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1 LA COMMISSIONE D'INCHIESTA PARLAMENTARE SULLE PERIFERIE: ALCUNE RIFLESSIONI (Scheda a cura di Sandro De Toni) La commissione d'inchiesta richiesta da Lupi (AP) per cavalcare le paure ed il senso d'insicurezza di parte dell'opinione pubblica con finalità anti-islamiche è stata felicemente riconvertita grazie alla proposta di Sinistra italiana (Doc XXII, n. 69 - Costantino), sostenuta da PD e M5S, in una Commissione d'inchiesta della Camera dei deputati sul disagio sociale delle periferie. La Commissione ha cominciato ad operare dal mese di gennaio 2017 sostanzialmente con audizioni e alcune visite sul campo. Dalle prime audizioni della Commissione emergono, oltre alla descrizione delle realtà periferiche delle 14 aree metropolitane italiane, sia pure in maniera ancora del tutto parziale, alcune tematiche di fondo. A- Cosa si deve intendere per “periferia”? Il concetto di periferia, infatti, non è univoco, cambia nel tempo e può essere legato sia alla dimensione geografica sia a fattori socio-economici. È cambiata la nozione di periferia, mettendo a nudo l'insufficienza dei criteri classici della distanza dal centro e dell'esistenza di uno stato di marginalità sociale ed economica. Più di questi fattori assumono oggi rilievo le condizioni della qualità urbana, misurata su parametri afferenti ai livelli di sicurezza, di fruibilità e di vivibilità e l'incidenza che su di essi possono avere i fenomeni sia di degrado sia criminali. Tutto ciò per dire che le periferie oggi non coincidono con i sobborghi esterni della cinta urbana, ma si identificano anche in quartieri incuneati nel centro metropolitano. Roma, Milano, Napoli, ma anche Genova e Torino recano significativi esempi di questa evoluzione. In sintesi, esistono due dimensioni dell'essere periferia. Una è la dimensione fisica della lontananza, della difficoltà di accessibilità, che pare decisamente più accentuata per la città di Roma. Esiste anche la forma di essere periferia sociale, cioè di essere distanti e lontani da alcuni fattori di qualità. Questo comporta che qualsiasi progetto, qualsiasi proposta facciamo per le periferie deve partire dal presupposto che non è più sufficiente un intervento puramente architettonico o urbanistico.

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LA COMMISSIONE D'INCHIESTA PARLAMENTARE SULLE PERIFERIE: ALCUNE RIFLESSIONI

(Scheda a cura di Sandro De Toni)

La commissione d'inchiesta richiesta da Lupi (AP) per cavalcare le paure ed il senso d'insicurezza di parte dell'opinione pubblica con finalità anti-islamiche è stata felicemente riconvertita grazie alla proposta di Sinistra italiana (Doc XXII, n. 69 - Costantino), sostenuta da PD e M5S, in una Commissione d'inchiesta della Camera dei deputati  sul disagio sociale delle periferie.

La Commissione ha cominciato ad operare dal mese di gennaio 2017 sostanzialmente con audizioni e alcune visite sul campo. Dalle prime audizioni della Commissione emergono, oltre alla descrizione delle realtà periferiche delle 14 aree metropolitane italiane, sia pure in maniera ancora del tutto parziale, alcune tematiche di fondo. A- Cosa si deve intendere per “periferia”?

Il concetto di periferia, infatti, non è univoco, cambia nel tempo e può essere legato sia alla dimensione geografica sia a fattori socio-economici.

È cambiata la nozione di periferia, mettendo a nudo l'insufficienza dei criteri classici della distanza dal centro e dell'esistenza di uno stato di marginalità sociale ed economica. Più di questi fattori assumono oggi rilievo le condizioni della qualità urbana, misurata su parametri afferenti ai livelli di sicurezza, di fruibilità e di vivibilità e l'incidenza che su di essi possono avere i fenomeni sia di degrado sia criminali.

Tutto ciò per dire che le periferie oggi non coincidono con i sobborghi esterni della cinta urbana, ma si identificano anche in quartieri incuneati nel centro metropolitano. Roma, Milano, Napoli, ma anche Genova e Torino recano significativi esempi di questa evoluzione.

In sintesi, esistono due dimensioni dell'essere periferia. Una è la dimensione fisica della lontananza, della difficoltà di accessibilità, che pare decisamente più accentuata per la città di Roma. Esiste anche la forma di essere periferia sociale, cioè di essere distanti e lontani da alcuni fattori di qualità. Questo comporta che qualsiasi progetto, qualsiasi proposta facciamo per le periferie deve partire dal presupposto che non è più sufficiente un intervento puramente architettonico o urbanistico.

