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Indice generale
Introduzione........................................................................................................................3
Capitolo 1 - I distretti industriali: riferimenti teorici ed analisi empiriche.....................7
Aspetti generali...............................................................................................................7
1.1 La concentrazione territoriale..................................................................................12
1.2 La concorrenza.......................................................................................................15
1.3 La cooperazione......................................................................................................19
1.4 Le economie esterne...............................................................................................21
1.5 La divisione del lavoro.............................................................................................25
1.6 La comune base culturale.......................................................................................29
1.7 Il mercato di riferimento...........................................................................................33
1.8 Alcune considerazioni storiche e sociologiche........................................................34
1.9 Nuovi stimoli di ricerca: parallelismi con la biologia e la fisiologia del cervello.......40
Capitolo 2 - I distretti industriali italiani.........................................................................49
2.1 L’importanza dei distretti industriali italiani..............................................................49
2.2 Il mercato del credito distrettuale............................................................................65
2.3 Il mercato del lavoro distrettuale e la flessibilità: alcune problematiche..................81
2.4 La legislazione Statale e Regionale in tema di distretti industriali...........................93
2.5 Il "Club dei Distretti"..............................................................................................101
Capitolo 3 - I distretti industriali nel Mezzogiorno degli anni’90:
progetti e realizzazioni...................................................................................................109
3.1 La Campania.........................................................................................................109
3.2 la dorsale adriatica................................................................................................124
3.3 Il resto del Mezzogiorno........................................................................................136
3.4 Alcune considerazioni di sintesi............................................................................145
1
Capitolo 4 - I distretti industriali negli anni 2000.........................................................157
4.1 Le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno..........................................................157
4.2 le misure di sostegno regionali, statali e comunitarie............................................162
4.3 Una politica alternativa per i distretti: le scelte di fondo........................................168
4.4 Una politica alternativa per i distretti: le iniziative concrete...................................181
4.5 Conclusioni............................................................................................................191
Bibliografia................................................................................................................196
Indice delle figure
Figura 1 - Economie di scala, DOM e DME..................................................................27
Figura 2 - Peso relativo dei distretti nelle provincie italiane..........................................53
Figura 3 - Distribuzione della popolazione in aree distrettuali e non............................54
Figura 4 - Evoluzione del ruolo delle banche locali nei distretti....................................77
Figura 5 - Andamento del tasso di interesse sui prestiti bancari nei distretti................78
Figura 6 - Differenziale di tasso di interesse tra imprese distrettuali e isolate..............79
Figura 7 - Indice dei vantaggi comparati per macro-settori: Italia...............................177
Indice delle tabelle
Tabella 1 - Il Made in Italy per regione: gli anni '90.......................................................57
Tabella 2 - Le prime 6 province esportatrici del Made in Italy.......................................58
Tabella 3 - Le prime 6 province esportatrici del Made in Italy: export pro-capite..........59
Tabella 4 - Propensione verso l'export..........................................................................61
Tabella 5 - I principali mercati esteri di sbocco.............................................................62
Tabella 6 - I principali mercati esteri di sbocco per settore...........................................62
Tabella 7 - I principali mercati esteri di sbocco in ordine di importanza........................63
Tabella 8 - Il Club dei Distretti.....................................................................................103
Tabella 9 - La rappresentatività del Club dei Distretti.................................................104
Tabella 10 - La spesa pubblica per infrastrutture........................................................151
Tabella 11 - Stime della dimensione dell'economia sommersa in Europa..................188
2
Introduzione
Nel presente lavoro si analizzano le iniziative
imprenditoriali nate negli ultimi anni, specialmente nel
Mezzogiorno, per capire se tra queste si possa annoverare
qualche distretto industriale.
Nel primo capitolo si fanno delle considerazioni generali
sul modello astratto di funzionamento del distretto industriale
marshalliano così come riportato nella letteratura più recente di
Becattini, Brusco, Garofoli, Bàculo e Viesti. In Italia, esso
rappresenta lo strumento per capire il particolare modello di
sviluppo seguito spontaneamente dal nostro paese negli ultimi
trent’anni. Giacomo Becattini e Sebastiano Brusco, in
particolare, partendo dalle realtà industriali a loro più vicine
(Prato, in Toscana, e l’Emilia Romagna) hanno analizzato
parecchi aspetti del funzionamento e della organizzazione del
distretto industriale. Nei primi paragrafi di questo lavoro,
pertanto, si illustrano le dinamiche proprie di qualsiasi distretto:
la concorrenza e la cooperazione tra sub-fornitori, la presenza
ed il ruolo delle imprese finali, l’importanza del contesto sociale
e culturale in cui le imprese si trovano ad operare, la elevata
mobilità della forza lavoro, e la capillare divisione delle mansioni
tra unità produttive diverse, in modo da considerare le imprese
del distretto come tanti reparti separati di un’unica impresa.
Sulla base di alcune suggestioni dello stesso Becattini, si
pongono in evidenza gli ultimi sentieri di ricerca che attingono a
3
piene mani da materie apparentemente lontane, come la
fisiologia del cervello o la psicologia.
Ogni aspetto dell’indagine economica tiene, comunque,
sempre conto della interdisciplinarità dell’argomento, per cui
non sono sporadici i riferimenti a concetti di sociologia, di
filosofia o a nozioni di storia: dall’anomia di Durkheim alle tesi di
Croce o Fortunato sul sottosviluppo del Mezzogiorno. Viene
fatto cenno anche alla particolare impostazione data da Paul
Krugman e dalla Nuova Geografia Economica ai problemi dello
sviluppo regionale e delle economie di agglomerazione.
Nel secondo capitolo si fa la distinzione tra Sistemi Locali
del Lavoro (SLL) e distretti industriali veri e propri, per capire in
che modo possiamo trattare i dati statistici dell’ISTAT quando
parliamo di sistemi locali. Viene fatta anche chiarezza sul
concetto di “Made in Italy” e sulla sua non perfetta coincidenza
con la produzione dei distretti italiani. I dati e le tabelle riportate
dimostrano l’importanza per il nostro sistema produttivo delle
realtà fondate sulle piccole e medie imprese: la particolare
propensione all’export implica anche problemi di tenuta
internazionale e di eventuale “importazione” di shock esterni. La
nostra economia, fondata su settori produttivi tradizionali che
impiegano manodopera poco qualificata, può essere
particolarmente vulnerabile in fasi di recessione mondiale.
Particolare peso viene dato all’analisi del mercato del credito
distrettuale, al ruolo della banca locale (specialmente
cooperativa), e alle dinamiche tra imprenditori e banche fondate
4
sulla fiducia e l’asimmetria informativa. Si cerca di dimostrare
che il credito accordato alle imprese distrettuali è meno
razionato di quello alle imprese “isolate”, e che esse possono
godere anche di tassi di interesse più bassi della norma, anche
se vi è un andamento che risente fortemente del ciclo
economico. Nella parte che studia il mercato del lavoro
distrettuale, poi, vengono esaminati i problemi della flessibilità
del lavoro, cercando di fare il punto della situazione sul dibattito
intorno all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Un’ampia
panoramica viene riservata alle leggi che definiscono il distretto
industriale in Italia, e ai vari strumenti che esistono per tutelare
gli organismi e le imprese distrettuali. Un cenno viene fatto
anche al Club dei Distretti per capire se si tratta di una mera
lobby o di un’associazione che cerca di fornire servizi ad ampio
raggio ai suoi membri (sul modello del Citer di Carpi o del
consorzio Promosedia di Udine).
Nel terzo capitolo si passa ad un vero e proprio tour del
Mezzogiorno dei distretti: vengono evidenziate le realtà più
promettenti, così come si cerca di fare il punto sui problemi più
ricorrenti nelle aree industriali. Dall’Abruzzo alla Sardegna si
danno dati sull’export, sul numero degli addetti e sulle
specializzazioni produttive. Non mancano i casi di successo di
portata non solo nazionale. Nell’ultimo capitolo, si cerca di
rivolgere lo sguardo al futuro: quali sono i distretti che sono
prossimi al successo, quali invece sembrano solo “bolle d’aria”.
5
Particolare enfasi viene posta sul sistema delle infrastrutture
(specialmente quello delle strade ed autostrade).
Negli ultimi due paragrafi, invece, si intende suggerire una
serie di politiche economiche (ma non solo), sia su tematiche di
fondo che particolari, per migliorare la produttività e
competitività internazionale dei distretti italiani. Il lavoro
sommerso, il problema della Giustizia oltremodo lenta, il mondo
universitario e della formazione sono gli aspetti presi in
considerazione. Per concludere, si suggerisce anche di incidere
sulla specializzazione produttiva italiana: in particolare, dato il
ritardo delle regioni meridionali, si cerca di capire se si possano
avere più successi in queste zone con esperimenti di Local
Knowledge Spillover, per diventare competitivi in campo
tecnologico anche a livello internazionale.
6
Capitolo 1
I distretti industriali: riferimenti teorici ed analisi
empiriche
Aspetti generali
Il termine distretto industriale fu coniato da Alfred Marshall
nel 1867, quando, in alcuni scritti giovanili, volle fare riferimento
alle industrie tessili del Lancashire e a Sheffield. In “Industry
and Trade” - l’opera della maturità - egli ha modo di scrivere:
“Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento ad
un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese,
facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo e
localizzate in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione
ma anche concorrenza.”1Fondamentale, dunque, è il richiamo
alla categoria socioeconomica - con tutto quello che ne
consegue in termini di fiducia reciproca tra i residenti di un certo
territorio -, alla concentrazione territoriale, e alla divisione del
lavoro tra imprese in modo da scomporre il processo produttivo,
e dare a tante imprese separate- ma in concorrenza con altre
omologhe, della stessa fase- spezzoni della lavorazione che
prima era integrata verticalmente nella stessa impresa; in
questo contesto si inserisce l’immaginifico richiamo alla
“atmosfera industriale”, così definita da Marshall: “In un distretto 1 A. Marshall, “ Industry and Trade. A study of industrial technique and business
organization”, Macmillan & Co, London, 1919. Grazie a questo interesse per il distretto marshalliano, Marco Balestri nel 1981 ha provveduto a tradurre di nuovo l’altra opera fondamentale del nostro :“Priciples of Economics”.
7
industriale dove si concentrano grandi masse di persone
addette a mestieri specializzati simili, i misteri dell’industria non
sono più tali; è come se stessero nell’aria, e i fanciulli ne
apprendono molti inconsapevolmente”2. Sulla base di questa
impostazione, ed avendo sotto gli occhi la realtà sua più vicina
(il distretto laniero di Prato), Giacomo Becattini - ordinario di
Economia Politica presso l’Università di Firenze - amplia e
puntualizza il concetto: ”Il distretto industriale è un’entità socio-
territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area
territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente
determinata, di una comunità di persone e di una popolazione
di imprese industriali“, mentre “per quanto concerne la comunità
di persone, il tratto più rilevante è costituito dal fatto che essa
incorpora un sistema abbastanza omogeneo di valori che si
esprime in termini di etica del lavoro e dell’attività, della
famiglia, della reciprocità, del cambiamento”3. Questa
definizione sintetica di distretto è generalmente condivisa dagli
studiosi che di questo argomento si occupano, anche se ci
sono delle sfumature che non vanno sottaciute. Ad esempio,
Sebastiano Brusco sottolinea come il concetto di economia
esterna marshalliana si spiega come una conseguenza
dell’imperfezione del mercato: asimmetrie informative e costi
legati alla ricerca di informazioni possono indurre un’impresa
2 A. Marshall, “Principles of Economics”, Macmillan & Co, London,1890; trad. italiana “Principi di Economia”, UTET, Torino, 1959; per un’antologia dei principali scritti di Marshall, e per consistenti brani di “Industry and Trade”, si consulti: G. Becattini (a cura di), “Marshall.Antologia di scritti economici”, Il Mulino, Bologna, 1981.
3 G. Becattini ,“Il distretto industriale: un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico” ,Rosenberg & Selier,Torino, 2000.
8
del distretto ad interagire più facilmente con le altre imprese
distrettuali, piuttosto che cercare alternative convenienti al di
fuori dell’area territoriale sua propria. Questa stessa
consapevolezza del “market failure” ha aperto la strada, negli
anni ’80 e ’90, all’applicazione dell’economia dei costi di
transazione (a partire dalla lezione di Coase del 19374)
all’ambito distrettuale; tanto che oggi la scuola neo-
istituzionalista, che da essa prende le mosse, ha messo a
punto più di uno strumento per spiegare la competitività
internazionale dei distretti, il ruolo della reputazione della
piccola impresa nella dinamica dei prezzi (o tariffe, come invece
dice Becattini riguardo ai prezzi dei beni dei semilavorati e di
altri prodotti – compresa la forza lavoro- che si scambiano nel
distretto per giungere alla produzione finale), la creazione di reti
corte e lunghe tra imprese, e la creazione di sapere contestuale
(learning by doing).
Accanto a questa definizione data dagli studiosi, si pone
la definizione di distretto che la legge italiana ha dato nel 1991
(legge n. 317/1991 art. 36, modificato sostanzialmente con l’art.
6 della legge n. 140/1999, rubricato “Sistemi produttivi locali,
distretti industriali e consorzi di sviluppo locale”): ”1. Si
definiscono Sistemi produttivi locali i contesti omogenei,
caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese,
prevalentemente di piccole dimensioni, e da una peculiare
4 Ronald Coase, “The nature of the firm”, in Economica, n.4, 1937, trad it., “La natura dell’impresa”,in M. Egidi e M. Turvani (a cura di)”Le ragioni delle organizzazioni economiche”, Rosenberg&Sellier, Torino, 1994, pp.141-162; l’autore è stato insignito del Nobel per l’economia nel 1991.
9
organizzazione interna; 2. Si definiscono distretti industriali i
sistemi produttivi locali di cui al comma 1, caratterizzati da una
elevata concentrazione di imprese industriali nonché dalla
specializzazione produttiva di sistemi di imprese.” Il dettato
legislativo, difatti, recepisce per grandi linee la definizione di
distretto cui sono giunti gli studiosi in questi anni, anche se poi
rimanda alla loro concreta individuazione con opportuni indici
statistici alfine di usufruire di fondi statali e comunitari. Volendo
schematizzare, possiamo dire che gli elementi caratterizzanti un
distretto industriale sono:
1. la concentrazione territoriale delle imprese (in Italia, ad
esempio, mediamente un distretto comprende 7-8 comuni di
piccole dimensioni, che gravitano attorno ad un centro
maggiore, quasi mai un capoluogo di provincia – eccezion
fatta per Padova-);
2. la concorrenza tra le imprese distrettuali impegnate nella
stessa fase di lavorazione, sicchè un committente ha sempre
la possibilità di scegliere tra più fornitori;
3. la cooperazione, che non viene imposta da nessuna autorità
e da nessuna impresa leader, ma è una esigenza fisiologica
degli attori economici a tutti i livelli, tanto nel mercato del
lavoro (dove vengono accettati - se del caso - anche salari
più bassi per far fronte alla congiuntura economica - e,
tuttavia, rilevanti lavori sul campo5 hanno dimostrato il 5 L. F. Signorini “Una verifica quantitativa dell’effetto distretto”, Sviluppo Locale,
Firenze, IX 1994; A. Baffigi, M. Pagnini e F. Quintiliani, “ Industrial Districts and Local Banks: do the twins ever meet?”, Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Italia,
10
contrario, e cioè che, mediamente, i salari dei lavoratori
distrettuali sono più alti dei salari dei lavoratori di imprese di
dimensioni simili ma non inserite in distretti), quanto delle
imprese della filiera produttiva;
4. le economie esterne, che Marshall chiama anche economie
di agglomerazione, applicandovi lo schema logico di
riferimento delle economie di scala vere e proprie;
5. la divisione del lavoro tra imprese del distretto;
6. la comune base culturale e la condivisione degli stessi
obiettivi, che implica anche la forte diffusione, oltre che
l’accettazione, di una conoscenza manuale e tecnica
denominata conoscenza contestuale da E. Rullani;
7. il mercato di riferimento, che non è quasi mai soltanto locale,
ma globale.
Esaminiamo, ora, uno per uno, i singoli elementi che
costituiscono e contraddistinguono il distretto. Con una
precisazione però: e cioè che questi elementi si ritrovano - con
maggiore o minore intensità- in tutti i distretti - non solo italiani,
ma anche giapponesi, inglesi e francesi, come un unico comun
denominatore di questa unità di studio - quasi a dimostrare che
ci troviamo di fronte ad una cellula primaria del capitalismo,
accanto all’altra, la grande impresa.
Marzo 1999.
11
1.1 La concentrazione territoriale
Gli studiosi di economia regionale hanno messo a punto
vari modelli di localizzazione di impresa che cercassero di
spiegare il perché dello sviluppo di certe zone a scapito di altre.
A cominciare dal pionieristico lavoro di J. H. Von Thünen (“Lo
stato isolato, con riguardo all’economia agricola e all’economia
nazionale”,1826-1863), che cercava di spiegare la rendita e i
salari a partire da una città situata al centro di una grande
pianura, circondata da terre uniformemente fertili, che doveva
essere rifornita dei prodotti agricoli, passando per Alfred Weber
(“Teoria della localizzazione dell’industria”,1909, che riprendeva
l’analisi di Von Thünen, applicandola ai fattori che influenzano
la localizzazione dell’industria in periodi di sviluppo economico,
sulla base di dati relativi alla Germania dopo il 1860), fino ad
arrivare a W. Alonso6 e W. Isard con concetti quali i punti di
rottura, e l’applicazione di nozioni di topografia (isodapane e
isotime) per tenere conto dei costi di trasporto e di distribuzione
nelle opzioni di localizzazione, ci si è sempre posti l’obiettivo di
spiegare lo sviluppo, anche disordinato, delle metropoli a fronte
delle difficoltà di crescita delle zone limitrofe, con tutto quello
che ne derivava in termini di rendite urbane.
In questo discorso si è inserito, sulle orme di Marshall,
Giacomo Becattini, che ha aggiunto al modo tradizionale di
affrontare il problema – essenzialmente basato sulla
localizzazione ottima per la singola impresa – nuovi elementi. 6 W. Alonso, “Teoria della localizzazione”, in Analisi Regionale, a cura di L.
Needleman, Franco Angeli, Milano, 1973.
12
Secondo lo studioso toscano, infatti, “il distretto industriale
marshalliano costituisce un ispessimento localizzato delle
relazioni interindustriali che presenta un carattere di ragionevole
stabilità nel tempo”, ha carattere plurisettoriale e,
paradossalmente, “quanto più il distretto è capace di rinnovarsi,
di innestare nuovi settori sui vecchi, articolare fasi sempre più
specializzate sulla propria industria originaria, tanto più esso
mantiene la sua identità come distretto industriale”. Ci troviamo
di fronte ad un insieme di imprese che si sono localizzate in un
certo territorio – non ostile geograficamente o climaticamente –
per effetto di una sedimentazione storica e culturale che può
risalire anche a parecchi secoli addietro. È questo il caso di
Prato (e del suo comprensorio: Carmignano, Cantagallo,
Montemurlo, Poggio a Caiano, Vaiano e Vernio), che ha
conosciuto una intensa attività artigianale già nel 1200 e la
costituzione di una corporazione, l’Arte della Lana, che
procedeva a smistare la materia prima tra i lavoratori a domicilio
per arrivare alla produzione del prodotto finito (il panno di lana)
che i mercanti fiorentini provvedevano a vendere alle case
regnanti di mezzo mondo. Per agevolare questo compito,
nacque la prima famiglia di banchieri a Firenze, la Compagnia
de’ Bardi, che faceva prestito ai regnanti europei7 (fu, tra l’altro,
un prestito, non onorato, fatto ad Edoardo III d’Inghilterra che
ne decretò il fallimento nel 1345); nacquero le figure degli
7 F. Barca, nel suo “Storia del capitalismo italiano. Dal dopoguerra a oggi”, Donizelli Editore,Roma, 1999, accenna brevemente all’esperienza dei banchieri fiorentini e vi attribuisce addirittura il merito di avere inventato la politica, almeno quella più vicina ai giorni nostri, fatta di contatti e mediazioni.
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impannatori e degli intermediari commerciali. Insomma c’era già
un embrione di società capitalistica.
Ma lo stesso tipo di ricostruzione storica e di
individuazione delle prime tracce di attività può essere fatta per
qualsiasi altro distretto. Ad esempio, a Solofra8, in provincia di
Avellino, testimonianza della lavorazione di pelle caprina ed
ovina viene fatta risalire all’epoca romana (I sec. D.C), mentre
l’attività stabile di concia della pelle, con uso del tannino a tale
scopo, viene collocata intorno al 1500 sotto il dominio della
famiglia Orsini. Il distretto industriale si è andato a collocare in
un ambito territoriale in cui la conoscenza tecnica viene
tramandata di generazione in generazione, e l’utilizzo dei
macchinari messi a disposizione dal progresso tecnico del
tempo conforma la produzione in modi sempre nuovi.
Tuttavia, non sono rari i casi di territori in cui, in passato,
pure era presente una capacità tecnica o manuale, un saper
fare, e tuttavia oggi non sono distretti o sono zone addirittura
depresse. Come fa notare G. Viesti9, il sapere contestuale deve
essere nutrito, rafforzato e trasmesso, le persone che lo
incarnano devono restare sul posto (o ritornarvi) se non si vuole
la morte di quella comunità, almeno come distretto “in potenza”.
La concentrazione territoriale, però, può portare
diseconomie di agglomerazione, dovute alla scarsità di suoli 8 G. Biondi, “Mezzogiorno produttivo: il modello solofrano” Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 1984.9 Nel suo lavoro, ”Come nascono i distretti industriali”, Laterza, Bari, 2000, G. Viesti
affronta anche il problema della individuazione statistica dei D I, e cerca di spiegare teoricamente l’aggregazione distrettuale con le teorie della Nuova Geografia Economica e gli apporti di Paul Krugman, autore di “Geography and trade”, Leuven University Press, Leuven, Belgium; trad. it. “Geografia e commercio internazionale” Garzanti, Milano, 1995.
14
adibiti ad insediamento industriale, che, come conseguenza,
fanno aumentare le rendite dei proprietari terrieri, e possono
spiegare anche fenomeni di “migrazione” o “movimento” di
bacini distrettuali. È il caso, ad esempio, di quel florido tessuto
produttivo che si trova attorno all’area metropolitana di Napoli e
che, per effetto della congestione, dell’elevato prezzo raggiunto
dai terreni nella cinta urbana e della prossimità ad arterie
autostradali (Napoli –Roma), ha preso lentamente a muoversi e
ad “allungarsi”, fino a giungere a Caserta, innescando anche
fenomeni di crescita cumulativa per imitazione e creazione di
servizi accessori alle imprese.
1.2 La concorrenza
Per capire il senso della concorrenza nell’ambito del
distretto industriale, sarà opportuno accennare brevemente a
come funziona in generale un distretto. Si tratta evidentemente
di un modello astratto, in quanto molto può divergere il
funzionamento da distretto a distretto, a seconda del tipo di
produzione che ivi si tiene e a seconda della presenza o meno
di una impresa leader per dimensioni o per ruolo. In generale
sembra che nel distretto sia comunque più chiaro che altrove
l’importanza della concorrenza per riuscire a ricavare il meglio
dagli uomini e dalle situazioni di instabilità. L’incertezza è
connaturata alla vita di ogni essere vivente, ӏ nella storia, nella
scienza”, ma la concorrenza ne ricava il meglio.
“L’imprevedibilità è un dato ineliminabile della nostra condizione
15
esistenziale, la misura dell’incoercibilità della vita umana.
Bisogna allora ricordare che la capacità di fronteggiare
l’imprevedibile è il tratto caratteristico degli individui creativi,
dislocati in ogni strato sociale”.10
Generalmente, esiste sempre un “main contractor” che
provvede ad individuare le imprese sub-fornitrici (o terziste) per
far svolgere una parte ben precisa del processo produttivo. Se,
volendo fare l’esempio della industria calzaturiera di Barletta, il
prodotto finito è rappresentato dalla scarpa con suola di
gomma, ci saranno delle imprese che si specializzeranno nella
produzione della tomaia, altre che invece lo saranno nella
procedura della iniezione del poliuretano per la creazione di
suole, altre assembleranno il prodotto finale, altre ancora si
specializzeranno nella costruzione dei relativi macchinari e così
via. È chiaro che, in questo semplice schema, l’impresa “main
contractor” si trova in una posizione di forza (monopsonio), ma
ciò dura fintanto che la domanda resta locale. In altre parole,
come dimostrato anche dai modelli centro-periferia di Paul
Krugman11 e dai paradigmi della Nuova Geografia Economica12,
10 Lorenzo Infantino, docente di Sociologia Economica presso la LUISS “Guido Carli” di Roma, nella prefazione a: Ludwig Von Mises, “La mentalità anticapitalistica”, Armando editore, Roma,1988.
11 Paul Krugman, “Geography and Trade”, già citata.12 Per una disamina esaustiva dei principali stimoli di ricerca di questa scuola, si
veda: Ottaviano, G. e Puga, D.,”Agglomeration in the global economy: a survey of the New Economic Geography”, World Economy, vol. 21, 1998. In breve, la NGE assume che i rendimenti di scala siano sempre crescenti e che il commercio sia economicamente possibile (cioè i costi di trasporto non sono molto alti), per cui anche a parità di tecnologia, preferenze e dotazione di fattori iniziale, lo sviluppo di due regioni può divergere in base a fenomeni di agglomerazione che seguono due meccanismi distinti:
i) l’effetto di domanda, per cui la regione col mercato interno più vasto, avendo una maggiore produttività grazie ai rendimenti di scala crescenti, tende a divenire la regione esportatrice (home market effect);
16
è la dimensione e la qualità della domanda che trainano lo
sviluppo del distretto industriale. Se la produzione è assorbita
solo dal mercato locale (quello delle famiglie dei lavoratori del
distretto, per intenderci) allora ci sarà il collo di bottiglia
dell’unico “main contractor”, se invece si riesce ad arrivare alla
fase successiva (quella che G. Viesti chiama del “decollo” ),
allora ci sarà concorrenza anche sul prodotto finale. Questo è
un percorso evolutivo che si percepisce chiaramente nei
distretti meridionali: quelli che hanno resistito e si sono
ingranditi per effetto delle esportazioni all’estero (scelta
obbligata, oggigiorno) hanno più di un’impresa che esporta il
prodotto finale. Sull’insegnamento di Augusto Graziani13, si
potrebbe quasi parlare di un modello di crescita export-led su
base distrettuale.
Tuttavia, questa non è la classica concorrenza perfetta. Il
rapporto tra domanda ed offerta non è limitato al solo prezzo, in
quanto rilevante è il ruolo della reputazione. L’economia dei
costi di transazione (O. Williamson14, 1975) ha ben evidenziato
come la scelta tra “make or buy” si collochi in un punto di
ii) l’integrazione verticale delle imprese: la rilocalizzazione aziendale produce un cambiamento sia nella domanda che nella offerta di prodotti, per cui la regione che riceve nuove imprese ne guadagna sia in termini di maggiore offerta di prodotti che di maggiore domanda.
Di recente, Krugman ha individuato anche un terzo fattore di agglomerazione: la mobilità del fattore lavoro. Infatti, nel caso in cui una regione sfrutti meglio di un’altra le economie di scala (core-periphery model) , la regione “nucleo” pagherà stipendi più elevati della periferia, attraendo così nuovi lavoratori, e quindi ampliando ancora il mercato interno ed il divario tra le due regioni.
13 A. Graziani (a cura di), “Lo sviluppo di un’economia aperta”, ESI, Napoli,1969 e A. Graziani “Lo sviluppo dell’economia italiana - dalla ricostruzione alla moneta europea”, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
14 Williamson W., “Markets and Hierarchies”, New York, Free Press, 1975; trad it. “Mercato e Gerarchie”, in R. Nacamulli e A. Rugiadini (a cura di), ”Organizzazione & Mercato”, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 161-186.
17
mezzo indefinibile15. In particolare il prezzo conta sempre meno
quando lo scambio tra i due attori ha dato luogo a degli
investimenti idiosincratici16 (ad esempio, i costi per il
procacciamento di informazioni specifiche, gli uffici legali, le
strutture informatiche ad-hoc), e conta ancora meno quando la
competizione dei prodotti del distretto non si svolge sul terreno
dei costi (“leadership di costo”, che è la tipica forma con cui
competono sui mercati internazionali le “tigri asiatiche”) ma
sulla qualità, che è il caso del nostro “Made in Italy”. In pratica,
se ciò che esportiamo è un prodotto di qualità (addirittura di
lusso), tenderemo ad avere sempre meno sott’occhio la
dinamica di prezzo mentre sarà indispensabile garantirsi che la
qualità del prodotto del sub-fornitore sia ineccepibile; cosa che,
vista in prospettiva, consente di risparmiare sui costi per il
controllo di qualità, ad esempio. In definitiva, si tratta di una
concorrenza “temperata” dalla cooperazione, e di una
conseguenza naturale della divisione del lavoro tra le imprese
del distretto.
1.3 La cooperazione
Questa consuetudine locale ha tre funzioni principali:
15 Su questa linea di pensiero si colloca l’approfondimento di G.F. Esposito “Impresa e mercato:alcune ipotesi interpretative sulle dinamiche evolutive dei distretti industriali”, Working Papers dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, Roma,1994.
16 Per investimento idiosincratico, nell’economia dei costi di transazione, si intende quell’investimento “firm specific” ossia sostenuto dall’impresa in vista di un unico contratto con un un’unica impresa, ed i cui costi non sono ammortizzabili per altri contratti (sunk costs).
18
1. sostenere il dinamismo dei lavoratori che decidano di
mettersi in proprio: infatti è più comodo fare l’oneroso passo
di diventare lavoratore autonomo o imprenditore, se si è certi
che, nel caso di insuccesso, si possa ritornare a lavorare
presso il vecchio datore. Essa dà una rete di sicurezza ed
aiuta a sentirsi meno emarginati;
2. permette il coordinamento reciproco di attività strettamente
complementari (assicurando i dovuti standard qualitativi);
3. permette di abbassare i costi di produzione del distretto: si
instaurano di fatto dei comportamenti di routine che
permettono di risparmiare sui controlli e sulle contrattazioni
(un po’ come avviene nel cervello umano, dove le routine,
non solo di comportamento ma anche di percezione
sensoriale, creano dei legami neuronali tra i lobi pre-frontali
e l’amigdala più ampi e resistenti rispetto a quelli che
collegano i due organi in caso di sensazioni nuove o
comportamenti non ancora sperimentati).
La cooperazione ha senso in un ambito culturale
omogeneo, in una comunità che una serie di obiettivi condivisi,
in cui la fiducia reciproca ha la possibilità di confermarsi ed
auto-rafforzarsi. Ricerche empiriche hanno dimostrato che il
rendimento delle imprese distrettuali misurato con il ROI (return
on investment), grazie anche alla cooperazione, è di circa due
punti percentuali superiore alle imprese di analoga dimensione,
operanti nello stesso settore, ma al di fuori di un contesto
19
distrettuale.17Un risvolto concreto della cooperazione è questo:
come nella Birmingham del 1850 il factor (figura imprenditoriale
che fungeva da intermediario commerciale tra le imprese
produttrici locali e gli acquirenti nazionali ed esteri) prestava
normalmente ai piccoli produttori il denaro per l’acquisto delle
attrezzature, così oggi nei distretti industriali oltre a questa
pratica ci sono altre forme indirette di finanziamento, come gli
accordi di garanzia di carico dei macchinari; e su questa base
può nascere spesso anche un florido mercato distrettuale dei
macchinari usati, che vengono acquistati, in genere, dai
lavoratori che vogliano mettersi in proprio.
Il ruolo della cooperazione è stato messo in luce da Gabi
Dei Ottati, G. Becattini e, separatamente, da S. Brusco anche in
relazione ad un altro aspetto fondamentale: la capacità di
innovazione dei distretti. Una delle ragioni per cui la Sinistra ha
visto di cattivo occhio la realtà distrettuale italiana è stata
proprio la presunta incapacità a concepire e portare avanti
innovazioni di rilievo. Osservazione che ha un senso se si
pensa ai settori ad alta intensità di capitale, come la chimica e
la siderurgia, dove senza un congruo investimento di migliaia di
miliardi e pachidermici centri di ricerca non si riesce ad ottenere
nessun brevetto. Ma nel caso dei distretti industriali italiani,
specializzati nei settori dell’abbigliamento, lavorazione pelli e
cuoio, meccanica, tessile, calzature, in cui tutto ruota intorno al
design o a piccoli ritrovati che migliorino l’ergonomia di oggetti, 17 Più avanti daremo conto in modo più approfondito della ricerca di F. Signorini,
fatta a partire dalla riclassificazione dei dati di bilancio di 500 imprese del settore laniero, con dati della Centrale dei Bilanci della banca d’Italia.
20
o la funzionalità di apparecchiature meccaniche utilizzate in
quelle produzioni, l’innovazione e la relativa capacità non hanno
bisogno di massicci investimenti. L’humus distrettuale, invece,
sembra quello ideale per permettere lo scambio di idee, di
spunti, per la trasmissione di ritrovati che, apparentemente
senza valore, vengono poi messi a punto da altri operai.
1.4 Le economie esterne
Si puo’ dire che la parte più consistente della teoria
marshalliana sui distretti ruoti intorno a questo argomento, e
che questo sia stato il campo di analisi e di verifica empirica che
più ha fatto lavorare gli economisti. Dallo studio di F. Signorini
sull’effetto “distretto” desumibile dall’analisi dei bilanci di 500
imprese del settore laniero alle puntualizzazioni di G. Becattini,
fino al lavoro di S. Brusco, prima richiamati, gran parte della
letteratura sui distretti si occupa di questo aspetto, che è poi
quello che spiega la forza competitiva di questi sistemi locali
sullo scenario competitivo internazionale, nonostante la
presenza di colossi imprenditoriali di prim’ordine.
Nell’opera di A. Marshall la prima distinzione che si fa è
tra economie interne, che sono quelle “dipendenti dalle risorse
delle singole imprese, dalla loro organizzazione, dall’efficienza
della loro amministrazione”, e le economie esterne “dipendenti
dallo sviluppo generale dell’industria”. Nell’ambito di queste
ultime poi, l’autore considera quelle che si possono ottenere
mediante la “concentrazione di parecchie piccole imprese di
21
natura simile in località particolari; o mediante localizzazione
dell’industria”. Queste sono le economie esterne di
agglomerazione (dette anche immobili), che consistono in una
diminuzione dei costi di produzione e di transazione di cui una
impresa può avvantaggiarsi quando sia inserita in un
agglomerato relativamente grande in termini produttivi. Altro
caso di economie esterne riguarda lo sviluppo di cognizioni ed il
progresso della tecnica. Nei “Principles of Economics”, Marshall
adduce più di un esempio chiarificatore in merito a queste
economie: “l’uso economico di macchine costose si può talora
conseguire in sommo grado in un distretto in cui esista una
grande produzione complessiva dello stesso genere, anche se
nessun singolo impiego di capitale nell’industria è molto esteso.
Infatti le industrie sussidiarie, che si dedicano soltanto ad un
piccolo ramo del processo di produzione e lo esercitano per un
gran numero di industrie vicine, sono in grado di tenere
continuamente in attività macchine specializzate al massimo
grado, e di ottenere che questa utilizzazione compensi la
spesa, anche quando il costo originario sia stato alto, e molto
rapido il suo deprezzamento”. Ma è sempre un’economia
esterna anche quella che deriva dall’opera di imprese
sussidiarie in un distretto, come quelle che si occupano della
raccolta e della distribuzione dei vari materiali e delle altre merci
di cui i piccoli stabilimenti hanno bisogno, nonché della raccolta
e della distribuzione del prodotto del loro lavoro.
L’agglomerazione di imprese in uno stesso posto può essere
22
contrastata da un fenomeno che è in relazione diretta col
progresso tecnologico: la diminuzione dei costi di trasporto
(comprendendovi, però, anche la riduzione del costo delle
telecomunicazioni: negli ultimi 50 anni il costo di una telefonata
Londra-New York è diminuito di 40 volte). I fenomeni di
delocalizzazione di imprese oggi sono facilitati, e difatti non
mancano esempi, tanto nei distretti del Nord Est quanto in quelli
pugliesi, di imprenditori che preferiscono localizzare i nuovi
impianti in paesi dove più basso è il costo della manodopera. E
tuttavia questo non serve a vedere tutto il problema: i distretti
non vengono smantellati per il solo fatto che un certo numero di
imprenditori (in genere quelli che svolgono le fasi di lavorazione
a più elevata presenza di capitale umano) preferisce trasferirsi
all’estero. C’è sempre un sapere contestuale che resta nel
territorio d’origine: anzi ricerche empiriche hanno dimostrato
che ci sono anche molti imprenditori che preferiscono
localizzare impianti dove ci sono delle conoscenze da
apprendere o una nuove tecniche da imitare. In definitiva, un
fattore potente di agglomerazione non è tanto la riduzione dei
costi di trasporto (soprattutto oggi che sono mediamente bassi,
se si eccettuano alcune zone dell'Appennino lucano e della
Calabria18) quanto piuttosto l’informazione negli scambi, la
formazione delle professionalità, l’innovazione. Proprio a questo
riguardo, G. Becattini parla di economie “esterne all’impresa ma
18 Per un utile approfondimento statistico, si veda il rapporto: “Le regioni insulari ed il prezzo del trasporto delle merci intracomunitario”, a cura di Eurisles, 1998. In particolare vi sono indicati i sovra-costi che regioni come Sicilia , Sardegna e Calabria devono sostenere per raggiungere l’Europa continentale.
23
interne al distretto”. Un esempio gioverà a chiarire tutto ciò:
quando bisogna fare un acquisto, il tempo che siamo disposti a
spendere per procurarci informazioni in merito è tanto più lungo
quanto più costoso è il bene che vogliamo acquistare e quanto
più è difficile capirne le qualità intrinseche. I costi di questa
ricerca crescono se il compratore ha poco tempo, per cui
diventa vantaggioso per lui trovare in un’area ristretta i beni fra
cui scegliere. Un fenomeno del genere ci può aiutare a capire
perché in molte città ci siano strade in cui si sono addensati
negozi che vendono la stessa merce: il caso di via San
Sebastiano a Napoli (strumenti musicali) ne è un esempio. I
Neo-Istituzionalisti, partendo dalla lezione di Richardson19 e
Williamson20, hanno cercato di spiegare il funzionamento
proprio in questi termini: l’impresa del distretto industriale sarà
incentivata a delegare fasi sempre più ampie di lavorazione
all’esterno [dell’impresa, ma all’interno del distretto] quanto più
avrà “fiducia” del partner distrettuale, viceversa, se la relazione
diventa opportunistica e ci sarà bisogno di strutture di controllo
della controparte, essa sarà indotta ad internalizzare, e
integrare verticalmente la produzione (”make”). Un buon modo
per ridurre il peso della fiducia potrebbe essere quello di
condividere standard produttivi comuni: in questo modo risulta
più facile instaurare una rete di transazioni fra le imprese
distrettuali.
