occidentali
hanno rafforzato l’idea per cui l’arte è spiccatamente diversa, in quanto rappresen-
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 23
ta l’espressione originale di un singolo autore. In un certo senso, si tratta di una
mistificazione; e ugualmente superficiale è la forte opposizione tra creatività e
commercio posta da gran parte del pensiero estetico romantico e modernista. Per
dubbia che possa essere la mossa romantica di opporre l’arte e la creatività al com-
mercio, essa ha sortito nel lungo periodo l’effetto di produrre acutissime tensioni
fra creatività e commercio, nodali per la comprensione delle industrie culturali.
L’opposizione creatività/commercio concorre a produrre la relativa, provvisoria,
autonomia di cui godono molti creatori di prodotti culturali. Essa accresce anche
l’incertezza e la difficoltà del contesto in cui opera l’industria della cultura. Vi sono
importanti paralleli con altri campi; nelle scienze, per esempio, c’è tensione fra lo
scopo di rendere disponibile al pubblico la conoscenza e quello di ricavarne un
vantaggio economico. Tuttavia è impossibile cogliere la specifica natura della pro-
duzione culturale senza comprendere la dialettica commercio/creatività. I temi
saranno ulteriormente indagati nei Capitoli 2 e 7.
Alti costi di produzione, bassi costi di riproduzione
La maggior parte dei prodotti culturali ha elevati costi fissi e bassi costi variabili: la
produzione di un disco può costare molto in ragione del tempo e lavoro richiesti
dalla composizione, dalla registrazione, dal mixaggio, e dalla stampa al fine di otte-
nere il suono voluto dagli autori e dall’audience cui essi si rivolgono. Una volta
realizzata la «prima copia», però, le successive hanno costi relativamente modesti.
Il punto cruciale è qui il rapporto fra costi di produzione e di riproduzione. I chio-
di, per esempio, richiedono un basso input di design: il primo esemplare è prodot-
to a basso costo, e i successivi non costano molto meno. Ciò origina un mercato di
tipo diversissimo da quello prevalente nelle industrie culturali. Le automobili
somigliano più ai testi prodotti dalle industrie culturali, ma al tempo stesso ne dif-
feriscono anche sostanzialmente: il prototipo di una vettura è particolarmente
costoso, con quantità enormi di input in design e progettazione, e i costi di ogni
nuova vettura ottenuta dal prototipo sono egualmente elevatissimi, in ragione dei
materiali e dei necessari controlli di sicurezza. Così, benché i costi fissi siano eleva-
ti, il rapporto costi fissi/costi variabili è relativamente basso. Il rapporto molto più
alto costi fissi/costi variabili nelle industrie culturali significa che grandi successi
generano profitti elevatissimi. Ciò perché una volta che il costo di produzione è
stato recuperato attraverso un certo livello di vendite, il profitto realizzato dalla
vendita di ciascuna unità addizionale può essere considerevole16, compensando in
tal modo l’inevitabile alto numero di insuccessi che dipendono dalla natura vola-
tile e imprevedibile della domanda. Ciò induce nelle industrie culturali un fortis-
simo orientamento a «massimizzare l’audience» (Garnham 1990, p. 160).
Come possono, allora, le imprese operanti nell’industria culturale tentare di
16 Le industrie culturali che non vendono direttamente beni ai consumatori, specie il broadcasting
e, in misura crescente, Internet, lavorano in modi differenti ma connessi. In essi, l’unità addi-
zionale consiste nelle audience «vendute» agli inserzionisti.
24 LE INDUSTRIE CULTURALI
rispondere allo specifico insieme di problemi che si pongono loro in quanto tenta-
no di realizzare profitto e accumulare capitale producendo cultura?