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Dobbiamo ripensare la città non a misura di urbanista ma a misura di urbanità.

Decisiva è la partecipazione dei cittadini. Si potrebbe ricordare l'esempio del programma Cento piazze di Rutelli, esempio emblematico perché alcune di queste piazze hanno avuto successo, nel senso che gli abitanti hanno accolto con favore questi interventi, altre sono state addirittura osteggiate e per esempio al Quarticciolo una delle piazze sta per essere smantellata o gli abitanti propongono di farlo. In linea generale se nel luogo in cui vogliamo realizzare il nostro progetto esistono manifestazioni anche latenti di una vita collettiva, di relazioni sociali già sviluppate, di manifestazioni di convivialità, il progetto di una piazza o di una qualsiasi altra infrastruttura di servizio (un luogo per la musica, una biblioteca) possa addirittura far sviluppare questa tendenza latente alla vita collettiva; laddove invece non esista questa manifestazione anche in potenza, interventi di questo tipo rischiano di essere non soltanto fallimentari, ma addirittura controproducenti.

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B - Come classificare e misurare la marginalizzazione urbana?

Da un punto di vista statistico quella censuaria rappresenta a oggi l'unica indagine statistica diretta, in grado di fornire il livello di dettaglio necessario a un'analisi funzionale del territorio come quella richiesta dallo studio delle periferie. Soltanto i dati censuari permettono di osservare le differenze sociali ed economiche all'interno di un'area metropolitana analizzando partizioni territoriali minute, a un livello di dettaglio che le indagini campionarie non consentono.

Con i dati del censimento del 2011 si possono identificare i luoghi marginali delle città, dove più profondo è il disagio socio-economico. Per Roma, sono state utilizzate le 155 zone urbanistiche (ZU). Per Milano, sono state considerate le 88 aree che identificano i nuclei di identità locale (NIL).

Sono stati individuati 9 indicatori sia per tenere conto delle dinamiche demografiche sia per la loro capacità di intercettare le zone con maggior disagio. L’Istat intende approfondire il tema dei servizi e delle dotazioni del territorio, il tema delle reti e dell’associazionismo. Tra gli indici di cui tenere conto anche il BES (il sistema di indicatori per valutare il benessere), l’indice edificatorio, le opere di urbanizzazione, i valori immobiliari.

Inoltre, lo sguardo deve includere tutti i comuni limitrofi delle grandi città.

C - Alcuni dati sulle periferie

Complessivamente, nelle 14 Città metropolitane, dove vivono 20 milioni 400.000 abitanti, ben 2 milioni 350.000 abitanti delle Città metropolitane sono in comuni classificati come aree interne, quindi intermedi, periferici o ultra-periferici.

Complessivamente ci sono 425 comuni delle 14 Città metropolitane che fanno parte tecnicamente delle aree interne e si tratta di comuni che presentano caratteri propri dei territori meno serviti, meno accessibili e in maggiori situazioni di degrado, pur essendo dentro alle aree di influenza delle Città metropolitane, quindi si tratta delle nuove periferie in maggiore sofferenza nelle nostre regioni urbane, che normalmente non vengono percepite come parti della città o come nodi problematici.

Riguardo a Milano, per esempio, oggi bisogna considerare, secondo l'OCSE e secondo tutti gli osservatori, almeno dieci province che appartengono a tre regioni diverse e addirittura due nazioni, perché l'area del Ticino, di fatto, gravita su Milano. In questo territorio, così riarticolato e così cambiato, si formano periferie interne, che sono segnalate appunto da questi dati e che è molto importante cercare di tenere sotto osservazione. Nelle zone periferiche si registra una maggiore presenza di fasce di età giovanili. Salvo che nelle cosi dette “periferie centrali” (ad esempio, all’Esquilino a Roma) dove c’è coesistenza tra una forte presenza di anziani ed un altrettanto significativa presenza di giovani immigrati. Comunque, nel loro complesso, in Italia, gli abitanti delle periferie rappresentano attualmente il 60 per cento della popolazione e questo dato potrebbe aumentare incontrovertibilmente a causa dell'enorme crisi del sistema liberistico che si è cristallizzato in disoccupazione, speculazione edilizia, aumento del costo della vita, tendenza alla disgregazione e all'esclusione sociali, accompagnata dai mutamenti geopolitici internazionali e dall'arrivo nel nostro paese di persone che sfuggono da contesti di guerra o carestia, dando vita a discriminazioni e ghettizzazioni verso le nuove povertà che si intrecciano in questi contesti urbani più svantaggiati, sia da parte del «centro»

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verso la periferia, che all'interno dello stesso tessuto sociale che quelle periferie le popola.