19 G. B. Richardson, ”The organisation of industry”, in Economic Journal, 1972, pp. 883-896.
20 Oltre all’opera già citata, vedi anche Williamson O. E. “L’organizzazione economica”, Il Mulino, Bologna, 1991.
24
1.5 La divisione del lavoro
Aspetto logicamente complementare a quello delle
economie esterne è la divisione delle fasi di produzione del
bene finale e il loro adempimento da parte di imprese diverse,
che prendono idealmente il posto dei diversi reparti di un unico
grande stabilimento integrato verticalmente e comprendente al
suo interno tutta la filiera di produzione. Nel distretto succede la
stessa cosa che Adamo Smith21 descriveva nella “Ricchezza
delle Nazioni”, quando parlava della produzione degli spilli e di
come poteva essere grandemente aumentata mediante una
razionale divisione delle mansioni. Nel distretto le singole unità
produttive tengono costantemente conto delle caratteristiche
del mercato, della concorrenza e delle economie di costo (o
scala) per raggiungere la dimensione minima efficiente (DME).
È bene , a tal proposito, richiamare alcuni concetti di Economia
Industriale per chiarire questo punto. Si hanno economie di
scala quando il costo medio unitario di produzione diminuisce
all’aumentare della capacità produttiva dell’unità considerata
(impianto o stabilimento) fino alla dimensione ottima minima
(DOM) o alla dimensione minima efficiente (DME).La curva
delle economie di scala è una curva di lungo periodo data
dall’inviluppo delle curve di breve; la curva di lungo periodo
rappresenta i costi riferiti ad un periodo in cui l’impresa può
scegliere la propria capacità produttiva ovvero variarla 21 Adamo Smith, “La ricchezza delle nazioni”, UTET, Torino,1975.
25
adottando un certo impianto, mentre quelle di breve
rappresentano l’andamento dei costi medi unitari in un periodo
in cui l’impianto, e quindi la capacità produttiva dell’impresa, è
dato e l’impresa può solo variare le quantità prodotte .
La dimensione ottima minima è la dimensione minima di
impianto con il livello minimo di costi medi unitari, oltre la quale
la curva diventa orizzontale o assume la forma ad U
(diseconomie di scala); invece la dimensione minima efficiente
(DME) è quel punto oltre il quale l’elasticità dell’aumento dei
costi all’aumento della scala produttiva è molto bassa e la curva
dei costi decresce lentamente per cui si possono ottenere
minimi guadagni in termini di efficienza con elevati incrementi di
volume produttivo22 (vedi fig.1). Proprio per questo motivo le
imprese distrettuali tendono ad assumere questa dimensione
(DME) più contenuta, data una certa domanda di mercato e,
quindi, un certo impianto23.
Figura 1
22 Per approfondimenti, si consulti: Del Monte, A.,”Manuale di organizzazione e politica industriale”, UTET, Torino, 1994. In merito ai distretti, vi si legge:”Alla base del distretto industriale come organizzazione produttiva efficiente vi è l’idea che non sia possibile distinguere fra dimensione minima di impresa e dimensione minima di produzione. In sostanza si ipotizza che il conceto di impianto minimo efficiente non coincida necessariamente con la dimensione ottima dell’impresa in quanto le varie fasi potrebbero essere svolte da più imprese con una sola che si occupa della fase finale”.
23 Il risparmio di costo (Cmin - Cmin), che si può avere passando dalla DME alla DOM, non risulta conveniente, poiché molto onerosi (non solo in termini monetari ma anche di maggiore rigidità) risultano gli investimenti per passare da CP a CP (il maggior volume di produzione cumulato che si ottiene con l’impianto più grande). Ecco perché l’impresa distrettuale, confidando nella cooperazione che scaturisce da una maggiore divisione del lavoro, preferisce restare più piccola del livello ottimo di impianto (DOM).
26
Fonte: Sicca, L., “La gestione strategica dell’impresa”, CEDAM, Padova, 1998.
L’efficienza del processo di divisione del lavoro viene
garantita all’interno del distretto mediante il meccanismo dei
prezzi (o tariffe, in senso più ampio), che riesce ad allocare in
senso ottimale le diverse fasi del processo produttivo tra i
diversi attori-imprese.
Per descrivere in modo scientifico il processo di divisione
del lavoro, ed evidenziarne le efficienze, Piero Tani24 utilizza lo
schema fondi-flussi messo a punto dall’economista rumeno
Georgescu-Roegen25(1969-1970): qui il fenomeno della
produzione viene visto come un processo, cioè un fenomeno
24 Piero Tani, “La decomponibilità del processo produttivo”, in G. Becattini “Mercato e forze locali :il distretto industriale”, Il Mulino, Bologna, 1987.
25 Nicholas Georgescu Roegen, “Analisi economica e processo economico”, Sansoni, Firenze, 1973.
27
che si svolge nel tempo (una scatola nera: il processo è
delimitato da una durata [compresa tra un istante iniziale ed
uno finale] e da un confine, che in ogni istante separa quello
che si conviene di considerare all’interno di un processo da
quello che appartiene invece all’ambiente in cui il processo si
svolge). Gli input di processo sono le materie prime, i
semilavorati, le macchine, gli impianti, le risorse naturali e i
lavoratori. Il processo elementare corrisponde alla descrizione
(sia grafica che mediante equazioni) di tutte le operazioni che,
(con una data tecnica) conducono all'ottenimento di una unità di
un dato prodotto. Il modello di Piero Tani (mutuato dallo
schema Georgescu-Roegen) si presta ad individuare le cause
di maggior efficienza di un sistema decentrato rispetto ad un
sistema verticalmente integrato. Queste cause “si potenziano
quando le imprese che attivano singole componenti del
processo operano in una situazione di contiguità territoriale ed
in un contesto che rende minori i costi dei processi ausiliari, che
determina più favorevoli condizioni all’attività di imprese di
piccole dimensioni e consente un efficace funzionamento dei
mercati di beni intermedi”. Tutte le attività realizzabili in un
distretto possono essere rappresentate come un unico
processo complesso “costituito dalla attivazione in linea di un
certo numero di processi complessi elementari con elevato
carattere di scomponibilità. Tra le componenti di questo
processo ve ne saranno alcune che corrispondono a processi
ausiliari (trasporto, conservazione e altre operazioni sussidiarie
28
relative a semilavorati o a prestazioni di servizi alle imprese), e
che sono direttamente collegate con il fatto che le singole
componenti del processo complessivo si realizzano in unità di
produzione differenti; per ogni possibile tipo di processo
elementare e per ogni livello di produzione complessiva del
bene finale è identificabile un massimo grado di ripartizione
dovuta sia alla scomposizione del processo in linea sia alla
divisione, quando possibile, delle singole componenti”.
1.6 La comune base culturale
L’interdisciplinarità della materia distrettuale è evidente
quando ci si addentra nel campo della cultura comune al
distretto. Studi approfonditi di A. Bagnasco, ripresi da S. Brusco
e G. Garofoli spiegano la presenza accentuata dello spirito
imprenditoriale nei distretti con la diffusione della mezzadria,
per buona parte dell’ottocento e nella prima metà del secolo
scorso, nelle regioni centro-settentrionali. La necessità del
mezzadro di saper fare di conto e di avere un minimo di
dimestichezza con l’incerto, radicata in più generazioni, ha
instillato nelle popolazioni dei futuri distretti il gusto per
l’intrapresa e l’accettazione del rischio (seppure temperato dai
meccanismi di cooperazione già descritti). Questo sottofondo
culturale accomuna sia gli operai delle zone distrettuali, che nel
loro intimo hanno sempre l’obiettivo di mettersi in proprio e di
raggiungere il gradino successivo di riconoscimento sociale,
che gli imprenditori, sempre attenti a carpire nuovi campanelli
29
d’allarme sui mercati così come nuovi stimoli e nuovi modelli
organizzativi che si rivelino più competitivi.
Per il resto, ci sono differenze, anche consistenti, tra le
diverse zone distrettuali dell’Italia del Nord Est o dell’Emilia, o
della dorsale adriatica. Differenze che si sostanziano in una
diversa rappresentanza politica: "Rosse" l’Emilia e la Toscana,
e fondamentalmente più isolate dal contesto nazionale e
dall’influenza dell’apparato della curia cattolica (le case del
popolo, i centri e le scuole di formazione pubbliche hanno
salvaguardato un modello di crescita tipicamente emiliano),
“Bianco” il Veneto, e per questo più intriso di valori solidaristici e
familiaristici tipicamente cattolici, e più dipendente da modelli di
sviluppo dettati dal Centro26. Un valore comune a tutti i distretti,
che non va sottovalutato e che è alla base, per altro verso,
dell’arretratezza del Mezzogiorno, è la tecnica manuale: il
sapere “usare bene le mani” per i più disparati lavori – dalla
carpenteria all’agricoltura, dall’edilizia domestica ai piccoli lavori
di falegnameria- è una “condicio sine qua non” dello sviluppo di
imprenditorialità diffusa; se non hai una buona manualità o
tecnica non puoi lavorare come operaio, e se non sei operaio
difficilmente potrai fare il salto verso l’imprenditoria.
26 Per un’analisi comparativa di queste due zone vedi: “Istituzioni politiche e sviluppo locale nella Terza Italia”, di Anna Carola Freschi, in Sviluppo Locale, n.1,Passigli Editore, Firenze,1994.Uno studio più recente su queste due zone, e sul diverso modo di agire delle rispettive istituzioni locali a sostegno dei distretti (tramite lo strumento della programmazione negoziata) è dovuto a Patrizia Messina, dell’Università di Padova: si veda “La regolazione nei sistemi locali: alcune notazioni critiche”, dagli atti del convegno “Sistemi, Governance & conoscenza nelle reti di impresa”, tenutosi presso l’Università di Padova il 17 e 18 maggio 2001.
30
Questo è un problema che spesso viene ignorato quando
si parla di sviluppo dei distretti meridionali, ma è un fatto che i
flussi migratori dalle campagne alla città hanno indebolito
proprio questa caratteristica della popolazione meridionale.
Conoscenze e abilità manuali apprese nell’arco di decenni di
vita nelle campagne, per imitazione dei “vecchi”, o per learning
by doing (il semplice reverse-engineering consistente nello
smontare e rimontare un trattore è un buon esempio) sono
andate dissipate nell’arco di un paio di generazioni, in cui la
politica industriale ha privilegiato gli investimenti ad elevata
intensità di capitale nel Mezzogiorno (chimica e siderurgia) e ha
di fatto indotto masse consistenti di persone a lasciare le
campagne. La congestione delle città, la ricerca del posto fisso
(pubblico) e la terziarizzazione hanno fatto il resto. Per
correggere questo stato di cose, e per travasare le dosi
necessarie di sapere tecnico per innescare il processo di
distrettualizzazione, si cercano ora artificiosi sistemi di
“insegnamento” sul posto da parte di maestranze provenienti da
distretti già affermati. Si cerca in pratica di replicare il modello di
crescita incentrato sullo stabilimento Magneti Marelli di Carpi27
in cui le maestranze dell’impianto principale di Sesto San
Giovanni furono mandate in Emilia per addestrare gli operai
Carpigiani del nuovo stabilimento. Per il distretto della
corsetteria di Lavello (Potenza) si è cercato di fare lo stesso:
operaie esperte provenienti dall’Emilia Romagna hanno tenuto 27Per uno studio approfondito della vicenda, vedi: G. Solinas, “Competenze, grandi
imprese e distretti industriali -il caso della Magneti Marelli” in Rivista di Storia Economica, Einaudi, vol X/1993
31
stage di formazione nel paese lucano, ”incubando” così nuove
realtà imprenditoriali. Ma il parallelo non regge: infatti mentre
nel Carpigiano si è trattato di infondere nuove conoscenze
tecniche in un contesto già semi-industrializzato (florida era
l’industria del truciolo e della meccanica leggera), nel paese
lucano non basta trasmettere le nozioni relative alla cucitura o
al confezionamento di corsetteria. Ci sarà, difatti, sempre una
dipendenza nella manutenzione dei macchinari (peraltro forniti
da imprenditori emiliani) e nella gestione commerciale.
1.7 Il mercato di riferimento
Negli ultimi anni i lavori di Gianfranco Viesti e di Enzo
Rullani hanno evidenziato due aspetti particolari della vita dei
distretti:
1) molti si vanno a collocare dove c’è relativa abbondanza di
manodopera a buon mercato;
2) il distretto prospera se c’è dapprima una forte domanda
locale e poi se riesce a stare nella competizione globale.
Nella fattispecie, la riduzione dei costi di trasporto e la
disponibilità in ogni momento di qualsiasi informazione a costo
praticamente zero (grazie ad Internet e alle reti interne alle
aziende, Intranet) costringe le imprese di distretto a competere
anche sul mercato locale con imprese di paesi lontani, dotate di
alcuni vantaggi competitivi (come il basso costo del lavoro). Per
resistere a tutto questo, le imprese formano reti corte (con le
altre presenti nel distretto) e reti lunghe (con imprese e
32
istituzioni extra-distrettuali) con molteplici scopi: procurarsi
informazioni tecniche particolari, prevedere l’andamento futuro
della domanda (l’economista industriale americano M. Porter28,
a tal riguardo, sottolinea come i distretti del “Made in Italy”
italiani siano un passo avanti agli altri poiché sfruttano quella
che sembra, a prima vista, una debolezza strutturale del nostro
paese: un sistema distributivo “antiquato” composto da una
miriade di negozietti, che, essendo a stretto contatto con il
cliente finale, sono in grado di trasmettere istantaneamente alle
imprese del distretto i cambiamenti di gusto riscontrati),
ammortizzare i costi di ricerca o di strutture particolari (come
quelle di un ufficio legale, o di lobbying).
1.8 Alcune considerazioni storiche e sociologiche
Numerosi sono gli elementi di ordine storico e sociologico
che influenzano l’analisi e la stessa nascita dei distretti
industriali. Si può dire che la stessa rivoluzione industriale sia
nata dalla divisione del lavoro attuata all’interno dei distretti
tessili del Lancashire del Sud, col sistema del “putting out” che
sfruttava il lavoro a domicilio delle donne, mentre i maschi
venivano occupati in lavori più pesanti e si cominciava a
spopolare la campagna (anche per effetto di nuove tecniche di
coltivazione che non richiedevano notevole forza lavoro). Ci si è
spesso chiesti perché tutto ciò sia nato proprio in Gran
28 M. E. Porter, “Il vantaggio competitivo delle nazioni”, Mondadori, Milano, 1991.
33
Bretagna: la religione anglicana e protestante in generale, la
rivoluzione del 1688 (“the glorious revolution”) con a capo
Cromwell, ma che vedeva un intero popolo prendere coscienza
dei propri diritti e una monarchia arretrare in modo incruento, lo
strapotere commerciale nei mari di mezzo mondo sono buoni
motivi per spiegare tutto ciò. Più di uno studioso (a cominciare
dal Max Weber di “L’etica Protestante e lo spirito del
capitalismo”29 del 1904 sulla religione Calvinista per arrivare fino
ai giorni nostri con l’Erich Fromm di “Avere o Essere?”30 del
1976, anche se partendo da punti diversi) ha sottolineato la
funzionalità non solo della religione ma anche degli apparati
curiali nell’affermazione dello spirito capitalistico e nel
mantenimento dello status quo senza eccessivi sommovimenti
di popolo - relazione condizionale, della religione all’economia,
che costituisce un’importante alternativa metodologica al
materialismo storico, che postula la dipendenza di ogni
processo storico dalla struttura dei rapporti sociali di
produzione-, aspetto questo che si può misurare con particolare
efficacia proprio in contesti più ristretti come quelli dei primi
distretti31.
Questa particolare spiegazione storica darebbe significato
anche alle diversità dimensionali e di funzionamento riscontrate
nei distretti industriali giapponesi rispetto a quelli occidentali.
Una società più conservatrice (anche per certe dottrine 29 M. Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, BUR, Milano, 1993.30 E. Fromm, “Avere o essere?”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1977.31 Un brano dello storico Jaques Le Goff, facendo la cronaca di una giornata tipo
della Francia medioevale del 1300, narra di come le campane delle chiese del villaggio scandissero l’orario lavorativo.
34
shintoiste e buddhiste, basate sulle distinzioni immutabili di
casta con la “valvola di sfogo” della reincarnazione), la
maggiore propensione al risparmio, ed un posto di lavoro che si
mantiene per tutta la vita spiegano le rigidità maggiori di quei
distretti sia in termini di funzionamento e di figure coinvolte
(meno numerose e variegate) che di dimensione media delle
imprese (in genere doppia o tripla rispetto alle nostre)32; di fatto
hanno anche un peso minore di quelli italiani nella loro bilancia
commerciale. I distretti giapponesi specializzati nella
produzione di coltelli di alta qualità, ad esempio, sono molto più
addensati dei nostri nelle grandi città e, come strategia
commerciale, badano ad acquisire da subito una consistente
quota di mercato.
Tornando in Italia, si è tentata più volte la strada “storica”
per spiegare prima lo sviluppo del Settentrione, con le relative
zone ad alta industrializzazione, e poi per dare conto
dell’arretratezza cronica di larga parte del Mezzogiorno. Contro
la tesi dei meridionalisti classici (come Giustino Fortunato) che
attribuivano lo stato delle cose alla povertà naturale della terra,
si contrappone la tesi di B. Croce33. Questi attribuisce
all’esperienza comunale (1200-1300) l’efficienza delle
popolazioni settentrionali, mentre nel Mezzogiorno la sua
mancanza avrebbe fatto persistere il latifondismo e in generale
un’economia dai tratti feudali ancora nel 1800, condizione che
ha impedito l’emergere di gruppi sociali innovatori e la 32 Okamoto,Y.,“Distretti italiani e distretti giapponesi: similarità e differenze”, Il Ponte,
nn. 7/8, Firenze, 1994.33 B. Croce, “Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1944.
35
progressiva formazione di istituzioni sociali favorevoli allo
sviluppo del capitalismo. Su questa situazione già deficitaria per
il Sud, si è avuto il potenziamento della rete viaria e ferroviaria
settentrionale per esigenze logistiche dettate dalla I guerra
mondiale e l’abbandono del Mezzogiorno (come sostenuto da
M. Finoia34). Tesi che contrasterebbe parzialmente con quella di
Capecelatro e Carlo35, per i quali la condizione fondamentale
per l’accumulazione capitalistica settentrionale è da rinvenire
nella distruzione della nascente e già sufficientemente
sviluppata industria meridionale. La teoria di causazione
cumulativa di Gunnar Myrdal36 nell’un caso e nell’altro
spiegherebbero perché poi i distretti industriali del Nord sono
decollati e quelli deboli del Sud sono declinati, eccezion fatta
per alcune industrie di punta (i guantai napoletani, ad esempio),
situate in una zona dove la domanda è sempre elevata (l’area
urbana di Napoli).
La realtà distrettuale può dare spunto per l’applicazione di
più di un concetto di sociologia. Nei suoi scritti più recenti,
Becattini ha evidenziato come la realtà produttiva dei distretti e
la rete sociale che inevitabilmente essi sottintendono sia la
migliore garanzia contro “l’incertezza” di un mondo
estremamente competitivo. La possibilità di trovare comunque
un lavoro in una realtà conosciuta, magari con altre mansioni, 34 M. Finoia intervistato da Paolo Martini a RadioRadicale, il 22 aprile 2001. Lo
studioso napoletano, già Rettore del Terzo Ateneo di Roma, è deceduto il 16 Giugno scorso a Roma.
35 Capecelatro E. M. e Carlo A., “Contro la questione meridionale”, Samonà e Savelli, Roma, 1972.
36 G. Myrdal, “Teoria economica e paesi sottosviluppati”, Feltrinelli, Milano, 1966, ed. originale ”Economic Theory and Under-Developed Regions”, Duckworth, London, 1957.
36
renderebbe più appetibile restare in loco piuttosto che emigrare
verso le grandi zone inurbate. Il distretto, per altro verso,
sarebbe anche un’assicurazione contro le congiunture
economiche negative: difatti, dando lavoro a molti membri della
famiglia è come se si creasse un “salvagente”. Se il
capofamiglia perde il lavoro, il tenore della famiglia viene in
gran parte garantito dai figli e dalla moglie che lavorano in altre
aziende. Molti studi fatti in questo senso confermano la
tendenziale stabilità dei livelli di reddito di una famiglia che vive
e lavora in un distretto, rispetto ad una famiglia simile (per
componenti e struttura) non immersa in un contesto del genere.
L’importanza di questi contributi interdisciplinari
(specialmente sociologia e filosofia) riguarda anche la divisione
del lavoro e l’interdipendenza tra soggetti coinvolti in quel
processo. Herbert Spencer - in piena età Vittoriana - ha
sostenuto che una società può esistere solo quando la
cooperazione è presente tra un gruppo di individui e, sulle sue
orme, Emile Durkheim identifica l’organizzazione del lavoro, che
incorpora i principi di specializzazione delle funzioni e della
divisione del lavoro, come un principio esplicativo sia
dell’evoluzione biologica che di quella sociale, in armonia con il
costume dei suoi tempi di applicare le scoperte di Darwin alla
teoria sociale; il sociologo francese è anche il teorico dei “corpi
intermedi” - richiamati di recente anche da Giuseppe De Rita,
presidente del CENSIS -, cioè di quelle entità intermedie tra
individui e stato che consentono alla società di vivere
37
liberamente. In particolare la vita del distretto, vista
specialmente in contrapposizione con quella della grande
impresa fordista (organizzata secondo i criteri tayloristici
secondo cui “l’uomo è parte della macchina”), riesce a eludere i
problemi legati alla parcellizzazione delle mansioni. Questa,
difatti, può divenire così complessa che l’individuo alla lunga
non vede il proprio ruolo integrato con quello degli altri, diventa
psicologicamente disgregato e smarrito (questa potenziale
malattia viene denominata da Durkheim “anomia”, potendo
portare ad una delle tre tipiche forme di suicidio: il suicidio
anomico). Per evitare questa malattia, il lavoratore non deve
“perdere di vista i suoi collaboratori”37, e deve essere
consapevole del fatto che “egli agisce nei loro confronti e
reagisce ad essi”. Lo stesso Karl Marx, con la sua distinzione
tra obiettivizzazione e alienazione, contenuta nei suoi scritti
giovanili (“Manoscritti economico-filosofici” del 1844) ha
approfondito questo aspetto.
Più in generale, l’apporto della sociologia oggi è sentito
come necessario una volta constatato che il valore di un bene
non è dato tanto dalle “ore-lavoro” in esso incorporato quanto
dalla sua utilità marginale; il dato a cui si deve risalire per
spiegare i rapporti di scambio tra i beni è la struttura delle
preferenze del consumatore (che, è chiaro, è influenzata ed
influenzabile da elementi esterni all’individuo, come la società
37 E. Durkheim, “De la division du travail social”, Alcam, Paris, 1893; traduzione it. ”La divisione del lavoro sociale”, Edizioni di Comunità, Milano,1962.
38
nel suo complesso) piuttosto che la quantità di lavoro
incorporato, come avveniva nella teoria ricardiana.
1.9 Nuovi stimoli di ricerca: parallelismi con la biologia e la
fisiologia del cervello.
La parte sociologica dell’approfondimento sulle dinamiche
distrettuali nel pensiero di Becattini introduce una visione
“biologica” della sua evoluzione. Il distretto, cioè, nasce, vive e
muore secondo certi stimoli e con delle aspettative che
ricordano quelle di un essere vivente. Si tratta di una svolta non
del tutto rivoluzionaria nel modo di impostare lo studio
dell’economia, e che risente degli insegnamenti di Herbert
Spencer e J. S. Mill. Il primo, in particolare, delinea la sua
biologia che fonde il principio lamarkiano della “funzione che
sviluppa l’organo” con quello darwiniano della “sopravvivenza
del più adatto”, concependo la vita come adattamento degli
organismi all’ambiente in riferimento all’accumularsi di
variazioni funzionali che sempre meglio rispondono alle
esigenze ambientali (e che poi si trasmettono alle generazioni
successive secondo la legge de “i caratteri acquisiti”). La stessa
legge spiega lo sviluppo della psiche umana individuale e degli
organismi sociali.
Becattini ha modo di parlare di questi nuovi filoni di ricerca
durante la sua ultima lezione38 tenuta presso l’Università degli
38 “The latest lecture” di Giacomo Becattini, nella cronaca di Cosimo Perrotta, Università degli studi di Lecce, mimeo,2000.
39
studi di Firenze. In particolare, riprende i suggerimenti di J.S.
Mill sull’etologia, come campo di partenza per lo studio della
società e le suggestioni etnologiche ed antroplologiche dello
stesso Marshall. Tutto questo per uno scopo preciso: una volta
restituita l’economia al suo terreno originario di scienza della
società, si possono recuperare all’ambito dell’analisi scientifica
le grandi domande sulla produzione e la distribuzione della
ricchezza sociale.
Interessante a questo proposito è il parallelo che si può
fare tra il funzionamento della mente umana e la società prima
e il distretto industriale poi (come forma miniaturizzata della
società di un contesto territoriale). Marshall39 in alcuni scritti
giovanili e poi F. Von Hayek40 hanno intuito che la mente
costruisce le risposte abituali agli stimoli esterni attraverso
percorsi di routine che le fanno risparmiare energie: quelle
energie che essa può impiegare per compiti nuovi e creativi. Più
precisamente, il cervello umano funziona così: l’amigdala è
l’archivio della memoria emotiva del cervello, che, in caso di
panico, emette impulsi tramite i quali le ghiandole surrenali
secernono adrenalina (tensione) e noradrenalina. Per evitare
che ci siano emissioni di ormoni (cortisolo) fuori controllo da
parte dell’amigdala in situazioni di pericolo41, i lobi prefrontali
(dove risiede la nostra memoria di lavoro, il centro esecutivo) 39 Marshall,A. e M.P.,”The Economics of Industry”,Macmillan Press,London,1879;
trad. it a cura di G. Becattini,”Economia della produzione”, ISEDI Istituto Edotoriale Internazionale, Milano,1975.
40 Hayek,F. A.,”The sensory Order: An Enquiry Into The Foundations of Theoretical Psychology”, University of Chicago Press, Chicago,1952.
41 In pratica l’amigdala funge da campanello d’allarme interno; essa si impernia su una serie di strutture che circondano il tronco cerebrale, note come sistema “limbico”.
40
hanno il potere di inviare neuroni inibitori in grado di bloccare le
direttive che l’amigdala invia loro. Questa guerra tra neuroni
stimolatori ed inibitori si gioca nella frazione di un secondo, ed
in genere i neuroni stimolatori inviati dall’amigdala sono più
veloci, dovendo far fronte a situazioni di pericolo. Su questo
sistema di “autostrade neuronali” (come quella che collega i lobi
prefrontali all’amigdala) si basa anche la capacità di
apprendimento, come la padronanza di sé ed altre qualità
caratteriali. Apprendere e disapprendere (qualsiasi cosa: da un
comportamento ad una lezione scolastica) avvengono a livello
di connessioni cerebrali. Mentre acquisiamo il nostro repertorio
abituale di pensiero, sentimento e azione, le connessioni
neurali alla base di quel repertorio vengono rafforzate,
diventando le vie di trasmissione preferenziali degli impulsi
nervosi42. Fra due risposte alternative, prevarrà quella che si
avvale della rete di neuroni più ricca e forte. Una volta che le
abitudini sono state bene apprese, attraverso infinite ripetizioni,
per il cervello i circuiti neurali che le sostengono assumono il
carattere di opzioni “default”: in altre parole, noi agiamo in modo
automatico e spontaneo. La neocorteccia, poi, ossia gli strati
più superficiali del cervello, che ci conferiscono la capacità di
pensare, è un importante eredità anatomica dell’esigenza
umana di riunirsi in gruppi. Le sfide adattive che più contano
per la sopravvivenza di una specie sono quelle che la spingono
a cambiare mentre si evolve. Operare in un gruppo coordinato
42Le connessioni che non vengono usate,invece, si indeboliscono e vanno addirittura perdute.
41
(come è quello delle imprese che all’interno di un distretto più
spesso operano insieme, in modo abituale) richiede comunque
un elevato livello di intelligenza sociale (cioè sapere gestire i
rapporti inter-impresa: sapere gestire le gerarchie di
dominanza, gli scambi di favori e una mole enorme di
informazioni). Nel regno animale solo i mammiferi hanno una
neo-corteccia43.
Ora, in un parallelo con il funzionamento dei distretti
industriali (ma la società nel suo complesso funziona allo stesso
modo, come suggerisce lo stesso Becattini), si può dire che la
liberazione di energia creativa riguarda solo una parte ristretta
di uomini: mentre sulla maggior parte di essi pesa il giogo della
routine e della spersonalizzazione (con i relativi problemi di
anomia, per ricordare la lezione di Durkheim44). Il parallelo in
questione, tra funzionamento interno del cervello e
comportamento degli attori presenti nei distretti, è comprensibile
se osserviamo che la dimensione media della piccola impresa
di quel contesto è sui 6-7 operai (e molto spesso si tratta di
membri della stessa famiglia, cioè di unità molto coese al loro
interno), e che nel distretto la comunanza di obiettivi e valori
(omogeneità culturale) fa muovere le imprese come se vi fosse
un'unica mente, con le sue paure, i suoi calcoli, le sue
43 Daniel Goleman “L’intelligenza emotiva”, Rizzoli, Milano,1996.A tal proposito, a pag.96 vi si legge anche: “Fra i primati (noi umani compresi) il rapporto fra la neo-corteccia e il volume totale del cervello aumenta in modo direttamente proporzionale alle dimensioni tipiche assunte dal gruppo sociale nella specie in oggetto….in questa prospettiva, l’intelligenza sociale fece la sua comparsa molto prima che emergesse il pensiero razionale…d’altra parte, la neo-corteccia si evolse da strutture più antiche del cervello emotivo, ad esempio l’amigdala, e pertanto è saldamente allacciata ai circuiti delle emozioni”.
44 Durkheim,E.”La divisione del Lavoro sociale”,già citato.
42
preferenze. Se questo è vero, bisogna anche dire che l’ambito
distrettuale è quello in cui le funzioni routinarie sono le meno
presenti, e ciò è ancora più vero nei distretti italiani specializzati
nel Made in Italy, essendo invece massima sia la
spersonalizzazione che la routinarietà nella grande impresa
(dove, come rimedio, spesso si è cercato di utilizzare metodi di
“job enrichment” o costituzioni di team interfunzionali). La
routine produce schemi consolidati di risposta (sia sui mercati
del lavoro, o dei macchinari usati, che sui mercati esterni), per
cui essendo poco sviluppata (almeno rispetto alle imprese
verticalmente integrate), spiega le risposte sempre diverse delle
imprese distrettuali, specialmente nella competizione globale (è
da sottolineare come siano state proprio le esportazioni dei
distretti italiani a salvare l’Italia dalla crisi dei primi anni novanta:
esportazioni che, tra l’altro, sono aumentate anche dopo che la
Lira è rientrata nello SME e non si poteva invocare la
svalutazione competitiva per giustificare le brillanti performance
del Made in Italy45). Alla stessa stregua, molto più sviluppata è
la capacità delle imprese distrettuali di monitorare i
cambiamenti nel gusto (preferenze) dei consumatori: sembra,
questo, un paradosso se solo si pensa ai complessi uffici-studio
delle multinazionali. La dipendenza proprio da quei mutevoli
gusti della clientela tiene i livelli di attenzione dell’ “amigdala di
distretto” particolarmente alti, così come molto più sviluppata è
anche la neo-corteccia, ossia la capacità di gestire rapporti con
45 Per dati particolareggiati sull’export dei distretti, si veda il capitolo successivo.
43
un numero elevato di imprese, sia in concorrenza (intra ed
extra-distrettuale) che in cooperazione.
A livello di società, questa analogia con la fisiologia
cerebrale viene utilizzata da Marshall per dare una risposta
nuova al “fondo salari”. Questo problema, che collegava
emblematicamente l’analisi della produzione con quella della
distribuzione della ricchezza, aveva bloccato la riflessione
economica inglese ai tre quarti dell’Ottocento; impasse che
rivelava le difficoltà della teoria economica pura (e che J.S. Mill
aveva risolto asserendo che le leggi di produzione sono
immutabili, mentre quelle di distribuzione possono variare col
tempo e sono permeabili a cambiamenti sociali e legislativi).
Nella risposta di Marshall, il salario fissato entro i limiti del
fondo-salari è il frutto della produzione routinaria, in cui la
produttività aumenta solo grazie ad un progresso tecnico che
spersonalizza ancora di più i lavoratori. Ma il salario si può
liberare da questi vincoli e crescere, se l’aumento della
produttività si basa non più sul progresso dell’automazione,
bensì sulla qualificazione del lavoro, e quindi sul raffinamento
del consumo operaio. Questa svolta si è effettivamente
verificata nel secondo dopoguerra, quando all’aumentata
ricchezza di fasce più ampie della popolazione (che
comprendono buona parte di quello che si chiamava il
proletariato) è seguito un aumento dei consumi voluttuari (o
“signorili”, direbbe Marx), un affinamento dei gusti, una minore
sensibilità al prezzo ed una riqualificazione anche dell’offerta,
44
con relativa posizione di forza del nostro Made in Italy. Il fattore
che ha determinato l’aumento della disponibilità monetaria è
individuabile nella stabilità monetaria, ma soprattutto nella
produzione di beni durevoli e di consumo a basso prezzo (per
effetto dell’organizzazione fordista della grande impresa), e
questo effetto ora mette in discussione proprio l’offerta di
quest’ultima (che non gode più di posizioni di monopolio).
Un nuovo percorso di ricerca che, partendo dalle reti
neurali, affronta l’interazione tra agenti economici e territorio, è
dovuto al lavoro di D. Marino46. L’intuizione di base è che i
sistemi economici, i sistemi territoriali e i sistemi urbani sono
dinamicamente interconnessi, e presentano interessanti
proprietà di apprendimento, auto-organizzazione e di auto-
rafforzamento. Parallelamente a questo, si possono utilizzare
modelli di simulazione di sistemi economici costituiti da agenti
artificiali tra di loro interagenti; ciò permette di descrivere il
comportamento di sistemi complessi in cui gli agenti presentano
razionalità limitata, comportamenti erratici, apprendimento,
imperfetta capacità di scelta. Si tratta di due approcci distinti e
paralleli, ma che hanno in comune la modellizzazione del
funzionamento dei “neural networks”, e permettono di tenere
conto di fenomeni di “learning” e di “memory”. Ciò che rende
tutto questo discorso interessante da un punto di vista
economico, è che il sistema si basa su tre dinamiche
caratteristiche: attivazione, apprendimento, iterazione. In pratica
46 D. Marino, “ Sistemi economici territoriali, reti neurali e automi cellulari: modelli teorici e un’applicazione empirica”, Rassegna Economica,nn. 3-4, 1996.
45
una rete neuronale è in grado di imparare un modello
prestabilito, e può adeguarsi flessibilmente a situazioni
complesse e mutabili nel tempo. Grazie a queste proprietà, le
reti neurali si rivelano importanti nella costruzione di modelli
economici. La capacità di auto-organizzazione è estremamente
rilevante per i sistemi spazialmente estesi, in quanto permette
di poter descrivere la proprietà di riconfigurazione del sistema e
la sua capacità di reagire ad una perturbazione esterna.
Il Trait-d’union tra i “neural networks” e l’economia sta nel
concetto di Sistema Economico Territoriale (SET): “L’economia
non può costruire teorie senza tenere presente il territorio, uno
spazio in cui le varie componenti, agenti economici e fattori
ambientali, interagiscono e trovano una loro sintesi”47.
Introducendo, pertanto, la nozione di Sistema Economico
Territoriale come unità di analisi, si ritiene che si possano
compiere dei passi nella direzione dell’accrescimento della
capacità interpretativa, allorché viene ricercata una sintesi tra
sistema di produzione, conoscenze tecnologiche incorporate a
livello territoriale ed istituzioni locali. Un SET, cioè, risulta
costituito dalla interconnessione tra sistema di produzione,
dotazione di conoscenze tecnologiche e social capabilities.
Mentre il sistema di produzione ha una connotazione
prevalentemente materiale, le conoscenze tecnologiche e le
social capabilities presentano una natura essenzialmente
immateriale”48.
47 D. Marino, Ibidem.48 Ibidem.
46
L’idea diffusa nelle politiche regionali “global think, local
act” trova fondamento in questo modello, che peraltro ha in sé
la coesistenza del binomio competizione-cooperazione. Dal
punto di vista microeconomico, cioè, il sistema è caratterizzato
da agenti che interagiscono localmente in maniera cooperativa.
Una volta che è stato raggiunto una sorta di ordine locale,
questo sistema entra simultaneamente in competizione con altri
ordini locali raggiunti, per cui l'equilibrio complessivo è dato
dalla competizione di questi ordini locali.
Per quanto riguarda l’altro sentiero di ricerca,
rappresentato dai modelli con agenti artificiali interagenti, la rete
neurale viene assimilata ad un agente che agisce
induttivamente. Questa caratteristica consente l’adattamento
all’ambiente esterno (rete self-tuning). Questi schemi di
comportamento, inseriti all’interno del SET, consentono la
modellizzazione di molti fatti economici; soprattutto consentono
di tenere conto dei diversi tipi di razionalità degli agenti.
Accanto a coloro che agiscono secondo i criteri di una
razionalità assoluta (ad esempio secondo i modelli delle
“aspettative razionali”), vengono inclusi anche quelli che
presentano comportamenti a razionalità limitata, o irrazionali.
47
Capitolo 2
I distretti industriali italiani
2.1 L’importanza dei distretti industriali italiani
I dati e le cifre che gli studiosi della materia usano per
confrontarsi quando si parla di distretti, delle loro problematiche
e delle relative politiche di sviluppo hanno bisogno di una
precisazione. C’è bisogno, in sostanza, di una definizione
quantitativa del concetto di distretto industriale: occorre
precisare i contorni di ciò che si intende con tale termine, la sua
consistenza in termini di numero (quanti sono i distretti
marshalliani in Italia) e, solo alla fine, stabilire statisticamente il
loro apporto alla crescita e alla produzione di ricchezza interna.
Un approccio al problema è il “metodo dell’identificazione
spaziale” messo a punto da Fabio Sforzi nel 1987 e poi
impiegato dal nostro istituto centrale di statistica (ISTAT) a
partire dal 199449, per la rilevazione dei vari parametri
distrettuali.