Beni semi-pubblici: il bisogno di creare scarsità
Raramente le merci culturali si distruggono con l’uso. Esse tendono a comportar-
si come quelli che gli economisti chiamano «beni pubblici», beni cioè il cui consu-
mo da parte del singolo non riduce l’altrui possibilità di consumo. L’esperienza di
chi ascolta un CD, per esempio, non modifica affatto quella di chi lo riceve dal
primo ascoltatore. Il che non vale certo per il consumo di una torta. L’uso di un’au-
tomobile ne diminuisce il valore per un altro utente assai più di quanto non
avvenga per la visione di un DVD. Inoltre, i mezzi industriali di riproduzione dei
beni culturali hanno costi relativamente bassi. Ciò significa che le imprese devono
indurre la scarsità che conferisce valore ai beni, limitando con mezzi artificiali l’ac-
cesso a beni e servizi culturali.
Compensazione di mancati successi mediante costruzione di repertori
Lo straordinario accento posto sulla massimizzazione dell’audience comporta che,
nelle industrie culturali, le società tendano a compensare i mancati successi
mediante una «sovrapproduzione» (Hirsch 1990/1972), tentando cioè di allestire
un vasto catalogo o «repertorio culturale» (Garnham 1990, p. 161). Per dirla altri-
menti, esse tendono a «gettare fango» – o sostanze del genere – «contro il muro»
per vedere che cosa accade (Laing 1985, p. 9; Negus 1999, p. 34). Se, come sugge-
risce Garnham, un disco su nove è una hit e gli altri otto sono insuccessi, allora
una società che pubblica cinque titoli ha meno probabilità di trovare hit capaci di
tenerla a galla di quanti ne abbia una società con un repertorio o catalogo di 50
titoli. È una delle pressioni verso la crescita dimensionale subite dalle imprese cul-
turali, benché vi siano controtendenze a favore di società più piccole.
Concentrazione, integrazione e aggregazione della pubblicità
Le compagnie operanti nell’industria culturale amministrano il rischio e il bisogno
di assicurare la massimizzazione dell’audience mediante strategie che trovano
riscontro anche in altri settori.
• Integrazione orizzontale. Si acquistano altre compagnie del settore, onde ridur-
re la concorrenza per la conquista dell’audience.
• Integrazione verticale. Si acquistano altre compagnie operanti in fasi diverse del
processo di produzione e distribuzione. Una società potrebbe acquistare «a
valle», come accade quando una casa di produzione cinematografica acquista
una casa di distribuzione di DVD, ovvero «a monte», come accade quando una
casa di distribuzione o un’emittente (per esempio, una società televisiva via
cavo) acquista una società di produzione.
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 25
• Internazionalizzazione. Acquistando e associando altre compagnie estere, le
corporation possono vendere massicce quantità di copie eccedenti di un prodot-
to di cui hanno già coperto le spese di produzione (benché, ovviamente, debba-
no affrontare nuove spese di marketing).
• Integrazione multisettoriale e multimediale. Acquistando in aree diverse ma
correlate della produzione dell’industria culturale, le industrie culturali punta-
no ad assicurarsi una promozione incrociata.
• Importante è anche il tentativo di «cooptare» critici, DJ e diversi altri soggetti
responsabili della promozione dei testi, mediante socializzazione, invio di rega-
li, copie-omaggio ecc.
Tali forme di integrazione hanno condotto alla formazione di società più grandi e
potenti. Quasi tutti i settori strategici – dall’alluminio alla biochimica all’abbiglia-
mento – sono dominati da grandi gruppi. Vi sono poche prove che le industrie cul-
turali raggiungano livelli di concentrazione industriale superiori a quelli di altre
industrie. È tuttavia presumibile che le conseguenze di una mancata crescita o inte-
grazione siano più pesanti per le industrie culturali che per molte altre, poiché il set-
tore rivela un elevatissimo numero di fallimenti di società più piccole. Il che, a sua
volta, si spiega in base al fatto che le piccole società sono incapaci di scaricare il
rischio sul repertorio. È estremamente rivelatore che gli effetti della dimensione e
del potere raggiungano la massima intensità nelle industrie culturali, in quanto
capaci di produrre beni – i testi – che modificano i nostri orientamenti sulle loro ope-
razioni, sulle altre industrie e, almeno potenzialmente, su tutti gli aspetti della vita.
