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IL PROCESSO DECISIONALE NELLA GESTIONE AZIENDALE Simon e altri autori

Il processo di assunzione delle decisioni ha un ruolo centrale nella gestione aziendale perché, in definitiva, è attraverso esso che i responsabili delle aree funzionali possono determinare le modalità ed i contenuti delle operazioni e, quindi, i loro "risultati".

Gli studi iniziati con la scuola dello Scientific Management, ampiamente diffusi su scala mondiale negli anni 50 e 60, hanno dato un sostanziale contributo all'approfondimento delle attività capaci di razionalizzare la gestione aziendale e, tra queste, a quelle che presiedono alla definizione delle scelte tra le possibili alternative di azione per la risoluzione di un problema.

In sostanza, tali studi si sono consolidati in due differenti tipi di approccio: uno, evidenziato dai primi studi di Management, che considera la decisione il risultato di una "procedura" formalizzata suddivisa in "fasi" ed un altro che considera invece il processo decisorio sostanzialmente privo di strutture di riferimento.

Per quanto riguarda l'approccio per fasi, sono stati gli studi di Simon che hanno condotto, verso la metà degli anni '60, alla formulazione di uno schema di rappresentazione delle fasi del processo decisionale tuttora ampiamente utilizzato. Secondo tale modello la formulazione di una decisione segue una "procedura" composta di cinque momenti logici successivi:

* l’ analisi del problema (intelligence) * la ricerca di possibili soluzioni (design) * la valutazione e la scelta dell’ alternativa migliore (choice) * l’ attuazione della decisione (implementation) * il controllo sui risultati e l’ eventuale modifica della scelta (control and review)

Nella fase di analisi del problema, viene definito il problema da risolvere e vengono individuate ed analizzate, in ottica integrata, tutte le informazioni ritenute utili per prendere una decisione al riguardo.

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Nella fase di ricerca delle soluzioni, il soggetto preposto all'assunzione della decisione individua le possibili linee d'azione capaci di fronteggiare la situazione problematica individuata nella fase precedente.

Nella fase di scelta della soluzione, il soggetto sceglie, tra le alternative individuate, quella ritenuta migliore, utilizzando i parametri di scelta considerati al momento i più opportuni.

Nella fase di attuazione della decisione, vengono attivate tutte le azioni complementari necessarie per dare inizio all'attuazione della decisione presa (come, ad esempio, la conduzione di una presentazione della proposta alla Direzione per ottenere l'approvazione definitiva al piano di azione), dopodiche si procede con l'attuazione operativa della decisione.

Infine, nella fase di controllo e monitoraggio dei risultati conseguenti alla decisione, si procede al controllo delle conseguenze e dei risultati effettivi della scelta effettuata.

Quest'ultima fase può innescare un nuovo processo decisionale, nel caso in cui le conseguenze e i risultati non corrispondano alle aspettative o non siano ritenute soddisfacenti in alcuni o in tutti gli aspetti più sostanziali.

Se lo scostamento dalle aspettative è invece di limitata entità, il processo decisionale può autoregolarsi, mediante un meccanismo di retroazione (feedback): le informazioni di ritorno dalla fase di controllo permettono di perfezionare il modello di rappresentazione della situazione decisionale e di scegliere le azioni correttive più appropriate.

Il tempo dedicato dal manager alle varie fasi è sicuramente maggiore per le prime due fasi che per le altre, poiché una volta che le possibili alternative sono state valutate attentamente in termini di fattibilità e di possibili conseguenze, la fase della scelta si svolge in tempi relativamente brevi. In ogni caso le attività sopra elencate coprono, in genere, la gran parte dei compiti del manager.

Naturalmente, come in ogni modello di rappresentazione, nella pratica non vi sarà una corrispondenza esatta con lo schema ideale descritto, né vi sarà una

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distinzione netta tra una fase ed un'altra. Tuttavia, se il processo decisionale è di tipo "razionale", questo schema descrive abbastanza bene le fasi logiche che portano alla formulazione delle decisioni e che occupano gran parte del tempo e dei compiti della dirigenza aziendale.

Nella sua prima stesura, il modello di Simon segue la cosidetta "logica ottimizzante" o di "razionalità assoluta", nella quale si accetta l'assunzione, propria della teoria classica dell'impresa, di un imprenditore onnisciente, razionale e che tende esclusivamente a massimizzare i profitti. Secondo questa concezione, il decisore è in grado di conoscere tutte le informazioni rilevanti per il problema, di formulare tutte le alternative di soluzioni possibili e di valutarle comparativamente, pervenendo alla soluzione ottimale.