Esso si basa su di un algoritmo multi step piuttosto
complesso che arriva ad identificare 784 sistemi locali di lavoro
(SLL), tra i quali vi sono soltanto 199 distretti industriali
marshalliani, individuati ex post da Sforzi. Il metodo si può
riassumere come segue50:
49 IRPET e ISTAT, “I sistemi locali del lavoro in Italia”, Franco Angeli, Milano, 1994.50 ISTAT – IRPET, ”I mercati locali del lavoro in Italia”, Roma, 1986
48
1. Prima di tutto si procede ad identificare le aree a
specializzazione produttiva;
2. Queste vengono poi classificate secondo le caratteristiche
sociali e demografiche della popolazione che in esse vive,
per capire quali sono le zone residenziali e quali gruppi
sociali le contraddistinguono: si verifica se c’è un’aderenza
tra identità produttiva e identità sociale;
3. Si costruisce un “modello spaziale del sistema urbano”. Con
questo termine si vuole indicare la capacità di
autocontenimento del sistema territoriale, cioè la capacità
del sistema di comprendere al proprio interno il massimo
possibile delle interazioni che esistono tra i suoi
componenti, per delimitarne i confini.
Sovrapponendo questi tre livelli, si individuano i Sistemi
Locali del Lavoro, che rappresentano quel “territorio comune e
relativamente ristretto entro cui si realizza quella contiguità fra
popolazione e imprese non riducibile alla permanenza in
fabbrica durante l’orario di lavoro, ma estensibile alle
opportunità sociali che si manifestano entro l’arco temporale e
spaziale sotteso da una giornata lavorativa, e che insieme alle
altre attività quotidiane danno forma ad una regione nel tempo
e nello spazio, sotto il vincolo dell’accessibilità reciproca fra
luoghi di residenza e luoghi di lavoro”51. In pratica, gli SLL sono
51 F. Sforzi “L’identificazione spaziale”, 1987, in “Mercato e forze locali” di G. Becattini,già citato.
49
costituiti da comuni dotati di un certo grado di “centralità” (in
quanto attraggono un grosso numero di lavoratori che vivono in
paesi limitrofi, generando fenomeni di pendolarismo) e un certo
grado di “auto-contenimento” (in quanto dotati di una grande
quota di forza-lavoro residente occupata in quegli stessi
comuni). Il passo successivo è quello di aggregare i comuni che
possiedono in maggior misura le caratteristiche di “centralità”
ed “auto-contenimento” con quelli da cui i lavoratori
provengono: questo insieme di comuni rappresenta un Sistema
Locale di Lavoro, con la conseguenza (negativa) che, se
dall’inizio un singolo comune non ha significativi rapporti con
altri vicini, esso costituirà da solo un SLL. Per arrivare ai distretti
industriali veri e propri, Sforzi pone queste condizioni:
a) Il rapporto di lavoratori impiegati nel settore manifatturiero
nei SLL deve essere superiore alla media nazionale;
b) In almeno uno dei sotto-settori del manifatturiero in cui il SLL
è specializzato (cioè di quello in cui il tasso di occupazione
manifatturiera nel settore del SLL è maggiore di quello
nazionale corrispondente), l’occupazione deve essere
relativamente più concentrata nelle piccole imprese rispetto
alla media nazionale;
c) Il grado di concentrazione dell’occupazione del settore
manifatturiero nelle piccole imprese locali (cioè quelle che
hanno meno di 250 addetti) deve essere superiore alla
media nazionale;
50
d) L’occupazione in uno dei sotto-settori (che soddisfi la
condizione b) deve superare il 50% del totale
dell’occupazione nel settore manifatturiero nello stesso SLL.
La distribuzione territoriale dei distretti italiani, alla luce di
questo lavoro statistico, è piuttosto irregolare. La Lombardia è
la regione italiana che ne ospita il numero maggiore, e nel
complesso l’80 % dei distretti si trova in Lombardia, Piemonte,
Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Toscana, mentre Molise,
Basilicata, Sicilia e Sardegna non ne hanno nessuno, anche se
recenti lavori di G. Viesti hanno mostrato una realtà meridionale
per nulla immobile e rassegnata. In proposito, Brusco e Paba
(1997) hanno dimostrato come nel 1951 i distretti marshalliani
fossero presenti più al Sud che al Nord, e come siano
scomparsi nei decenni successivi, per effetto della concorrenza
dei distretti delle regioni del Nord e del Centro e della perdita di
risorse umane che emigravano dalle regioni meridionali. Per
avere il panorama del peso relativo dei distretti industriali nelle
provincie italiane riportiamo il seguente grafico52:
Figura 2
52 A. Baffigi, M. Pagnini e F. Quintiliani “ Industrial districts and local banks: do the twins ever meet?”, i Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Itatlia,n.347, Roma March 1999.
51
Densità=rapporto tra l’occupazione provinciale complessiva nel settore manifatturiero in cui ogni DI è specializzato e l’occupazione provinciale complessiva nelle attività manifatturiere.
Legenda:1 = provincie senza distretti industriali;2 = provincie con distretti industriali e 0 < Densità 10;3 = provincie con distretti industriali e 10 < Densità 20;4 = provincie con distretti industriali e 20 < Densità 30;5 = provincie con distretti industriali e Densità > 30.
Fonte: elaborazione di Baffigi, Pagnini e Quintiliani su dati ISTAT (1994). La mappa delle provincie è stata fornita dal CNUCE-Istituto del CNR,Pisa, Italy.
Il 24 % della popolazione italiana vive nelle aree
distrettuali, principalmente rappresentate da comuni medio-
52
piccoli. La città più grande che si trova in un distretto è - come
detto - Padova, con i suoi 215.000 abitanti nel 1991, e solo
nove comuni arrivano ad avere almeno 100.000 abitanti. La
popolazione media di questi comuni è di 5.500 abitanti, contro i
7.500 delle aree non distrettuali. Per quanto concerne la
struttura occupazionale, il grafico che segue mostra come
l’occupazione del settore manifatturiero (nei sotto-settori in cui i
distretti sono specializzati) sia circa il 18% del totale nazionale
degli occupati nel settore, ed il 41% del totale degli impiegati
nel settore manifatturiero nei distretti.
Figura 3
(1) I comuni, sull’asse orizzontale, sono stati raggruppati in 6 classi di popolazione. Gli istogrammi bianchi rappresentano la quota percentuale del totale della popolazione in comuni non distrettuali; i neri rappresentano le quote corrispondenti dei DI.
Fonte: elaborazione di Baffigi, Pagnini e Quintiliani su dati del censimento della popolazione ISTAT (1991).
La dimensione media della piccola impresa che opera nei
distretti industriali si assesta intorno alle 8 unità, con la
53
particolarità che i distretti delle zone settentrionali (di più antica
industrializzazione) presentano una dimensione media
maggiore; la tendenza di questi anni è quella ad una maggiore
concentrazione, forse per potere avere più forza nella
competizione sui mercati internazionali. La forma societaria
privilegiata è la società in nome collettivo, seguita da quella in
accomandita semplice, e molto diffuso è il fenomeno della loro
costituzione con altri membri della stessa famiglia. Molto
scarso, invece, è il ricorso a società di capitali, sia perché il
capitale minimo previsto è elevato e le procedure per la sua
costituzione sono lunghe e onerose, sia perché lo strumento di
finanziamento privilegiato è l’autofinanziamento, prima ancora
che il credito bancario.
La specializzazione produttiva dei nostri distretti è
piuttosto marcata: oltre il 90% dell’occupazione di queste zone
è concentrata in soli quattro settori (tessile ed abbigliamento,
macchinari, legno e minerali, pelli). Essi sono caratterizzati da
processi produttivi che possono essere suddivisi tra molte
piccole imprese, tra loro cooperanti, senza essere per questo
inefficienti; al contrario, settori come la chimica o il cartario
operano con le economie di scala a livello di singola impresa,
gerarchicamente ordinata. Questi settori, con l’aggiunta del
calzaturiero e dell’industria del mobile, vengono denominati
“Made in Italy” per contraddistinguere la produzione con cui il
nostro paese compete con risultati notevoli sui mercati
54
mondiali53. Più precisamente, “M. Fortis, con una definizione
centrata sul grado di specializzazione e sulla stabilità dei saldi
attivi con l’estero, identifica il “Made in Italy” con un sistema
moda (tessile, abbigliamento, calzature, occhiali, oreficeria e
gioielleria), con i prodotti di arredamento e per la casa (mobili,
piastrelle, apparecchi di riscaldamento e condizionamento,
elettrodomestici, lampade, casalinghi, rubinetteria) e con la
dieta mediterranea (pasta, vino, olio, frutta). Il tutto integrato da
consistenti comparti della meccanica non elettrica (macchine
tessili, macchine per le lavorazioni alimentari, macchine per la
lavorazione del legno e dei metalli). Possono esserci,
ovviamente, diverse definizioni di ciò che compone il “Made in
Italy”, ma ciò che conta è l’avere riunito in uno stesso concetto
prodotti merceologicamente diversi, accomunati solo dal fatto di
essere legati ad una comune matrice territoriale (l’Italia)”54. In
effetti, il numero di occupati nel “Made in Italy” non ha
conosciuto arresti di sorta negli ultimi anni:
53 L’ISTAT utilizza dei codici di specializzazione produttiva suddivisi secondo la classificazione Pavitt. Essa prevede una ripartizione delle attività economiche in quattro tipologie: settori tradizionali, che comprendono il tessile, l’abbigliamento, le pelli, il cuoio, le calzature e il legno; settori di scala, in cui confluiscono i settori dell’acciaio, del vetro, dei beni di consumo durevole e gli autoveicoli; i settori specializzati (strumentazione e software); settori ad alta tecnologia (elettronica, farmaceutica e macchine elettriche). Per maggiori dettagli sulla ripartizione dei codici ISTAT si veda: Ministero dell’Industria e Mediocredito Centrale, “Indagine sulle imprese manifatturiere. Sesto rapporto sull’industria italiana e sulla politica industriale”, IlSole24ore Libri, Milano, 1997. Per la distinzione dei 4 macro-settori dell’industria manifatturiera secondo tale tassonomia, si veda: Pavitt, K. (1984), “Sectoral Pattern of Technical Change: Towards a Taxonomy and a Theory”, Research Policy ,vol. 13, pp. 343-75.
54 A. Qadrio Curzio, M. Fortis (a cura di), “Il Made in Italy oltre il 2000 ”, Il Mulino, Bologna, 2000.
55
Tabella 1
Fonte: elaborazioni di G.Viesti su dati ISTAT (1996).
Anche se non c’è perfetta coincidenza tra produzione dei
distretti industriali e “Made in Italy”, poiché quest’ultima vede in
campo anche alcune grosse aziende del settore alimentare
italiano (ad esempio, Ferrero e Barilla, oppure Divella o La
Molisana, per citare alcune aziende meridionali, forti esportatrici
in un settore molto integrato verticalmente), dai dati forniti
dall’ICE55 (Istituto per il Commercio Estero) e dall’ISTAT 55 Dati più approfonditi sono contenuti negli atti di un’indagine conoscitiva della
Camera dei Deputati del settembre 2000, nella quale è stato audito il professore Fabrizio Onida, presidente dell’ICE.
56
possiamo avere chiaro il quadro della capacità di penetrazione
sui mercati mondiali delle nostre imprese distrettuali:
Tabella 2
Fonte: elaborazione Ufficio Studi Montedison-Cranec, Università Cattolica di Milano su dati ISTAT (1997)56.
56 Questa tabella, insieme alla successiva è tratta dal libro già citato “Il Made in Italy oltre il 2000” curato da A.Quadrio Curzio e M.Fortis, Il Mulino, Bologna, 2000.
57
Tabella 3
Fonte: elaborazione Ufficio Studi Montedison-Cranec, Università Cattolica di Milano su dati ISTAT (1997).
Tra questi, ci sono delle cifre di assoluta eccellenza, che
hanno consentito a Dan Tarulo, Consigliere economico di Bill
Clinton, di dichiarare nel giugno 1997, in occasione del Vertice
dei sette paesi più industrializzati tenutosi a Denver, che i
distretti dell’Italia centrale e settentrionale sono “indubbiamente
il complesso più innovativo di piccole e medie imprese di tutto il
mondo”. È il caso di Santa Croce sull’Arno (con un fatturato che
nel 1999 ha oscillato tra i 5000 e gli 8000 miliardi) e di
Arzignano, in provincia di Vicenza (fatturato di 10.000 miliardi
nel 2000) per la concia delle pelli, di Sassuolo per le ceramiche,
di Castel Goffredo (in provincia di Mantova) per le calze da
58
donna (che detiene il 40 % della quota di mercato mondiale) e,
ancora di più, del distretto degli occhiali (sia da vista che da
sole) nel bellunese57, che conta su aziende leader come la
Luxottica, la Safilo e la De Rigo che producono il 38% del totale
mondiale58. Nel trevigiano, invece, domina la produzione di
scarpe, specialmente sportive; qui le aziende di punta sono la
Lotto (Montebelluna) per le scarpe da calcio, e la Tecnica59, per
gli scarponi da sci e da trekking, che riescono ad esportare,
rispettivamente, per 300 e 400 miliardi. Un cenno a parte
merita, poi, l’unico distretto Hi-Tech presente in Italia: si tratta
della “Biomedical Valley” di Mirandola, in provincia di Modena,
dove si producono prevalentemente apparecchiature
biomedicali60 per l’emodialisi . Le 74 imprese (di cui solo il 43%
ha rapporti coi clienti finali) e i 3200 dipendenti che vi operano
fatturano 750 miliardi, di cui il 50% proviene dall’export.
La propensione verso le esportazioni di alcuni nostri
distretti è evidenziata nel grafico seguente (tabella 4):
57 I centri principali di questa area industriale sono Pieve e Santo Stefano di Cadore.58 La potenza commerciale di queste tre aziende è tale che negli ultimi sei anni sono
state molto frequenti le acquisizioni di imprese straniere concorrenti (nel 1996 la Safilo ha rilevato la quota di controllo della società statunitense di occhiali sportivi Smith Sport Optics e dell’austriaca Carrera-Optyl). La Luxottica, dal canto suo, nel 1995 ha acuisito l’americana US Shoe proprietaria della catena di superstore specializzati in ottica LensCrafters. Per uno studio del distretto bellunese della occhialeria, si veda: Sicca,L., ”La gestione strategica dell’impresa-concetti e strumenti”, CEDAM, Padova, 1998.
59 L’azienda dei fratelli Zanatta, con sede a Nervesa della Battaglia, oggi detiene molti brevetti sulla tecnologia degli scarponi da sci in plastica, e si rivolge soprattutto a paesi come Francia, Germania ed Usa.
60 Per una storia di questo distretto nato “ufficialmente” solo nel 1963 grazie all’intuizione di un giovane farmacista, il dott. Veronesi, si veda: Biggiero,L e Sammarra,A.,”The biomedical valley”, relazione presentata al convegno “Sistemi, governance & conoscenza nelle reti di impresa”, tenutosi presso l’Università di Padova il 17 e 18 maggio 2001.
59
Tabella 4
Fonte: CENSIS, IX forum delle economie locali, settembre 1999.
60
I principali mercati esteri di sbocco sono i mercati
occidentali più ricchi, con una netta prevalenza verso i paesi
dell’Unione Europea:
Tabella 5
Fonte: CENSIS, IX forum delle economie locali, settembre 1999.
Si riportano anche le tabelle che descrivono i mercati
esteri di sbocco per settore e in ordine di importanza per i
principali distretti, non solo meridionali:
Tabella 6
PRINCIPALI MERCATI DI SBOCCO PER SETTORI
(pesi percentuali sul totale)
Meccanica Pelletteria Abbigliamento Calzature Gioielleria Pasta Totale
UE 45 60 74 72 25 46 53
EFTA 3 13 4 0 6 0 5
Nord America 6 5 9 3 13 23 7
Giappone 1 13 4 0 25 8 5
Australia e N. Zelanda 3 3 0 3 0 0 2
PVS 8 5 4 6 0 8 6
Medio Oriente 24 3 4 16 6 8 15
Asia 4 0 0 0 0 0 2
America Latina 4 0 0 0 25 0 4
Africa 1 0 0 0 0 8 1
Extra – UE 55 40 26 28 75 54 47
Totale 100 100 100 100 100 100 100
Fonte: nostra elaborazione su dati ICE e ISTAT del 1998.
61
Tabella 7
Fonte: CENSIS, IX forum delle economie locali, settembre 1999.
62
Nel 1996, raggruppando le voci della bilancia
commerciale italiana in tre settori, e cioè “materie prime ed
energia”, “Made in Italy” e “altri settori” (in cui si comprendono
l’informatica, l’elettronica, le telecomunicazioni, chimica, carta,
gomma e cemento), si è avuto che il saldo attivo del “Made in
Italy” (+151.937 miliardi di lire) è riuscito a coprire i saldi
negativi degli altri due macrosettori (che erano rispettivamente
pari a –65.419 e –35.242 miliardi di lire). In altri termini il saldo
positivo del “Made in Italy” paga ”il deficit strutturale per le
materie prime e l’energia dell’intero nostro paese…il deficit degli
altri settori manifatturieri..” assicurando un saldo finale positivo
e ponendosi al terzo posto dopo il Giappone e la Germania61.
Nel 1992, inoltre, “il settore italiano del tessile-
abbigliamento-pelli-calzature ha generato da solo un valore
aggiunto superiore a quello dell’industria automobilistica
tedesca (35,5 miliardi di dollari a parità di potere d’acquisto
contro 33,8), e nel 1993 l’industria italiana del legno-mobilio ha
a sua volta prodotto un valore aggiunto più elevato di quello
assicurato dall’intera industria svedese della meccanica e dei
mezzi di trasporto o dalle industrie farmaceutiche tedesca e
francese considerate assieme (12,5 miliardi di dollari a parità di
potere d’acquisto contro 11,3 e 12,2 rispettivamente)”62.
Un’aspetto da sottolineare, relativamente all’export delle nostre
imprese dei distretti è che esse sui mercati internazionali non si
61 L. Bàculo e S. Gaudino “Impresa, territorio, sviluppo economico- verso i distretti industriali in Campania?” Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000.
62 Dal libro di A. Quadrio Curzio e M. Fortis, “Il Made in Italy oltre il 2000 ”, già citato.
63
fanno concorrenza. Uno studio63 sull’industria del mobile ha
evidenziato come i diversi distretti tendono a convogliare le loro
esportazioni verso i bacini geograficamente più contigui (ad
esempio il distretto del mobile salentino ha come area di sbocco
preferenziale i paesi dell’Est, mentre i distretti mobilieri del Nord
si rivolgono agli Stati Uniti e all’Unione europea), senza
scatenare guerre di prezzo tra loro, ma solo coi concorrenti di
altri paesi.
Ora passiamo all’analisi dettagliata dei vari tipi di mercato
locale e ai suoi aspetti normativi.
2.2 Il mercato del credito distrettuale
Sebbene di grande interesse, questo aspetto della vita del
sistema industriale in questione è stato solo di recente oggetto
di analisi empiriche e di verifiche accurate, supportate da dati
ISTAT e della Banca d’Italia. Un nuovo oggetto di studio,
pertanto, si è affacciato alla ribalta degli anni novanta: la banca
locale64. Essa deve rispondere a due requisiti per potere
assurgere a centro vitale del mercato del credito distrettuale: 1)
concentrare i suoi prestiti in quel contesto socioeconomico
(embeddedness) e 2) detenere una grossa fetta di azioni (o
63 CENSIS Note e commenti, “Dai distretti industriali una ripresa possibile – IX forum delle economie locali”,Roma, IX 1999.
64 Per la verità, il ruolo dei banchieri era stato sottolineato già da Marshall:”[Essi] agevolano il pagamento delle merci allo stesso modo in cui le ferrovie ne agevolano il trasporto. Ma in più essi trasferiscono da soggetto a soggetto il controllo del capitale, e l’aiuto che in tal modo danno agli uomini nuovi con scarso capitale proprio è forse la forza più importante che contrasti la moderna tendenza alla concentrazione della produzione nelle mani di poche grosse imprese”, in : Marshall A. e M.P. Marshall,”The economics of Industry”, come tradotto da Becattini in “Economia della produzione”, già citato.
64
quote) delle imprese locali. In genere, queste due condizioni le
permettono di “manifestare” il suo impegno per l’economia
locale, beneficiando dell’atteggiamento cooperativo delle
imprese, e di ottenere informazioni di prima mano sullo stato di
salute dei suoi clienti. L’aderenza alla realtà distrettuale in
genere viene perseguita dalle banche ricorrendo alla veste
legale cooperativa.
Tuttavia ci sono degli svantaggi in tutto questo: il fatto di
concentrare gran parte dei prestiti nel distretto comporta un
considerevole aumento dei rischi (difatti, una crisi che colpisse
questa area ridurrebbe la liquidità di tutti i clienti della banca) e
dei costi di monitoraggio. Inoltre la stessa forma cooperativa
non è esente da critiche: una eccessiva frammentazione delle
quote e la regola del voto unico per azionista (e non per azione)
possono ridurre la propensione al controllo reciproco e lasciare
troppa discrezionalità all’operato degli amministratori65. Queste
considerazioni sono state completamente tralasciate da studiosi
come Nakamura (1994)66. Questi, sottolineando il vantaggio
informativo delle piccole banche locali rispetto alle banche
maggiori, preconizzava un vantaggio competitivo delle piccole
aziende di credito locali nel finanziamento delle piccole imprese
concentrate spazialmente, senza riferirsi direttamente ai
distretti. È da ritenere che se egli avesse studiato le dinamiche
65 A. Baffigi, M. Pagnini e F. Quintiliani, ”Industrial districts and local banks: do the twins ever meet?”, Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Italia, Roma, marzo 1999,già citato.
66 Nakamura, L. I.,” Small borrowers and the survival of the small bank: is mouse bank Mighty or Mickey?”, Federal Reserve Bank of Philadelphia Business Review, november-december,1994.
65
distrettuali avrebbe rafforzato il suo convincimento, basandosi
sui legami di lungo termine che intercorrono tra le imprese
distrettuali e l’ente creditizio. Nella pratica, alcuni studi
dimostrano che questo tipo di relazione non è garantito, in
quanto ci sono delle forze che vanno nella direzione opposta a
quella di un predominio su base locale della piccola banca
cooperativa.
Il funzionamento del credito in ambito distrettuale è molto
particolare e può essere sinteticamente descritto. Uno studio di
Gabi Dei Ottati 67(1992) mette in evidenza come questi
meccanismi finanziari si basino sui rapporti di sub-fornitura e sui
relativi rapporti di credito e debito tra le imprese della filiera
produttiva. In genere, un’impresa (molto spesso si tratta di
aziende di media dimensione, meno giovani delle altre, dotate
di cospicue risorse finanziarie a breve termine, che si trovano
alla fine del processo di produzione integrato, e per questo
sono specializzate nella commercializzazione del prodotto
finale) offre credito commerciale tramite dilazione dei pagamenti
all’impresa sub-fornitrice, e quindi instaura una relazione di
lunga durata, ossia effettua un investimento idiosincratico.
L’impresa che ha concesso il prestito avrà tutto l’interesse a
restare in rapporto con il sub-fornitore per non danneggiare la
propria possibilità di vedersi restituita la somma; mentre il sub-
fornitore resta in una specie di dipendenza rispetto all’impresa
di maggiori dimensioni: questo processo accresce
67 Dei Ottati, G. (1992), “Fiducia, transazioni intrecciate e credito nel distretto industriale”, Economic Notes, Vol. 23, No. 1-2, pp. 1-30.
66
l’accumulazione del “capitale di fiducia” su cui si basano le
relazioni inter-impresa all’interno del distretto. In tutto questo,
essenziale è il ruolo giocato dalla banca locale, poiché
rappresenta il primo anello della catena finanziaria. Essa, infatti,
presta il denaro all’impresa specializzata nella
commercializzazione, quella, cioè, dello stadio finale del
processo di produzione integrato, dando vita ad un rapporto
tanto stretto che non è raro vedere amministratori di banche
locali spesso sedere nei consigli di amministrazione delle
imprese clienti.
Un aspetto importante della banca locale (cioè di quella
banca che rispetta la condizione di doppia concentrazione, vista
sopra) è che essa beneficia del clima cooperativo interno al
distretto, poiché in esso c’è un comportamento socialmente
condiviso che ostacola il free riding, e, se possiede parte delle
quote delle imprese sue clienti, si asterrà da comportamenti
monopolistici, e non cercherà di sfruttare il suo potere di
mercato imponendo tassi di interesse più elevati per ottenere
extraprofitti. Tuttavia per giungere a questo risultato, è
necessario che la banca sia riconosciuta come membro
effettivo del distretto; e lo strumento principale che essa ha a
disposizione a tale scopo è la concessione del credito: la gran
parte di esso deve andare alle imprese locali, che compongono
il distretto. Ciò non toglie che anche una grande banca possa
inviare dei “segnali” analoghi, magari fornendo più credito
tramite le sue filiali o fornendolo a tassi inferiori. Tuttavia sarà
67
sempre carente sotto l’aspetto della reputazione. Essa, infatti, si
caratterizza per l’elevato turnover dei suoi dipendenti di filiale,
al fine di evitare loro collusioni coi clienti locali, e quindi non può
garantire una presenza di lungo periodo dei propri funzionari né
che nasca quel rapporto di fiducia e conoscenza personale che
invece nasce coi dipendenti e direttori della banca locale. Il lato
negativo per la piccola banca, come già detto, è che essa è
costretta a concentrare il suo prestito in un’area ristretta e,
soprattutto, ad imprese dello stesso stadio produttivo e
specializzate nella produzione dello stesso bene, o di pochi
beni complementari, sicché un’improvvisa contrazione della
domanda finale può determinare pericoli irrimediabili per la
banca locale.
Petersen e Rajan (1995)68 hanno mostrato come sia più
facile per le piccole imprese essere finanziate in mercati del
credito concentrati anziché concorrenziali: il potere
monopolistico delle banche locali costituisce una specie di
“cointeressenza” nei profitti futuri delle imprese loro clienti.
Infatti mentre una banca che opera in regime di monopolio può
scambiare i profitti attuali con quelli futuri, quelle che operano in
concorrenza devono raggiungere almeno il punto di pareggio in
ogni esercizio. Le imprese più giovani hanno sempre un cash-
flow basso ma buone prospettive di reddito futuro; pertanto, la
banca monopolista (a livello locale) può decidere di finanziare
queste imprese nella fase iniziale della loro attività - quando il
68 Petersen, M. e R. G. Rajan, “The effect of credit market competition on lending relationships”, Quarterly Journal of Economics, Vol 110, n.2,1995.
68
cash-flow è più contenuto, e non si può ricorrere
all’autofinanziamento - e recuperare i profitti perduti sfruttando il
suo potere di mercato in un periodo successivo. Tuttavia, anche
i costi di monitoraggio del merito di credito della singola impresa
non hanno senso se non sono considerati nell’ambito della rete
di relazioni che quella impresa tesse con le altre: in questo
modo, quei costi specifici aumentano per la banca locale, ed
essa, per recuperare quei costi fissi, sarà costretta ad
aumentare il credito alle imprese distrettuali. Dunque, la piccola
dimensione delle imprese del distretto e la loro stretta
interdipendenza richiedono un grado piuttosto elevato di
concentrazione nel sistema bancario per fare fronte ai tipici
problemi di informazione dei distretti industriali.
Il tipo di banca locale che riesce meglio a sfruttare i
vantaggi derivanti dall’essere inserita - e come tale riconosciuta
- nel distretto industriale è la banca di credito cooperativo, cioè
quella in cui ogni azionista ha diritto di esprimere un unico voto,
al di là di quante azioni possieda, e una larga parte della sua
offerta di credito vada ai suoi azionisti. Questa struttura interna
della banca di credito cooperativo (termine che va precisato, ma
che intendiamo riferire principalmente alle nostre banche
popolari) riesce a superare i problemi di reperimento delle
informazioni e induce ad un controllo reciproco da parte dei suoi
stessi azionisti. Essendo inserita nel contesto socioeconomico
del distretto, poi, può far valere le regole di “disprezzo sociale”
per i clienti (suoi azionisti) che si siano comportati in modo
69
scorretto. Ci sono, in ogni caso, anche degli aspetti negativi
connessi con questa struttura: la regola “una testa, un voto” può
spingere gli azionisti a non controllare in modo adeguato gli
amministratori della banca; e costoro, d’altro canto, potrebbero
comportarsi in modo da privilegiare solo i progetti di
investimento a basso rischio, dal momento che si rendono
conto di non essere giudicati sulla base del profitto generato
per tutti. Quindi “ci potrebbe essere un trade off tra l’efficienza
nella allocazione del credito e quella operativa: le economie di
scala potrebbero indurre le banche di credito cooperativo ad
aumentare di dimensione, ma ciò ridurrebbe i loro vantaggi
relativi all’efficienza allocativa”69.
Lo studio di Baffigi, Pagnini e Quintiliani (Servizio Studi
della Banca d’Italia, Roma, marzo 1999) ha provveduto a fare il
punto della situazione per quanto concerne il tipo ed il ruolo
della piccola banca nel distretto industriale. Essi prendono in
considerazione le banche popolari, le banche di credito
cooperativo (che hanno un raggio di azione più ristretto delle
precedenti, potendo esse operare solo in un numero predefinito
di comuni, e dovendo andare almeno il 50% dei loro prestiti ai
propri azionisti) e le casse di risparmio - definite da Padoa-
Schioppa (1993) “banche che si comportano come dei piccoli
giganti in molti mercati locali” - oltre alle grandi banche di livello
nazionale, che hanno scelto di essere presenti anche su base
locale. L’indagine sul campo ha rivelato che le banche di credito
cooperativo sono quelle che riservano la maggior parte del 69 Temi di discussione del Servizio Studi della Banca d’Italia, marzo 1999, già citata.
70
risparmio raccolto alle imprese distrettuali (40%), seguite dalle
banche popolari e dalle casse di risparmio (rispettivamente 38%
e 35%), mentre le grandi banche si rivolgono di più alle aree
non distrettuali, che vedono la presenza del capoluogo di
provincia. In particolare le banche di credito cooperativo sono
particolarmente attive laddove manca un grosso centro cittadino
o un capoluogo di provincia, in sintonia con la loro storia di
banche “rurali ed artigiane”. Le banche popolari, inoltre, sono
una presenza fissa dei distretti industriali del Nord Est, e
dell’Italia centrale.
La verifica empirica offerta da questo studio svela ancora
un altro aspetto interessante: solo 58 distretti sui 199 ufficiali
hanno un sistema bancario incorporato nel tessuto
socioeconomico; quindi l’esigenza delle banche di diversificare
il rischio e raggiungere le economie di scala, ma anche lo
stesso bisogno delle piccole imprese di non dipendere da un
istituto di credito locale che sia monopolista, pongono dei limiti
alla presenza della banca locale. È importante notare, inoltre,
che i distretti dotati di sistema bancario locale sono quelli di più
antica formazione, sicuramente quelli più conosciuti e studiati
(Prato, Biella, Carpi, Pesaro e Fermo); in queste realtà la banca
di credito cooperativo è più diffusa di quella popolare. Ulteriore
merito di questo studio è di avere approfondito l’apporto del
sistema finanziario alle brillanti performance dei distretti
industriali : le banche locali hanno concesso credito a
71
sufficienza? Hanno mantenuto ragionevolmente bassi i costi
delle transazioni commerciali delle imprese?
Anche a queste domande si dà una risposta. In caso di
imperfezione sul mercato dei capitali ci possono essere molti
motivi che spingono le imprese a privilegiare le risorse interne
per finanziare i loro investimenti, primo fra tutti i costi di agenzia
dovuti alle asimmetrie informative tra chi dà e chi prende in
prestito il denaro. Se questi costi vengono trasferiti ai debitori,
costoro possono preferire ricorrere alle proprie risorse piuttosto
che sobbarcarseli. In più, evitare il ricorso al debito bancario o
al mercato dei capitali, permette di non dovere dividere il
controllo dell’impresa con i creditori o con i fornitori di capitale
azionario; esigenza, questa, particolarmente sentita nelle
imprese del distretto. È stato dimostrato anche che,
all’aumentare del rapporto tra la banca e l’impresa, la sensibilità
dell’investimento alla disponibilità di liquidità diminuisce: in
Giappone le imprese che appartengono ai gruppi industriali
chiamati Keiretsu sono meno dipendenti dalla liquidità interna
delle altre imprese non affiliate, poiché nel gruppo è presente
una banca di riferimento, che riduce le asimmetrie informative
ed i costi di agenzia.
Un approccio diverso nell’analisi del mercato del credito
distrettuale viene seguito da un altro studioso, L. Federico
Signorini70. Sulla base dell’analisi dei bilanci di 500 imprese del
settore laniero - per lo più di dimensioni medie o grandi -, che
70 L. Federico Signorini, “Una verifica quantitativa dell’effetto distretto”, in Sviluppo Locale, anno I, numero 1, Passigli Editore, Firenze, 1994.
72
sono raccolti dalla Centrale dei Bilanci della Banca d’Italia, lo
studioso toscano cerca di verificare se:
1. le imprese distrettuali sostengono un costo per
l’indebitamento maggiore rispetto alle grandi imprese extra-
distrettuali;
2. le piccole imprese sono più indebitate delle grandi;
3. le imprese del distretto sono più indebitate anche delle
piccole imprese al di fuori del distretto.
Il raffronto viene effettuato tra un campione (anche se
tecnicamente non si può parlare in questi termini visto che non
sono date regole a priori per scegliere l’universo campionario, e
le piccole imprese sono sottorappresentate) di imprese di Prato
con uno di Biella, che non viene considerato distretto
industriale. Il risultato finale (seppure parziale, per i motivi
esposti) è che, effettivamente, le piccole imprese del distretto
pratese risultano molto più indebitate delle imprese maggiori
(circa 20 punti percentuali in più), ma il costo dell’indebitamento
per le imprese del distretto non è mai sensibilmente maggiore
rispetto a quelle fuori distretto, anche se è maggiore rispetto a
quelle di maggiori dimensioni. Una osservazione importante
riguarda il modo in cui le imprese della fase finale (quelle dedite
alla commercializzazione, e perciò più grandi e potenti
finanziariamente) esercitano la loro forza contrattuale rispetto
alle sub-fornitrici, specialmente in periodi di difficoltà economica
73
generale, come potevano essere gli anni ottanta con gli alti
tassi di interesse. Quando c’è una relazione di tipo
monopolistico o monopsonistico tra due imprese, quella più
forte tenderà a scaricare sulla più debole il peso
dell’indebitamento più oneroso, che, in un periodo di elevati
tassi di interesse reali, è rappresentato dall’indebitamento
bancario, in modo tale che la maggiore liquidità sia impiegata
per la gestire la turbolenza economica.
Connessa a questo aspetto, poi, c’è la tesi di Badii71
(1988) secondo la quale quanto più una produzione risulta
specializzata per fasi, tanto più aumenta il numero di
transazioni tra imprese, e quindi il ricorso all’indebitamento
bancario con i relativi costi. L’effetto netto finale dipende da
quanto lungo è il periodo di finanziamento e quanto è il suo
costo reale rispetto alle transazioni tra grandi imprese esterne
al distretto. Molto spesso, tuttavia, le imprese seguono
comportamenti non meramente razionali quando si tratta di
ricorrere al sistema bancario: la paura di perdere il controllo
sulla propria attività e la forte volontà di successo e di
sostenere l’intero nucleo familiare, spesso inducono gli
imprenditori a fare il più possibile a meno dell’opera delle
banche. D’altronde, il rischio concreto che esse si trovano a
fronteggiare è quello, già accennato in precedenza, di andare in
crisi qualora il settore in cui è specializzato il distretto sia in
difficoltà. Esempio eloquente è ciò che è avvenuto con la Cassa
71 Badii,M.,”Produttività,indebitamento e competitività del sistema economico toscano”, dattiloscritto IRPET,Firenze,1988.
74
di Risparmio e Depositi di Prato: dal 1987 tutto il settore laniero
conobbe momenti di grande difficoltà, e la cattiva qualità del
credito costrinsero la Banca d’Italia a commissariare la Cassa di
Prato. Ci fu poi l’intervento del fondo interbancario di garanzia e
l’acquisizione da parte di altro istituto di credito. Il pericolo reale,
quindi, è che l’essere profondamente inseriti nel tessuto
socioeconomico distrettuale può spesso portare a concedere
credito in modo eccessivo.
A rafforzare la fondatezza di questa osservazione, di
recente Paolo Finaldi Russo e Paola Rossi72 hanno sottolineato
proprio la natura ambigua del vantaggio di una localizzazione
distrettuale per la piccola impresa, ai fini di un più agevole
accesso al credito. Sulla base dei dati dell’indagine campionaria
sulle piccole e medie imprese effettuata dal Mediocredito
Centrale73 e su informazioni complementari della Centrale dei
Rischi che riguardano il periodo 1989-1995, i due studiosi
hanno effettivamente riscontrato come le banche inserite in
quel contesto produttivo siano più propense a concedere
credito (vedi fig.4), ma hanno pure sottolineato che questo può
essere il risultato di una situazione ambientale più favorevole
all’attività di intermediazione creditizia (maggiore diffusione di
notizie sull’andamento delle vendite, comportamenti meno
opportunistici condivisi da tutti gli operatori economici, generale
riprovazione sociale per atteggiamenti che ostacolano l’attività 72 Finaldi Russo,P. e Rossi,P.,”Costo e disponibilità del credito per leimprese nei
distretti industriali”, in Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Italia, n.360, Roma, dicembre 1999.
73 L’indagine interessa circa 4.500 imprese, ed è censuaria per le imprese con più di 500 addetti e campionaria per quelle con un numero di addetti compreso tra 10 e 500.
75
commerciale) anziché di rapporti stabili e duraturi tra imprese e
banche.
Figura 4
Fonte: elaborazione di P.Finaldi Russo e P.Rossi su dati della Centrale dei Rischi (1999).
Tuttavia gli effetti più ambigui di queste relazioni
distrettuali sono nel campo dei tassi di interesse. Se essi sono
costantemente più bassi prima del 1993, permettendo alle
imprese concentrate territorialmente di investire a tassi più
convenienti rispetto a quelli accordati alle imprese “isolate”,
dopo quella data, e cioè dopo la crisi finanziaria ed economica
che ha investito il nostro paese (dovuta alla speculazione
internazionale sulla nostra moneta, che ne ha comportato
76
l’uscita dallo SME), i tassi si sono allineati alla media nazionale
(vedi fig.5) ed hanno portato non pochi strascichi negativi
soprattutto nelle piccole imprese.
Figura 5
Fonte: elaborazione di P.Finaldi Russo e P.Rossi su dati della Centrale dei Rischi (1999)
77
Figura 6
Fonte: elaborazione di P.Finaldi Russo e P.Rossi su dati della Centrale dei Rischi (1999).
Questo aspetto può servire anche a spiegare l’elevato
tasso di natalità e mortalità delle imprese distrettuali (turnover).