D - Le “periferie esistenziali”

Le città sono fatte sempre più di quartieri isola, molto poveri di luoghi di incontro e spesso molto abbandonati dal punto di vista urbanistico. La gente vive sempre più tra il posto di lavoro, quando c'è, e i centri commerciali, con un'accentuazione dell'impoverimento del tessuto umano che è la vera protezione per i deboli. La difficoltà degli spostamenti sottrae tempo alla vita familiare. Quindi, nelle periferie il primo problema che forse incontriamo è quello di un mondo in cui la gente è sola, con un accentuato individualismo. Per i poveri e per i più deboli la solitudine diventa una povertà in più, per cui passiamo dalla solitudine a quello che viene chiamato l'isolamento sociale. Gli anziani, in particolare, costituiscono un importante problema emergente e vengono sempre più espulsi dal tessuto sociale e collocati in istituzioni periferiche. Negli ultimi anni stiamo assistendo al prolificare di istituzioni alloggiative irregolari, molto spesso poste oltre gli anelli (per quanto

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riguarda Roma, il raccordo anulare) o comunque in estrema periferia o in aperta campagna, dove gli anziani vengono allontanati. Pochissimi gli anziani che dispongono dell’assistenza domiciliare.

Invece, c'è un problema dei giovani, soprattutto i giovani NEET, che ormai costituiscono 1,3 milioni di persone in Italia, che si ritirano nel virtuale o in aggregazioni come bande connotate spesso da violenza.

Inoltre, dobbiamo registrare la crisi delle reti sociali. L'associazionismo è molto ridotto rispetto a venti o trenta anni fa, a cui si aggiunge la crisi della presenza dei partiti istituzionali sul territorio. Restano le parrocchie e i centri anziani che aggregano tuttavia una certa fascia di anziano, quello che oggi diremmo l'anziano giovane, non quello old old. Poi ci sono aggregazioni di tipo etnico e religioso, che sono i nuovi luoghi di culto, quindi moschee, comunità di tipo neo-pentecostale o anche da definire. Non raramente il controllo del territorio, soprattutto nelle parti più periferiche, è esercitato da reti di piccola o grande criminalità. Nelle periferie si rilevano i valori più elevati del tasso di disoccupazione in parallelo con valori elevati dell’indice di non completamento del ciclo della scuola secondaria di primo grado.

La stessa manutenzione dei quartieri, la possibilità di attività latenti, soprattutto dal punto di vista culturale (musica, lettura, teatro), è quindi importantissimo. Si deve riuscire ad utilizzare i giovani in queste attività che potrebbero produrre un certo reddito a livello locale, cioè chi taglia l'erba, chi pota le siepi, chi fa manutenzione dei vialetti. Tutto deve partire dal quartiere, se invece il modello viene importato, è molto probabile che fallisca.

E - Immigrati e Rom

Si registra una forte presenza di immigrati nelle periferie. Si tratta di insediamenti che, seppure concentrati e con caratterizzazioni immediatamente riconoscibili, non assumono dimensioni tali da costituire veri e propri quartieri autonomi.

Gli irregolari sono un tema significativo, anche perché noi calcoliamo che siano un numero importante (mezzo milione). Si tratta di un dato assolutamente «spannometrico», perché non c'è alcun dato statistico reale. Pensiamo a tutti quelli che fuoriescono dal circuito dell'accoglienza perché sono stati denegati della possibilità di accedere alla protezione umanitaria. Pensiamo al fenomeno, che molto spesso trascuriamo, delle persone che si trattengono irregolarmente a fronte di un ingresso regolare. Parliamo degli overstayer, ossia coloro che, alla fin fine, da un punto di vista numerico, sono notevolmente superiori a quelli che provengono con i barconi.

Oggi, purtroppo, nel nostro Paese, a fronte di una forte anemizzazione del decreto flussi, non ci sono forme lecite di ingresso nel nostro territorio. Quindi, ci troveremo sempre più con un numero significativo di irregolari che troveranno con sempre più difficoltà percorsi di integrazione.