In seguito però lo stesso Simon, a seguito di approfondite osservazioni dell'effettivo comportamento decisionale, giunse a mitigare le sue stesse impostazioni iniziali ed a riconoscere che gli individui, nella pratica operativa, si trovano a dover decidere in condizioni di "razionalità limitata". Egli riconosce infatti che ognuna delle alternative individuate nella fase di ricerca delle soluzioni, se attuata, implica una serie di conseguenze che differiscono, anche sostanzialmente, per quanto attiene al grado di incertezza e di rischio, oltre che per i presumibili risultati.

Simon conclude perciò che nella decisione interviene un fattore fortemente soggettivo che indirizza la scelta verso l'alternativa che presenta le conseguenze "preferite" (legandola, ad esempio, alla maggiore o minore propensione al rischio) ed utilizzando quindi un limitato, approssimato e semplificato modello personale della situazione reale. In definitiva, il soggetto decisore non cercherà di identificare tutte le alternative tra cui scegliere quella ottima, ma si limiterà a considerare un sottoinsieme di linee d'azione ritenute idonee a soddisfare il suo "livello d'aspirazione". Questo criterio, secondo Simon, è un criterio di scelta "soddisfacente", non "ottimale", prodotto inevitabilmente dal grado di incertezza che caratterizza ogni tipo di decisione.

Malgrado questo tipo di "rivisitazione", il modello di Simon non pone nel dovuto risalto la componente psicologica e sociale che accompagna ogni decisione che si

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svolge all'interno di organizzazioni complesse. Simon non mostra eccessiva attenzione agli aspetti organizzativi di cooperazione, di negoziazione e di conflitto che, invece, diventano rilevanti quando una decisione scaturisce dall'interazione di più decisori aventi obiettivi diversi. Esso non riconosce inoltre l'importanza dei meccanismi di accrescimento della conoscenza, o di apprendimento, come momenti distinti nel processo decisionale.

Per concludere, l'approccio per fasi, sia nella sua forma originaria che nella sua forma "allargata", risente fortemente dell'influenza degli studi aziendalistici che hanno fatto propri i principi della cibernetica ed è, comunque, fondato sul presupposto che sia possibile acquisire in tempo sufficiente le informazioni necessarie per porre in atto l'intero processo di decisione e per controllarne gli effetti.

Per quanto riguarda, invece, il secondo approccio, quello cosidetto "globale", i suoi sostenitori, piuttosto che proporre "procedure" di formulazione delle scelte basate su regole algoritmiche, si sono limitati a descrivere l'effettivo comportamento degli individui, sostenendo che essi, spesso, adottano, anziché schemi precostituiti, forme implicite di ragionamento, affidando la comprensione delle situazioni all'esperienza, a ragionamenti per analogia ed a elementi intuitivi.

Seguendo questo approccio, la selezione della struttura delle decisioni non prevede l'identificazione di tutte le possibili linee d'azione, ma si fonda sulla valutazione del presunto valore complessivo solo di alcune alternative prese in considerazione.

L'approccio globale cerca, in qualche modo, di superare i limiti presentati dalla logica della "razionalità limitata", riconoscendo che essa non è adatta ad interpretare la totalità dei comportamenti decisionali in quanto le condizioni operative possano divergere da quelle abitualmente ipotizzabili, a causa del manifestarsi di fatti nuovi ed imprevisti derivanti dall'esistenza di un ambiente turbolento e scarsamente controllabile. In questo caso l'utilizzo di modelli decisionali impostati sulla "razionalità", come quelli proposti dall'approccio per fasi, renderebbero distorta la loro interpretazione ed occorre pertanto formulare ipotesi diverse, sostitutive o complementari, che tengano conto della mutata realtà.

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Anche se inquadrare tali situazioni in modelli decisionali appare complesso, in quanto è difficile esprimere in modo sistematico ciò che per sua natura sfugge ad ogni interpretazione razionale, è possibile, tuttavia, descrivere alcuni modelli che in qualche misura potrebbero rispondere alle esigenze appena esposte e quindi essere considerati alternativi a quelli esposti in precedenza. Essi sono:

la logica incrementale, il modello " garbage can theory" (teoria pattumiera) e la "technology of foolishness" (tecnologia dell'irrazionale).