Se è vero, infatti, che nei distretti si concentra un numero di
piccole unità produttive che non conosce pari al di fuori di
quella realtà, è anche vero che in situazione di crisi, non
potendo contare su un adeguato autofinanziamento, o su altre
risorse finanziarie esterne, esse sono le prime vittime del
razionamento bancario. Il maggiore indebitamento di queste
piccole unità rispetto alle imprese “isolate” risulta gravemente
penalizzante proprio nei periodi di crisi.
In generale, comunque, studi empirici dimostrano che le
imprese del Nord Est sono le più dipendenti dal credito
78
bancario74. La particolarità di questa zona, rispetto al resto del
paese, consiste nel fatto che la domanda di credito è
fortemente elastica all’andamento degli investimenti: in pratica
ogni ristrutturazione di impianto o ammodernamento di
macchinari viene finanziato tramite indebitamento bancario, e
poca influenza ha un eventuale rincaro dei tassi di interesse
debitori. Il ricorso alle banche si ridimensiona solo in presenza
di un elevato margine interno lordo, che sottintende una buona
capacità di autofinanziarsi. Nell’Italia centrale la presenza di
molte imprese partecipate ENI o IRI, comporta una minore
dipendenza dal finanziamento bancario, poiché la
ristrutturazione imposta dalle holding ha come prima
conseguenza quella di ridurre l’indebitamento esterno. Al Sud,
poi, la situazione è ancora diversa: i dati infatti sono allineati
con la media nazionale e molto prossimi a quelli dimostrati dalle
aziende operanti nel Nord Ovest. La spiegazione di questa
anomalia sta nel fatto che molte imprese meridionali godono di
ingenti flussi di finanziamenti pubblici, e pertanto non sono
costrette al sistematico ricorso al finanziamento bancario.
74 Focarelli,D. e Rossi,P.,”La domanda di finanziamenti bancari in Italia e nelle diverse aree del paese (1984-1996)”, in Temi di discussione del Servizio Studi, n.333, Banca d’Italia, Roma,1998.
79
2.3 Il mercato del lavoro distrettuale e la flessibilità: alcune
problematiche
A cavallo tra gli anni ’50 e ’60, lo studio di un’economista
inglese, Vera Lutz, fece molto discutere riguardo le cause di
sottosviluppo delle aree meridionali. Il modello interpretativo
usato era di tipo neoclassico, e si basava sulle inefficienze e
imperfezioni del mercato del lavoro italiano75. La studiosa
vedeva operare in Italia due distinti settori: uno “moderno”,
composto da grandi imprese, i cui lavoratori sono
adeguatamente protetti dalle organizzazioni sindacali, e che si
trova per lo più nell’Italia settentrionale (il Triangolo Industriale),
e l’altro arretrato o “tradizionale”, composto di piccole o
piccolissime imprese, con forza lavoro familiare o lavoratori
sottoccupati, salari bassi, non protetti da alcun sindacato, e
localizzato al Sud. La persistenza di tale situazione era da
attribuirsi alle imperfezioni del mercato del lavoro, che non
funzionava secondo schemi concorrenziali a causa della
presenza di un forte sindacato organizzato. In quello scenario,
le grandi imprese avrebbero fatto ricorso a grandi investimenti
(facilmente finanziabili col ricorso al credito bancario, piuttosto
agevole data la loro dimensione), in modo che avrebbero potuto
risparmiare costosa forza lavoro, mentre le piccole imprese,
non soggette all’applicazione dei contratti collettivi di lavoro,
avrebbero trovato conveniente perpetuare modi di lavorazione
75 Vera Lutz, “ Il processo di sviluppo di un sistema economico dualistico”, in Moneta e Credito, n.4, 1958.
80
“primitivi”, realizzando così incrementi molto bassi nella
produttività del lavoro. Il dualismo dell’economia italiana doveva
dunque essere attribuito all’azione dei sindacati, giudicata
prematura rispetto allo stadio di sviluppo raggiunto nel nostro
paese.
Una soluzione, suggerita dalla stessa Lutz 76, doveva
essere una prolungata fase di “tregua salariale”, tramite cui le
rivendicazioni sindacali si dovevano autolimitare, consentendo
quell’accumulazione di capitale nelle grandi imprese che
avrebbe permesso l’assunzione di tutta la manodopera
precedentemente impiegata nel settore arretrato, provocandone
così la scomparsa. Al di là delle critiche, fin troppo scontate,
che questo modello interpretativo può attirare (ed in effetti R.
Antinolfi ha sottolineato proprio l’incongruenza “temporale“ delle
obiezioni rivolte al sindacato di quegli anni77), al di là della
considerazione che il fattore lavoro quasi mai si sposta
“automaticamente“ laddove c’è abbondanza di lavoro, bisogna
dire che le imperfezioni del mercato del lavoro denunciate allora
sono ancora attuali. E tuttavia, la piccola impresa si è rivelata
tutt’altro che arretrata, anzi si è diffusa rapidamente (o si è
consolidata) in buona parte del ricco Nord Est, ed ha permesso
lo stabilirsi di un regime di relazioni “industriali” tale che la
maggiore ricchezza prodotta nei distretti (che sulla piccola
imprenditorialità diffusa vivono) è stata equamente ridistribuita 76 Vera Lutz, “Italy. A study in economic development”, Oxford University Press,
Oxford, 1962.77 Antinolfi,R.,”Sviluppo dualistico e politica economica: i limiti dell’analisi di V. Lutz. I
contributi di L. Spaventa, A. Graziani e G. Fuà”, Rassegna Economica, XLVI,n.6, novembre-dicembre 1982.
81
tra le classi produttive, a tutto vantaggio dei lavoratori, che nelle
aree periferiche hanno un costo di riproduzione minore (ridotto
fabbisogno di servizi pubblici, possibilità di mantenere un
legame forte con la terra, assistenza di anziani mantenuta
nell’ambito familiare). Lo studio di F. Signorini, già citato,
conferma che il costo del lavoro nel distretto di Prato è
superiore del 20% rispetto a quello di imprese isolate e del 10%
rispetto a quello del distretto “anomalo” che è Biella. Inoltre, la
competitività di queste zone non è pregiudicata poiché risulta
maggiore anche la produttività della forza lavoro (addirittura il
55% in più delle imprese isolate), aiutata non solo dall’effetto
distretto puro e semplice, ma anche dal fatto che la giornata
lavorativa media di un dipendente del distretto è molto più lunga
(lavoro straordinario) di quella di altri lavoratori. Risultati
lusinghieri nonostante tutto.
Ma quali sono le imperfezioni del mercato del lavoro che
oggi si trovano ad affrontare le imprese distrettuali?
Una panoramica abbastanza ampia di queste
problematiche ci è offerta da una lavoro di Sebastiano Brusco,
intitolato “Il modello Emilia: disintegrazione produttiva e
integrazione sociale” 78, che a sua volta parte da alcune
osservazioni contenute in un lavoro più datato (1981)79, frutto
dello stesso autore e di Malagoli, per conto dell’Università di
78 Saggio contenuto nel libro di Brusco, “Piccole imprese e distretti industriali: una raccolta di saggi”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1989. Oggi l’autore è presidente del Banco di Sardegna.
79 S. Brusco e W. Malagoli, “Disintegrated firms and industrial districts: the case of knitwear industry in Italy”, studio presentato al “Third conference of the international Working Party on Labour Market Segmentation”, mimeo, Modena, 1981.
82
Modena. Oggetto di studio è l’industria della maglieria e delle
confezioni delle provincie di Modena e Reggio Emilia,
caratterizzate da una bassa integrazione verticale e un buon
decentramento produttivo anche in zone limitrofe. Numerosi
sono gli artigiani, organizzati in vario modo: lavoranti a
domicilio, in conto proprio (e come tali hanno rapporti col
mercato dei prodotti finiti) o lavoranti conto terzi; non esiste
monopsonio o monopolio tra committenti e sub-fornitori, ma
concorrenza a tutti i livelli. Su questa situazione di base del
mercato del lavoro, si innesta la posizione assunta dal
sindacato alla fine degli anni ’60: con “l’autunno caldo” e lo
Statuto dei Lavoratori del 1970, nelle grandi fabbriche si è
arrivati ad una buona tutela degli operai (potendo in alcuni casi
anche partecipare a processi di ristrutturazione aziendali, alla
stregua di ciò che accade in Germania dove il modello renano
prevede la cooptazione da parte operaia di membri del consiglio
di amministrazione), mentre nelle imprese minori la tutela
sindacale è pressoché assente. Di fronte all’offensiva del
sindacato nella grande impresa, il padronato ha reagito
decentrando il più possibile ampie fasi del processo di
lavorazione all’esterno, in piccole imprese in cui fosse più facile
licenziare o evadere i contributi previdenziali, come denunciato
dallo stesso sindacato nel 1972 al convegno di Bologna della
FLM. Tuttavia, il motivo del decentramento massiccio cui si è
assistito a partire dagli anni ’70 ha cause più profonde: la crisi
del modello di produzione fordista. Accanto alla domanda di
83
beni standardizzati, prodotti in serie molto lunghe, oggi è molto
forte la domanda di beni costruiti quasi su misura, o comunque
basati su serie più corte, in cui elemento forte è il design, o la
vastità della scelta. Si è passati dunque dalla produzione
taylorista con le macchine “transfert fisse”80 e la catena di
montaggio su linee complesse, alla produzione di beni
diversificati, prodotti in serie corta, senza le classiche catene di
montaggio e la eccessiva parcellizzazione delle mansioni, ma
favorita dal raggiungimento di economie di scala di fase. Con
questa struttura industriale nuova, anche le relazioni industriali
si dividono in due categorie, a seconda della dimensione
dell’impresa. Nella fascia “primaria” ci sono le imprese più
grandi, in cui lo Statuto dei Lavoratori è totalmente applicato e
rispettato, i salari sono mediamente più alti del contratto
nazionale, ci sono buoni rapporti con le istituzioni e una grossa
capacità di mobilitazione che rende quasi impossibile la
chiusura della fabbrica; nella fascia secondaria, invece, le cose
sono molto diverse. Innanzitutto vi sono comprese non solo le
piccole imprese a manodopera familiare (quelle con meno di 15
dipendenti, per le quali lo Statuto dei Lavoratori non si applica),
ma anche tutto il variegato mondo degli artigiani, da quelli più
qualificati professionalmente (e che riescono a guadagnare
anche il doppio di un operaio con le stesse capacità assunto in
80 Le macchine transfert fisse sono unità operatrici complesse costituite da più macchine utensili di tipo tradizionale, automatizzate e collegate tra loro così da compiere una sequenza complessa di lavorazioni che permetta di ottenere pezzi finiti partendo direttamente dal materiale grezzo. Sebbene molto costose, permettono comunque un’economia notevole nei tempi di trasporto dei pezzi (grazie al nastro trasportatore), e vengono impiegate soprattutto nell’industria automobilistica, ad esempio nella lavorazione dei pezzi monoblocco del motore.
84
fabbrica, ma soggetto a contratto collettivo), a quelli iscritti
all’albo professionale solo per evadere i contributi, fino ad
arrivare alle lavoratrici a domicilio “non in regola” o a coloro che
esercitano un secondo lavoro. Tutte queste imprese non sono
soggette allo Statuto dei Lavoratori e possono licenziare
quando vogliono i loro dipendenti: in pratica ogni volta che il
numero degli ordini da soddisfare diminuisce. Mentre nella
grande impresa - per paura che in seguito gli ordini
diminuiscano e per la certezza di non potere licenziare - si
finisce per non assumere se non quando si aumenta la
dotazione di macchinari, per effetto di una ristrutturazione, nelle
imprese con meno di 15 dipendenti l’occupazione segue
l’andamento della congiuntura di breve periodo. Tuttavia, il
merito di Brusco è di avere verificato l’esistenza di una
connessione o, meglio, di una interdipendenza tra le imprese
della fascia primaria e quelle della fascia secondaria. Quando la
domanda è in espansione, i giovani possono scegliere se
lavorare molto e guadagnare di conseguenza, magari nelle
grandi fabbriche, se mettersi in proprio, o lavorare il minimo
indispensabile, senza che vi siano barriere tra le due fasce di
imprese. Se invece il mercato del lavoro fosse in fase di
depressione, l’assenza di contrattazione collettiva nelle imprese
di fascia secondaria sarebbe pagata a caro prezzo, e limitata
sarebbe anche la capacità di passare da una fascia all’altra. Si
avrebbe una diffusione del lavoro nero, e livelli ufficiali di
disoccupazione che aumentano inesorabilmente, anche se di
85
fatto molti operai continuano a lavorare con salari più bassi e
carenti condizioni di sicurezza sul posto di lavoro. Il
collegamento tra queste due fasce è molto chiaro con un
esempio, che, tra l’altro, ci fa capire anche la necessità di una
cospicua presenza di imprese di seconda fascia (dove gli operai
non sono tutelati) per garantire gli operai della prima fascia. Nel
campo della maglieria ci possono essere due realtà alternative:
una rappresentata da una impresa totalmente integrata in
senso verticale, che al suo interno fa tutto: prepara il proprio
campionario, ha i propri rappresentanti, le proprie sarte, i propri
magazzini, e l’altra in cui l’integrazione è minima, in quanto si
hanno solo le competenze per predisporre un campionario e
ricevere gli ordini, mentre tutta la produzione viene decentrata
all’esterno. Si suppone (in maniera verosimile) che le imprese
“capofila” appartengano tutte alla fascia primaria, mentre le sub-
fornitrici siano tutte della seconda, e che vi sia concorrenza a
tutti i livelli, così come le sub-fornitrici possano passare senza
difficoltà dalla produzione di un modello a quella di un altro. Se
il campionario della prima impresa, quella totalmente integrata,
non ha successo, l’impresa fallisce e sarà costretta a licenziare
tutti i suoi dipendenti, che saranno assunti nuovamente dalle
altre imprese che invece devono produrre più di quanto
previsto. Se questa stessa situazione di insuccesso viene
subita dall’impresa minimamente integrata, invece, il
licenziamento riguarderà solo i pochi lavoratori addetti alla
predisposizione del campionario e alla ricezione degli ordini,
86
mentre la maggior parte degli operai addetti alla produzione dei
capi, impegnati nelle imprese sub-fornitrici, continueranno a
lavorare perché riceveranno nuove commesse da altre imprese
capofila, quelle di maggior successo. In questo caso,
”l’equilibrio è stato raggiunto con un numero minore di
licenziamenti, cioè senza un grosso spostamento di uomini, ma
solo con uno spostamento di ordini”81. Illuminante può essere un
esempio numerico: ”quando una impresa verticalmente
integrata avesse, si supponga, mille addetti, ad una variazione
del 10% del prodotto corrisponderebbero 100 licenziamenti. Un
tale volume di licenziamenti, nella fascia primaria, comporta
problemi rilevanti. Una impresa con lo stesso volume di
prodotto, ma che avesse decentrato l’80% della produzione,
avrebbe soltanto duecento addetti. Ancora, questa impresa,
apparterrebbe alla fascia primaria. Gli altri ottocento addetti
sarebbero però diffusi sul territorio, in imprese piccole, tutte
nella fascia secondaria. Questa volta, una crisi di produzione
del 10% richiederebbe il licenziamento di venti addetti nella
fascia primaria, e di ottanta nell’altra. I primi pongono problemi
tutto sommato risolvibili: sia perché venti operai sono, in
assoluto, pochi e, sia perché in una impresa con duecento
operai il sindacato è tendenzialmente più debole che in una
impresa con mille lavoratori. Gli altri ottanta lavoratori da
licenziare non pongono, proprio perché di fascia secondaria,
problemi di sorta”. In sostanza, le imprese di quest’ultima fascia
fanno da cuscinetto giacché attutiscono le tensioni che 81 S. Brusco,”Piccola impresa e distretti industriali”, già citato.
87
provengono dalle imprese maggiori, ed eseguono, al posto
delle stesse, gran parte dei licenziamenti necessari. Di fronte a
questa situazione, è controproducente imporre l’adozione dello
Statuto dei Lavoratori anche alle imprese di fascia secondaria,
perché ciò si ripercuoterà immediatamente su tutto il sistema
delle imprese: “Qualunque iniziativa sindacale, o legislativa, che
tenda ad impedire, alla singola impresa piccola di licenziare
quando vuole, renderà automaticamente più rigida, se avrà
successo, la gestione della forza lavoro da parte delle imprese
maggiori”. L’unico modo di risolvere la questione, ammette
provocatoriamente Brusco, è quello di estendere le tutele
sindacali anche alle piccole imprese emiliane di seconda fascia,
ma per preservare la flessibilità complessiva del sistema
diventa poi necessario costruire una rete di imprese di seconda
fascia al di fuori della regione (cosa che già si comincia a
verificare con il decentramento di alcune lavorazioni nelle
Marche, in Veneto o in Puglia): “Le contraddizioni interne
all’Emilia, in questo modo, divengono pian piano contraddizioni
esterne, che altri dovranno affrontare e risolvere”.
È bene, a questo punto, precisare il dibattito aperto sulla
flessibilità. Le distorsioni maggiori indotte dallo Statuto dei
Lavoratori sono dovute all’effetto “soglia” che deriva
dall’applicazione dell’articolo 18 di questa legge (legge
n.300/1970), secondo il quale, nelle imprese con più di 15
dipendenti, il datore di lavoro che licenzi il dipendente senza
giustificato motivo (“ad nutum”82, direbbero i giuslavoristi) è 82 F. Mazziotti ,“Manuale di Diritto del Lavoro”, Liguori Editore, Napoli,1992.
88
costretto a reintegrarlo nel suo posto immediatamente. In
pratica, una volta che sia intervenuta una sentenza del giudice,
il datore deve non solo reintegrare il dipendente nel suo posto,
ma pagargli anche tutte le mensilità maturate fino alla sentenza,
oltre ai contributi previdenziali e alle relative ammende, che
giungono fino a triplicare il debito. Ora, se questo è auspicabile
per i licenziamenti discriminatori o antisindacali, non è razionale
per tutti gli altri tipi di licenziamento (ad esempio quello
“congiunturale”); in più c’è l’incognita “Giustizia”: i gradi di
giudizio sono cinque, e perdere la causa all’ultimo grado
implicherebbe un danno economico importante83. A questo si
aggiungano i tempi della Giustizia italiana e si capisce come
licenziare sia praticamente impossibile, anche quando gli affari
vanno male. Il dibattito su questo argomento è acceso, ma non
si può tacere il fatto che eminenti studiosi di sinistra (come Aris
Accornero, Sebastiano Brusco, Pietro Ichino84 o Gino Giugni,
padre dello stesso Statuto dei Lavoratori) si siano schierati per
una revisione di quell’articolo che fa pagare un conto troppo
salato alle piccole imprese, a tutto vantaggio di un settore
(quello della grande impresa) che perde occupati in maniera
costante in ogni trimestre.
83 A tal riguardo, si veda: Ichino,A.,Polo,M. e Rettore,E.,”Are judges biased by Labor Market conditions?”, IGIER Working Paper, Milano,2001. In questo studio si dimostra come i giudici, di fronte a richieste di reintegro nel posto di lavoro, siano influenzati dalle condizioni esterne del mercato del lavoro e non solo dalla condotta individuale del lavoratore. Se il mercato presenta elevati tassi di disoccupazione, è molto probabile che il lavoratore vincerà la causa, a tutto detrimento dell’elementare principio giuridico della certezza del diritto.
84 Vedi, fra i tanti, l’articolo sul Corriere della Sera, “Licenziare, missione impossibile” di Pietro Ichino, 2 settembre 2001. Ichino,formatosi nel Servizio Legale della CGIL, deputato del PCI dal 1979 al 1983, attualmente è ordinario di Diritto del lavoro all’Università Statale di Milano, presso la facoltà di Scienze Politiche.
89
I sindacati confederali (in primis la CGIL) si sono opposti
con fermezza ad una tale ipotesi in occasione del Referendum
che chiedeva l’abrogazione di tale articolo, nel maggio 2000,
sebbene con una legge del 1990 abbiano ottenuto che lo
stesso articolo 18 non si applicasse per i sindacati, le
associazioni religiose, di volontariato e per i partiti politici. La
discussione è di piena attualità. Tuttavia da più parti - compresi
alcuni sindacati autonomi - si chiede la riformulazione di un
articolo che, con la sua “apparente” tutela a tutto campo del
lavoratore, non conosce pari in tutto il mondo occidentale.
In ogni caso, una volta deciso di intraprendere il cammino
verso la riforma del mercato del lavoro, sarebbe bene
proseguire senza tentennamenti. Giuseppe Bertola e Andrea
Ichino fanno riferimento proprio all’incertezza di tale processo di
riforma per spiegare l’aumento della disoccupazione in Italia,
negli anni novanta. Secondo i due studiosi, l’introduzione di un
maggior grado di flessibilità in Europa nell’ultimo decennio ha
seguito un percorso accidentato; di conseguenza, mentre le
imprese con necessità di ridurre la forza lavoro avrebbero
approfittato della nuova opportunità, quelle che avrebbero
voluto espandere l’occupazione potrebbero avervi rinunciato
per l’incertezza sulla credibilità del processo. Infatti, se una
volta assunti i nuovi lavoratori, il processo diretto a rendere più
flessibile il mercato del lavoro si fosse arrestato o avesse subito
inversioni di tendenza, le imprese si sarebbero trovate in
difficoltà a fronteggiare eventuali shock negativi. Il processo di
90
creazione di posti di lavoro richiede tempo e risorse, a
differenza della loro distruzione che, in mancanza di vincoli
istituzionali, può avvenire in modo istantaneo. Il passaggio ad
un sistema più flessibile, pur avendo potenziali benefici, può
avere effetto immediato negativo, poiché le imprese con forza
lavoro in eccesso licenzieranno immediatamente, mentre quelle
in fase espansiva assumeranno gradualmente. Secondo
Bertola e Ichino85, questo effetto negativo potrebbe durare tanto
più a lungo quanto meno credibile appare il processo di riforma
del mercato del lavoro.
2.4 La legislazione Statale e Regionale in tema di distretti
industriali
Il legislatore ha ritenuto opportuno intervenire in tema di
distretti solo nel 1991, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno
era stata chiusa senza troppi rimpianti (1986). Da quel
momento in poi sono intervenute altre due leggi ed un decreto
del Ministero dell’Industria, che hanno cambiato alcuni aspetti
definitòri e alcune competenze in materia di sovvenzioni da
erogare. L’urgenza di delimitare ed inquadrare con precisione
questa entità socioeconomica - che per sua natura sfugge dalle
maglie troppo strette di una enunciazione immobile nel tempo -
è necessaria per la corretta individuazione del soggetto
beneficiario dei fondi europei e regionali, erogati per
85 Bertola,G. e Ichino,A.,”Crossing the river: a comparative perspective on italian employment dynamics”, Economic Policy,n.21, pp.359-420. Andrea Ichino insegna all’European University Institute, San Domenico di Fiesole, Firenze.
91
salvaguardare l’apparato produttivo più vitale, quello, cioè che
riesce a garantire elevate esportazioni ed una brillante
competitività sul mercato mondiale.
La legge che ha definito per la prima volta il distretto
industriale e che sta alla base di tutti gli interventi successivi è
la n. 317 del 5 ottobre 1991. Abbiamo già riportato il contenuto
dell’art. 36 e non sarà il caso di ritornarci sopra, ma ciò che
bisogna ricordare è che quell’articolo insiste sul concetto di
“concentrazione di piccole imprese” e di “specializzazione
produttiva”, senza dare gli strumenti pratici per potere
effettivamente arrivare ad una individuazione dei distretti
italiani. Inoltre, quella legge attribuisce alle Regioni il compito di
individuare le aree suddette (entro 180 giorni dalla data di
entrata in vigore della stessa), sentite le Unioni regionali delle
Camere di Commercio, sulla base di un decreto del Ministro
dell’industria, del commercio e dell’artigianato (oggi Ministro
delle Attività produttive) che avrebbe fissato gli indirizzi e i
parametri chiave. Il suddetto decreto viene emanato, con molto
ritardo, il 21 aprile 1993 e reca norme per la “Determinazione
degli indirizzi e dei parametri di riferimento per l’individuazione,
da parte delle regioni, dei distretti industriali”, con cui si
definiscono i “sistemi locali del lavoro”, individuati dall’ISTAT
(sulla base, però, del lavoro di Fabio Sforzi, che abbiamo
approfondito in precedenza). I cinque requisiti fondamentali di
cui un sistema locale deve essere provvisto sono:
92
1. Un indice di industrializzazione manifatturiera, calcolato in
termini di addetti, come quota percentuale di occupazione
nell’industria manifatturiera locale, superiore del 30%
all’analogo dato nazionale;
2. Un indice di densità imprenditoriale dell’industria
manifatturiera, calcolato in termini di unità locali in rapporto
alla popolazione residente, superiore alla media nazionale;
3. Un indice di specializzazione produttiva (come quota
percentuale di occupazione in una determinata attività
manifatturiera rispetto al totale dell’intero settore
manifatturiero);
4. Un livello di occupazione nell’attività manifatturiera di
specializzazione superiore al 30% degli occupati
manifatturieri dell’area;
5. Una quota di occupazione nelle piccole imprese operanti
nell’attività di specializzazione superiore al 50% degli
occupati in tutte le imprese operanti nell’attività di
specializzazione dell’area.
Una volta individuate le aree-distretto che siano in
possesso di tali requisiti, le regioni devono informare il Ministero
dell’industria; ma attualmente sono soltanto dieci le regioni
italiane che abbiano provveduto a fare questo, tra le quali solo
Abruzzo, Campania e Sardegna per l’Italia meridionale. In
questo quadro, ancora poco chiaro, è intervenuta la legge n.
140 dell’11 maggio 1999, “Norme in materia di attività
93
produttive”, che oltre a novellare l’articolo 36 della legge n.
317/1991, e quindi a dare una nuova definizione di distretto
industriale, ha dato pieni poteri alle regioni per la definizione dei
sistemi produttivi locali, potendovi includere sistemi non solo di
piccola ma anche di media impresa. Agli Enti Regionali viene
demandato anche il compito di finanziare i progetti innovativi e
di sviluppo dei distretti, predisposti da soggetti pubblici o privati
(ai sensi del decreto legislativo 112/98 sul decentramento
amministrativo). L’ultima legge, in ordine di tempo, che
regolamenta la materia è la n. 144 del 17 maggio 1999, “Misure
in materia di investimenti, delega al Governo per il riordino degli
incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina
l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti
previdenziali”, contenuta come “Collegato al Lavoro” alla Legge
Finanziaria per il 2000. All’articolo 1 di questa legge (comma 9)
si assegna al CIPE (Comitato Interministeriale per la
Programmazione Economica), sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano e previo parere delle competenti
Commissioni parlamentari permanenti, il compito di indicare i
criteri che avrebbero dovuto seguire Regioni e Province
autonome per suddividere il rispettivo territorio in Sistemi Locali
del Lavoro, individuando tra questi i distretti economico-
produttivi sulla base di una metodologia e di indicatori elaborati
dall’ISTAT (che ne avrebbe curato anche l’aggiornamento
periodico). Questi criteri avrebbero tenuto conto anche di
94
fenomeni demografici, sociali, economici, nonché della
dotazione infrastrutturale, della presenza di fattori di
localizzazione e della situazione orografica e ambientale. Al
momento, tuttavia, queste disposizioni non sono ancora state
eseguite. La Regione Campania, come abbiamo accennato, è
tra le dieci regioni italiane che hanno provveduto ad individuare
le aree distrettuali. In effetti, la Giunta Regionale della
Campania, con delibera del 2 giugno 1997, ha provveduto a
definire il distretto industriale come “una concentrazione
territoriale di piccole imprese, con una accentuata
specializzazione nei settori manifatturieri, le quali, in virtù delle
relazioni tra loro e del ruolo svolto dall’ambiente esterno nella
trasmissione di know-how specifico e dei valori del lavoro
industriale, riescono a produrre in modo efficiente ed a
competere sui mercati con imprese di maggiori dimensioni”, e
poi ha individuato sette aree distrettuali, di concerto con i
sindacati, le associazioni regionali degli imprenditori, le
categorie artigiane e le Camere di Commercio. Si tratta del
comprensorio di Solofra, per il settore conciario, di Nocera
inferiore, per quello alimentare, e, per il tessile-abbigliamento,
dei distretti di Calitri, S. Marco dei Cavoti, Sant’Agata dei Goti -
Casapulla, Grumo Nevano - Aversa e San Giuseppe
Vesuviano, per un totale di 98 comuni coinvolti, ed una
popolazione complessiva che sfiora il milione di persone.
Accanto a questi distretti, che, nell’ottica dell’Ente dovrebbero
essere già delle realtà affermate e valide, si sono individuate
95
cinque aree pilota, una per provincia, che devono essere
sostenute perché particolarmente promettenti. Esse sono: la
Baronia per la provincia di Avellino, Montesarchio e la Valle
Caudina per la provincia di Benevento, Santa Maria Capua
Vetere, Caianiello - Sessa Aurunca per Caserta, Acerra –
Pomigliano - Giugliano-Pozzuoli per Napoli e Battipaglia – Eboli
-Roccadaspide per quella di Salerno. Si tratta di zone, però,
che presentano una timida specializzazione produttiva, e per le
quali i fondi europei e quelli della legge 488/92, usati dalla
Regione, vorrebbero allargare la filiera produttiva, per farle
diventare gradualmente veri e propri distretti. Un cenno a parte
merita il decreto legislativo 297 del 199986, reso operativo dal
Decreto Ministeriale di attuazione dell’8 agosto 2000. Con
questo strumento si semplifica la possibilità per Università ed
Enti Pubblici e di Ricerca di collaborare con imprese,
specialmente di piccola dimensione, per la presentazione di
progetti di ricerca, senza essere obbligati a costituire consorzi
appositi. Accanto a queste modalità di sostegno statali, si
colloca la programmazione negoziata, che negli ultimi due anni
ha consentito l’erogazione di 5000 miliardi. In particolare il
“contratto di programma” (ridefinito dalla legge 662 del 1996)
permette la realizzazione di tutti gli interventi oggetto di
programmazione negoziata con un patto stipulato tra
l’amministrazione statale competente, grandi imprese, consorzi
di medie e piccole imprese e rappresentanze di distretti 86 Per informazioni più approfondite su queste leggi si veda: Ufficio studi e progetti
del Banco di Napoli, “I distretti industriali: normativa, scenario, incentivi allo sviluppo”, Banco di Napoli, Napoli, giugno 2001.
96
industriali. Tuttavia, a causa anche della poca chiarezza della
delibera CIPE del 21 marzo 1997, non si capisce chi sia
legittimato a rappresentare i distretti in questi patti, per cui non
si è avuta ancora nessuna applicazione di strumenti innovativi,
come il “contratto di distretto”, che richiedono una precisa
definizione delle competenze delle “rappresentanze dei
distretti”. La carenza maggiore di tutti questi provvedimenti, ci
sembra di poter dire, è l’eccessivo “verticismo”; essi sono
predisposti da burocrazie e rivolti ad altre burocrazie (sindacali,
politiche o confindustriali che siano), e poco o nulla conoscono
della realtà industriale che vorrebbero aiutare, soprattutto
quando questa non è “rodata” o dotata di competenze
specifiche come quella del Nord e del Centro Italia.
Un caso di applicazione della normativa statale appena
descritta può servirci a spiegare, comunque, come dovrebbe
funzionare questo meccanismo di riconoscimento e sostegno
dei distretti. Un esempio istruttivo può essere quello del distretto
calzaturiero fermano87, all’avanguardia sia per la qualità del
prodotto che per le prestazioni sui mercati esteri. Esso
coinvolge 33 comuni delle aree di Fermo e Macerata, per un
totale di 4931 imprese di dimensioni medio-piccole. La prima
cosa che si doveva fare, non appena varata la legge n.317 del
1991, era riuscire ad ottenere il riconoscimento di distretto, ed
effettivamente il Consiglio Comunale di Fermo, punto di
riferimento per tutto il comprensorio, nel giugno del 1992
87 Sandro Renzi, ”Il distretto calzaturiero del Fermano-maceratese: evoluzione e problemi attuali” in Credito Popolare, n. 2,2000.
97
deliberava la richiesta alla Regione Marche di riconoscimento
del distretto industriale del Fermano adducendo tutte le sue
credenziali di sviluppo, specializzazione produttiva e posti di
lavoro creati. Dopo una lunga gestazione, la Giunta Regionale,
il 20 dicembre 1999, delibera le direttive per l’istituzione dei
Comitati di Indirizzo e di Coordinamento (COICO) nell’area a
valenza distrettuale, delegando le province di Ascoli Piceno e
Macerata a definire la delimitazione territoriale del distretto
interprovinciale e ad “identificare tutti soggetti pubblici e privati,
sino alla costituzione dei seguenti organi previsti dalla stessa
legge n. 317/1991: COICO (composto da 30 componenti) e CE
(comitato esecutivo di 10 componenti). Fino ad allora, invece, il
rapporto col Governo nazionale era assicurato dalla presenza
nel “Club dei Distretti”, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.
A questi organi spetta il compito di preparare i progetti per
facilitare la crescita del sistema produttivo distrettuale,
soprattutto in tema di infrastrutture. Il consorzio di sviluppo deve
rendere più snelli possibili i tempi per le pratiche occorrenti per i
nuovi insediamenti produttivi, e facilitare le procedure per i PIP
(piani di insediamento produttivo) che ricadono nell’area
distrettuale e sono di competenza dello stesso consorzio. Esso
deve occuparsi anche dell’attuazione dello “sportello unico per
l’impresa” (previsto dal decreto legislativo n. 112/98), che si
preoccuperà di avviare tutte le pratiche per il rilascio delle
concessioni edilizie. La stessa delibera della Giunta Regionale
delle Marche fissa in 60 giorni il tempo massimo entro cui il
98
COICO deve presentare il “programma di sviluppo dell’area
distrettuale” (che ha durata triennale, con scansione annuale, e
riguarda il risanamento di siti industriali dismessi, il governo del
mercato del lavoro, la tutela ambientale, la formazione e così
via). Entro i 60 giorni successivi al parere della Regione sullo
stesso programma, può ricevere i progetti da tutti i soggetti
pubblici e privati interessati. Questo ritratto, parziale, ci può
dare un’idea del travagliato iter che un distretto deve seguire
per potere essere riconosciuto come tale, e dotarsi di organi di
rappresentanza e governo, ma anche della inadeguatezza di
strumenti che dovrebbero agevolare la crescita del tessuto
produttivo, e che, invece, servono solo a tenere in vita apparati
burocratici costosi ed improduttivi.
2.5 Il “Club dei Distretti”
Accanto all’iniziativa del nostro legislatore, quasi a
sollecitare un intervento più puntuale, all’inizio degli anni
novanta si è assistito anche alla costituzione di una nuova
associazione che vedeva coinvolti i distretti in modo diretto: il
“Club dei Distretti”. La discussione sulla opportunità di
associare le realtà produttive più vitali del Nord Italia era nata
nel 1993, per iniziativa dell’Unione Industriale Biellese e
soprattutto di Angelo Pavia88, un imprenditore tessile, presidente
del comitato scientifico della stessa Unione Industriale.
L’esigenza di fare andare le iniziative di legge “sul binario 88 Sulla cronaca dei fatti è utile un articolo di Massimo Mascini sul IlSole24ore dell’8
ottobre 1993, intitolato “Biella propone un “club” per coordinare i piani di sviluppo dei distretti industriali”.
99
giusto”, di fare sentire con costanza la voce dei diretti
interessati - gli imprenditori del distretto -, la volontà di formare
una massa critica tra imprenditori con gli stessi bisogni e di
cominciare a fornire una serie di servizi ritenuti essenziali per la
competitività di questo tessuto produttivo ha portato alla nascita
di questo soggetto nel 1994. Il Club è un consorzio senza
scopo di lucro, con sede legale a Biella, e sede operativa da
stabilirsi ogni due anni a turno presso i suoi associati.
All'articolo 4 del suo statuto sono elencati gli obiettivi, tra i quali
leggiamo: ”Promuovere il collegamento, lo scambio di
informazioni e di esperienze tra i vari sistemi economici italiani
che hanno la caratteristica di distretto industriale; promuovere le
relazioni con i centri decisori della politica industriale, sia a
livello nazionale che comunitario; promuovere le relazioni
internazionali con altri distretti, organizzazioni economiche e
culturali; promuovere studi e ricerche in campo economico e
collegamenti tra gli operatori istituzionali, economici, culturali e
scientifici, anche come opera di sensibilizzazione diffusa sulle
necessarie politiche per lo sviluppo dei sistemi locali e
promuovere iniziative, servizi di comune interesse dei soci”.
All’articolo 5 viene invece indicato chi può diventare socio
del Club: ”Sono soci del Club i distretti industriali italiani
rappresentati da: Camere di Commercio, Associazioni di
categoria di industriali ed artigiani, centri distrettuali di servizi
alle imprese, Organizzazioni Sindacali, nonché eventuali
organismi di rappresentanza congiunta, coordinamento o
100
collegamento degli stessi ed anche degli enti locali”. Il suo
organo interno preposto a prendere le decisioni vincolanti è
rappresentato dall’assemblea dei soci. Oggi questa
associazione riunisce 32.812 89imprese, ossia il 35.2% del totale
delle imprese costituenti il tessuto produttivo distrettuale, con
circa 268.000 occupati ed un fatturato di 56.000 miliardi (pari al
40% del totale generato dai distretti), di cui ben 27.892 destinati
all’esportazione. Si tratta di imprese che operano per la grande
parte nell’Italia del Nord e sulla dorsale adriatica fino al distretto
calzaturiero Fermano, con la sola eccezione del distretto di
Marsciano, in Umbria, e del materano, in Basilicata,
specializzati nella produzione di mobili. Un esempio della forza
associativa di questo “club” può essere compresa leggendo
queste tabelle:
Tabella 8
Il Club dei Distretti Industriali
CLUB PESO SUL TOTALE
IMPRESE 32.812 35%
OCCUPATI 268.005 36%
FATTURATO (mld.) 56.080 40%
EXPORT (mld.) 27.892 48%
EXP./PRODOTTO 49,7%
89 Dati illustrati da Virgilio Bugatti, presidente del Club dei Distretti industriali italiano, in occasione di una sua audizione presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati, nell’ottobre 2000.
101
Fonte: dati forniti dal Presidente del Club Dott. Virgilio Bugatti (ottobre 2000).
La tabella seguente, fornita dallo stesso Club, e
aggiornata al maggio 2001, fornisce per ogni regione il settore
più rappresentativo e il relativo distretto nel quale è situato, con
i dati relativi al numero di imprese operanti, agli occupati e al
fatturato generato.
102
Tabella 9
Fonte: Club dei Distretti (maggio 2001).