Scarsità indotta artificialmente
Garnham (1990, pp. 38-39 e 161) ha individuato una pluralità di modi in cui si
può indurre la scarsità nell’ambito dei beni culturali (che, secondo quanto detto
sopra, non tendono alla scarsità poiché hanno sovente carattere di beni pubblici).
Il più importante è l’integrazione verticale. Il controllo proprietario di canali di
distribuzione e vendita al dettaglio permette alle società di controllare i livelli di
fornitura, assicurando l’adeguata disponibilità di beni.
Egualmente importanti sono tuttavia:
• la pubblicità, che limita l’importanza della vendita di beni culturali in rapporto
ai profitti
• il copyright, che mira a impedire la libera riproduzione dei testi
• la limitazione di accesso ai mezzi di riproduzione, che rende difficile produrre copie.
Ricorso ai format: star, generi e serializzazione
Un altro modo utilizzato dalle società operanti nell’industria culturale per
ammortizzare gli elevati livelli di rischio del settore, consiste nel minimizzare i
danni degli insuccessi mediante il ricorso ai format nei prodotti culturali (Ryan
1992)17. Uno dei metodi più importanti nella costruzione di format è lo star system,
26 LE INDUSTRIE CULTURALI
che associa ai testi il nome di sceneggiatori, interpreti ecc. che godono dell’aura di
star. Ciò comporta rilevanti sforzi di marketing, volti a promuovere uno scrittore o
un interprete come nuova star, o ad assicurare la continuità dell’aura di una star.
Un tale ricorso al format è riservato esclusivamente ai testi privilegiati dai quali le
industrie culturali sperano di ricavare grandi successi. Dei 126 film che, negli anni
Novanta, hanno incassato più di 100 milioni di dollari negli Stati Uniti, 41 include-
vano una delle 7 star che seguono: Tom Hanks, Julia Roberts, Robin Williams, Jim
Carrey, Tom Cruise, Arnold Schwarzenegger e Bruce Willis (Standard & Poor,
«Movies and Home Entertainment Industry Survey», 11 maggio 2000, p. 14).
Un altro metodo essenziale per la creazione di format è il ricorso ai generi, come
«film horror», «album hip hop», «romanzo di qualità». Il genere funge da etichet-
ta, in modo simile al marchio, e suggerisce all’audience il tipo di piacere che potrà
ricavare dalla fruizione del prodotto. Il genere potrebbe non essere capito da tutti
e addirittura non essere usato esplicitamente, ma l’importante è che un certo tipo
di prodotto culturale venga consigliato e associato a specifiche pratiche di consu-
mo e piacere. Molti prodotti culturali, promossi e pubblicizzati essenzialmente
mediante il ricorso ai generi, recano anche i nomi degli autori: finché l’autore non
diviene una star, tuttavia, il genere è dominante.
Infine, la serializzazione rimane un tipo importante di costruzione di format,
specialmente laddove l’autore e il genere sono meno significativi. È stata una
caratteristica importante dell’editoria – letteratura popolare, fumetti ecc. – ma la si
rinviene anche nel cinema e nella musica (per esempio, la compilation di grande
successo dei pezzi più ascoltati nel Regno Unito, Now That’s What I Call Music, pub-
blicata dal 1983 con periodicità diversa. Now 70 è, al momento, la più recente).
Controllo debole sui creatori di prodotti culturali, controllo forte sulla distribuzione e il marketing
Nel corso della precedente discussione sui creatori di prodotti culturali si è sottolinea-
to come essi si vedano garantita una notevole autonomia nel processo di produzio-
ne – molto maggiore, di fatto, di quella goduta dalla maggioranza di chi lavori in altri
tipi di industria. Questa situazione ha ragioni culturali – in particolare, concetti inve-
terati sull’auspicabilità morale dell’autonomia creativa, che discendono dalla conce-
zione romantica della creatività simbolica, e tradizioni connesse alla libertà d’espres-
sione – ma anche economiche e organizzative. I manager reputano l’originalità un
requisito dei grandi successi e della creazione di nuovi generi, star e marchi di serie.