La logica incrementale, può essere impiegata come modello teorico di riferimento per interpretare il comportamento decisionale nelle aziende quando le situazioni di scelta siano caratterizzate da problemi di difficile definizione e da un insieme numeroso di obiettivi .

Secondo questa teoria, gli obiettivi aziendali non devono essere il risultato di complesse analisi di alternative, ma possono discendere da un "processo per tentativi", che in occasione di cambiamenti di politiche prenda in considerazione i miglioramenti necessari per raggiungere obiettivi non ottimali, ma "soddisfacenti".

Le basi concettuali di tale modello mettono in evidenza le differenze che emergono con il modello razionale. Esse possono essere così riassunte:

* la scelta degli obiettivi e l'analisi empirica delle azioni necessarie non sono operazioni distinte, ma sono strettamente interconnesse,

* l'analisi separata dei fini e dei mezzi è spesso inadeguata o limitata, dato che i mezzi ed i fini non sono distinti,

* la verifica della validità di una politica è data da un accordo fra diverse persone che la esaminano e la considerano valida, pur riconoscendo che non è la "migliore" e

* l'analisi dello scenario decisionale è comunque limitata, in quanto trascura importanti risultati possibili, importanti soluzioni alternative potenziali ed importanti valori che vi sono implicati.

E' evidente che con tale procedura si può accelerare l'iter del processo decisionale aggirando, nel contempo, le difficoltà per trovare un accordo preliminare sugli

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obiettivi da conseguire, ma in questo modo si riduce drasticamente il campo di ricerca delle alternative.

Le concezioni fin qui esaminate sono tutte basate sull'ipotesi implicita che il soggetto, pur seguendo vie molto diverse l'una dall'altra, sia sempre in grado di formulare giudizi su cui fondare la decisione. Un'osservazione più attenta della realtà operativa, invece, dimostra che vi possono essere situazioni particolari in cui è impossibile, per mancanza di esperienza o perché troppo costoso prospettare le conseguenze attese in quanto l'azienda opera in aree decisionali in cui gli obiettivi possono essere esplicitati solo mediante l'azione, in cui non si hanno basi su cui costruire un processo razionale di scelta.

A tali complesse situazioni, non rare nelle aziende moderne a causa della dinamicità dell'ambiente economico in cui operano, può essere applicato il modello della " Garbage Can Theory" (Teoria della pattumiera). Esso cerca di sottolineare la mancanza di ordine nella formulazione delle decisioni a causa della complessità dei processi aziendali e della non completa conoscenza dei legami tra le variabili in gioco.

Il comportamento decisionale, secondo questa teoria, può essere rappresentato come la risultante dell'incontro casuale di alcune variabili:

* i problemi di scelta, percepiti da persone o gruppi all'interno o all'esterno dell'organizzazione,

* le soluzioni formulate da singoli componenti o da gruppi dell'organizzazione ed intese come azioni capaci di risolvere tali problemi,

* i partecipanti, cioè qualsiasi soggetto che abbia qualche interesse ad orientare la decisione e

* le "occasioni di scelta", cioè situazioni, formali o informali, in cui ci si attendono comportamenti decisionali.

Fatte queste premesse, il processo decisorio, dunque, potrebbe svolgersi nel seguente modo: nell'azienda possono essere individuati problemi di svariata natura (anche riferiti alla sfera privata dei soggetti) per i quali esistono soluzioni formulate

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da singoli componenti o da gruppi esterni o interni all'organizzazione ed esistono "occasioni di scelta" in cui problemi e soluzioni possono essere esaminati (riunioni formali, incontri informali, scadenze per fare il punto dell'attività) e portare ad una assunzione condivisa della decisione al problema evidenziato. Non esistendo una chiara attribuzione di responsabilità ed essendo possibile un cambiamento nel tempo e nei ruoli dei partecipanti all'organizzazione, qualunque di essi può farsi portatore di qualsiasi problema o soluzione di cui venga a conoscenza.

Contrariamente all'approccio per fasi, dunque, la "soluzione" dei problemi non è l'essenza del processo decisorio, ma essa entra in gioco solo quando si verifica l'incontro casuale dei quattro aspetti indicati, di cui i problemi sono solo una componente.

Ancora più estreme sono le conclusioni a cui giunge la teoria denominata "technology of foolishness".