Sin dall’inizio il Club ha riunito molti esponenti del mondo
imprenditoriale (da Maurizio Sella, della omonima banca, ad
Enrico Botto Poala, dell’Unione Industriale Biellese) ed ha
cercato di porsi come interlocutore privilegiato nei confronti del
Governo per far sentire la voce dei distretti.90 Le sue istanze
iniziali erano molto pragmatiche, ad iniziare, per esempio, dalla
90 Botto Poala E., ”Relazione di base”, in “Club dei distretti industriali”, Atti del Convegno “Sistemi locali di imprese e politica industriale”, Biella, 1995.
103
istituzione di un borsino delle piccole imprese distrettuali che
consentisse alle piccole e piccolissime realtà, anche senza la
veste di società per azioni, di finanziarsi mediante titoli di
grande visibilità, garantiti dallo stato, che potessero far gola
anche al piccolo risparmiatore. Negli ultimi anni, invece, il Club
si è ritagliato un ruolo da vera e propria lobby, cercando di
spingere le autorità centrali a legiferare nella direzione
auspicata ed a concedere maggiori poteri agli enti locali, nella
direzione di un federalismo non solo istituzionale ma anche
economico. Non sono mancate, in tal senso, audizioni presso la
Camera dei Deputati di esponenti del Club per far presente
quali siano gli obiettivi di tale associazione e quali le istanze più
urgenti di cui essa si fa interprete. Accanto a questa opera, il
Club si è fatto promotore di un vero e proprio centro di servizi di
supporto alle attività delle imprese distrettuali, sul modello del
CiITER di Carpi91, ente che ha costituito una vera e propria
pietra miliare nel campo delle politiche industriali di queste aree.
Due parole al riguardo vanno spese.
La missione del CITER (Centro Informazione Tessile
dell’Emilia Romagna), che è stato costituito nel 1980 su
iniziativa dalla Regione, consiste nel supportare i processi di
innovazione e di adattamento ai nuovi scenari competitivi delle
piccole medie imprese tessili dell’Emilia Romagna. Anche se la
missione ha una netta connotazione settoriale (tessile
abbigliamento) e regionale (Emilia Romagna), il CITER viene 91 Per un’analisi approfondita di tale Ente, vedi il saggio di S. Brusco “ Quale politica
industriale per i distretti industriali”, contenuto in “Piccole imprese e distretti industriali: una raccolta di saggi”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1989, già citato.
104
spesso associato al distretto di Carpi e per molti si erge
autorevolmente come modello positivo di politiche attive a
favore dei distretti. Sotto il profilo giuridico è una società
consortile le cui quote sono detenute dalla Regione (tramite
l’ERVET), dalle associazioni di categoria (industria e
artigianato) e soprattutto da 460 imprese del settore tessile
abbigliamento. A queste il CITER92 offre un ventaglio di servizi
articolato su sei grandi assi. Il primo è quello delle tendenze
moda. Due volte l’anno alcuni esperti orientano le imprese
nella progettazione delle collezioni con la presentazione di
quaderni che propongono anticipazioni sui modelli, i punti filati,
le fibre, le gamme cromatiche, le armature delle maglie; questa
apprezzata attività a supporto della progettualità delle collezioni
è completata con la partecipazione diretta ad alcune fiere di
settore tra cui Pitti Filati. Un secondo blocco di servizi riguarda
l’evoluzione dei mercati93; periodicamente il CITER invita gli
imprenditori a riunioni molto mirate dove società specializzate
nelle ricerche quantitative e sugli stili di vita ricostruiscono
l’andamento dei consumi sui vari mercati (uomo, donna,
bimbo,..) per tipi di articoli, prezzi medi, canale.
92 Accanto al CITER oggi in Italia vi sono molti altri centri di servizi a supporto della vita dei distretti. Per citarne alcuni: il Centro Tessile Cotoniero di Busto Arsizio, Texilia Biella, Promosedia Udine (per aiutare l’export del distretto tra Udine e Gorizia, specializzato nella produzione di sedie), Centro Ceramico Bologna, Tessile Como, Pratofutura.
93 Su questo piano, molto importante è l’opera della società Grup Sedia (all’interno del citato distretto della sedia tra Udine e Gorizia), creata da quattro piccole imprese produttrici con lo scopo di organizzare un’offerta congiunta nei mercati esteri e di centralizzare le attività necessarie a migliorare la penetrazione entro tali mercati di sbocco.
105
L’attività del CITER, che inizialmente ha curato in modo
particolare i servizi focalizzati sulla moda, successivamente ha
abbracciato anche il versante dell’organizzazione aziendale con
la messa a punto di supporti mirati nel campo delle tecnologie e
dell’organizzazione della produzione, della qualità,
dell’informatica e della formazione. Nel settore della
progettazione assistita da computer (CAD), ha svolto un ruolo di
vero pioniere mettendo a punto soluzioni tecniche e progettuali
di notevole spessore innovativo. Per lubrificare i mercati
intermedi che, come è noto, caratterizzano tutto il sistema moda
italiano, ha ideato una banca dati a supporto dell’incontro tra
domanda e offerta di servizi di fase94. Tutta l’attività del CITER,
è svolta da circa 20 dipendenti coadiuvati da vari collaboratori
esterni, e segue un percorso ben delineato che punta a
sviluppare in maniera coordinata le competenze creative,
commerciali, tecniche, produttive e organizzative delle piccole e
medie imprese. Le attività sono finanziate per un terzo dai
corrispettivi pagati dalle imprese, per un terzo da contributi
regionali e per un terzo dalla partecipazione diretta in progetti di
formazione, ricerca (come il programma del Ministero della
Ricerca Scientifica per il settore tessile in corso di
realizzazione) e tutoraggio di nuove imprese.
94 Molto diverso nei compiti è il progenitore di tutti i consorzi di vendita all’estero: il PAC (Produttori Artigiani Cantuniani),operante sin dal 1966.Esso raggruppa una ventina di imprese del comparto del mobile in ottone della zona di Cantù (Como), che demandano alla direzione consortile la preparazione di parte del catalogo, il rapporto coi designers, il controllo della qualità, le indagini di mercato e,ovviamente, la vendita all’estero. A differenza del CITER, esso non si occupa di formazione o innovazione nei processi e nei materiali.
106
In definitiva, il Club dei Distretti fa pressione per trasferire
ai “comitati di distretto” (trattati in precedenza) sia una
sostanziale rappresentatività in ambito istituzionale e di
contrattazione programmata che competenze in materia di
sviluppo economico e di politiche industriali. In aggiunta, si sta
adoperando per avere il riconoscimento giuridico di “marchi di
distretto” che consentano di avere una maggiore visibilità sui
mercati internazionali (come plus per vincere la concorrenza), e
di garantire la qualità del prodotto. Nei disegni di breve periodo
di questa associazione vi è anche l’intenzione di costituire un
club europeo dei distretti industriali al fine di ritagliarsi un ruolo
di maggiore evidenza anche nei confronti delle istituzioni
comunitarie. In tal senso sono stati avviati contatti con
rappresentanti dei distretti spagnoli, in primo luogo col distretto
di Elche-Elda (il più importante nel settore calzaturiero: un terzo
delle scarpe prodotte in Spagna sono fabbricate qui) e con
quello di Ibi, Onyl e Alcoy (per la produzione di giocattoli),
entrambe nella regione di Valencia.
107
Capitolo 3
I distretti industriali nel Mezzogiorno degli anni’90:
progetti e realizzazioni
3.1 La Campania
Al di là del riconoscimento avvenuto per legge (ricordiamo
che la Campania, insieme ad Abruzzo e Sardegna, è l’unica
delle regioni meridionali che si sia adoperata nella applicazione
della legge n. 317/1991), lo stato di salute del tessuto produttivo
campano è stato oggetto di indagini empiriche accurate negli
ultimi 6 anni. I lavori di Liliana Bàculo e Gianfranco Viesti,
seppure da angolazioni diverse, hanno cercato di appurare
l’esistenza di distretti industriali marshalliani (quindi non solo di
quelli tali “ope legis”) in una realtà che pure è stata aiutata, con
finanziamenti agevolati di diverso tipo, nei cinquant’anni di
storia repubblicana, ed hanno cercato di fare luce sul trend
attuale, per dedurne eventuali correzioni o aggiustamenti in
materia di politica economica. Va subito detto che la realtà,
come oggi si presenta, ha ben pochi segnali di vivacità, se si
eccettua la zona di Grumo-Nevano e Arzano, che presenta
incoraggianti dati sul terreno delle esportazioni e sullo sviluppo
di una imprenditorialità diffusa (seppure tra mille difficoltà), ed il
distretto conciario di Solofra. Al di là di queste due esperienze,
108
rimane il settore conserviero dell’agro nocerino sarnese, che,
pur presentando buone performance, non rientra nell’ambito dei
distretti industriali classici, per l’assenza di una vera e propria
disintegrazione del processo produttivo e di un sufficiente grado
di concorrenza in tutte le poche fasi della lavorazione. Se
analizziamo, invece, la condizione dell’economia generale
campana, si notano dei fermenti, qualcosa che comincia
embrionalmente ad assumere le sembianze di un distretto.
La situazione di partenza della regione Campania, va
precisato, era del tutto differente dalle altre regioni meridionali.
La zona di Napoli, con il suo vasto comprensorio, aveva
conosciuto episodi di industrializzazione di una certa
importanza sin dalla metà del 1800 in molti settori, dalla
siderurgia alla meccanica, dal tessile (Il Canapificio Napoletano
di Frattamaggiore risale al 1908) alle calzature, e, più in
generale, diffusissima era una capacità artigiana di ottimo
livello, poiché serviva a soddisfare la domanda ingente e
sofisticata proveniente dal grande centro urbano di Napoli, da
sempre considerato la capitale del Mezzogiorno. Nel
Salernitano, altri fenomeni di industrializzazione diffusa sono
ascrivibili all’impianto di moderni stabilimenti da parte di
industriali svizzeri (la Vonviller a Salerno dal 1830, la Werner ad
Angri dal 1835 e la Mayer-Zollinger a Nocera dal 1876) che, in
parte decentrando la produzione e sfruttando anche lavoranti a
domicilio, in parte diffondendo know-how specifico relativo ai
macchinari usati in fase di manutenzione, hanno consentito il
109
radicamento di una buona tradizione nella produzione del
cotone. Dopo l’ultimo conflitto mondiale una parte di questi
impianti è stata salvata grazie all’intervento pubblico, ed in
genere l’artigianato riusciva a godere di buona salute per effetto
di un mercato locale dalla domanda stabile. Questa situazione,
nella interpretazione di G. Viesti, poteva reggere fin tanto che il
mercato meridionale restava una “riserva” dei produttori
meridionali, cioè fino a che il sistema dei trasporti restava
inadeguato e non permetteva ai prodotti delle aziende
settentrionali (ottenuti con tecnologie moderne, e a maggiore
produttività sia del capitale che del lavoro) di raggiungere
queste zone a costi ragionevoli. Quando si è costruita
l’autostrada del Sole, e quando la televisione ha provveduto ad
omogeneizzare i gusti della popolazione, per il piccolo artigiano
locale non c’è stato più nulla da fare, ed ha pertanto finito con
l’ingrossare i flussi migratori verso il Settentrione. Pur tuttavia
Le rilevazioni ISTAT, basate sui Sistemi Locali di lavoro (e
quindi non sui distretti in senso stretto), comparando
l’andamento dal 1951 al 1991, mostrano una situazione di
tendenziale stabilità occupazionale di queste aree (si passa da
54.628 addetti del 1951 a 52.756 nel 1991). Evidentemente è
cambiata la specializzazione produttiva e la collocazione
geografica della produzione distrettuale: il tessile ha subito un
lento declino, accomunando le sorti della Campania a quelle del
Nord Ovest del paese, mentre hanno guadagnato in termini di
fatturato e di occupati il settore dell’abbigliamento e del
110
calzaturiero, mostrando dinamiche simili a quelle del Nord Est e
della dorsale adriatica. La congestione dell’area metropolitana
di Napoli, dovuta anche a fenomeni evidenti di speculazione
edilizia e ad abusi di vario genere, ha indotto la gran parte delle
imprese e delle botteghe a localizzarsi in periferia, accrescendo
la popolazione dei paesi che fino ad allora traevano
sostentamento principalmente dall’agricoltura. Sia in termini
assoluti che relativi (basti pensare che, sempre sulla base delle
rilevazioni ISTAT 1951, i 4 distretti intorno a Napoli hanno
18.814 addetti, cioè quanto gli altri 21, sparsi per il resto del
Mezzogiorno) la realtà campana era e resta di tutto rispetto.
Tuttavia, se passiamo all’analisi delle singole realtà distrettuali
vediamo grosse differenze.
I casi di eccellenza sono rappresentati dal distretto
dell’abbigliamento di Arzano-Grumo Nevano, da quello
calzaturiero che, oltre ai precedenti comprende anche i comuni
di Melito e Casalnuovo, e quello della concia della pelle di
Solofra. Accanto a questi, si fa notare il distretto
dell’abbigliamento che gravita attorno ai comuni di Terzigno e
San Giuseppe Vesuviano, nella zona a sud del capoluogo. Si
tratta di realtà che vanno esaminate singolarmente per capirne i
punti di forza e di debolezza. Il primo distretto, quello
dell’abbigliamento del nord Napoletano, si è talmente sviluppato
negli ultimi 20 anni, che è andato a lambire anche comuni come
Aversa e Caserta, ed oggi genera un fatturato stimato in
almeno 600 miliardi, di cui più di un terzo all’export, e dà
111
occupazione ad oltre 8.000 addetti, in 1820 unità locali, dalle
dimensioni estremamente contenute. Punta di diamante di
questa miriade di imprese è la Kiton95 di Ciro Paone, sita
nell’ASI di Arzano, specializzata nella lavorazione sartoriale di
vestiti per uomo (di recente si è inserita nell’abbigliamento
femminile e nella produzione di accessori da uomo: cravatte e
camicie). Si tratta di una impresa di successo che riesce a
garantire delle condizioni sul posto di lavoro assolutamente
privilegiate, che vanno dall’asilo per i figli delle operaie, alla
mensa con cibi non surgelati, cotti giorno per giorno. La
peculiarità, che poi ha rappresentato anche il motivo di
successo per la Kiton, è data dalla lavorazione manuale delle
parti della giacca più difficili, dal capospalla al taschino. Sono
pochissime e marginali le fasi della lavorazione delegate
all’esterno. C’è invece una fascia, molto più consistente
numericamente, detta “intermedia” (in cui ricadono altre
esperienze di successo come la Sartoria Attolini, la Sartoria
Napoletana e la Luigi Borrelli per le camicie), che innesca il
vero e proprio meccanismo distrettuale: sono imprese che
cercano di conservare all’interno funzioni come il design, il
taglio e la commercializzazione, mentre una parte del processo
di lavorazione, così come la cucitura e la stiratura vengono di
volta in volta date a imprese “terziste” (da 4 a 8) della zona, in
concorrenza tra loro. Esse danno vita ad una produzione che
generalmente si assesta su livelli piuttosto alti, e che perciò fa 95 Liliana Bàculo, “Il vestito: Grumo Nevano”, in “Città, paesi, distretti- trame e nodi
della realtà meridionale”, Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.
112
ben sperare sulla capacità di tenuta sui mercati internazionali. Il
numero elevato tanto di committenti che di terzisti evita “colli di
bottiglia” o posizioni dominanti da parte di poche imprese, ed
incentiva, per contro, situazioni di apprendimento per
imitazione. Numerosissimi sono i casi, poi, di piccoli lavoranti
che iniziano dalle operazioni più semplici (come il taglio dei
pantaloni) senza formazione particolare, semplicemente perché
hanno cominciato ad apprendere i rudimenti del mestiere da
amici che già svolgono quella attività o da altri familiari. In
questo stadio iniziale, diverse unità produttive usano accettare
lavori anche più complessi rispetto alle loro conoscenze, salvo
poi smistare sotto-fasi della lavorazione a colleghi con cui sono
in continuo contatto, e con cui formano vere e proprie squadre
di lavoro. Altri terzisti, invece, sono nati su sollecitazione di
“agenti” di aziende settentrionali che affidavano loro partite di
abiti da cucire.
La possibilità di iniziare un lavoro in proprio è offerta dal
fatto che le barriere all’entrata (ossia i costi fissi iniziali per
intraprendere l’attività) sono molto contenute. In questa
panoramica di esuberante attività economica non mancano i lati
negativi, i punti interrogativi che se non risolti in modo solerte
potrebbero far morire per asfissia questo distretto. Innanzitutto
mancano le aree attrezzate: la stessa area ASI in cui sorge la
Kiton è priva di illuminazione, di servizi di pulizia e di una
segnaletica adeguata, tanto che gli imprenditori più volenterosi
sono stati costretti a riunirsi in consorzio per provvedere
113
direttamente alle esigenze più impellenti. Le deficienze degli
enti pubblici non si fermano qui: i tempi per avere una licenza
edilizia sono del tutto incompatibili con le esigenze di una
gestione redditizia dell’impresa. I problemi ordinari di un
qualsiasi distretto industriale (basti pensare alle esigenze di un
moderno sistema viario ed autostradale avvertite anche dai
distretti del Nord Est) vengono affiancati da ostacoli e “flagelli”
tipici dell’economia meridionale: il lavoro nero e la malavita
organizzata, o le più generiche richieste di sicurezza. Sono
problemi annosi che cercheremo di affrontare in modo nuovo,
meno “apparato-centrico” nel quarto capitolo. Per ora basti
sottolineare, invece, un problema più strettamente avvinto al
modo stesso di vivere ed organizzarsi del distretto
dell’abbigliamento di Grumo Nevano-Arzano: non esiste un
indotto industriale che costruisca gli attrezzi ed i macchinari
necessari per il funzionamento del distretto, a tutti i livelli. Ci
sono soltanto aziende concessionarie, emissarie delle case
madri che si trovano al Nord, disposte al massimo a dare
consigli sul corretto utilizzo delle stesse. In pratica c’è una
dipendenza tecnologica dai distretti settentrionali, ed il rischio
di utilizzare macchinari di “prima generazione” o
eccessivamente costosi in rapporto alla tecnologia adottata è
molto alto.
In questo distretto, accanto al settore dell’abbigliamento vi
è quello specializzato in calzature da passeggio,
prevalentemente da uomo, su fasce di mercato differenziate,
114
che includono prodotti di qualità molto alta. Esso, però, non ha
avuto il riconoscimento della Regione anche se i numeri sono di
tutto rispetto: fatturato stimato di almeno 1.200 miliardi (di cui
330 all’export), occupazione di 10.000 unità distribuita tra 1.035
unità locali, dalla dimensione media più grande rispetto a quelle
del distretto dell’abbigliamento, anche se più contenuta rispetto
agli altri distretti meridionali. Fanno parte di questa realtà
aziende rinomate a livello nazionale (come Melluso calzature,
Ramirez e Mario Valentino), che hanno alle spalle
un’esperienza pluridecennale96: gioverà ricordare, infatti, che il
distretto napoletano della calzatura ha dimensioni consistenti
già nel 1951, quando dava lavoro a circa 7.000 addetti.
Menzione a parte merita invece il distretto di Solofra, in
provincia di Avellino. Esso comprende solo 4 comuni, con una
popolazione complessiva di 34.382 persone, in cui operano
208 imprese del settore conciario (ma solo la Albatross può
dirsi di medie dimensioni, con i suoi 100 miliardi di fatturato, per
il resto sono tutte realtà piccole o piccolissime) e 46
appartenenti al comparto della confezione in pelle (numeri,
comunque, che devono tenere conto di un alto indice di
rotazione delle imprese, che si spiega soprattutto con il fatto
che molte di queste nascono e muoiono nell’ambito di gruppi
familiari). Il totale degli occupati si attesta sulle 4.000 unità. Il
fatturato (nel 1998) ha di poco superato i 1.000 miliardi, di cui
530 all’export (per lo più i paesi dell’Estremo Oriente, come 96 Per avere maggior peso ed interloquire efficacemente con le istituzioni,150
aziende calzaturiere comprese nella zona tra Caserta e Napoli hanno costituito il consorzio “Unica”, con sede nell’area industriale di Carinaro, in provincia di Caserta.
115
Cina, Corea e Taiwan). La lavorazione principale riguarda la
concia di pelli ovine e caprine di piccole dimensioni destinate
all’industria calzaturiera, e prevede una serie di fasi intermedie
(come l’inchiodatura) che vengono delegate ad imprese
terziste. Il ricorso alla loro opera si spiega anche per un altro
motivo: nel settore conciario la domanda si concentra in
determinati periodi dell’anno (autunno), con forti sollecitazioni
da parte dei clienti per la puntualità dei termini di consegna, e le
imprese conciarie, se non facessero ricorso alle terziste, si
vedrebbero costrette a continui licenziamenti e riassunzioni
(vale qui lo stesso ragionamento che S. Brusco ha fatto sul
distretto della maglieria di Carpi).
Quasi come risposta alla stagionalità della lavorazione
della pelle, si è molto sviluppato il settore delle confezioni (che,
va detto, sfrutta solo per il 3% la materia prima lavorata a
Solofra). Da mera esperienza di integrazione a valle fatta dalla
capostipite di tutte le famiglie del distretto solofrano (la famiglia
Juliani), il settore97 in questione si è subito rivelato un buon
affare per una quota crescente della popolazione, che così ha
potuto compiere anche il primo passo per iniziare un’attività
autonoma e poco costosa, sulla scia del successo crescente
che il pronto moda riscuote nell’abbigliamento in generale. Per
tirare le somme, la storia recente di questo distretto ci dice che
a fronte di un consolidamento della realtà industriale (peraltro
dovuto ad un forte utilizzo dei fondi agevolati della Cassa per il
97 Per ulteriori informazioni al riguardo, si veda Iannuzzi,E., “Verso la ridefinizione dei caratteri del distretto conciario di Solofra”, Rassegna Economica, n. 3/4, 1994.
116
Mezzogiorno negli anni ’60 e ’70), le situazioni di crisi
continuano a susseguirsi a causa di una domanda
internazionale piuttosto instabile. Una gestione più moderna e
meno attendista dell’azienda, un occhio più attento alle
innovazioni e servizi più moderni di sostegno alle imprese
(capaci di indirizzare in maniera efficace l’offerta e di essere
sempre aggiornati sulle tendenza della moda pelle) potrebbero
sicuramente rappresentare la risposta giusta.
Ritornando al settore dell’abbigliamento, anche se si tratta
di produzione di qualità medio-bassa, passiamo a descrivere
l’area di San Giuseppe Vesuviano e Terzigno, a sud di Napoli.
In un contesto di elevato disordine urbanistico (basti
pensare che non un comune ha approvato sin ora un piano
regolatore, e che zone di insediamento abitativo si intrecciano e
sovrappongono in continuazione ad altre di insediamento
industriale), si è assistito in 50 anni di storia ad una curiosa
evoluzione: dal commercio di “pezze” americane che ha fatto la
fortuna commerciale di buona parte dei sangiuseppesi, si è
passati alla produzione di capi di pronto moda, prettamente
femminili, da smerciare in grosse quantità sul mercato
nazionale ed estero. Si tratta ovviamente di lavorazioni che
richiedono una scarsa competenza, e che proprio per questo
possono coinvolgere chiunque, tanto è vero che in questa zona
dalla elevata densità abitativa (112.710 abitanti su una
superficie di 109,59 km quadrati, comprendente 8 comuni), c’è
un numero imprecisato di piccole e piccolissime imprese, molte
117
delle quali completamente sommerse e sconosciute al fisco. Il
successo di questa zona si spiega con l’avere ampliato le
capacità commerciali da sempre riconosciute agli ambulanti di
questo comprensorio, di avere costituito col tempo una
moderna catena di distribuzione, di avere imparato a carpire i
nuovi gusti del mercato e a trasformarli in capi dal design facile
ma accattivante.
Il potere commerciale di queste zone è oggi visibile nel
grosso centro del CIS di Nola, sito in un punto strategico del
sistema autostradale meridionale, e che fa da catalizzatore di
tutte queste esperienze del Napoletano: Extyn, Standpoint,
Onyx sono solo alcune delle marche commerciali (che, tra l’altro
fanno largo ricorso all’affiliazione commerciale, o franchising)
grazie alle quali l’area in questione si è resa famosa in Italia e
sui mercati esteri (soprattutto quelli più poveri dell’Est, che
possono permettersi in questo modo un po’ di “Made in Italy”).
Da meri ambulanti, dunque, i Sangiuseppesi hanno prima
imparato l’arte del commercio, si sono poi fatti una fitta rete di
conoscenze (anni ’50 e ’60), anche internazionale, e poi, sulla
base della conoscenza acquisita, ritenendo che vi fosse una
parte di mercato scoperta (quella della moda casual e di
tendenza), hanno pensato di entrare nel campo della
produzione (con imprese leader come la Carrillo-Pashà ed il
gruppo Ambrosio98, che fatturano tra i 20 e i 50 miliardi),
98 Le imprese dei distretti meriodionali costituiscono gruppi societari in misura molto minore di quanto non accada al Nord: ciò è inevitabile quando le stesse unità produttive sono di dimensione più piccola di quelle settentrionali. Si veda: Viesti,G.,”Le esportazioni dei sistemi italiani di piccola e media imprersa”, Quaderni di Ricerca ICE, Roma, 1997.
118
delegando gran parte delle operazioni all’esterno, e generando
quella spirale di competizione e cooperazione tra le molte unità
locali. È chiaro che, in questa esperienza, preponderante risulta
essere il momento distributivo, e quello della logistica:
approvvigionarsi di stoffa a buon mercato ed in tempi rapidi è
una prerogativa riconosciuta di questi imprenditori, mentre la
produzione (che poi è il nocciolo di un qualsiasi distretto) passa
in secondo piano, viste le scarse competenze richieste, e quindi
anche la scarsa organizzazione.
Ora è bene considerare gli altri distretti riconosciuti dalla
legge, e vedere se si distinguono dagli altri in alcuni aspetti
fondamentali. Innanzitutto il “distretto” dell’abbigliamento di San
Marco Dei Cavoti, in provincia di Benevento, che pure è stato
oggetto di parecchie attenzioni. Esso comprende 16 comuni,
con una popolazione complessiva di 39.739 persone, in cui
operano 366 unità, di cui solo 190 specializzate nella
confezione di abiti casual, per un totale di circa 1000 addetti. I
primi segnali di una specializzazione in tale senso si hanno alla
fine degli anni '70, grazie al decentramento della fase di
cucitura dei giubbotti in pelle voluto da alcune aziende
settentrionali. Per imitazione sono sorte altre imprese che
svolgevano lo stesso lavoro, e che cominciavano ad accettare
commesse anche da aziende del Napoletano (come la Pit-Stop
di Grumo Nevano). A metà degli anni ’80 c’è la svolta. Per
effetto del decentramento produttivo di un’impresa molisana (la
Pantrem dei fratelli Perna, sita in Isernia) si effettuano
119
ampliamenti della capacità produttiva a livello di singola
impresa e si cominciano a produrre giubbotti in tessuto jeans,
per giungere, nei primi anni ’90, ad una situazione di
diversificazione imposta dai committenti, con ulteriori
decentramenti produttivi a livello locale. Si creano tante imprese
madri, da cui per “gemmazione” (ossia per effetto della scelta
del dipendente di licenziarsi e mettersi in proprio, svolgendo la
stessa attività che aveva imparato nell’azienda di provenienza)
si creano imprese figlie, a cui si danno macchinari in comodato
d’uso e, senza contratti formali, si stabilisce una retribuzione
più flessibile, costituita da una parte fissa (di scarsa entità) e da
una parte variabile (come percentuale sui guadagni). Alla fine,
per i contatti continui tra imprese madri e figlie, si hanno veri e
propri gruppi collegati che gestiscono le commesse in modo
coordinato. È evidente come sia assolutamente improprio
parlare di distretto in quanto:
1. non c’è nessuna impresa nello stadio finale, che quindi abbia
un contatto col mercato;
2. le operazioni che vengono svolte in questo territorio (già,
peraltro, molto ampio e difficile da coordinare a livello di enti
pubblici territoriali) sono poche, addensate nella parte
centrale della filiera produttiva (cucitura e confezionamento),
e richiedono anche una scarsa competenza;
3. scarse sono, in prospettiva, le possibilità di apprendere
nuove tecniche di produzione, o di dotarsi di “saperi
imprenditoriali” ed organizzativi specifici, per l’assenza di un
120
contesto di imprenditoria diffusa e varia, o di figure
professionali di sostegno.
La situazione di San Marco Dei Cavoti sembra
assomigliare molto di più ad un insediamento produttivo dell’Est
europeo, dove le imprese settentrionali vengono per godere del
basso costo del lavoro (anche per effetto di una massiccio
ricorso al lavoro nero), e per eludere alcuni obblighi in materia
di sicurezza sul lavoro, con il vantaggio ulteriore (sia rispetto
all’Est Europeo che rispetto a certe zone dell’hinterland
napoletano) di avere livelli bassissimi di criminalità organizzata.
Stesso discorso vale per Calitri, dove l’insediamento di alcune
medie imprese (specializzate nel finissaggio dei tessili e
insediatesi poiché fortemente agevolate all’indomani del
terremoto del 1980) non può rappresentare il primo seme di un
distretto industriale in fieri. Il puro decentramento di qualche
grossa impresa del Nord, lungi dall’attivare fenomeni di
imitazione o diffusione di economie esterne, non porta neanche
ad una vitalità complessiva dell’economia regionale in generale,
ma piuttosto al depauperamento di fondi pubblici o comunitari.
Per quanto concerne, invece, il distretto di Sant’Agata dei Goti
e Casapulla, esso si va ad innestare sulla secolare abilità dei
tessitori serici di San Leucio, vicino Caserta: alla fine del XVIII
secolo, Ferdinando IV di Borbone fece costruire una
manifattura reale, che producesse seta di primissima qualità per
121
arredare la sua reggia. Oggi è rimasta una sola grande
azienda99 (la Tessitura Alois di San Leucio) qualche
competenza nel settore tessile, ma niente di più che un buon
artigianato in una zona a vocazione eminentemente agricola. In
questi casi, può essere utile molto più una visita ai luoghi in
prima persona che l’utilizzo di complicati indici statistici di
concentrazione settoriale: l’atmosfera industriale di Marshall,
qui, non è che un puro concetto astratto.
Un punto di contatto di tutte queste zone, più o meno
organizzate in distretto, va sottolineato: tutte le produzioni
hanno a che fare col settore moda, dalle calzature, alle borse,
dalla sartoria al pronto moda, quasi come se fossero stati il
frutto di una lunga educazione al gusto ed al bello; in parte si
può dire che questo sia oggi giustificato dalla richiesta di
produzioni sempre più raffinate da parte dei turisti (di rilievo
sono le produzioni di sandali in tutta la costiera amalfitana, o i
costumi da bagno a Gragnano100 o a Sorrento). C’è insomma
una coerenza interna a tutte queste lavorazioni, che le tiene
unite, e forma quello che l’economista di Harvard M. Porter
chiama un “cluster”101. Va perciò indagato su quali siano gli
indirizzi di politica economica che in futuro reggeranno la vita
dei distretti campani, e se si vorrà tenere un occhio di riguardo
anche per altre realtà in crescita, come pure si devono chiarire
99 Di minori dimensioni è invece l’Antico Opificio Serico De Negri di San Leucio, venuto alla ribalta recentemente per avere fornito, nel 1998, i tessuti con cui Bill Clinton ha voluto arredare le stanze della Casa Bianca.
100 Per i costumi da bagno di Gragnano si veda: Gaudino, S. “Al Sud qualcosa di nuovo: il caso Gragnano” in Nord e Sud , novembre-dicembre 1996.
101 M. E. Porter, “On competition”, in Harvard Businesss Review Book, 1998.
122
le responsabilità politiche di (probabili) distorsioni. Grande
fermento, di recente, hanno riscosso i Patti territoriali per
l’Occupazione come strumento di sviluppo concertato, e,
ancora prima, i Contratti d’area. Sulla idoneità di questi
strumenti e sulla situazione complessiva del meridione dei
distretti si tornerà nel quarto capitolo.
3.2 la dorsale adriatica
L’eccezionale sviluppo che ha riguardato le zone costiere
di Abruzzo, Molise e Puglia negli ultimi trent’anni ha fatto
pensare a più di uno studioso che la dorsale adriatica dello
sviluppo, fermatasi a Fermo col suo distretto calzaturiero, non
fosse un episodio, e che il meglio di sé doveva ancora essere
espresso. Per la verità, queste considerazioni non sono prive di
un qualche fondamento se solo si pensa a quante imprese del
Fermano hanno cominciato a far svolgere parti poco
impegnative della loro produzione ad imprese del vicino
Teramano. Oggi, la situazione del tessuto produttivo abruzzese
è tanto positiva, che la UE ha deciso di escludere questa
Regione, insieme al Molise, dalle zone Obiettivo 1 del quadro di
sostegno comunitario (che, notoriamente, sono costituite da
regioni il cui reddito pro capite è inferiore al 75% di quello medio
dell’Unione).
Dei 25 distretti che G. Viesti individua nel Mezzogiorno
d’Italia, grazie alla particolare riclassificazione dei dati ISTAT
123
sui Sistemi Locali del Lavoro, ben 12 si trovano in zone vicine o
site sulla costa, mentre altri tre, pur appartenendo a queste
regioni, si trovano all’interno, o come nel caso del distretto dei
salotti di Santeramo, nella Murgia, a cavallo tra Puglia e
Basilicata (Matera). Può essere utile ricordare come lo studioso
barese ha provato a fare uscire fuori queste realtà, sulla base di
mere risultanze statistiche: egli, anziché riportare la situazione
degli SLL meridionali alle medie nazionali, prende come base di
riferimento per il suo esercizio i valori medi meridionali, proprio
per fare emergere le differenze interne al Sud. In particolare, un
Sistema Locale del Lavoro viene classificato industriale quando
il tasso di industrializzazione è pari al 3%, che è all’incirca il
valore medio dell’indicatore nell’insieme delle regioni
meridionali. Più in dettaglio, sistemi caratterizzati da
un’incidenza degli addetti ad un settore doppia rispetto a quella
media meridionale sono definiti sistemi industriali specializzati
(nel “Made in Italy” o nell’alimentare che sia).
È un metodo artificioso, ma può essere utile ricorrervi per
vedere in filigrana la situazione economica di questa parte della
penisola, al di là della classificazione ufficiale, stabilita dalla
Regione Abruzzo (secondo la quale sarebbero distretti: la Piana
del Cavaliere, la zona della Maiella ed il Vastese, con attività
plurisettoriali, e la Val Vibrata, nel tessile) in ottemperanza alla
legge sui distretti più volte menzionata. I distretti Abruzzesi
individuati con questo criterio sono quello della pelletteria
teramana, dell’abbigliamento casual a Nord di Pescara e
124
dell’abbigliamento per uomo (capispalla e camicie) tra Roseto e
Pineto, quello delle calzature sempre a Teramo e a
Guardiagrele (vicino Chieti) e quello del mobilio (principalmente
per ufficio), tra Atri, Giulianova e Pescara. Il primo distretto, che
produce borse ed articoli da viaggio in pelle, con 2132 addetti e
363 imprese sparse tra Teramo e Giulianova, sulla costiera
adriatica, è nato intorno al 1970 su uno “zoccolo duro” di terzisti
con sede ad Alba adriatica. Si tratta di realtà produttive molto
piccole (la media è di circa sei addetti per impresa), con una
sola impresa di medie dimensioni che da impiego a più di 100
addetti e che generano un fatturato di circa 350 miliardi, di cui
solo 80 dall’export.
La produzione è generalmente di qualità medio-bassa,
realizzata in sub-fornitura per aziende settentrionali oltre che
per le confinanti aziende del Maceratese. Accanto a questo tipo
di lavorazione, e quasi a completare un’ideale paniere di
prodotti “Made in Italy”, è molto radicata la produzione di
abbigliamento (confezioni per uomo e bambino, e casual), che
riesce a fatturare 600 miliardi, di cui 230 legati all’export, e
vede la presenza di imprese di grandi dimensioni, come la
Finanziaria Italiana Tessile (FIT-GPM) di Alfano di Paolo, erede
della Vulcano (che con il marchio Wampum era stata negli anni
Settanta ed Ottanta uno dei principali produttori di casual
italiani), o la Casucci, produttrice di Jeans di Sant’Egidio alla
Vibrata, o il Maglificio Gran Sasso, nello stesso paese, sorto nel
1952, ed oggi conta 500 dipendenti e 50 miliardi. Va notato,
125
però, come questi casi di grandi imprese o piccole realtà dedite
all’abbigliamento siano una costante di tutta la costiera adriatica
abruzzese, da Teramo fino a Vasto, anche se con differenti
specializzazioni, e che vano, quindi, potrebbe essere il tentativo
di includere certe unità produttive in un distretto e certe altre in
un altro ancora. Ciò che conta è la contiguità territoriale delle
produzioni che permette un continuo scambio di informazioni o
ritrovati tecnici, o la condivisione di mercati di sbocco nazionali
o internazionali. Pertanto, è fondamentale il ruolo di vere e
proprie “imprese motrici” giocato da alcune aziende storiche,
insediatesi nel Pescarese o nel Chietino decenni orsono (come
la tedesca Marvin Gelber), che hanno provveduto, con un lento
processo di sedimentazione delle pratiche non solo artigianali
ma anche gestionali ed organizzative, a creare un terreno fertile
per l'imprenditorialità, e a incoraggiare processi di creazione di
nuove (anche se piccole) unità tramite fenomeni di
“gemmazione”.
È chiaro anche che ci sono alcune imprese, spesso quelle
più grandi (come la Casucci) che preferiscono integrare al loro
interno più fasi possibile della produzione, e affidano all'esterno
solo alcune lavorazioni complementari a quelle realizzate al suo
interno, ma la diffusione di Know-how non si arresta per questo.
La zona del Teramano ha una tradizione tessile antica che le
deriva dalla lavorazione della canapa, coltivata in queste zone
sino alla fine degli anni sessanta, e che le permette di essere
fortemente ricettiva rispetto a qualsiasi novità nel processo
126
produttivo o nella lavorazione dei tessuti. La parte meridionale
della costa abruzzese vede operare imprese altrettanto
importanti, come la Brioni di Penne (produttrice di
abbigliamento maschile di alta qualità), la IAC (già Melvin
Gelber, citata prima, ora specializzata nella produzione di
camicie con marchio Rodrigo) e la Sixty (abbigliamento moda
giovane), insieme a molte altre più piccole, che occupano circa
9.000 addetti. Questa morfologia della costa adriatica non
cambia quando si arriva in Molise, a Termoli, dove si trovano
molte altre imprese, sub-fornitrici di quelle abruzzesi.
Un cenno a parte, invece, va riservato alla realtà di
Isernia, dove ci sono due imprese che svettano su tutte le altre:
la Ittierre e la GTR, e poche altre imprese di contorno, a fare da
sub-fornitrici. La prima è ubicata nel comune limitrofo di
Pettoranello, e presenta sia produzioni con marchio proprio che
altre in collaborazioni con stilisti affermati102, arrivando a
generare 650 miliardi di fatturato, mentre la GTR di
Monteroduni lavora prevalentemente sul versante del casual.