Un tema rilevante su cui bisognerebbe riflettere è quello delle scuole, dove c'è un'altissima concentrazione di alunni di origine immigrata. In alcune scuole milanesi si arriva al 90 per cento. Tuttavia, c'è un duplice fenomeno, dal momento che alcuni di questi bambini sono immigrati per modo di dire perché sono seconde o terze generazioni, quindi sono nati in Italia. Qui c'è un deficit giuridico: il discorso dello ius soli e dello ius culturae aiuterebbe l'integrazione perché questi bambini sarebbero cittadini, ma in Italia non lo sono. Questo dà una lettura deformata della realtà.

La presenza di associazioni e centri che prestano assistenza agli stranieri non si riscontra in tutte le periferie. Si segnala comunque una presenza abbastanza diffusa di centri islamici.

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Oggi la radicalizzazione islamica nel nostro Paese avviene sul web e nelle carceri. Gran parte di questi soggetti hanno un rapporto con la religione assolutamente strumentale, intanto perché il Corano molto spesso non sanno nemmeno dove sta di casa. Conducono molto spesso delle vite che non sono quelle dell'ortodossia coranica.

La radicalizzazione non passa necessariamente da una condizione di disagio economico. Ci sono fior fiori di terroristi che provengono da famiglie molto agiate. La radicalizzazione è una risposta alla propria condizione di marginalità sociale, che è tipica, per esempio, delle seconde e terze generazioni, le quali a volte non si sentono più legate ai luoghi di origine e non si sono viste realizzate nelle condizioni del Paese che le ha accolte.

Certamente ci vuole una buona politica sui luoghi di culto musulmani. Chiudere quelli in cui non ci sono seri problemi di ordine pubblico per motivi di percezione dell'opinione pubblica rappresenterebbe un grave errore. In questo momento dobbiamo prendere atto che le moschee non sono il luogo in cui si radicalizzano i giovani, ma sono il luogo che contiene l'estremismo giovanile. Pertanto, abbiamo interesse a far sì che esistano e che permettano ai giovani di ritrovarsi. Tant'è vero che i giovani estremisti non vanno in moschea. Non ci vanno perché sentono dire cose contro la violenza che non condividono.

Abbiamo peraltro avuto una recrudescenza di violenza da parte di italiani contro i bengalesi, una popolazione mite e tranquillissima a Roma, che hanno subìto moltissima violenza.

I Rom rappresentano un piccolo popolo di bambini e giovani, con un'età media inferiore a 45 anni. In realtà, non sono nomadi ma vorrebbero stabilizzarsi e fermarsi.

Essi sono situati nei campi regolari o abusivi. Alcuni campi sono caratterizzati da una popolazione cospicua, dedita spesso al rovistaggio dei contenitori dei rifiuti finalizzato alla ricerca di oggetti e materiali, in particolare di quelli ferrosi suscettibili di recupero. Le ricadute di tali attività riguardano la combustione dei residui scartati, che determina fenomeni di inquinamento ambientale.

I rom nella città metropolitana di Napoli vivono in discariche della spazzatura in cui l'allacciamento all'energia elettrica è del tutto casuale, fortuito e pericoloso. La regione Campania è oggetto di una procedura sanzionatoria da parte dell'Unione europea perché non esiste se non un esempio di campo attrezzato.

F - Criminalità e sicurezza

Un ruolo centrale è occupato dallo spaccio di droghe con l’utilizzo di zone franche e l’occupazione abusiva di immobili pubblici usati come basi per smistare la droga verso i quartieri della movida (ad esempio, il comparto R9 di Tor Bella Monaca).

Dal punto di vista dei fenomeni di criminalità diffusa il capoluogo lombardo presenta alcune peculiarità. La più evidente è la presenza delle bande giovanili formate da sudamericani che si rendono protagoniste di reati predatori, nonché di risse e aggressioni perpetrate soprattutto nei parchi, presso le fermate della metropolitana e delle aree di circostanza e nei luoghi di aggregazione. La logica di queste azioni violente è la conquista del predominio su porzioni di territorio e sui traffici criminali che su di essi si sviluppano, tra cui anche lo spaccio della droga.

In alcune realtà (tra le quali Napoli, Palermo, Bari) si innesta il radicamento storico della camorra o della mafia, o di altre organizzazioni criminali, che mirano ad affermare il controllo, anche di tipo

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militare, su aree della città considerate essenziali per i loro traffici illeciti. In questo contesto i duri colpi inferti dalle forze di polizia ai clan, con la cattura di esponenti di spicco e di elementi di più basso livello criminale, hanno determinato vuoti di potere all'origine degli scontri tra i diversi sodalizi alla ricerca dell'affermazione della propria egemonia.