La tecnologia dell'irrazionale afferma che quando si opera in condizioni di incertezza non si potrà certo contare su informazioni dettagliate, ma solo su un quadro generale di riferimento desunto da precedenti azioni ed esperienze già sperimentate ed acquisite. Quindi, secondo questo approccio concettuale, solo "decidendo" e "agendo" si possono ottenere informazioni utili per successive decisioni. Ciò capovolge il paradigma dell'approccio razionale in quanto la decisione non è più il risultato dell'elaborazione di informazioni conosciute, ma diventa un mezzo per ottenere le informazioni stesse.

In conclusione, l'approccio per fasi e l'approccio globale evidenziano realtà decisionali contemporaneamente presenti nelle aziende. Infatti è innegabile che nella realtà operativa i soggetti decisionali non seguono costantemente regole razionali esplicite, spesso adottano invece criteri informali di ragionamento. L'utilizzo dell'uno o dell'altro criterio, dipende dalle situazioni che si presentano: se esse sono ben definite, in genere, si ricorre a regole razionali esplicite, mentre se presentano caratteristiche di indeterminatezza vengono risolte ricorrendo a ragionamenti impliciti.

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D'altra parte già nelle prime opere di Simon emergeva la presenza in azienda di problemi che non potevano essere risolti con regole deterministiche. Egli, infatti, ha individuato all'interno delle aziende l'esistenza di decisioni programmate e di decisioni non programmate.

Questa distinzione si basa sul differente grado di strutturazione, chiarezza e ripetitività secondo cui i problemi si presentano. Le decisioni sono programmate quando si presentano con caratteristiche di routine: lo schema di riferimento per l'assunzione delle decisioni è sempre lo stesso e corrisponde ad una ben definita procedura. Le decisioni sono, invece, non programmate quando sono relative a situazioni complesse oppure a situazioni nuove o poco note e quindi il decisore non può far riferimento ad alcun schema precostituito.

Successivamente, Gorry e Scott Morton riprendono la classificazione di Simon, distinguendo tra decisioni strutturate e decisioni non strutturate, ed identificando inoltre la categoria delle decisioni semi - strutturate.

Sono "strutturate" le decisioni delle quali è possibile determinare a priori tutti gli elementi che le influenzano, e "non strutturate" quelle che dipendono invece anche da elementi soggettivi.

Tali Autori tuttavia, pur riconoscendo che non tutti i problemi sono risolvibili con regole deterministiche, ritenevano il ricorso a procedimenti non razionali un'eccezione, limitata alle decisioni non strutturabili che, secondo la concezione prevalente negli anni 60 e 70, erano considerate unicamente quelle riguardanti i grandi cambiamenti aziendali aventi forte valenza strategica. Concezioni più recenti, hanno invece evidenziato come anche decisioni di più limitata portata presentino caratteristiche di non strutturabilità e come su tale natura possa influire anche la personalità del decisore.

E' importante infine notare che, aldilà delle classificazioni, al centro del processo decisionale c'è pur sempre il soggetto decisore con la propria personalità e la propria tendenziale propensione all'approccio razionale o globale. In altre parole, per adottare regole deterministiche alla soluzione di problemi, è necessario che un problema presenti caratteristiche di strutturabilità, ma è anche necessario che ci sia

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una propensione del soggetto decisore a seguire procedimenti razionali, a scoprire relazioni di causa-effetto, a cercare di capire tutti gli aspetti di un problema, altrimenti anche di fronte a problemi potenzialmente strutturabili il soggetto tende a seguire approcci più indicati per problematiche di tipo non strutturabili.

Ciò conferma come, nell'analizzare il comportamento decisionale degli individui che operano all'interno dell'azienda, bisogna tener conto anche dei fattori "umani", in quanto capaci di influenzare, anche pesantemente, le scelte aziendali.

Possiamo pensare, perciò, all'esistenza di due poli antitetici all'interno dei quali si collocano i reali comportamenti decisionali: da un lato ci sono problemi e persone orientate alla strutturazione (e quindi ad incanalare il processo decisionale secondo l'approccio per fasi), nell'altro problemi e persone poco propensi alla strutturazione (e perciò più portate a comportarsi secondo gli schemi proposti dall'approccio globale).

Quest'ultima affermazione rafforza la convinzione che le teorie globali non siano sostitutive delle teorie razionali, ma ne costituiscano un importante complemento.

Bibliografia

H.A. Simon, The New Science of Management Decision, Harper & Row, New York, 1960

H. Mitzberg, The nature of managerial work, Harper & Row, New York, 1973

C.E. Lindblom, The policy making process, Prentice-Hall,Englewood Cliffs, 1980