Ciò che accomuna le due imprese è il fatto di essere nate dal
fallimento della Pantrem (nota per il suo marchio POP 84) dei
fratelli Perna, oggi a capo delle due società, e una gestione
aziendale molto “vivace”103. Abbiamo già visto, infatti, come essi
prediligano esternalizzare gran parte del processo di
102 La Ittierre di Pettoranello lavora da molti anni per Gianfranco Ferrè.103 La fortuna imprenditoriale dei fratelli Perna è tale che oggi essi possono contare
su un gruppo societario in cui la holding di famiglia è quotata a Piazza Affari. Di recente essi hanno acquisito anche il controllo della società di carte di credito Diners. Per altre informazioni sulla Ittierre si veda: Viesti,G.,” Qualche buon esempio: riflessioni su imprese di successo nel Mezzogiorno”, L’Industria, aprile-giugno 1999, pag. 286.
127
produzione (ricordiamo che il “distretto” di San Marco Dei
Cavoti in Campania è nato da un decentramento della Pantrem)
per abbattere i costi di produzione, ma, oltre a questo, cospicuo
è stato anche l’utilizzo di fondi agevolati per effettuare
ristrutturazioni aziendali. Sempre sulla fascia costiera, e sempre
tra Teramo e Pescara, molto promettente risulta essere il
distretto mobiliero: 600 miliardi di fatturato e 2500 addetti sparsi
in 389 unità produttive rappresentano bene il fermento
produttivo di una zona da sempre dedita alla falegnameria
(produzione di tavoli specialmente), e che ancora nel 1971
dava lavoro solamente a 1200 addetti. La produzione della
zona è piuttosto diversificata e comprende i divani di Teramo, i
mobili per cucina di Atri, e soprattutto i mobili per ufficio e le
scaffalature metalliche di Giulianova e Pescara. Tra le imprese
del settore, spicca la LAS mobili di Tortoreto, in provincia di
Teramo, che nel solo 1998 ha fatturato 110 miliardi e dato
lavoro a 4000 persone. Di minore rilevanza, invece, è il piccolo
(in termini assoluti ma non relativi all’economia del
comprensorio) distretto calzaturiero che fa capo ai comuni di
Guardiagrele, Orsogna e Lanciano, a sud di Chieti, coi suoi 700
addetti. Si tratta di una produzione di qualità bassa, con pochi
sbocchi sui mercati finali, prevalentemente indirizzata all’export
verso i paesi meno ricchi dell’Est Europeo (dei 100 miliardi di
fatturato, la metà sono ascrivibili alle esportazioni).
Percorrendo 200 km lungo l’autostrada A14, da Termoli
si giunge a Barletta, passando per la zona pianeggiante del
128
Foggiano (Capitanata), in cui gran parte della ricchezza è
dovuta all’agricoltura. Il centro a Nord di Bari rappresenta una
sorta di continuum rispetto agli insediamenti produttivi
abruzzesi, e facilmente vi si possono individuare due distretti:
uno che produce scarpe di vario tipo, e l’altro dedito alla
maglieria (più correttamente, la maglia tagliata). Il distretto che
produce scarpe può vantare una tradizione che risale ai primi
anni quaranta, quando gli agricoltori della zona spingevano gli
artigiani a produrre scarpe da campagna e pantofole. Col
tempo, e con le nuove tecniche di vulcanizzazione prima e della
iniezione delle suole poi, si è passati alla produzione di scarpe
da ginnastica di fascia bassa, poi a quella degli “zatteroni”
moda da donna e, ancora, a sofisticate scarpe da lavoro
antinfortunistiche, sempre con suola iniettata. Oggi accanto alle
aziende di Giuseppe Damato (come la Cofra, che supera i 100
miliardi di fatturato) vi sono altre 600 unità produttive che
impiegano 7.000 addetti, e sono molto aperte all’export104.
Per quanto riguarda il distretto barlettano della maglieria,
quello che conta evidenziare è la presenza sin dagli anni
quaranta di una impresa (il Maglificio Riccheo) che ha diffuso il 104 Le aziende calzaturiere di Barletta si sono rivelate molto attive nell’export anche
grazie al Progetto Mezzogiorno, promosso dall’ICE. Esso si inseriva nel Programma Operativo Multiregionale “Industria e servizi” e in particolare nel “Programma di interventi a favore delle attività di commercializzazione e dell’apertura internazionale delle piccole e medie imprese (PMI) industriali del Mezzogiorno” (Misura 3.3 della UE) cofinanziato dalla UE. Per la precisione, il Progetto riguardava: informazione, assistenza e consulenza, programmi di penetrazione commerciale, conferenze di commercializzazione, marchi di qualità e certificazione di prodotti. Il Progetto Mezzogiorno, scaduto nel giugno 1997, prevedeva uno stanziamento di 15 milioni di ECU, finanziato per il 48% dalla UE con fondi tratti dal FESR, il 33% con fondi MINCOMES e il rimanente 19% dal contributo delle aziende beneficiarie. Ne erano beneficiarie le PMI delle regioni meridionali. Lo hanno utilizzato circa 2.000 aziende; i settori maggiormente coinvolti sono stati: arredamento, abbigliamento, pelletteria e calzature, attrezzature per l’edilizia, oreficeria, artigianato e agroalimentare. Attualmente si sta discutendo se rifinanziarlo.
129
know-how ed ha permesso di “incubare” molte altre piccole
imprese, che le sono sopravvissute. Oggi, il panorama della
maglieria barlettana è incredibilmente simile al modello teorico
del distretto industriale marshalliano: una pluralità di piccole
imprese su di un territorio molto limitato, con una grande
concorrenza tra le imprese dello stadio finale, e una buona
specializzazione delle imprese per fasi, con una suddivisione
del ciclo produttivo, e con la presenza di fornitori di input
specializzati. Scendendo verso Bari, in una zona piuttosto
ampia che ha per centro di riferimento Andria, si incontra un
altro distretto di rilievo: quello dell’abbigliamento intimo e
sportivo (con la produzione di felpe e di tute). Qui, le
considerazioni sulle modalità della nascita e crescita di un
bacino tanto ampio di imprese possono rievocare le stesse
cose dette per il grande distretto di Napoli, che da Arzano arriva
fino ad Aversa. La vastità del bacino di utenza, in un’area che
conta 1.200.000 abitanti, ha funzionato da stimolo al salto di
qualità da artigiano ad imprenditore per una buona parte della
popolazione locale; la scintilla che ha fatto compiere questo
salto di qualità è scoccata nel 1971, con l’insediamento nella
zona industriale di Bari di un grande stabilimento della svedese
Hattermarks, che ha permesso l’accumulazione di abilità e
conoscenze anche dopo il suo fallimento.
Nella zona a sud di Bari, proseguendo nel nostro viaggio,
si distinguono per importanza e riconoscibilità esterna - anche a
livello nazionale - i distretti di Putignano, per gli abiti da sposa,
130
e Martina Franca, produzione di capispalla maschili. In
particolare, notevole è la tradizione di Putignano105, strettamente
legata alla storia personale di Cesare Contegiacomo, che riesce
ad intuire, frequentando la scuola di avviamento a Napoli, le
enormi potenzialità dell’industria dell’abbigliamento concepita
secondo moderni canoni di qualità ed efficienza. Ritornato nel
paese natio, nel 1905 fonda la sua impresa impiegando le
migliori sarte del paese, e facendo venire disegnatori e dirigenti
commerciali dalle zone più evolute del paese, in primis dal
Milanese. Da questa esperienza si innesca un “effetto scuola”
che permette l’apprendimento del mestiere alle generazioni di
operai e imprenditori successive. Il momento di crisi per l’abito
da sposa putignanese giunge nel 1971, quando all’indomani
dell’ ”autunno caldo” si scatenano notevoli conflitti sindacali
che, innestatisi in un contesto di elevata integrazione verticale e
relativa rigidità, provocano la chiusura degli stabilimenti più
grandi, e la frantumazione del tessuto produttivo. Oggi, la realtà
prevalente è costituita da imprese di dimensioni medio-piccole,
con una produzione di elevata qualità.
Scendendo ancora, passando dalla provincia di Brindisi a
quella di Lecce, spicca il distretto della calzatura dei comuni di
Casarano, Gallipoli e Tricase, con un numero di addetti che si
aggira intorno alle 7.000 unità, ed unità produttive dalle
dimensioni medie piuttosto elevate, essendo molto integrate. Le 105 Una conferma indiretta dell’importanza e del radicamento socioeconomico di
questo distretto, si ha dal fatto che G. Garofoli, nell’articolo “Lo sviluppo delle aree periferiche nell’economia italiana degli settanta”, L’Industria,n.2, 1981, in tutto il Meridione aveva individuato solo quattro aree-sistema: quella della calzatura e della pelletteria della provincia di Napoli, della conceria di Solofra e, appunto, dell’abbigliamento di Putignano.
131
aziende leader della zona sono due: la Filanto, di Antonio
Filograno, e la Nuova Adelchi. Anche qui c’è la presenza di una
impresa motrice, la Elata di Nicolazzo, che sin dagli anni trenta
riesce ad essere organizzata in modo innovativo e a diffondere
know-how specifico. Presso questa azienda apprende il
mestiere lo stesso Filograno, prima di passare all’attività
imprenditoriale in proprio sul finire degli anni Cinquanta, e di
sfondare sui mercati esteri all’inizio degli anni Ottanta. Il
prodotto tipico della zona è la scarpa tradizionale da uomo, con
la suola in cuoio, per la cui lavorazione, negli ultimi anni, si è
ricorsi sempre di più a fenomeni di decentramento
oltreadriatico, soprattutto nella cucitura di tomaie. Da segnalare,
nella zona, anche una buona specializzazione produttiva nel
settore dell’abbigliamento da uomo, e delle cravatte in
particolare (dovuta agli sforzi pionieristici di una impresa attiva
dagli anni ’50, The King), nel comune di Corsano, con 500
addetti ed una produzione concentrata e riconoscibile, quasi
come un marchio, anche esternamente. In generale, in tutto il
Salento le tradizioni nell’abbigliamento sono solide (da ricordare
i ricamifici di Nardò) ed oggi si perpetuano sotto forma di una
diffusa imprenditorialità, e di un ricorso crescente alle forme
nuove di distribuzione commerciale (ad esempio i negozi in
franchising “harry and sons” rendono disponibili in tutta Italia i
capi salentini).
Questo complesso di piccole e medie imprese,
concentrate per la maggior parte sulla costiera adriatica,
132
basterebbe già a far parlare di “fenomeno” Puglia; e difatti,
questa è proprio la regione che dal 1951 ha conosciuto ritmi di
crescita del PIL regionale frenetici, e, parallelamente, ha fatto
aumentare il numero di occupati da 25.204 a 66.145, per il solo
“Made in Italy”. Ma mancherebbe un tassello importante: il
distretto del salotto che fa capo al triangolo con vertici
Altamura, Santeramo in Puglia e Matera, a ridosso con la
Basilicata. Si tratta di un vero e proprio distretto industriale che
negli ultimi 20 anni si è allargato a macchia d’olio, arrivando a
toccare la periferia di Bari e Bitonto, e che vede la presenza di
una impresa leader, la Natuzzi106 di Pasquale Natuzzi, affiancata
da altre imprese (come la Soft Line, Divania, Calia e Nicoletti),
direttamente impegnate nella commercializzazione del prodotto,
ed una serie di altre imprese dell’indotto, di dimensioni piccole e
medie.
Il genio di Natuzzi (che ha quelle caratteristiche di
“distruzione” dell’equilibrio statico evocate nei lavori di
Schumpeter107 ed attribuite alla ristretta élite di imprenditori
responsabili delle innovazioni tecnologiche) è riuscito ad
infrangere parecchi primati, e a fare diventare questo angolo di
Puglia la zona di riferimento per la produzione di salotti in pelle.
Le aziende dell’indotto comprendono quelle specializzate nella
produzione di poliuretano per le imbottiture, quelle che
sagomano i fustelli di legno che fanno da armatura per i divani 106 Liliana Bàculo, ”Il salotto: Altamura, Matera e Santeramo”, in “Città, paesi,
distretti- trame e nodi della realtà meridionale”, Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.
107 J. A. Schumpeter, “Capitalismo, Socialismo e Democrazia”, Etas Libri, Milano, 1977; J. A. Schumpeter, “Teoria dello Sviluppo economico”, Sansoni, Firenze,1971.
133
e quelle di concia delle pelli (come la barese Italian Leather,
fondata da un ex dirigente Natuzzi che si occupava
dell’acquisto della materia prima). Il merito principale di questo
imprenditore, che poi rappresenta il ”propulsore” di tutto il
distretto - anche se due piccole imprese, Tirelli e Ferri sono
attive in quel settore sin dagli anni ’50 -, è stato quello di
ritagliarsi una nicchia di mercato allo stesso tempo ghiotta
(perché riguardava il ricco bacino statunitense) e “indifesa”, cioè
senza concorrenti: mediante una innovazione di processo egli
riusciva a vendere a 699 dollari dei divani in pelle che
normalmente costavano 1999 dollari. Ovviamente si tratta di
una produzione di qualità più bassa rispetto a quella di suoi
concorrenti (anche della stessa zona, come Nicoletti), ma che
tuttavia riesce a garantire notevoli economie di scala per effetto
dei grossi volumi di vendita che accordi esclusivi di
distribuzione sul mercato americano (con la catena Macy’s)
assicurano. La successiva quotazione a Wall Street, oltre
all’immediato ritorno d’immagine, permette anche di potere
contare su stabili flussi di finanziamento a buon mercato. Date
queste premesse, la stessa Natuzzi ha provveduto ad
“aggredire” il ricco mercato italiano, attrezzando una (per i
tempi) innovativa catena in franchising “Divani & Divani”, con
cui ha consolidato la sua posizione di leader nella produzione e
vendita di divani in pelle; oggi essa fattura 1000 miliardi ed ha
3.500 dipendenti (dai 78 del 1980), con un indotto vitale e
dinamico di altri 3.000 occupati nelle aziende sub-fornitrici, e nel
134
1999 l’intero distretto ha fatto registrare l’aumento più marcato
del valore della produzione (+ 63%) rispetto al resto del
complesso distrettuale italiano. È chiaro che si tratta di un caso
di successo del tutto “anomalo” e quindi difficilmente replicabile
su vasta scala, ma varrà la pena, in futuro, di studiarlo a fondo
per mettere a fuoco i meccanismi che servono ad innescare la
nascita di un distretto, magari arricchendo l’analisi con contributi
di più discipline.
3.3 Il resto del Mezzogiorno
Se la Campania ha fatto registrare nell’arco di tempo che
va dal 1951 al 1991 un andamento sostanzialmente stabile
dell’occupazione ed un mantenimento del suo apparato
produttivo (con i cambiamenti di specializzazione ed i declini
inevitabili già illustrati), e la Puglia, per contro, ha visto crescere
notevolmente, sia per dimensione che per profondità, la gamma
dei suoi distretti industriali, il resto del Mezzogiorno presenta un
quadro complessivo piuttosto desolante. Nell’insieme, tolte
alcune eccezioni in Sardegna, non si può parlare di nessun
“vero”, seppure di dimensioni contenute, distretto industriale,
quanto piuttosto di aree in cui la tradizione artigianale regge, si
è organizzata, ma non è riuscita ad interagire con il territorio
circostante, e non ha innescato fenomeni di cooperazione e di
“ispessimento localizzato”. Un fenomeno comune, viceversa,
sembra essere la presenza di zone ad elevata
industrializzazione (anche per l’investimento diretto di capitali
135
stranieri) a ridosso immediato dei centri urbani costieri più
popolosi; la cui ragion d’essere, però, sembra fare più
riferimento agli insegnamenti classici della localizzazione
industriale di Alfred Weber e August Lösch che ai meccanismi
di sviluppo del distretto industriale, così come chiariti da
Marshall.
La storia industriale di queste regioni può aiutarci a capire
le cause di questa arretratezza, se è giusto parlare in termini di
arretratezza o se, forse, non bisogna usare un criterio di
valutazione diverso. Nel 1951, basandoci sui dati ISTAT, la
produzione nel settore dell’abbigliamento, nel tessile e nel
calzaturiero (il “Made in Italy”) risultava, tanto in termini di
addetti che di ricchezza prodotta, sostanzialmente omogenea in
tutto il Mezzogiorno, poiché diffuso era l’artigianato locale, di
buona qualità, e la domanda era assicurata dal mercato
domestico. Fino agli anni ’80 riesce a tenere bene il Tessile,
soprattutto in Sicilia ed in Sardegna, ma poi, insieme agli altri
settori del “Made in Italy”, si assiste ad uno smantellamento di
qualsiasi area specializzata in tal senso. La stessa ricerca di
Viesti oggi riconosce solo un distretto industriale in tutta questa
ampia zona, composta da ben quattro regioni: il distretto della
Sicilia centrale, localizzato nei comuni di Enna, Bronte e Troina,
ad ovest dell’Etna, sorto in seguito all’insediamento di una
grande stabilimento della Lebole (di proprietà ENI) nel comune
di Gagliano Castelferrato, a metà degli anni ’60, e che oggi,
però, ha una produzione di poco conto (50 miliardi e 1000
136
addetti sparsi in tante piccole imprese indipendenti) rispetto alle
stesse zone più ricche del Meridione. La spiegazione di tutto
questo può essere data seguendo due distinti binari. Il primo ci
porta a delle motivazioni che hanno a che fare con la politica
industriale seguita negli anni settanta: il massiccio ricorso alla
GEPI108 o ad altri colossi statali per costruire grandi imprese (lo
stabilimento Lanerossi a Praia a mare, la Tessile Cetraro di
Cetraro, la Filatura Campofelice di Cefalù, la Fibrasir di Porto
Torres e molte altre ancora) costituisce un mero palliativo sotto
l’aspetto occupazionale, destinato ad andare in crisi sotto i
marosi della prima serie crisi del settore che avesse
incontrato (e puntualmente si è verificato a metà anni settanta).
Alla lunga, questi interventi hanno danneggiato le capacità
manuali e lo spirito d’iniziativa dell’ambiente in cui si sono
verificati, ed hanno impoverito il tessuto artigianale
preesistente. Di fronte al danno fatto, si è poi, negli ultimi venti
anni, preferito accettare una “tacita”, ed ormai nei fatti, divisione
del lavoro: al resto dell'Italia i distretti del “Made in Italy”, dalla
Calabria in giù invece si è cercati di recuperare il terreno perso
con una industrializzazione nei settori più innovativi e che
costituissero “un’assicurazione sulla vita” delle generazioni di
lavoratori futuri; ecco spiegato dunque, gli interventi di
108 Si ricordano le osservazioni di Focarelli e Rossi, in Temi di Discussione della Banca d’Italia, già citati, in merito alla minore richiesta di credito bancario fatta dalle imprese partecipate GEPI negli anni 1984-1996: le holding, ristrutturando le imprese in dissesto, imponevano come prima misura un minor ricorso all’indebitamento esterno. È ragionevole supporre che quel tipo di ragionamento possa essere applicato anche alle imprese meridionali del gruppo di cui ora stiamo parlando. La minore richiesta di servizi bancari moderni ed efficienti ha portato a rinnovare in ritardo il settore creditizio del Mezzogiorno, accentuando le lacune del nostro apparato produttivo.
137
attrazione di ingenti capitali esteri (stabilimento ST
Microelectronics) di Catania, il distretto dei componenti
elettronici di Oristano (che conta 30 imprese e 300 addetti),
quello della gomma e plastica di Regalbuto (Enna), o quello
della lavorazione dell’alluminio e del marmo a Ragusa.
Un altro binario interpretativo (non completamente
inconciliabile col precedente) spiega il tracollo delle piccole
botteghe artigiane con la sfortunata conformazione geografica
della Sicilia o delle zone interne della Basilicata e Calabria109: gli
eccessivi costi di trasporto (basti pensare che negli anni
settanta ci volevano 15 ore di viaggio prima che un camion
partito da Palermo arrivasse a Napoli, mentre nello stesso
tempo un camion partito da Napoli arrivava in Francia)
costringevano gli artigiani locali a non potere ampliare il loro
mercato di riferimento, mentre i produttori degli stessi beni,
situati ad esempio in una zona più fortunata (ad esempio la
Pianura Padana) potendo contare già sui risparmi di costo
causati dalle economie di scala, potevano affrontare i costi del
trasporto con una tranquillità maggiore. In pratica l’invasione del
loro mercato da parte delle imprese del Nord ha decretato la
fine di qualsiasi possibilità futura di sviluppo industriale. Al di là,
però, delle motivazioni -analizzate in dettaglio
successivamente- che hanno portato allo stato di cose attuale,
è comunque interessante vedere se vi sono dei tentativi di
“risalire la corrente”, di aiutare ad emergere, cioè, progetti di
109 Si veda il rapporto Eurisles sul prezzo del trasporto merci per le regioni periferiche del 1998, già citato.
138
industrializzazione diffusa se non proprio di creazione di veri e
propri distretti.
L’esperimento più promettente che si sia verificato in
questi ultimi venti anni è nella corsetteria di Lavello110, un paese
di 13.000 abitanti, in provincia di Potenza. In questa realtà
agricola, l’evento catastrofico del sisma del 1980, unito ad una
certa capacità di aggregazione e di progettazione delle
istituzioni locali (con un adeguato supporto della struttura di
partito, il PCI) ha costituito la miscela che ha fatto nascere dal
nulla un tessuto ad imprenditorialità diffusa, che oggi vede
impegnate circa 60 imprese e 500 addetti. Il sisma del 1980
fece, infatti, venire in contatto la realtà emiliana (non solo con
gli aiuti umanitari, ma anche con una delegazione di funzionari
della CNA, e degli enti locali) con quella del paese lucano, e ne
nacque la possibilità per 5 disoccupate del luogo di apprendere
il mestiere della cucitura, assemblaggio e confezione del
reggiseno direttamente da esperte operaie delle industrie di
Modena, allora all’avanguardia in quel settore. Ad esse furono
date anche le macchine necessarie, ed una parte delle
commesse che solitamente il distretto di Modena decentrava in
quel distretto. Col passare del tempo, e all’aumentare
dell’esperienza delle operaie, dal primo laboratorio (Lavello1) si
passò all’apertura di altri simili, operanti in concorrenza - in
modo tale però che tutti dipendessero dalle commesse di
quell'unica impresa modenese, e che questa potesse godere 110 Rosanna Nisticò, “La corsetteria: Lavello”, in “Città, paesi, distretti- trame e nodi
della realtà meridionale”, Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.
139
del costo del lavoro di volta in volta più basso -, e all’apertura di
laboratori che si occupassero di altre fasi della lavorazione,
come il disegno dei cataloghi.
Alla fine del decennio, i laboratori si affrancano dalla
dipendenza esclusiva della committente modenese, per
accettare, ovviamente con comportamento opportunistico e
contro le clausole contrattuali di fornitura, commesse da altre
imprese. Nel 1989, con il supporto dei fondi della legge n. 44
del 1986, alcuni di essi decidono di passare direttamente alla
produzione per il mercato finale, delegando ad altri laboratori
del luogo, magari di proprietà di loro familiari, le altre fasi del
processo di produzione completo, come l’etichettatura o il
contatto coi grossisti, principale canale di commercializzazione
per questo distretto. Il processo di nascita e crescita di questo
tessuto produttivo, per quanto repentino e concentrato nel
tempo, e per quanto si stia espandendo velocemente ai paesi
confinanti, soffre di alcuni punti deboli, come la eccessiva
dipendenza per le materie prime da produttori o importatori
dell’area milanese o varesina, o le scarse competenze locali nel
campo della manutenzione dei macchinari. Inoltre, l’eccessiva
concentrazione territoriale, rende particolarmente stabili i
rapporti tra ”squadre” di imprese, che si dividono il processo di
produzione in fasi (taglio, assemblaggio e rifinitura), a discapito
di una effettiva concorrenza.
Al di fuori di questo “quasi-distretto”, bisogna andare in
Sardegna, a Calangianus, un piccolo paese di 5.000 abitanti in
140
provincia di Sassari, per potere studiare una nuova realtà ad
industrializzazione “leggera” e diffusa, assimilabile ad un
distretto industriale marshalliano. In queste zone, la tradizione
di lavorare il sughero è plurisecolare, e le moderne tecnologie e
tecniche di organizzazione hanno permesso di raggiungere
ottimi risultati in termini di produzione. I saggi di crescita sono
rilevanti (+12% di fatturato nel 1999, rispetto all’anno
precedente), e una metà di quanto prodotto viene esportato
verso i paesi dell’Unione Europea. La prevalenza è di piccole
imprese, con scarsa tendenza alla concentrazione, e buon
rapporto di cooperazione. È invece la grande impresa che
domina a Nuoro nel settore tessile, e che viene rilevato come
distinto SLL dall’ISTAT (il 61% della popolazione è impiegato in
quella attività), e a Macomer, in provincia, dove il 70% della
occupazione è impiegato nella filatura cotoniera, ma in
entrambe i casi non vi sono connessioni a valle con l’industria
dell’abbigliamento o della maglieria e non si può parlare di
distretto; così come non si può parlare di distretti “ortodossi” per
quelli individuati e riconosciuti tali dalla Regione e che sono: la
zona della Gallura, in provincia di Sassari, per la lavorazione
del sughero, Orosei (vicino Nuoro) per la lavorazione del
marmo, Samugheo (Oristano) per la tessitura e produzione di
tappeti, e Buddusò (Sassari), per la lavorazione del granito. Il
resto del fermento produttivo nella parte peninsulare della
nazione si limita alla valorizzazione di vecchie o nuove capacità
artigianali, come il gelato di Pizzo Calabro, l’arte di impagliare la
141
sedia di Serrastretta in provincia di Catanzaro, o, per tornare in
Sardegna, l’industria alimentare del formaggio di Thiesi
(Sassari).
Tuttavia, un tentativo di individuare dei distretti in Sicilia,
anche ricorrendo a degli indici statistici di concentrazione
territoriale e specializzazione produttiva, è stato fatto di recente
dall’Ufficio Studi del Banco di Sicilia, anche in vista di una
imminente applicazione della legge n. 317/1991. Si è resa però
necessaria una rivisitazione dei criteri statistici suggeriti dalla
stessa legge, per evitare di trascurare realtà piccole ma che
sembrano avviate sul percorso di organizzarsi in distretto, e per
non consentire che realtà produttive più industrializzate o
specializzate - come quelle che pure esistono nella periferia di
grossi centri come Catania e Palermo - scavalchino quelle più
isolate, e quindi dotate di valori assoluti degli indici risibili
rispetto alle precedenti. Dall’applicazione di un simile approccio
metodologico, in Sicilia si sono individuati i seguenti distretti
industriali: Custonaci, vicino Trapani, per la lavorazione del
marmo, e, per la provincia di Messina, Santo Stefano di
Camastra, nel settore della ceramica, Milazzo, per i prodotti in
metallo e la lavorazione artistica del ferro, e Brolo,
nell’abbigliamento. Si tratta comunque di un approccio
macchinoso, a detta dello stesso vice presidente del Banco di
Sicilia, Gianfranco Imperatori, poiché riesce a dare evidenza a
realtà, che nel panorama nazionale, sono di poco conto.
142
L’unico modo con cui Calabria e Sicilia oggi riescono a
tenere una seppur minima presenza nel “Made in Italy”, è con le
imprese di grandi dimensioni, per lo più frutto di scelte di
decentramento dettate dalla convenienza di alcuni
finanziamenti o dalla fiscalizzazione degli oneri sociali, che
consente notevoli risparmi sul versamento dei contributi
previdenziali dei dipendenti (e quindi riduce il costo del lavoro),
e che non danno vita a nessun contatto con piccole imprese
locali, a nessuna “gemmazione” o rilevante rapporto di
subfornitura; è il caso, ad esempio, della Tessilcon di Palermo,
per le confezioni o del grande maglificio Halos a Licata, mentre
sempre entità produttive di grossa dimensione fanno comparire
Belvedere Marittimo, in provincia di Cosenza, tra i principali SLL
del mobilio, specializzati nella fabbricazione di sedie e sedili,
con i suoi 690 addetti.
3.4 Alcune considerazioni di sintesi
Per trarre le conclusioni da questa disamina di dati, cifre
e località è necessario capire di cosa stiamo parlando, ossia
della entità effettiva della produzione di ricchezza dell’insieme
dei distretti meridionali, e della sua capacità di penetrare i
mercati internazionali con le esportazioni. In particolare, nel fare
questo, è opportuno comparare i dati aggregati delle single
regioni meridionali con le regioni settentrionali, per evidenziare
eventuali discrepanze nel tessuto dei distretti meridionali, se,
cioè, vi sono delle regioni che, seppure lentamente, si
143
cominciano ad avvicinare ai ritmi di crescita delle regioni più
sviluppate d’Italia. Se non dovessero risultare differenze
sostanziali da regione a regione (in termini di addetti o di
fatturato generato dal “Made in Italy”, ad esempio) si potrebbe
passare ad analizzare anche l’aggregato delle regioni
meridionali, per esaminare la distanza con il complesso
dell’Italia settentrionale. Un buon metodo per procedere, è
quello di rifarsi ai dati statistici incentrati sui Sistemi locali di
Lavoro (SLL) considerandoli come surrogati dei distretti, visto
che dati precisi su questi ultimi non esistono (e non potrebbero
esistere visto che una definizione legislativa di distretto, su cui
le rilevazioni del nostro istituto centrale di statistica si basano,
non è stata applicata in tutte le regioni con la relativa
individuazione delle aree in questione). Di recente, una
classificazione dei dati relativi alle prestazioni dei soli distretti
del Nord e del Centro Italia (e nemmeno di tutti, come visto
nello scorso capitolo) è stata fatta dal Club dei Distretti, ma per
la mancanza di dati sulla realtà meridionale, risultano di fatto
inutilizzabili. I dati ISTAT, al 1991, ci dicono che l’aggregato del
“Made in Italy” in termini di addetti per regione vede un
predominio della Lombardia con 319.200 unità, seguita da
Veneto con 232.000 e Toscana con 176.500 unità, mentre il
Mezzogiorno nel suo insieme raccoglie 194.000 addetti nel
settore, e se passiamo a considerare il numero di addetti nel
solo settore dell’abbigliamento il trend non cambia: il Nord
144
conta 216.600 addetti, il Centro 140.800 e tutto il Mezzogiorno
96.600 addetti.
Se scendiamo nei particolari, a fronte di questi dati di
sintesi, che vedono i sistemi locali del Mezzogiorno perdere su
tutta la linea, se andiamo a vedere i risultati delle singole realtà
di punta, anche in settori diversi, ci si imbatte in piacevoli
sorprese: se è vero che Prato resta il distretto con il maggior
numero di addetti al “Made in italy” (45.000), seguito da Como,
Desio e Milano, è pure vero che si fanno strada le aree
distrettuali di Napoli (20.661 addetti), Bari (18.563), Barletta
(8.175) e Teramo. Soprattutto nell’abbigliamento (Napoli
rappresenta il terzo sistema locale per numero di addetti), nella
concia delle pelli (con Solofra) e nelle calzature (dove il distretto
di Grumo, con i suoi 7.699 addetti si avvicina a distretti storici
del settore come Montebelluna, 9.254 addetti, e l’area di Porto
Sant’Elpidio, nel Fermano, con 8.679 addetti) il Mezzogiorno
mostra segni di vitalità importanti. Inoltre, la tendenza di questi
ultimi anni sembra andare nella direzione di un irrobustimento di
queste zone, visto che si registrano tassi di aumento degli
addetti notevoli, anche in controtendenza rispetto a zone più
rinomate del Nord (ad esempio nel Nord Ovest). Se poi si va a
fare un raffronto tra le prestazioni dei sistemi locali delle diverse
regioni meridionali, si mettono in luce differenze anche notevoli.
Sia in termini assoluti che relativi, i divari nel numero di addetti
al “Made in Italy” tra le regioni meridionali sono evidenti: se
Abruzzo (36.904, cioè 29,5% della popolazione attiva), Puglia
145
(66.145, 16,4%) e Campania (52.756, 9,4%) sono sul fronte
avanzato con numeri che cominciano a competere con quelli
delle regioni centrali (la loro media è 36,2%), Calabria (7.576,
cioè il 3.7% della popolazione attiva), Sicilia (3,4%) e Sardegna
(3,8%) sono molto indietro.
Questo comportamento a “macchie” dei nostri distretti si
ripete se consideriamo i dati sulle esportazioni: nel complesso il
Meridione è molto meno propenso all’export delle zone ad
industrializzazione diffusa del Nord (soprattutto del Nord Est),
ma se si vanno a vedere i distretti più importanti, quelli che poi
hanno anche maggiore tradizione e riconoscibilità esterna, si
nota come una buona parte del loro prodotto oltrepassi la
frontiera. Questo vale per il distretto di Solofra (900 milioni per
addetto, contro i 976 di Santa Croce sull’Arno ed i 1722 di
Arzignano) e per il distretto mobiliero della Murgia (1.020 contro
1.279 milioni del comprensorio di Udine111), come pure per i
distretti calzaturieri di Barletta e del Salento forte è la capacità
di penetrare i mercati esteri, anche quando paragonati con i
leader del Maceratese e del Fermano.
Altri dati ci vengono forniti dall’IPI (Istituto per la
Promozione Industriale), ed hanno il merito di riclassificare i dati
ISTAT per arrivare a quantificare le unità produttive ed il
numero degli addetti in ognuno dei 199 distretti in cui si
possono raggruppare i Sistemi Locali del Lavoro; anche se, va
detto, le specializzazioni produttive sono molto più eterogenee
111 Manzano è il comune (7500 abitanti) in provincia di Udine, specializzato nel settore mobiliero (specialmente sedie).
146
in quanto includono anche la petrolchiminca, l’oreficeria o la
produzione della carta. Sono dati che non aggiungono niente di
nuovo in termini di capacità analitica ed hanno il difetto
principale di fermarsi alla Calabria, tralasciando Sardegna e
Sicilia. In sintesi, lo studio delle cifre e delle statistiche
evidenzia qualcosa che in molti fanno ancora difficoltà a
vedere: non esiste un’area indistinta ed omogenea che va sotto
il nome di Mezzogiorno, quanto piuttosto delle aree di sviluppo
(anche sostenuto, secondo gli ultimi dati CENSIS) che
includono tutta la costiera adriatica, quasi a proseguire
idealmente l’operato dei distretti calzaturieri del marchigiano, il
comprensorio intorno a Napoli ed alcune zone interne
dell’Abruzzo, del Molise, della Puglia e della Campania, e poi
un panorama senza distretti per la restante parte. I dati positivi
che vengono da Sicilia, Calabria e Sardegna riguardano
insediamenti di grandi imprese, quasi mai collegate al “Made in
Italy” e dimostrano che si è scelto, scientemente, di seguire una
politica basata sui Poli di sviluppo, così come indicata da
Francois Perroux112. Lo strumento principale di questo disegno
politico era rappresentato dalla GEPI, società per azioni
costituita nel 1971 con capitali IMI, IRI, ENI ed EFIM, ma posta
sotto il controllo del Ministero per l’Industria e del CIPI, che
aveva il compito di assumere temporaneamente partecipazioni
in aziende in dissesto allo scopo di creare le condizioni più
favorevoli alla loro riorganizzazione e ricollocarle infine sul
112 F. Perroux, “Note sur la notion de pôle de croissance”, in Economie Appliquèe, n.8, 1955.
147
mercato; ne sono invece scaturite distorsioni al funzionamento
del mercato, sprechi ed uso dei fondi a scopi politici.
Una volta chiarito l’ambito in cui ci muoviamo, possiamo
anche vedere quali siano le caratteristiche comuni dei distretti
più evoluti per cercare di salvaguardare i motori dello sviluppo,
cercare di disegnare un modello di sviluppo replicabile o
semplicemente analizzare le esigenze più impellenti che, se
non soddisfatte, potrebbero far svanire quanto di buono fatto.
Da recenti studi di ricercatori universitari, finanziati dagli enti
locali o dal Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica
(MURST), si sono messi in evidenza, tramite interviste sul
campo ad imprenditori, i problemi più diffusi di queste realtà. Ai
primi posti risultano quasi sempre le richieste di adeguate
infrastrutture, a cominciare da un sistema viario autostradale o
ferroviario moderno per finire con la disponibilità di suoli
attrezzati. In effetti, la questione di uno sviluppo delle arterie
stradali troppo piegato alle richieste e convenienze delle
imprese del Nord non è nuova. È stato sottolineato, infatti,
come l’avere costruito, nell’era del “boom” economico,
l’autostrada del Sole (A1) e la Bologna-Taranto (A14) ha
portato vantaggi principalmente alle grosse imprese del Nord,
che così potevano ampliare il loro mercato e rafforzare le
economie di scala già presenti, visto che potevano già servire
una zona geograficamente più ampia come quella della Pianura
Padana.
148
Una prova indiretta del fatto che questa politica viaria è
stata fatta a vantaggio di una parte sola del sistema economico
italiano, può vedersi nel fatto che la costruzione delle trasversali
A24 e A25 (Roma-Pescara e Roma-Teramo) è avvenuta con 20
anni di ritardo e tra molte polemiche (alimentate anche da una
forte campagna stampa che denunciava “l’ennesimo spreco di
risorse nel Mezzogiorno”). Questi problemi sono ancora irrisolti;
il trasporto ferroviario Est-Ovest, ad esempio, è inesistente: i
collegamenti tra Napoli e Bari oggi sono prevalentemente su
gomma, senza parlare dell’assoluta inadeguatezza di un’arteria
strategica come la Salerno-Reggio Calabria, o dell’autostrada,
mai terminata, che dovrebbe collegare Palermo a Messina. Ma
oltre alle grosse arterie autostradali, e alle tratte ferroviarie,
vanno migliorate le connessioni locali se si vuole che nuovi
distretti nascano; nella fase delicata del loro avvio, i distretti
guadagnano la sopravvivenza solo se riescono a sfruttare
economie di scala, e quindi solo se riescono ad avere un ampio
mercato a disposizione con bassi costi di trasporto. L’Abruzzo
ha conosciuto una fase di successo e di crescita distrettuale,
secondo molti studiosi, proprio quando sono state costruite le
due autostrade che lo collegavano a Roma. Per quanto
riguarda la spesa pubblica per infrastrutture, la diversità di
trattamento tra le diverse aree del paese è riportata nella
tabella seguente:
Tabella 10
Spesa pubblica per infrastrutture
149
Rete
stradale
Rete
ferroviaria
Porti Aeroporti Reti per la
telefonia e la
telematica
Concentrazione % in Italia
Nord Ovest 35,3 32,8 15,4 33,6 33,6Nord Est 20,9 21,2 26,9 14,5 19,4Centro 20,1 24,9 17,6 29,7 19,0Mezzogiorno 23,7 21,1 40,1 22,2 23,9
Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
Fonte: Istituto Tagliacarne, settembre 2001.