I creatori di prodotti culturali sono di solito controllati solo a distanza dai «manager
17 Il termine «format», largamente impiegato nell’industria televisiva, fa riferimento alle caratte-ristiche di base di un particolare programma, ad esempio Chi vuol esser milionario?, Il grande fra-
tello o La prova del cuoco. Si tratta di programmi spesso sviluppati su un mercato nazionale e poivenduti in forma di «idea» o di«concept» sul mercato estero e protetti da copyright (Moran eKeene 2004). Benché Ryan non intenda il termine in questa accezione, la strategia può esserevista come un modo per scaglionare gli elevati costi fissi connessi allo sviluppo dell’idea di unprogramma, e incassare il premio dai costi variabili, relativamente bassi.
INTRODUZIONE: CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ, POTERE E CREATIVITÀ 27
creativi» (Ryan 1992) come gli editor e i produttori televisivi, che agiscono da inter-
mediari fra i creatori e gli imperativi commerciali della società. Coloro che divengo-
no star – il cui nome promette cioè un certo tipo di esperienza – ottengono compen-
si enormi, ma la maggioranza dei lavoratori dell’industria culturale vive in una vasta
riserva di talenti sottoimpiegati e sottopagati, obbligati ad accettare lavori saltuari. In
molti casi, la produzione sarà affidata a una società separata e indipendente. Tali
«indipendenti» – spesso legate in realtà a compagnie più grandi per quanto riguar-
da questioni di finanziamento, diritti e distribuzione – si ritrovano di frequente nelle
industrie culturali, per la ragione fondamentale che i creativi e alcune audience
temono il controllo burocratico sulla creatività, riflettendo ancora una volta radicati
assunti culturali sull’arte. Al fine di controllare i rischi associati alla creatività mana-
geriale, i senior manager esercitano un controllo più stretto sulla riproduzione, la
distribuzione e il marketing – vale a dire, sulla circolazione – rispetto a quello eser-
citato sulla produzione, spesso grazie all’integrazione verticale.
Si potrebbe obiettare alla determinazione finora proposta dei tratti distintivi
delle industrie culturali che alcuni di questi tratti sono condivisi da altre industrie.
Si tratta di un’obiezione del tutto fuori luogo: rilevante è infatti la natura comples-
siva delle specificità individuate18. Neppure il fatto, già sottolineato, che gli affari
delle industrie culturali siano connessi ad altri gruppi industriali e ad altri ambiti
di business, invalida l’idea che si possano tracciare confini utili, ancorché provvi-
sori e permeabili, a delimitare il settore. L’analisi dei tratti distintivi complessivi
aiuta a comprendere la produzione e il consumo di cultura. Il punto nodale, tut-
tavia, è che le società operanti nell’industria culturale reagiscono in modi peculia-
ri (ancorché variabili) a difficoltà percepite nella realizzazione del profitto, e che
tali dinamiche distintive giocano un ruolo importante nella spiegazione del cam-
biamento e della continuità fornita in questo volume.
L’autore al lettore
Nelle prime pagine dell’Introduzione, si è brevemente indicato ove risieda e vada
cercata l’importanza delle industrie culturali: nel loro potere di influenzare il pub-
blico, nei disparati modi in cui esse organizzano il lavoro dei creatori di testi, nel
favorire un cambiamento generalizzato, industriale, sociale e culturale. Il tentati-
vo di porre in relazione i concetti fondamentali del libro con la mia formazione
personale può contribuire a rendere i concetti più concreti e aiutare a contestua-
lizzare il particolare approccio adottato nei confronti delle industrie culturali;
approccio sviluppato nei prossimi tre capitoli.