Il problema delle aree attrezzate viene, invece, sentito
soprattutto a ridosso dei centri urbani più congestionati
(specialmente Napoli), e porta con sé anche la questione di un
efficiente sistema di smaltimento dei rifiuti e di trattamento degli
scarichi industriali (emblematico è il caso di Solofra, dove i
procedimenti chimici per la concia delle pelli richiedono
procedure particolari di depurazione, mentre il depuratore è
stato costruito con molto ritardo, compromettendo la salute del
fiume Sarno). Così come, collegato a questo è pure il problema
della gestione distorta di fondi pubblici e comunitari per
garantirsi il consenso elettorale. Infatti, molto spesso somme
ingenti di denaro vengono dirottate su progetti velleitari o di
industria parastatale senza prospettive di successo così come,
per lo stesso meccanismo, alla presidenza delle ASI ci sono
persone, collegate a politici più o meno influenti, che gestiscono
150
l’ente e assegnano le concessioni edilizie secondo criteri che
non hanno nulla a che fare con l’efficienza economica.
Un’altra costante di tutti i rapporti distrettuali è costituita
dal largo ricorso al lavoro nero, sia in busta paga (che si ha
quando datore di lavoro e dipendente si mettono d’accordo per
far risultare uno stipendio nominale inferiore a quello effettivo
allo scopo di evadere i contributi previdenziali e le imposte sul
reddito) che totale. Molto spesso il fatto di essere costretti, per
ragioni di bilancio, a ricorrere al lavoro a domicilio già comporta,
implicitamente, l’uso di lavoro nero. In alcune interviste riprese
anche da Viesti113, alcuni imprenditori hanno ammesso di avere
dei lavoratori in nero, perché l’applicazione del contratto
collettivo nazionale li avrebbe messi fuori mercato. Con
l’abolizione nel 1968 delle gabbie salariali, e quindi di un
trattamento in busta paga diverso nelle varie zone d’Italia e
commisurato alla produttività del lavoro, gli imprenditori
meridionali hanno dovuto sostenere un costo del lavoro
maggiore, non compensato da aumenti della produttività -
raggiungibili solo attraverso ammodernamenti e nuovi
investimenti mai effettuati -, che ha costretto a licenziare (dove
possibile, e quindi non nella impresa con più di 15 dipendenti) i
dipendenti e a riassumerli a nero. I nuovi strumenti di flessibilità
del mondo del lavoro, come i contratti di formazione lavoro,
sono stati puntualmente fatti oggetto di critiche per il complicato
iter burocratico a cui obbligano le imprese, mentre le “borse
lavoro” introdotte nel pacchetto Treu collegato alla finanziaria 113 G. Viesti, “Come nascono i distretti industriali”, Laterza, Bari, 2000
151
del 1998 obbligano i datori di lavoro ad assicurare al borsista un
prefissato numero di ore di teoria, che implicherebbero il ricorso
a figure esterne di formatori troppo onerose. Se a questo si
aggiunge che, soprattutto in prossimità delle grandi metropoli,
molto diffusi sono i fenomeni di criminalità organizzata che
impongono servizi di guardia, o estorsioni di vario tipo, si riesce
a capire il fenomeno dell’addensamento appenninico dei nuovi
distretti, di cui esempi lampanti sono le aree industriali di
Isernia, di San Marco dei Cavoti, di Matera114e di Lavello.
Queste aree dispongono oggi, rispetto a quelle costiere e quelle
più affollate, di condizioni ideali per lo sviluppo, quali la
disponibilità al lavoro operaio, un diffuso consenso sociale
all’insediamento, assenza di conflittualità sociale, bassa
dinamica salariale, permeabilità all’apprendimento tecnico e
flessibilità d’uso della forza lavoro, tessuti civili meno
compromessi dalla presenza di criminalità organizzata, che
compensano ampiamente le classiche diseconomie della
localizzazione interna (carenze infrastrutturali e di
comunicazione). In una certa misura, le parole di Fujita,
Krugman e Venables vogliono dire proprio questo: ”L’attuale
geografia economica mondiale mostra una forte associazione
tra il reddito pro capite e condizioni essenzialmente europee:
clima temperato, assenza di malaria, gran parte della
popolazione vicina alla costa o a fiumi navigabili. Ma ciò riflette
probabilmente il ruolo catalitico di questi fattori in passato e non 114 Domenico Cersosimo, ”Mezzogiorno dei distretti”, in “Città, paesi, distretti- trame e
nodi della realtà meridionale" Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.
152
implica che un paese non costiero (ma che ha ora accesso alle
moderne tecnologie di raffreddamento) e condizioni ambientali
un tempo adatte per la malaria (ma non ora, grazie al suo
sradicamento) non possa rompere la sua trappola di
sottosviluppo e spostarsi verso una condizione migliore”115.
Tuttavia, il problema che accomuna tutti i distretti meridionali,
sia gli appenninici che i costieri, e che segna anche una certa
distanza con quelli più ricchi del Nord, è costituito dall’eccessivo
costo del credito per le piccole e piccolissime imprese, oltre che
per le ditte individuali: una recente rilevazione della Banca
d’Italia116 segnala che mentre il tasso di interesse applicato sullo
scoperto di conto corrente [tassi attivi a breve sulle operazioni
di revoca] in Lombardia è del 4,81% (nel Nord Est il 5,9%), al
Sud, soprattutto dove il sommerso è più presente, si attesta
mediamente al 7,27%, con una punta dell’8,24% in Calabria117.
Un aspetto poco indagato dell’economia meridionale è la
capacità di cooperare e di dividere in modo efficiente il lavoro in
settori quali l’alimentazione (legati allo sfruttamento del ciclo di
trasformazione dei prodotti della dieta mediterranea) ed il
turismo. In genere, quando si parla di distretti industriali a
nessuno viene in mente di citare Riccione o la riviera adriatica,
anche se i meccanismi messi in atto, il clima collaborativo e le
economie di agglomerazione sono tipiche della letteratura sui
115 M. Fujita, P. Krugman e A. Venables, “The Spatial Economy: cities, regions and international trade”,MIT Press, Cambridge,Massachussets,1999.
116 Bollettino Statistico della Banca d’Italia del giugno 1999.117 A tal proposito, interessante risulta lo studio di D. Focarelli e P. Rossi, “La
domanda di finanziamenti bancari in Italia e nelle diverse aree del Paese(1984-1996)”,in Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Italia, n.333, Roma, maggio 1998.
153
distretti. Forse la considerazione che si tratta di servizi e non di
manifattura è bastata a liquidare il problema da parte di molti
studiosi. Certo è che se si decidesse di vedere il tessuto
economico meridionale con l’integrazione di questi due settori
“anomali” le cose cambierebbero. Viesti ha provato, per parte
sua, a mettere a punto un indice di concentrazione per
individuare i sistemi turistici: si tratta di sistemi caratterizzati da
un rapporto tra addetti al settore turistico e popolazione
superiore al doppio della media meridionale, ma non è andato
oltre, nel senso che non ha provato a indagare sul campo e a
vedere nel dettaglio come si articola il Mezzogiorno dei distretti
turistici. Nel settore alimentare118, invece, già sono riconosciuti
alcuni distretti: oltre a quello ufficiale di Nocera Inferiore (che,
peraltro, risulta molto concentrato), sono individuati dall’ISTAT i
distretti calabresi di Bisignano, a nord di Cosenza, e Maierano,
vicino Vibo Valentia. È probabile che ci sia in futuro un buon
sviluppo di queste zone, in virtù della crescente attenzione che
sta riscuotendo l’alimentazione biologica e degli sforzi che si
fanno in ambito comunitario per certificare la provenienza dei
prodotti nostrani con apposito marchio.
118 Se si guarda all’export di questo settore, le cifre maggiori vengono fatte registrere da realtà produttive che non sono inserite in distretti : La Molisana, Divella o De Cecco sono le aziende leader di un settore che nel 1996 ha fatto registrare 376 miliardi di fatturato, pari al 24% del totale nazionale.
154
Capitolo 4
I distretti industriali negli anni 2000
4.1 Le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno
Una recente indagine, effettuata dal CENSIS119chiedendo
direttamente alle rappresentanze industriali sul territorio di
segnalare i casi più evidenti di concentrazioni produttive, ha
cercato di fare il punto della situazione su possibili nuove
aggregazioni che possano trasformarsi in distretti industriali veri
e propri. Il risultato più interessante è dato dal fatto che regioni
come Sicilia e Sardegna, da sempre in deficit di nuove iniziative
provenienti dal basso, hanno dimostrato un’inattesa vitalità e,
non meno importante, hanno cercato di colmare in divario
mediante nuove esperienze in settori non ancorati al classico
“Made in Italy”. Hanno pertanto conosciuto gli onori della
cronaca realtà produttive nel comune di Modugno, in provincia
di Bari, in cui si producono componenti meccanici, o il
comprensorio a sud di Caserta, con centro Marcianise, in cui il
grande stabilimento Siemens120 ha contribuito alla crescita
locale richiedendo la fornitura di taluni servizi specializzati,
oppure il distretto dell’oro, nella stessa zona, concentrato nella
119 “I nuovi fermenti produttivi”, IX forum delle economie locali, a cura di CENSIS- note e commenti, n. 9, Settembre 1999.
120 Accanto al colosso tedesco, vi sono localizzati anche gli stabilimenti della Italtel, della Marconi Sud e della Olivetti, tutti operanti nel settore delle telecomunicazioni.
155
struttura denominata “Il Tarì”121. Qui sono localizzate circa 60
aziende produttrici (provenienti dalla zona di Piazza Orefici, a
Napoli), 50 laboratori orafi che le affiancano in varie fasi della
produzione (incastonatura, riparazioni, montaggio) e 90 aziende
commerciali; il punto di forza di questo centro è la sicurezza:
stare lontani da zone con grossa presenza criminale, al chiuso
e con un buon servizio di guardia interna aiuta i piccoli artigiani
a concentrarsi sulla qualità del prodotto e sulla lavorazione. In
questo clima, gli artigiani cominciano a condividere alcuni
servizi necessari per la loro sopravvivenza sul mercato sia
nazionale sia estero. I servizi comuni comprendono la
progettazione del prodotto, attraverso un centro servizi che
provvede alla ideazione (dal disegno dei modelli alla creazione
delle sagome su calco) e innovazione del gioiello con
tecnologie molto avanzate; la gestione informatizzata della
produzione, del magazzino, della contabilità, dei clienti e dei
fornitori; la formazione di nuove professionalità da inserire nel
circuito produttivo, dagli orafi (progettisti, tecnici di orologeria) ai
quadri aziendali; il servizio marketing122. Questa iniziativa ha già
prodotto alcuni effetti: primo tra tutti quello di creare nuova
occupazione (il 70% dei giovani che hanno frequentato i corsi di
formazione hanno trovato uno sbocco professionale nel
121 A tal proposito, interessante è l’intervista curata da Giusy Franzese (Il Mattino) e Nicoletta Picchio (IlSole24ore) a Gianni Carità, orafo discendente da una famiglia con antiche tradizioni nel settore, ideatore del Tarì, contenuta nel libro “Noi siamo del Sud” di G. Franzese e N. Picchio, prefazione di G. Fossa, Sperling&Kupfer,Milano,1999.
122 Il Tarì ha beneficiato grandemente, insieme al distretto calzaturiero di Barletta e quello della pelletteria di Teramo, dei fondi e dei servizi del Progetto Mezzogiorno dell’ICE, Istituto per il Commercio Estero.A tal riguardo si veda: Bruno,C. e Mazzeo E.,”Trasformazioni della struttura produttiva ed esportativa del Mezzogiorno”, Quaderni di Ricerca ICE, Roma, 1998.
156
Centro); e inoltre il ritorno alla produzione di qualche azienda
che da anni svolgeva esclusivamente attività commerciale.
In merito a questo centro, però, va detto che si illudono
quanti intravedono nel suo decollo la nascita di un distretto
industriale. La lavorazione dell’oro, infatti, non è la più adatta ad
essere divisa in fasi, e l’abilità dell’artigiano - dalla selezione
della materia prima all’uso degli attrezzi - è la chiave
fondamentale per avere prodotti di prestigio, per cui è difficile
che si instaurino tra di essi rapporti realmente cooperativi.
Il centro può essere considerato più correttamente come
uno show-case delle abilità orafe campane, una cittadella degli
artigiani che è servita loro per abbandonare l’affollato centro
storico di Napoli, e un punto nodale del sistema distributivo
della gioielleria regionale: una situazione simile a quella dei
maestri artigiani del corallo di Torre del Greco (alcuni dei quali,
peraltro, sono presenti nel “Tarì”), che possono vantare una
lunga tradizione, risalente agli inizi del 1500, appresa dalla
“Scuola d’incisione del corallo e di arti decorative affini”, e che
difficilmente si può dire che incarnino un distretto industriale
tout court.
La stessa indagine CENSIS si è preoccupata di vedere in
dettaglio quali siano i principali ostacoli allo sviluppo di queste
aree, e quali le richieste direttamente avanzate dagli industriali;
ne è risultato che, oltre alla richiesta di infrastrutture, molto forte
è la domanda di snellimenti burocratici, di riduzione della
fiscalità e di un potenziamento del sistema formativo pubblico.
157
Sono problemi annosi, a cui gli enti locali hanno cercato di
rispondere ognuno con i propri mezzi e con le proprie
competenze, ma senza incidere più di tanto nella realtà. E
tuttavia un dato sembra ormai acquisito: i distretti sono un dato
di fatto e molto spesso hanno garantito al nostro paese primati
e prestazioni invidiabili.
Secondo Becattini, una spiegazione a questo rinnovato
vigore della piccola impresa, che ha costituito l’antecedente
logico allo sviluppo dei distretti, dovrebbe essere rintracciato nel
fallimento, sempre più manifesto nel trentennio passato,
“dell’alternativa pianificatoria al capitalismo di mercato. Quando
ci si è resi conto che l’alternativa più accreditata non
funzionava, molte energie psichiche destinate in precedenza al
rinnovamento-rovesciamento della società capitalistica, si sono
volte, in larga misura, verso la realizzazione di sé nel campo
economico. In questo gli studi condotti in Toscana, una delle
regioni più ideologizzate d’Italia, offrono numerose conferme”123.
Eppure si continua a privilegiare il ruolo della grande impresa
per sviluppare le zone più depresse del meridione, con la
convinzione che, se si vogliono ridurre significativamente i tassi
di disoccupazione, non vi siano altre scelte. I 3500 miliardi che
lo stato italiano ha speso come finanziamento agevolato alla
costruzione dello stabilimento Fiat di Melfi si spiegano solo in
questo modo. Ma lo stesso vale anche per la FMA di Pratola
Serra, che produce motori automobilistici per conto del gruppo
123 G. Becattini, “Il distretto industriale- un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico”, Rosenberg & Sellier, Torino, 2000.
158
FIAT, e per le molte grandi imprese che si sono insediate nelle
aree ASI meridionali solo dopo che erano stati concessi
cospicui finanziamenti. È tuttavia vero che alcune grosse
imprese hanno portato positive ricadute nel loro ambiente
esterno, e che altre volte hanno fatto da “incubatori” per la
nascita di piccole imprese, a cui poi decentravano fasi singole
della produzione; in pratica, hanno innescato processi di spin-
off e quindi sviluppato lo spirito imprenditoriale del luogo,
anziché mortificarlo; ma ciò è avvenuto solo quando si
ponevano condizioni di perfetta complementarità tra contesto
socioeconomico del luogo, abilità e competenze preesistenti e
tipo di produzione a cui il grande impianto era adibito.
Un segnale positivo nella direzione di un
ammodernamento del sistema dei trasporti sembra venire dalle
iniziative volte ad ampliare la Salerno-Reggio Calabria124, e a
dare un ruolo di primo piano al porto di Gioia Tauro. A questo
proposito, lo stesso Natuzzi ha ammesso come, in mancanza
di collegamenti viari diretti con Napoli, per la sua azienda sia
più conveniente far arrivare le materie prime nel porto di Bari o
di Gioia Tauro125. L’indotto che si è creato in Calabria grazie a
questa scelta strategica è tanto rilevante che due giornaliste,
124 Un recente studio di Bonaglia,F. e La Ferrara, E.,”Public Capital and Economic Performance: Evidence from Italy”, IGIER working paper, Milano, 2000, sulla base di dati quantitativi relativi al periodo 1970-1994 disaggregati per regione, evidenzia come la spesa pubblica a favore del Mezzogiorno abbia prodotto degli effetti non proporzionati all’aggravio di bilancio che ne è conseguito. Da questa indagine risulta che la spesa più efficace al Sud ha riguardato la costruzione di strade ed autostrade, mentre al Nord la costruzione di ferrovie ha contribuito più di ogni altra opera alla crescita del PIL regionale.
125 Vedi “Il caso Natuzzi (Parte B)”, libero adattamento di un articolo de IlSole24ore del 24 novembre 1997, riportato in Lucio Sicca, “La gestione strategica dell’impresa”, Cedam, Padova,1998.
159
Giusy Franzese e Nicoletta Picchio126, nel loro “viaggio”
giornalistico sul “fenomeno dei distretti e dei poli nel
Mezzogiorno”, hanno incluso tra i casi di distretti emergenti
proprio Gioia Tauro, con il settore del transhipment127, per
indicare la presenza di un rilevante indotto sia nel settore dei
servizi che in quello manifatturiero; molte imprese, infatti, per
ridurre i costi di trasporto hanno costruito delle imprese che
procedessero ad una prima trasformazione delle materie
arrivate. In prospettiva potrebbe avere un effetto moltiplicatore
anche la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, ma, dati
i tempi estremamente lunghi, si tratta solo di ipotesi.
4.2 le misure di sostegno regionali, statali e comunitarie
Gli enti locali più attivi e sensibili al problema di come
aiutare la nascita di nuovi distretti hanno cercato di sfruttare al
meglio tutti gli strumenti che l’attuale legislazione mette a
disposizione. Si tratta però di una normativa articolata e talvolta
anche difficile da interpretare, che vede sovrapporsi tre distinti
piani istituzionali e che quindi, come conseguenza immediata,
ha richiesto l’ausilio di consulenti esterni, siano essi liberi
professionisti o banche nel ruolo di soggetto istruttore delle
pratiche. La finalità ultima di tutti gli interventi è comunque
126 G. Franzese e N. Picchio,”Noi siamo del Sud”, già citato. Nel libro vi sono servizi ed interviste ai protagonisti di 18 imprese di successo, dai confetti di Sulmona offerti da Carolina di Monaco al battesimo della sua terzogenita alla Datel di Crotone, operante nell’editoria elettronica, e che in un paio di anni riesce ad impiegare 200 giovani.
127 Medcenter è la società che gestisce il porto di Gioia Tauro, e negli ultimi anni ha fatto registrare incrementi del traffico portuale considerevoli.
160
sempre quella di rafforzare l’apparato produttivo esistente ed
incentivare l’aggregazione fra imprese prima di ottenere i
finanziamenti. Gli strumenti nazionali esistenti oggi sono di due
tipologie a seconda del soggetto a cui si rivolgono, ossia la
singola impresa del distretto o al complesso delle imprese. A
disposizione della singola impresa vi sono la legge n.
488/1992128, per gli incentivi agli investimenti produttivi, la n.
388/2000, per il credito di imposta come incentivo
all’occupazione e agli investimenti in aree svantaggiate, ed il
decreto legislativo 297/1999, in tema di incentivi all’innovazione
tecnologica. Con la legge n. 488/1992, in particolare, alcune
regioni hanno previsto di assegnare un punteggio maggiore, nel
loro indicatore regionale, per le richieste di imprese localizzate
nelle aree riconosciute distretto dalle apposite leggi regionali, e
quindi di favorirle nella graduatoria. La regione Campania ha
stanziato 150 miliardi per le imprese che, pur non essendo state
agevolate dalla legge n. 488, siano comunque residenti in aree
distrettuali. Con il decreto legislativo n. 297/1997, invece, si è
cercato di imprimere una svolta alla capacità di ricerca ed
innovazione delle piccole e medie imprese, e di riqualificare
l’attività dei distretti in modo da intraprendere produzioni più
rivolte al futuro e alla competizione coi paesi avanzati, sulla cui
opportunità si tornerà in seguito. Più articolata si presenta la
128 Per uno studio dei criteri di assegnazione dei fondi usato da questa legge, delle inefficienze e delle rendite generate a favore delle imprese beneficiarie dei fondi, come pure delle innovazioni di non poco conto introdotte, si veda: D. Scalera e A. Zazzaro, “Incentivi agli investimenti o rendite alle imprese? Una riflessione sulla procedura di allocazione dei sussidi previsti dalla legge n.488 del 1992”, in Rivista di Politica Economica, marzo 2000.
161
finanza agevolata comunitaria, che ultimamente sta erogando i
fondi di sostegno alle imprese più cospicui. Alla base vi è il
Quadro di Sostegno Comunitario (QCS) che poi viene
implementato con specifici programmi: il Programma di sviluppo
del Mezzogiorno (che recepisce le indicazioni di Agenda 2000 -
documento che traccia le strategie economiche fondamentali
dell’Unione per i prossimi 7 anni-), i Programmi Operativi
Regionali (POR) e i Programmi Operativi Nazionali (PON).
Questa molteplicità di programmi sta ad indicare anche quale
ente ha, di volta in volta, la responsabilità della gestione ed
erogazione dei fondi: Stato o Regione.
Alle regioni spetta dunque definire i POR, ossia definire
quali sono i settori produttivi da finanziare o quali attività di
supporto rafforzare (ad esempio una misura specifica previsto
dal POR della Campania è riservata allo sviluppo della
internazionalizzazione e della cooperazione internazionale delle
imprese). Nell’ambito di questi strumenti, una parte dei fondi
destinati ai POR deve essere riservata ai Progetti Integrati
Territoriali (PIT), che costituiscono “azioni strettamente coerenti
e collegate tra di loro che convergano verso un comune
obiettivo di sviluppo in contesti territoriali definiti”. Per ogni PIT
si deve individuare un program manager, che ha la
responsabilità di portare a compimento il progetto insieme ad
una Rete di assistenza professionale (che è una struttura del
Dipartimento della Funzione Pubblica) che coadiuva gli attori
dello sviluppo locale. Si tratta di programmi di intervento
162
ambiziosi e che convogliano migliaia di miliardi di Euro : solo in
Campania per i prossimi 7 anni (2000-2006) Agenda 2000129 ha
previsto di investire più di 10 miliardi di Euro (circa 20.000
miliardi di lire). Per una valutazione della efficacia di questi
interventi, l’Unione Europea ha imposto di monitorare
l’attuazione dei Programmi Operativi Regionali, di valutare in
itinere, sulla base di dati appositamente raccolti, l’andamento
del programma e di valutare soprattutto ex post i risultati
raggiunti e verificare se realmente le somme erogate siano
state in grado di incidere nello sviluppo economico locale. Per
quanto concerne, invece, le leggi statali che hanno di mira non
tutte le imprese, ma solo quelle che riescono ad aggregarsi in
distretto, di fondamentale importanza è la n. 662/1996,
istitutrice del Contratto di Programma, già citato all’inizio di
questo lavoro. La programmazione negoziata, in cui il contratto
di programma rientra, ha permesso nel biennio 2000-2001 di
impiegare 5.000 miliardi di lire di denaro pubblico in iniziative di
notevole entità (si parla di investimenti minimi di 70-80 miliardi)
senza intervento di altri soggetti che non siano gli stessi privati
imprenditori o le rappresentanze distrettuali (anche se poi,
come detto, lo strumento specifico per dare voce a queste
rappresentanze -il contratto di distretto- non è mai stato
applicato per mancanza del regolamento attuativo).
129 Il 24 e 25 marzo 1999 il Consiglio Europeo, riunitosi a Berlino, ha approvato l’accordo politico sul pacchetto Agenda 2000, che illustra le prospettive finanziarie per il periodo 2000-2006. In base a questo accordo, gli obiettivi prioritari vengono ridotti a tre: obiettivo 1 (promuovere l’adeguamento e lo sviluppo infrastrutturale delle regioni in ritardo), Obiettivo 2(favorire la riconversione economica delle zone in declino industriale), obiettivo 3 (favorire l’ammodernamento delle politiche per l’istruzione e la formazione).
163
Accanto a questi strumenti, e sempre nell’ambito della
programmazione negoziata, vi sono i Patti Territoriali per
l’Occupazione (PTO)130 ed i Contratti d’Area131. Nonostante le
alterne fortune che li hanno caratterizzati, con tratti di maggior
successo per i PTO, essi si distinguono dal contratto di
programma perché prevedono la partecipazione di altri soggetti
(oltre all’imprenditore e all’ente pubblico) alla definizione dei
progetti di sviluppo locale: le parti sociali, ossia sindacati dei
lavoratori e rappresentanze degli industriali. Nei contratti d’area,
specialmente, il ruolo delle parti sociali è di primo piano,
dovendo promuovere il consorzio che gestisce le aree
industriali attrezzate; ma si tratta di uno strumento di sostegno
che si è bloccato per mancanza di stanziamenti nelle Leggi
Finanziarie successive, e per una mutata volontà politica, che
ha cercato di privilegiare interventi tramite i PTO, dove gli enti
locali sono maggiormente rappresentati132.
130 I PTO, istituiti con la legge n.104 del 1995, sono espressione del partenariato sociale. Possono essere promossi dagli enti locali, dagli altri enti pubblici operanti a livello locale, dalle rappresentanze locali degli imprenditori o dei lavoratori, o dai soggetti privati. Il patto è sottoscritto dai promotori congiuntamente alla Regione o alla Provincia autonoma nel cui territorio esso ricade, e prevede la nomina di un responsabile del coordinamento. I PTO non possono impiegare fondi CIPE superiori ai 100 miliardi.
131 I contratti d’area sono frutto di un ”Accordo per il lavoro” siglato il 24 settembre 1996, e possono riguardare tanto le zone del Mezzogiorno già sovvenzionate dalla legge n.219/1981, quanto i nuclei di industrializzazione del Nord che si trovino in difficoltà. Sindacato ed Organizzazioni dei datori di lavoro prendono congiuntamente l’iniziativa per la realizzazione del contratto e ne danno comunicazione alla Regione, curando l’istruzione dei progetti di investimento, l’allestimento delle aree attrezzate e il coinvolgimento di un intermediario finanziario (banca) in grado di attivare le sovvenzioni globali. I fondi iniziali vengono anticipati dalla Cassa Depositi e Prestiti. È previsto, inoltre, anche un ruolo attivo della Presidenza del Consiglio e del Ministero del Bilancio.
132 In generale, sia i PTO che i contratti d’area sono espressione della mentalità “concertativa” di tanta parte del nostro ceto politico: mediare su ogni aspetto della vita istituzionale, e quindi anche sulle scelte di politica economica, serve soltanto a non assumersi le proprie responsbilità. Sarebbe auspicabile, invece, la riaffermazione di un principio diverso: chi è stato democraticamente eletto e rappresenta la maggioranza ha l’obbligo di governare e quindi prendere delle decisioni, anche costose o dolorose.
164
Il fine ultimo di ogni intervento di sostegno, sia esso
statale o comunitario, non è mai di attuare una politica di
riequilibrio territoriale; si tratta anzi di aumentare lo squilibrio nel
senso di accrescere il dinamismo di aree che già abbiano dato
prova di una certa vitalità e quindi di ampliare la distanza con le
zone in ritardo di sviluppo. Si vuole cioè dare una mano a
quelle zone per farle maturare definitivamente. “Non importa
dunque se si tratta di sistemi locali turistici, piuttosto che di
sistemi del Made in Italy….Il punto è di non aiutare
[semplicemente] le singole imprese o gruppi generici di
imprese, come le “piccole” o le “grandi”, quanto di favorire e
incentivare la formazione di sistemi territoriali di imprese, di
distretti industriali”133. Molto spesso il sostegno concesso alle
piccole e medie imprese, è bene precisare, non si riduce alla
semplice erogazione di danaro, ma prevede il trasferimento di
conoscenze o di processi innovativi oppure è di tipo indiretto
poiché si tratta di finanziamenti rivolti alla costituzione di
“agenzie di sviluppo locale” che supportano di capacità tecniche
le amministrazioni locali e che promuovono progetti, sia nel
campo della riqualificazione professionale che nel campo della
diffusione di servizi alle imprese. Esempi di avanguardia
dell’uno e dell’altro tipo sono molto frequenti in Spagna e
Portogallo: molto famoso è l’IMPIVA (Instituto de la Pequeña y
Mediana Empresa Valenciana), nella regione valenciana, con
una rete di centri tecnologici distribuiti sul territorio a supporto
dei sistemi locali, o l’UNAVE ad Aveiro, operativo sin dal 1986 133 D. Cersosimo,”Mezzogiorno dei distretti”, in “Città, paesi, distretti”,1999, già citato.
165
nel campo della cooperazione tra mondo accademico e mondo
delle imprese.
4.3 Una politica alternativa per i distretti: le scelte di fondo
Un contributo al dibattito sulle politiche da seguire per
migliorare la competitività dei distretti e aiutarne la crescita di
nuovi può seguire due distinti tracciati a seconda che si voglia
ottenere un effetto di mantenimento dello “status quo”
innestando solo dei correttivi o si desideri giungere ad una
revisione radicale dell’attuale modo di concepire e fare politica
economica. È chiaro che seguire il primo tracciato significa
ammettere implicitamente che l’impostazione di fondo delle
politiche di sviluppo di questi decenni sia condivisibile e che,
viceversa, seguire il secondo implichi uno sforzo sicuramente
maggiore, poiché rimette in discussione l’impianto complessivo
di politica economica finora adottato. In questa parte del mio
lavoro, cercherò di immaginare non solo nuove politiche di
sostegno ai distretti, ma anche il tipo di scelte politiche ed
economiche di fondo essenziali per la buona riuscita di quegli
interventi.
Una prima scelta da compiere è tra una forma di
capitalismo di tipo renano o anglosassone: ossia tra un tipo di
economia in cui la cooptazione e la concertazione sono la
regola a tutti i livelli amministrativi o un alternativa in cui la
regola principale è quella di lasciare tutte le libertà possibili
all’individuo, a patto che non ledano quelle dell’altro. Il modello
166
renano è stato concepito ed adottato in Germania a partire dal
secondo dopoguerra, per consentire la ricostruzione rapida e
senza scontri sociali di una nazione in ginocchio. Esso prevede
la presenza stabile di rappresentanze operaie nei consigli di
amministrazione delle grandi aziende, la compartecipazione
sistematica agli utili, la cogestione sindacale di alcuni enti
previdenziali ed addirittura una consultazione degli stessi
sindacati al momento della nomina del governatore della
Bundesbank, la banca centrale tedesca134. È un modello che ha
contribuito a fare della Germania una potenza industriale di
prim’ordine negli ultimi cinquant’anni, in settori strategici come il
siderurgico, il meccanico, il chimico ed in genere in tutti quei
settori che richiedano impianti ad elevata intensità di capitale. Il
modello di tipo anglosassone invece ha conosciuto il suo
momento di difficoltà in corrispondenza delle due crisi
petrolifere, negli anni ’70, ed ha potuto risorgere grazie a
massicce dosi di deregulation iniettate nel sistema economico
rispettivamente da R. Reagan, per gli Stati Uniti, e da M.
Tatcher, in Gran Bretagna; al cospicuo numero di licenziamenti
dei primi anni ’80 è seguito un periodo di intensa crescita, che
ha fatto da traino per gran parte del mondo occidentale, in
settori molto diversi tra loro. Inoltre, essendo molto più marcata
la funzione redistributiva dello stato in Germania, è normale che
qui vi sia anche un peso fiscale ed impositivo molto maggiore
che nei paesi anglosassoni.134 Per una descrizione esaustiva del modello renano, si veda: Bangemann M.,
“Meeting the Global Challenge. Establishing a successful European Industrial Policy”, Kogan Page, London, 1992.
167
Se il modello anglosassone ha saputo tenere sempre ai
margini la presenza dello stato con un welfare leggero, non si
può dire altrettanto dello stato sociale tedesco, in cui sussidi e
sovvenzioni (per disoccupazione, per maternità o altro) sono
molto presenti a tutela delle fasce deboli. Se questo modello si
è dimostrato efficace nella gestione di un apparato produttivo
costruito intorno all’industria pesante, il modello anglosassone
ha saputo privilegiare l’imprenditorialità diffusa e soprattutto ha
saputo stimolare le innovazioni tecnologiche a tutti i livelli. Il
nostro paese, nello stesso periodo, è stato sempre in bilico: ha
mantenuto una pressione fiscale paragonabile a quella tedesca,
ma, quando ha potuto, ha cercato di privatizzare, oppure non
ha fatto nulla per migliorare le prestazioni dello stato sociale. La
scelta da compiere è, dunque, tra uno stato più presente, che
faccia da continuo tutore della pace sociale, e che poggi su un
sistema produttivo prevalentemente caratterizzato da grandi
imprese con serie di produzione lunghe, o uno stato leggero,
con un welfare efficace solo per le classi più povere, con molti
servizi delegati ai privati, e con un apparato produttivo senza
una particolare connotazione, e forte di una flessibilità del
lavoro diffusa. In ogni caso, una volta ristabilito il corretto e
libero funzionamento del mercato del lavoro, sembra
improrogabile l’introduzione di una indennità di disoccupazione
o forse anche del cosiddetto reddito di cittadinanza, per
168
garantire condizioni dignitose di sussistenza durante il periodo
di transizione da un lavoro all’altro135.
Per la verità, si è cercato anche di classificare la
situazione italiana in modo tale da rappresentare una “terza via”
tra i due modelli136, ma le contraddizioni ed i punti deboli sono
talmente tanti che è più giusto parlare, per l’Italia, di un
“fenomeno distretti” che si è verificato nonostante le politiche
economiche seguite tradizionalmente, e nonostante certe
inefficienze del settore pubblico. Questo tipo di sviluppo
italiano, tra mille difficoltà, ha portato anche alla creazione di
fermenti politici nuovi ed oggetto di studio137: dai vari tipi di
regionalismo (Lega Nord o Liga Veneta), ai casi più inquietanti
di rivolta (i Serenissimi di Venezia) o alle proteste fiscali
organizzate (LIFE, Liberi imprenditori Federalisti Europei).
In tal senso, sarebbe opportuna una ridefinizione
dell’ambito di azione e competenza degli enti locali: dare più
poteri alle regioni ed ai comuni, evitando il livello intermedio
135 Per quanto concerne il reddito di cittadinanza si veda Silva,F.,”Vi sono rimedi per l’alta disoccupazione?”, LIUC papers n.18, LIUC di Castellanza, Varese, 1995. Il reddito di cittadinanza , secondo l’autore, dovrebbe aggirarsi sui 10 milioni all’anno, e dovrebbe essere riconosciuto a qualsiasi cittadino italiano maggiorenne(quindi anche in cerca di prima occupazione), in modo tale da non avere assilli economici e potere cercare il lavoro più rispondente alle proprie aspettative. L’indennità di disoccupazione, invece, è uno strumento che garantisce una somma di denaro solo a chi ha perso un lavoro regolare; essa esiste in Germania ma non in Italia.
136 M. Albert, già vice-direttore Prestiti presso la Banca Europea d’Investimento, nel saggio “Il Made in Italy: una nuova via tra capitalismo anglosassone e capitalismo renano?”, in A. Quadrio Curzio e M. Fortis (a cura di), “Il Made in Italy oltre il 2000”, Il Mulino, Bologna, 2000.
137 Ilvo Diamanti, “La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico”, Donzelli , Roma,1993; I. Diamanti, “Il Male del Nord: Lega, Localismo e Secessione”, Donzelli Editore, Roma, 1996.L’opera di Diamanti si concentra sulle trasformazioni sociali ed economiche della zona Pedemontana del Nord Est, e mette in relazione i nuovi fenomeni di rappresentanza politica (sua è l’espressione “il vuoto della politica”) con il particolare tessuto produttivo di quella zona.
169
delle provincie138. Il ruolo degli enti comunali dovrebbe avere
peso maggiore e, se del caso, più comuni potrebbero
consorziarsi per scegliere aree di sviluppo industriale, dotarle di
servizi ed infrastrutture, senza altro filtro o vincolo
amministrativo che non sia quello regionale. Le competenze
provinciali in tema di strade e viabilità, o di manutenzione di
plessi scolastici potrebbero essere delegate agli stessi comuni,
o al loro consorzio. Il conferimento di poteri rilevanti alle
comunità locali potrebbe essere sancito mediante il ricorso a
forme di democrazia diretta più marcate: dall’elezione diretta del
sindaco o del presidente del consorzio di comuni, alla
consultazione periodica della popolazione residente su
questioni di comune interesse (usando lo strumento
referendario in senso non solo abrogativo ma anche
propositivo) fino all'elezione di giurati popolari che aiutino il
funzionamento della Giustizia. In questo modo, il ceto politico
locale sarebbe spogliato di qualsiasi potere di interdizione a
favore di un più genuino compito di governo e sarebbe meglio
controllato ed indirizzato nella gestione concreta dei problemi139.
Tale questione non è di secondaria importanza e non riguarda
aspetti meramente istituzionali, ma coinvolge anche le
competenze in materia di incentivi agli investimenti diretti esteri
138 Lo stesso Becattini ha auspicato un ridimensionamento della funzione delle provincie. Si veda: G. Becattini, “Per una nuova comunità locale”, Sviluppo Locale, n.1,Passigli Editore, Firenze, 1994.
139 Manlio Rossi Doria definisce, con ardita immagine, pidocchi “l’innumerevole schiera dei piccoli mediatori politici, appartenenti a ogni partito, interessati ad imprimere carattere clientelare a tutti i rapporti, compresi quelli che nascono sul terreno del collocamento, della previdenza sociale, dell’azione sindacale”. Sarebbero proprio costoro il principale ostacolo per una seria politica di sviluppo del Mezzogiorno. Si veda: Rossi Doria M., “Scritti sul Mezzogiorno”, Einaudi, Torino, 1982.
170
(IDE). Sulla scorta dell’esperienza maturata da alcune agenzie
di sviluppo straniere (come la Welsh Development Agency), tale
consorzio di comuni avrebbe anche la prerogativa di prendere
decisioni in materia di incentivi agli investimenti: suo sarebbe il
compito di bonificare eventuali aree depresse, di intraprendere
opere di ammodernamento infrastrutturale, e assistere
l’insediamento delle imprese straniere; ad essa, peraltro,
sarebbe delegata la competenza di stabilire una quota
dell’imposizione fiscale.
Il successo dell’agenzia gallese, istituita nel 1976, è
palese: ha attirato investimenti per 40.000 miliardi di lire in 16
anni (dal 1983 al 1999), pari al 35% degli investimenti industriali
complessivi effettuati in quella regione140. Parallelamente, in
Italia si è assistito ad un declino della presenza di investitori
stranieri (solo il 6% degli investimenti del nostro paese è
finanziato da capitale straniero)141, a cui si è accompagnata
anche una minore partecipazione al flusso di investimenti nei
paesi esteri, non solo dell’area Euro, ma anche di quelli in via di
sviluppo142. Soprattutto al Sud la situazione si presenta asfittica:
140 Oggi la Welsh Development Agency attira investimenti capaci di creare 15.000 posti l’anno, mentre l’Irish Development Agency (altro caso di successo) riesce a produrre 10.000 nuovi posti di lavoro l’anno. In Francia molto positiva è l’azione dell’agenzia DATAR.
141 Nel settembre 1997 è stata creata l’Agenzia ITAINVEST, sulla base di una direttiva della Presidenza del Consiglio, intesa a trasformare la GEPI (Società di Gestione e Partecipazioni Industriali) in una società per il rilancio dell’occupazione e tesa a promuovere gli investimenti esteri. L’aumento del flusso di IDE nel nostro Mezzogiorno si spiega, in parte, proprio con la dismissione del patrimonio GEPI, acquisito da imprese estere.
142 Si veda il “X rapporto sull’Industria e la politica industriale”, CER-IRS, Roma, 1999. Per dati particolareggiati e distinti per settore e provenienza geografica, si consulti “L’internazionalizzazione dell’economia italiana”, elaborazione Eurispes su dati della Banca d’Italia, Roma,1999.
171
dal 1986 al 1998, questa parte del paese ha ricevuto IDE pari al
13,4% del totale italiano, ospitando 127 sedi di imprese
partecipate estere, mentre nel Nord Est sono giunti capitali pari
al 28,1% del totale, con 827 sedi di imprese partecipate
estere143. Per aiutare lo sviluppo di aree periferiche è essenziale
riuscire a far convogliare verso il nostro paese consistenti flussi
finanziari, così come è importante partecipare allo scambio
internazionale di risorse, magari investendo in paesi meno
ricchi del nostro144.
Una politica forte, o messa in condizione di divenire tale,
sarebbe anche il miglior antidoto per contrastare le diverse
forme di criminalità o di illegalità diffusa (come il lavoro nero),
premessa indispensabile per attirare nuovi investimenti o
consentire agli imprenditori nostrani di vincere le naturali ritrosie
nella effettuazione di quelli ritenuti necessari. L’errore che
bisogna in ogni caso scongiurare, sia da parte della classe
politica che da parte dei responsabili della politica economica, è
quello di cristallizzare la situazione attuale in tema di distretti:
come un qualsiasi organismo (ed abbiamo visto che le analogie
tra l’insieme di attori operanti nel distretto e il cervello umano
non sono poche) anche il distretto conosce diverse fasi nella
sua vita, dalla nascita, allo sviluppo, fino alla morte. L’unica
143 Per dati ulteriori si veda: Mariotti,S. e Mutinelli,M.,”Gli investimenti diretti esteri nel Mezzogiorno: il passato e le tendenze attuali”, L’Industria, aprile–giugno 1999.
144 La Cina di Deng Xiao Ping è riuscita ad innescare un poderoso processo di sviluppo nelle zone costiere (con aree industriali molto simili ai nostri distretti) grazie ad una aggressiva politica totalmente orientata ad assicurare la massima profittabilità agli investimenti stranieri.Per un’interessante analisi, si veda: Pant R. Dipack,”Two decades of international investiment in People’s Republic of China”, LIUC Papers n.62, LIUC di Castellanza, Varese, aprile 1999.
172
accortezza che bisogna usare è nello scegliere il meccanismo
di sostegno alla crescita, i suoi obiettivi ed i suoi destinatari. Un
salto di qualità nell’erogazione di qualsiasi aiuto potrebbe
essere rappresentato dalla valutazione effettiva dell’uso dei
fondi erogati e della capacità di incidere e mutare la situazione
iniziale.145
Evitare di cristallizzare la vita del distretto contribuirebbe
anche a non commettere un errore più grande: persistere nella
specializzazione produttiva attuale senza partecipare alla
rivoluzione tecnologica in corso. Occorre, infatti, pensare ai
possibili scenari che si possono presentare in futuro sulla scena
internazionale, e alle misure che potremo essere costretti a
prendere. Per quanto concerne la situazione odierna, è
evidente la presenza di zone molto diverse tra loro. Se il Nord
ed il Centro rappresentano i veri motori propulsivi della crescita
tumultuosa del nostro export , il Sud comincia ad incamminarsi
verso lo sviluppo a “macchia di leopardo”. La dorsale adriatica,
per la contiguità geografica con i distretti marchigiani, sembra
essere la principale candidata ad uno sviluppo duraturo sul
modello settentrionale, mentre per il Mezzogiorno continentale
lo scenario è desolante. Solo le zone limitrofe al centro urbano
145 Un buon metodo per valutare l’efficacia di qualsiasi erogazione di fondi pubblici potrebbe essere quello di delegare l’analisi quantitativa costi-benefici ad un pool di economisiti esterni ed indipendenti dalla pubblica amministrazione, per evitare che il controllore sia un dipendente del controllato. Una indicazione diversa è stata invece data da F. Barca nel convegno “Nuova programmazione e sviluppo territoriale”, tenutosi il 7 febbraio 2001 presso la Facoltà di Economia dell’Università “Federico II” di Napoli, in cui si prefigurava l’istituzione di appositi nuclei di verifica territoriali per monitorare l’efficacia della spesa pubblica.
173
di Napoli, forti di un’antica tradizione artigianale o commerciale,
reggono il passo con il resto del paese.
Se questo è lo stato dell’arte, è opportuno chiedersi se
non convenga incidere sulla specializzazione produttiva delle
zone che solo adesso comincino a svilupparsi. Si deve
continuare a finanziare distretti nel settore tessile,
dell’abbigliamento o, in genere, del Made in Italy o è meglio
favorire la nascita di imprese in settori Hi-Tech, come
l’informatica, l’elettronica, la meccanica di precisione?
Uno studio recente di Matteo Bugamelli146per la Banca
d’Italia dimostra che i diversi paesi dell’Unione stanno
convergendo verso specializzazioni omogenee, con la sola
eccezione dell’Italia, molto forte nei settori tradizionali e della
meccanica, quindi in settori ad alta intensità di manodopera
poco qualificata, e carente in quelli High Skill. Negli ultimi
trent’anni il modello di sviluppo italiano ed il ruolo delle nostre
esportazioni nello scambio mondiale sono stati più stabili sia
rispetto agli altri paesi maggiormente industrializzati (G7) che
rispetto alle “tigri asiatiche” (vedi figura 7147); inoltre, dati
pubblicati recentemente148 confermano la predilezione del nostro 146 M. Bugamelli, “Il modello di specializzazione internazionale dell’area Euro e dei
principali paesi europei: omogeneità e convergenza”, in Temi di discussione del Servizio studi ,n.402, Banca d’Italia,Roma, marzo 2001.
147 L’indice RCA (Revealed Comparative Advantage), detto indice di Balassa (dal nome dell’economista ungherese che lo ha ideato, Bela Balassa) o indice del vantaggio
comparato relativo, indica se un paese ha, in un certo settore, una quota relativa di esportazioni maggiore della sua quota media del totale delle esportazioni mondiali: RCA= (XIJ/IXIJ)/(JXIJ/IJXIJ) dove XIJ è il valore delle esportazioni del paese I nel settore J. Se 0RCAIJ 1 c’è svantaggio comparato rivelato in J. Se 1RCAIj c’è vantaggio comparato. Un valore RCA pari a 2 indica forte specializzazione: in Italia è il caso dei settori ad ampio uso di forza lavoro unskilled.
148 Per dati, grafici e tabelle si veda: Helg, R.,”Italian districts in the international economy”, LIUC Papers n.68, LIUC di Castellanza, Varese, novembre 1999.
174
paese verso le attività unskilled a danno soprattutto di quelle
tecnologicamente avanzate.
Figura 7
Fonte: elaborazione di R. Helg su base dati WTDB e NBER, 1999.
Questa condizione porta notevoli svantaggi in caso di crisi
internazionali (con relativa svalutazione della moneta unica
europea) o shock esogeni all’area Euro, giacché i prodotti del
Made in Italy risultano essere quelli con la maggiore elasticità
della domanda. Se politica significa prevedere o “concepire il
nuovo possibile”149 , allora siamo costretti a darci una risposta.
Agevolare la costruzione di centri di ricerca potrebbe
essere una buona soluzione, così come migliorare lo scambio
di risorse umane, oltre che di informazioni, tra mondo
universitario e mondo delle imprese potrebbe essere un’altra
via da percorrere. La letteratura sui “Local Knowledge
149 Weber,M.,“Politica come professione”,Edizioni Anabasi, Milano, 1994.
175
Spillovers”150 è abbondante e spesso ha messo in luce aspetti
della agglomerazione delle imprese ad alta tecnologia poco
indagati: ad esempio, tale aggregazione intorno alle Università
può essere motivata dal fatto che lì vi è maggiore presenza di
personale qualificato o addetto alla ricerca, che può formare gli
imprenditori o addirittura trasferire loro parte dei brevetti di cui
sono proprietari151. È chiaro che non basta costruire parchi
tecnologici come Tecnopolis a Bari, o come quello, ancora più
ambizioso, di Chateau Gambert a Marsiglia, che si propone di
divenire il centro di ricerca universitario più grande d’Europa,
Ma bisogna cominciare dalle iniziative imprenditoriali152. Ad
esempio, si dovrebbe cominciare a valutare i ricercatori
universitari non tanto sulla base di quanti articoli scientifici
hanno scritto, ma su quanti brevetti hanno depositato. Un’altra
conseguenza di questo mutamento nella politica dei distretti è
nel tipo di infrastrutture da costruire. Se si pone la ricerca al
150 Traduzione letterale:” traboccamenti di sapere locale”. Per una panoramica su questo argomento si veda: Breschi,S. e Lissoni, F.,”Knowledge Spillovers and Local Innovation Systems: a critical survey”, LIUC papers n.84, LIUC di Castellanza, Varese, marzo 2001. Si ricorda che LIUC è l’acronimo di “Libero Istituto Universitario Carlo Cattaneo” di Castellanza (Varese).
151 Audretsch sostiene che la conoscenza tacita sia il fattore aggregante più potente per le imprese innovative:”The theory of knowledge spillovers….suggests that the propensity for innovative activity to cluster spatially will be the greatest in industies where tacit knowledge plays an important role….it is tacit knowledge, as opposed to information[codified],which can only be transmitted informally, and typically demands direct and repeated contacts”. Si veda:Audretsch D.B.,”Agglomeration and the location of innovative activity”, Oxford Review of Economic Policy,14, 1998. Pag.23.
152 Il caso del dott. Veronesi, il già citato farmacista di Mirandola che ha dato vita ad una serie di iniziative imprenditoriali (Mirastet, Dideco) nel campo delle macchine sterilizzatrici per l’emodialisi, è significativo. Attorno a lui hanno preso vita tante altre piccole imprese (Biomedical valley) che hanno attirato l’attenzione (e gli investimenti) delle multinazionali (Gambro, Pfizer e Rhone-Poulenc): il distretto di Mirandola (MO) oggi può essere un esempio da replicare anche al Sud per quanto riguarda la diffusione dell’imprenditorialità in settori Hi-Tech. Per avere un’idea più precisa dei meccanismi che hanno consentito la crescita rapida di questo distretto ad alta tecnologia, si veda: Biggiero,L. e Sammarra,A., “The biomedical valley”, 2001, già citato.
176
primo posto, e con essa le iniziative imprenditoriali high skill, la
logica conseguenza è quella di favorire non solo infrastrutture
classiche come strade, depuratori o illuminazione (che sono
sempre necessari), ma soprattutto la costruzione di linee in fibra
ottica per la trasmissione dati ad alta velocità, essenziali per un
rapido scambio di dati e immagini tra Università e mondo
imprenditoriale.
Accanto a questo, vanno rivedute altre due politiche:
quella della formazione (universitaria ma non solo) e quelle per
l’immigrazione. Quanto alla prima, come accennato, sarebbe
auspicabile, negli ultimi anni di corso, destinare un certo
quantitativo di ore alla formazione sul campo, presso aziende
operanti nella ricerca o in campi ad alta tecnologia, e seguire
corsi che aiutino a valutare e mettere in pratica iniziative
imprenditoriali autonome (utile, in questo senso, si è rivelata
l’esperienza del prestito d’onore nell’incoraggiare l’intrapresa tra
i giovani). Per quanto riguarda le politiche sull’immigrazione,
d’altro canto, è opportuno aprire gli occhi alla realtà: esiste un
“mercato” dell’immigrato altamente scolarizzato e specializzato,
cioè dell’immigrato che, pur provenendo da paesi poveri o in
guerra, viene a svolgere mansioni e lavori per i quali in Italia
non c’è competenza o istruzione diffusa. Il caso del cancelliere
tedesco Schröeder, che nel giugno del 2000 ha destinato
30.000 Green Card153 per attirare nel suo paese esperti di
informatica, ha fatto scalpore. Anche questa, dunque, è una 153 Le Green Card sono i permessi speciali di lavoro concessi dal Governo di un
paese agli immigrati che avanzano una richiesta di soggiorno e che non siano rifugiati di guerra o perseguitati politici.
177
scelta da fare: se è bene accogliere immigrati di qualsiasi tipo,
poiché scappano da paesi non democratici o da carestie in
cerca di sorte migliore, è altrettanto doveroso per un paese
come il nostro, che vuole crescere e migliorare specializzazione
produttiva, cercare di attrarre coloro che hanno più istruzione e
competenza da dare, in competizione con gli altri paesi
industrializzati.
I questo modo si potrebbe assicurare un futuro produttivo
al riparo da shock esogeni o da una domanda eccessivamente
elastica, perché legata a beni voluttuari o di lusso, ed in linea
con lo standard dei principali paesi occidentali.
4.4 Una politica alternativa per i distretti: le iniziative
concrete
Nell’immaginare le azioni concrete a sostegno dei distretti,
bisogna distinguere due casi particolari:
1. quali misure approntare per stimolare l’aggregazione
tra imprenditori, o permettere il salto di qualità
“imprenditoriale” in un contesto di artigianalità diffusa;
2. quali misure riservare ai distretti già esistenti per
risolvere problemi endemici nella realtà meridionale,
come l’emersione dal sommerso, o la creazione di
servizi utili per l’accrescimento della competitività.
Per raggiungere il primo obiettivo bisogna utilizzare
incentivi di tipo indiretto: si deve favorire l’associazione
178
spontanea tra tre o quattro imprese che abbiano ruoli diversi e
complementari nella filiera di una determinata produzione (ad
esempio, scelgono di associarsi un fornitore di materie prime,
un produttore di beni intermedi, un addetto all’assistenza dei
macchinari ed uno esperto in logistica). A fronte di questo patto
tra imprenditori (o dichiarazione d’intenti), l’ente locale si
obbliga a costruire le infrastrutture necessarie per attrezzare un
suolo industriale, a costruire strade, reti idriche, depuratori e
linee telefoniche nella misura esatta da loro richiesta, evitando
di trasferire fondi nelle loro mani o avviare iter burocratici
presso altre amministrazioni sovraordinate. Si tratterebbe solo
di una forma di finanziamento, che potrebbe essere restituito
sotto forma di maggiori imposte pagate una volta che l’attività
vada a regime. Tuttavia è chiaro che per arrivare a parlare di
distretto c’è bisogno di raggiungere una massa critica. In questo
primo stadio si tratta solo di innescare un processo di
coagulazione di capacità artigianali e imprenditoriali, in modo da
dare una “direzione di marcia” allo sviluppo di un territorio154.
L’eventuale affollamento della zona adibita ad area industriale
potrebbe essere gestita con un sistema di sovrattasse: se, oltre
alle tre imprese che si sono insediate per prime, se ne
volessero unire altre, favorendo anche la concorrenza ai diversi
livelli della filiera produttiva e permettendo uno scambio di
154 I diversi modi di gestire un distretto industriale e di governarne la crescita e la direzione sono analizzati da Fernanado Alberti in “The Governance of Industrial Districts: a Theoretical Footing Proposal”, LIUC Papers n.82, LIUC di Castellanza, Varese, gennaio 2001. In particolare, l’autore suggerisce sempre di individuare una entità leader all’interno del distretto (non necessariamente un’impresa, ma anche un’entità di tipo amministrativo come il “comitato di distretto”) per dirigere il processo di crescita.
179
informazioni e conoscenze che è alla base del distretto, si
dovrebbe fare in modo che la rete fognaria, idrica e di
depurazione non venissero a trovarsi sottodimensionate. Alle
nuove imprese, pertanto, spetterebbe il pagamento di una
sovrattassa sul canone del servizio erogato, grazie alla quale
l’ente locale può provvedere alla fornitura di reti idriche più
grandi o di depuratori più attrezzati. In pratica alle imprese late
comers viene trasferito l’onere dell’ampliamento delle
infrastrutture di supporto (anche se diluito nel tempo, poiché
l’ente pubblico deve provvedere alla costruzione immediata a
fronte di un pagamento scaglionato nel tempo sotto forma di
tassa), mentre in cambio si trovano a lavorare in una zona in cui
già vi sono imprenditori, commesse e il know-how circola
facilmente.
Tuttavia, c’è un passaggio ancora precedente: da dove
nasce l’idea imprenditoriale? C’è un modo per stimolare la
nascita di intuizioni in questo campo? È chiaro che molto lavoro
deve essere fatto in questa direzione, soprattutto al Sud, dove
la burocratizzazione dei ceti medio-alti, la terziarizzazione delle
fasce centrali della popolazione attiva ed una categoria di liberi
professionisti ancora organizzata in modo corporativo non
favoriscono né le abilità manuali, né le attività imprenditoriali o
in genere quelle che implicano un rischio. Se nel Nord Est il
problema che comincia ad essere avvertito riguarda “l’abulia”155
dei giovani, che sono nati in un periodo di ricchezza e non 155 Interessante a tal riguardo è il saggio di G. Corò ed E. Rullani, “Neo-
imprenditorialità e politiche regionali per l’innovazione: l’applicazione della legge 44/86 in contesti a sviluppo diffuso”, Piccola Impresa/Small Business, n,1, 1998.
180
hanno più lo stimolo dei padri a cominciare lavori rischiosi o
pesanti156, nel Sud la terziarizzazione ed il miraggio del posto
fisso (magari come dipendente statale) ha portato una assenza
di propensione al rischio ben più accentuata e da molto prima
che nel Nord157. Un modo forse “eterodosso” per invertire la
marcia potrebbe essere quello di indagare sulle tendenze
“nascoste” dei vari territori e delle popolazioni che ivi vivono:
studi storici e psico-sociologici possono riportare alla luce le
competenze accumulate anni addietro ed ora andate disperse,
e sulla base di questo procedere per organizzare il sistema
formativo in modo adeguato.
Il periodo della istruzione dell’obbligo andrebbe integrato
con dei seminari estivi di formazione: in pratica, si prolunga il
normale anno scolastico di altri 15 giorni (si può pensare, ad
esempio, al periodo 1-15 giugno) per i ragazzi compresi tra i 12
e i 16 anni di età, e si organizzano incontri con maestri
artigiani, o con tutor che insegnino loro questioni reali del
mondo del lavoro (come si apre una partita IVA, cos’è una
camera di commercio e così via). Gli ultimi giorni di questo
156 La situazione è preoccupante anche nel distretto di Forlì-Cesena,specializzato nel mobile imbottito, dove una recente ricerca sul ricambio generazionale ha evidenziato come quasi 4 imprenditori su 10 non hanno nessuno disposto a rilevare la loro attività.Si veda: ANTARES, Centro di Ricerca di Politica Industriale,”Gli elementi di riproducibilità di un sistema produttivo locale: il cambio generazionale nella provincia di Forlì-Cesena”, Forlì, 1999.
157 Secondo il Rapporto Annuale dell’ISTAT per il 1999, la struttura demografica dei diversi sistemi locali del lavoro (SLL) può spiegare la immodificabilità del nostro sistema industriale, basato sulla manifattura tradizionale e sui settori labour-intensive.In particolare, i sistemi locali manifatturieri presentano un indice di vecchiaia (dato dal rapporto percentuale tra la popolazione con 65 e più anni e quella con meno di 15 anni) pari a 132,5, a fronte di valori del 100,5 per i sistemi senza specializzazione e a 109 per quelli non manifatturieri, con divari ancora più pronunciati se si prende in considerazione la sola popolazione maschile.
181
periodo potrebbero essere dedicati alla realizzazione di un
progetto pratico che valorizzi la manualità dello studente (un po’
come quello che si faceva nelle ore di “applicazione tecnica” di
trenta o quaranta anni fa); ovviamente questa spinta al lavoro
manuale dovrebbe essere favorita in tutte le scuole, non
soltanto negli istituti professionali, ma anche nei primi anni del
liceo. Quanto agli studenti universitari, seminari specifici
dovrebbero essere pensati per gli iscritti a facoltà scientifiche o
tecniche (ingegneria, agraria, economia), in modo da tenerli
aggiornati sulle ultime frontiere dei rispettivi campi.
Si tratta solo di spunti generici ma forse sottolineano
aspetti poco valutati della questione, che meriterebbero di
essere presi in considerazione.
Per quanto riguarda il problema della emersione dal
sommerso, ritengo che tale problema sia strettamente
connesso con le rigidità attuali del mercato del lavoro.
Un recente studio di Fabiano Schivardi158chiarisce come le
rigidità in materia di licenziamenti e l’obbligo di un unico
contratto di lavoro collettivo nazionale (senza tenere conto della
diversa produttività del lavoro nelle diverse aree del paese) non
incidono tanto sul tasso di disoccupazione reale del paese
quanto sulla durata del periodo di inattività e, soprattutto,
danneggiano le fasce marginali della popolazione attiva, cioè i
giovani alla ricerca di prima occupazione e le donne. In questo
contesto, la parte dei lavoratori maggiormente tutelata gode
158 F. Schivardi, “Rigidità nel mercato del lavoro, disoccupazione e crescita”, in Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Italia, n.364, Roma, dicembre 1999.
182
anche di un tasso di incremento salariale crescente, poiché i
disoccupati sono posti in condizione di non potere incidere sulle
dinamiche contrattuali159; cioè non entrano mai in competizione
con chi è già occupato. Di fronte a questa situazione il lavoro
nero diventa quasi una scelta obbligata in quelle zone del
paese in cui le fasce marginali sono più abbondanti e la
produzione prevalente non richiede elevata specializzazione:
nella fattispecie ampie zone dell’Italia meridionale sono
incentivate a fare ricorso al lavoro nero160. Per fronteggiare
questa “piaga” è stata recentemente istituito, presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Comitato per
l’emersione del lavoro non regolare161, presieduto dal professore
Meldolesi, che ha posto le basi per la futura legge sulla
“emersione”. Tra le altre misure in cantiere, è previsto, per
l’imprenditore che adopera lavoro irregolare, l’obbligo di
mettersi in regola in tre anni, e la possibilità di usufruire di alcuni
sgravi fiscali. Ma ci sembra di poter dire che l’iniziativa non
guarda alla sostanza del problema. La riforma del mercato del
lavoro da un lato, e il funzionamento efficiente della Giustizia
sono le due gambe su cui si regge la sfida al sommerso e che
159 Il fenomeno secondo cui i disoccupati di lungo periodo tendono a non esercitare pressioni salariali che contribuirebbero al loro riassorbimento è noto col termine di isteresi,ed è una delle principali barriere all’entrata per i giovani nel mercato del lavoro.
160 Negli ultimi anni sono stati studiati diversi indicatori statistici per svelare le sacche di lavoro nero; per una panoramica interessante si veda, “L’economia sommersa, problemi di misura e possibili effetti sulla finanza pubblica”, audizione del presidente dell’Istituto Nazionale di Statistica tenuta presso la V Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, il 16 luglio 1998.
161 Il Comitato per l’emersione del lavoro non regolare è stato istituito con l’art. 78 della legge 448 del 1998, ed ha compito di monitorare la situazione del sommerso in Italia tramite apposite commissioni locali. Fornisce pareri ed indicazioni alla Presidenza del Consiglio sulle misure più idonee da adottare nelle Leggi Finanziarie per agevolare l’emersione.
183
possono garantire il mantenimento di buoni livelli di
competitività delle imprese italiane.
Per quanto riguarda la riforma del mercato del lavoro,
non è più ammissibile che una parte (ormai minoritaria, visto
che oltre il 50% degli iscritti alle tre confederazioni sindacali
sono pensionati) dei lavoratori viva con la certezza di ogni
tutela del posto di lavoro a discapito di una consistente fetta di
lavoratori marginali non tutelati e difficilmente coalizzabili.
Quella parte “privilegiata” del mondo operaio deve
rappresentare per la restante parte quello che la borghesia
illuminata di “Socialismo Liberale” di Carlo Rosselli162 costituiva
per la classe lavoratrice in senso lato: non deve arroccarsi sulle
posizioni acquisite ma svolgere una funzione progressista.
Uno studio accurato sul lavoro sommerso, sulle sue
cause, sulle politiche più opportune da prendere per
contrastarlo è stato svolto recentemente da Tito Boeri163 e Pietro
Garibaldi, professori della Bocconi, per conto della IGIER164.
Partendo dalla definizione di economia sommersa come quella
rappresentata da tutte le attività che contribuiscono al PIL
162 Carlo Rosselli, “Socialismo Liberale”, Einaudi, Torino,1973. Vi si legge, tra l’altro,:”Solo alcune frazioni della borghesia esercitano ancora una utile, diciamo anzi, pressochè indispensabile funzione progresista. E quali? Quelle che, indipendentemente dal privilegio della nascita, realizzano nella vita nuovi valori nella sfera della intelligenza pura…riprova di questa funzione liberale che ancora esercitano alcune frazioni borghesi è l’esistenza presso tutte le democrazie moderne, di partiti di democrazia borghese che non restano sordi alle esigenze del progresso e danno la mano …al movimento di ascensione della classe lavoratrice”.
163 Tito Boeri attualmente insegna Istituzioni del Mercato del Lavoro presso la Bocconi.
164 Boeri,T . e Garibaldi,P.,“Shadow Activity and Unemployment in a Depressed Labour Market”, IGIER Working Papers, Milano, giugno 2001. L’IGIER (Innocenzo Gasparini Institute of Economic Research) è un istituto di ricerca finanziato principalmente con i fondi della CIR (Compagnie Industriali Riunite), società finanziaria della famiglia De Benedetti.
184
calcolato ufficialmente, ma che non sono effettivamente
registrate, i due studiosi analizzano l’ammontare del fenomeno
in Italia rispetto agli altri paesi europei (vedi tabella 11), e la
situazione del Mezzogiorno rispetto al resto del paese.
185
Tabella 11
Fonte: elaborazione di Tito Boeri (2001) su dati di Schneider ed Enste165.
In generale, rilevano che nel ventennio 1978-1998 il
fenomeno ha raddoppiato le sue dimensioni in tutta l’area UE, e
in particolare in Italia la quota di economia sommersa riguarda il
23% del PIL e quasi il 30% degli occupati, mentre la media
europea si assesta intorno al 15% di economia sommersa (sul
PIL) e il 18-20% di occupati irregolari. Nel Mezzogiorno la
situazione è anche peggiore: si stima che il 45% dei disoccupati
meridionali sia coinvolto nel sommerso166, contro il 30%
dell’Italia centrale ed il 25% dell’Italia settentrionale, essendo
l’Italia di Nord Est a conoscere meno tale fenomeno. Tuttavia le
implicazioni più interessanti di questo studio sono nelle
conseguenze di politica economica: sulla base di evidenze
165 Schneider e Enste, “Shadow economies: size, causes and consequences”, Journal of Economic Literature, n.58, 2000, pp. 77-114.
166 L’ISTAT stima i tassi di lavoro irregolare in parte sulla base delle discrepanze tra il reddito dichiarato dalle imprese e quello delle famiglie degli imprenditori, ed in parte sulla base di indagini ad-hoc fatte sulla popolazione straniera e nei settori in cui si ritiene che il lavoro nero sia più diffuso.
186
empiriche i due autori osservano che i tassi di lavoro sommerso
sono più consistenti in quelle regioni in cui anche l’occupazione
regolare è più bassa, e che la durata del periodo di irregolarità
del lavoro è direttamente proporzionale alla durata del periodo
di disoccupazione ufficiale. In altre parole, i mercati del lavoro
con disoccupazione stagnante conoscono anche fenomeni di
occupazione irregolare stagnante. La repressione pura e
semplice di questo fenomeno, tra l’altro, produce un aumento
della disoccupazione, perché porta alla scomparsa delle
imprese a più bassa redditività; anche per questo i paesi UE
hanno tollerato il lavoro nero, nonostante gli effetti negativi patiti
dal lato delle entrate fiscali. Un approccio rigido a tale problema
perderebbe di vista il nocciolo della questione: le misure di
politica economica dirette a ridurre la disoccupazione servono
anche a ridurre il fenomeno del lavoro nero167; i provvedimenti
che rendono più efficiente il mercato del lavoro portano alla
emersione delle imprese, e ad un incremento delle entrate
fiscali nelle casse dello stato.
Per quanto riguarda il problema della Giustizia, sembra
ormai improrogabile una riforma nel senso della abolizione della
obbligatorietà dell’azione penale168. Il numero enorme di cause
civili e penali, che di quella regola sono conseguenza, ha fatto
167 Una misura diretta a scoraggiare i casi in cui il datore ed il lavoratore si mettono d’accordo per evadere i contributi può essere quella di subordinare l’accesso alle assicurazioni sociali (ad esempio l’assicurazione sulla perdita del posto di lavoro) alla stipula di un contratto di lavoro formale e regolare.
168 L’articolo 112 della nostra Costituzione afferma:”Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Il P.M., cioè, è titolare di un potere-dovere, di una funzione dalla quale non può esimersi senza violare (in teoria) il principio di eguaglianza: una volta venuto a conoscenza della notitia criminis , egli è obbligato ad avviare l’azione penale.
187
dilatare i tempi del giudizio (la media è di 9 anni, prima della
sentenza definitiva) e blocca di fatto qualsiasi controversia in
campo economico e di lavoro, tanto che sempre più frequente
(quando ammesso dalla legge) è il ricorso all’arbitraggio
(giustizia privata). L’unica funzione veramente imprescindibile di
uno stato deve essere quella di assicurare Giustizia in tempi
certi e rapidi, altrimenti è lo stato di diritto, fondamento di
qualsiasi democrazia liberale, che viene meno169.
Un altro tipo di misure dovrebbe essere preso, soprattutto
al Sud, per migliorare la situazione economica e finanziaria
delle piccole imprese, non solo dei distretti. Migliorare il sistema
bancario è la richiesta più urgente che proviene dalle realtà già
esistenti, ed in effetti le ristrutturazioni che si stanno
succedendo in questo settore hanno portato una notevole
concentrazione e l’assorbimento di tanti piccoli istituti di credito
meridionale170, che, se in un primo momento hanno peggiorato
la situazione finanziaria degli imprenditori finanziari, nel medio
periodo hanno permesso la concessione di crediti a tassi vicini
a quelli nazionali171. Un sistema bancario efficiente dovrebbe
169 Il concetto di “Stato amico” evocato spesso da alcuni studiosi (principalmente la Bàculo e Meldolesi) è poco più di una scatola vuota se non si riafferma il principio fondamentale della Regola (the Rule of Law) e del suo rispetto. Oggi lo stato è sin troppo “amico” con chi ha le amicizie giuste, ed oltremodo oppressivo verso i più onesti. Una volontà politica di fare rispettare le leggi a tutti i livelli sarebbe la migliore polizza di assicurazione contro ogni furto di Verità o di Giustizia , e la premessa fondamentale per un corretto funzionamento dell’economia e del mercato, condizione essenziale per attirare anche investimenti dall’estero.
170 A tal proposito si veda: E. Bonaccorsi e G. Gobbi, “The effects of bank consolidation and market entry on small business entry”, Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d’Italia,n. 404,Roma, giugno 2001.
171 Per un’analisi del trend del differenziale dei tassi di interesse tra Nord e Sud, si veda il rapporto Eurispes ”Il ruolo del mercato del credito”, elaborazione su dati Banca d’Italia, Roma, 1999.
188
essere la garanzia migliore per fare crescere sia di dimensione
che nella gestione (da familiare in senso stretto a manageriale)
le piccole imprese distrettuali; il fenomeno dell’ingrandimento
della piccola impresa rappresenta il primo segnale del
consolidamento di un’area produttiva, e delle nuove prospettive
che essa si è data, e pertanto va assecondato e incoraggiato.
4.5 Conclusioni
L’importanza del concetto di distretto industriale è stata
compresa negli ultimi trenta anni grazie al lavoro di studiosi
come G. Becattini, S. Brusco, G. Garofoli, G. Viesti ed E.
Rullani, i quali, di fronte al declino della grande impresa, hanno
cercato di analizzare quella parte del tessuto produttivo italiano
che sembrava reggere meglio alla congiuntura e alle nuove
sfide competitive dei NIC (new industrialized countries).
Il loro contributo va ad approfondire la lezione di Alfred
Marshall che, nei “Principles of Economics” prima ed in
“Industry and Trade” poi, parla esplicitamente di distretti
industriali per spiegare il successo di città quali Sheffield nella
siderurgia e di Preston e Liverpool (Lancashire del Sud) nella
tessitura. Egli ha il merito di avere intravisto più di un percorso
di studio sui distretti: dalla distinzione tra il vero e proprio
distretto e la “città manifatturiera” alla debolezza del concetto di
settore, dalla capacità di innovazione della piccola impresa
concentrata territorialmente, alle economie esterne,
dall’atmosfera industriale al concetto di “nazione economica”.
189
L’opera di A. Marshall è emblematica anche di un
particolare modo di affrontare i problemi economici: anticipando
di cinquant’anni la critica di Leontiev alla eccessiva
razionalizzazione e modellizzazione della economia, e pur
essendo egli stesso laureato in matematica, ha intuito il
potenziale notevole che un approccio interdisciplinare avrebbe
avuto in questo campo. Questa esigenza è sentita fortemente
dallo stesso G. Becattini, decano dei “distrettualisti” italiani,
quando raccomanda ai sociologi, agli storici, ai geografi, agli
psicologi e addirittura ai filosofi di dare il loro apporto nello
studio dei distretti. Più di un aspetto, difatti, della vita e della
dinamica del distretto industriale si situa a cavallo tra discipline
affini ma diverse. L’approccio di Becattini, che rispolvera la
complessità del comportamento e della mente umana (come
sembra fare anche la Bàculo quando cita Hirschman e le sue
considerazioni sul piacere e sul benessere) sembra andare in
posizione diametralmente opposta all’insegnamento di Karl
Marx: il materialismo storico ed il determinismo della sua
dottrina riducevano l’uomo a poco più che un ganglio della
catena di produzione. Oggi, anche perché più ricco ed istruito,
egli può agire anche secondo obiettivi non meramente materiali,
ma per brama di potere o di stima, o per volontà di
affermazione. Ne consegue che il prezzo, in un dato mercato, si
formerà attraverso i complessi rapporti di forze sociali, ciascuna
delle quali è modellata da privilegi, speranze, illusioni, pregiudizi
e abitudini particolari. A questo punto, i soggetti che esprimono
190
la domanda e soprattutto l’offerta sono entità ben più
complesse di quelle previste dalla teoria economica. I
meccanismi economici che essi generano sono dunque
altrettanto complessi, e richiedono un approccio
interdisciplinare.
Oggi il dibattito sulle tematiche distrettuali viene seguito
con interesse dai politici - non solo italiani- perché, dopo avere
constatato il fallimento di tutte le politiche di sostegno alla
grande impresa, la crisi del modello di produzione fordista, e
l’inasprimento della competizione globale, essi vorrebbero
replicare le esperienze di successo della Terza Italia (in cui
opera, grosso modo, il ceto produttivo dei piccoli imprenditori e
dei liberi professionisti, stimato in 7 milioni di partite IVA) nelle
zone più depresse del Mezzogiorno, che si sono rivelate
impermeabili alle cure della Cassa del Mezzogiorno e ai
finanziamenti della CEE (ora UE). Proprio mentre Il modello
renano si è dimostrato fragile nei periodi di recessione e troppo
ingessato in quelli di prosperità, il modello anglosassone
sembrava culturalmente distante dalla nostra società, i politici
nostrani si sono ritrovati a fare (piacevolmente) i conti con un
arcipelago variopinto di distretti industriali che hanno trainato
potentemente l’export del nostro paese in anni di crisi, ed
hanno accantonato repentinamente i discorsi (che trent’anni fa
andavano di moda) sulla inadeguatezza della piccola impresa
nella concorrenza planetaria. Il distretto industriale italiano,
191
come un novello Fregoli, si è trasformato da palla di piombo
dello sviluppo a caso di studio a livello internazionale.
Per concludere, sembra opportuno cominciare a chiedersi
se lo sviluppo del Mezzogiorno possa essere incoraggiato in
modo diverso rispetto al passato, e, soprattutto, se, per esso, si
possa pensare ad una specializzazione produttiva diversa da
quella dei distretti dell’Italia settentrionale e centrale. Negli anni
’60 si era voluto trasformare il Sud nella sede dei poli chimici ed
energetici (oltre che siderurgici) del nostro paese, ma ora, fallita
quella prospettiva, si può cercare di organizzare una struttura
capillare di poli scientifici e di ricerca (non solo attorno alle
Università, ma anche intorno ai laboratori di ricerca delle
multinazionali che vengano invogliate ad investire al Sud, con
una consistente attrazione di IDE) in grado di interrompere la
pluriennale dipendenza del nostro paese dai brevetti e dalle
innovazioni degli altri paesi. Se è vero che la localizzazione dei
poli di ricerca segue spesso il capitale umano formato ed
istruito172, è anche vero che vi sono larghe sacche nella
popolazione giovanile in cerca di prima occupazione
caratterizzate da una elevata istruzione; la SGS Thomson173 ha
provveduto ad aprire uno stabilimento ad alta tecnologia nei
pressi di Catania proprio perché poteva contare sulla buona
formazione degli ingegneri di quell’Ateneo. Una via da
percorrere, dunque, potrebbe essere proprio quella di innescare 172 Si veda: Breschi,S. e Lissoni, F.,”Knowledge Spillovers and Local Innovation
Systems: a critical survey”, LIUC papers n.84, LIUC di Castellanza, Varese, marzo 2001, già citato.
173 La SGS è una multinazionale franco-britannica, specializzata nella produzione di televisori ed elettrodomestici.
192
il processo di crescita dell’economia meridionale a partire da
Local Knowldge Spillover, in modo tale da permettere la nascita
di distretti non più specializzati nei settori tradizionali (ad alto
impiego di capitale umano poco specializzato), ma in quelli che
ci consentano di competere con i paesi più avanzati per la
creazione di nuove tecnologie.
193
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