Da adolescente, ero fortemente irritato da quelle che percepivo come menzogne e
18 Altre industrie sono state analizzate in termini di caratteristiche differenziali, e Caves (2000, p.
1) ne ricapitola utilmente alcuni esempi: l’industria farmaceutica, caratterizzata dall’intensità
specifica della competizione per l’innovazione; le industrie chimiche, caratterizzate dalla con-
correnza per l’installazione di nuove capacità; l’industria alimentare, caratterizzata dalla diffe-
renziazione dei prodotti e dall’affermazione di marchi dominanti.
28 LE INDUSTRIE CULTURALI
distorsioni della televisione e dei giornali ultraconservatori che i miei genitori legge-
vano (un aspetto tipico di una certa sezione della classe operaia e della piccola bor-
ghesia dell’Inghilterra settentrionale). Il Daily Mail e il Sunday Express parevano conti-
nuamente a caccia di chiunque tentasse di promuovere la giustizia sociale
nell’Inghilterra dei tardi Settanta – sindacati, femministe, attivisti di gruppi antirazzi-
sti. Il ruolo dell’Inghilterra nell’Irlanda del Nord era descritto come quello di pacifica-
tore tra fazioni tribali. Quindicenne, conoscevo già abbastanza di storia irlandese per
respingere quella tesi. La stessa stampa quotidiana era egualmente tiepida nel con-
dannare i gruppi neonazisti i cui graffiti, diretti contro le minoranze inglesi di origine
sudasiatica, campeggiavano nella città in cui sono cresciuto. Fin dall’adolescenza, ho
creduto che le industrie culturali avessero un ruolo essenziale nel mantenere i vigen-
ti rapporti di potere e nel distorcere la loro comprensione collettiva.
L’altro fondamentale rapporto con i mezzi di comunicazione e la cultura popola-
re è stato quello del fan – e un fan continuo a essere tuttora. Anche se alcuni mezzi
di comunicazione parevano prendere posizione contro tutto ciò in cui credevo, c’era
una gran quantità di cultura popolare stimolante, interessante ed eccentrica. Il che
sembra valere anche oggi, ed è una delle ragioni per cui non accetto la versione delle
industrie culturali elaborata in alcuni saggi – un mostruoso sistema per il manteni-
mento del conformismo. Nei tardi Settanta e nei primi Ottanta, il punk rock mi sem-
brava l’incarnazione di una rilevante energia creativa. D’un tratto, la gamma delle
emozioni contenuta nella mia piccola collezione di dischi fu massicciamente amplia-
ta: la musica poteva essere sgradevole o freddamente distaccata; intelligente o
aggressiva; divertente o mortalmente seria. I musicisti punk parlavano in continua-
zione dell’industria discografica, e sostenevano spesso che la si poteva cambiare,
allargando i confini della creatività e facendo sì che la maggior parte dei profitti
andasse a beneficio dei creatori di musica. Il senso dell’importanza (e dell’ambiva-
lenza) dei mezzi di comunicazione e della cultura popolare mi ha spinto infine verso
l’insegnamento, e quindi all’incontro con un gran numero di studenti disposti a con-
dividere le mie prospettive. La passione per la cultura popolare americana (in parti-
colare il cinema classico hollywoodiano, quello dei giovani registi degli anni
Settanta, la musica nera e la comicità ebraica), e la ripugnanza per il ruolo del gover-
no degli Stati Uniti nella geopolitica mondiale, mi hanno portato dalle parti di
Chicago per il conseguimento di un dottorato. Insegnamento e studio sono stati
d’impulso per scrivere questo libro, che risente anche dell’esperienza di produzione
scientifica e ricerca sulle industrie culturali condotta negli ultimi anni. Tra i profes-
sori universitari, domina la convinzione che i testi più prestigiosi debbano risultare
più o meno incomprensibili per gli studenti. Da parte mia, ho lavorato sodo per ren-
dere il libro interessante e utile ad altri insegnanti e ricercatori, e contemporanea-
mente accessibile agli studenti, definendo i concetti più complessi al momento della
loro introduzione, e tentando di spiegare perché ritengo importanti gli argomenti
trattati. Dunque, il libro richiede una certa conoscenza e un certo interesse per la
materia, ma ho comunque cercato di non dare nulla per scontato.