Nei quartieri dove è più forte il disadattamento giovanile la criminalità organizzata esercita una forte attrattiva anche nei confronti dei minori, favorendone l'ingresso nei propri ranghi per impiegarli nei traffici tipici della microcriminalità, nel traffico di armi o per il controllo delle piazze dello spaccio.

Insieme ai fenomeni di criminalità organizzata la situazione delle periferie napoletane è caratterizzata da una marcata presenza della delinquenza comune dedita soprattutto a reati predatori. In questo contesto si inserisce il fenomeno delle baby gang, che, in una perversa logica di emulazione dei gruppi camorristici, ricorrono a forme di accentuata violenza per commettere atti di bullismo ai danni di persone e di vandalismo ai danni degli edifici pubblici, in particolare di quelli scolastici.

Tra le mafie storiche la ’ndrangheta (Reggio Calabria) è sicuramente quella più pericolosa, per le sue caratteristiche claniche e fortemente verticistiche, che rendono più difficile la penetrazione investigativa. Sebbene articolata su base territoriale, la ’ndrangheta tende ad agire con processi decisionali unitari, strategicamente finalizzati ad assicurare compattezza ed efficacia d'azione anche in contesti diversi da quelli di origine, dove non può essere realizzato il controllo militare del territorio. I variegati interessi criminali perseguiti da questa consorteria, spaziano dai settori più tradizionali del narcotraffico, del riciclaggio dei capitali sporchi e dell'ingerenza nella cosa pubblica a campi più nuovi, quale la gestione dei giochi leciti e delle scommesse e le attività economiche nel campo delle energie alternative. Queste attività illecite, seppur estremamente lucrose, non hanno comunque indotto la ’ndrangheta ad abbandonare la sua dimensione più locale, ancorata al controllo del territorio di origine attraverso l'estorsione e l'usura praticata ai danni del tessuto imprenditoriale e commerciale. G - La gestione del patrimonio edilizio pubblico

Non c'è dubbio che i progetti di edilizia residenziale pubblica siano di gran lunga superiori a quelli dei privati. Vedi gli interventi di Tor Bella Monaca, di Corviale, di Laurentino 38 (tanto per fare degli esempi a Roma). Nonostante le condizioni di degrado sociale, siamo di fronte a progetti che sul piano architettonico formale sono notevoli, mentre sul piano urbanistico spesso si riscontra una carenza di infrastrutture e di servizi, e questo è uno dei motivi, delle cause o delle concause di fallimento degli interventi di edilizia pubblica. Si deve registrare il fenomeno assai diffuso delle occupazioni abusive perpetrate ai danni degli edifici dell'edilizia residenziale pubblica rimasti temporaneamente liberi in attesa della loro presa in consegna da parte dei legittimi assegnatari.

Ad esempio, a Roma le occupazioni cubano mediamente, vuoto per pieno, 6.000 persone.

C’è dunque una carenza generale di gestione del patrimonio edilizio pubblico. Una delle concause principali del degrado è il mancato controllo nell'assegnazione degli appartamenti da parte degli enti che dovrebbero farlo. C'è una sorta di autogestione di questi appartamenti; interi palazzi e condomini decidono chi debba occupare gli appartamenti che rimangono liberi e chi non debba farlo, e questo è un problema enorme, perché è chiaro che si favorisce un'attività illegale di privatizzazione di questi beni pubblici: un problema rilevante su cui si deve intervenire, altrimenti

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questo regime dilaga nel quartiere.

H - Gli interventi della pubblica amministrazione È del 1980 la sentenza della Corte costituzionale che rimette in fila tutto il nostro ordinamento relativo agli espropri. Sulla base di questa sentenza, c'è una serie di ricorsi, che hanno portato a un grosso esborso di denaro pubblico da parte del comune, per ristorare la proprietà. È in quegli anni che si blocca la macchina dell'intervento pubblico, cioè tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta abbandoniamo gli interventi pubblici per ripiegare su una visione più privatistica.

La funzione di indirizzo e di controllo da parte delle amministrazioni pubbliche crolla. Tutto ciò che viene fatto all'interno di piani di zona viene fatto su iniziativa delle imprese, che si consorziano e hanno, da parte dell'amministrazione comunale, l'affidamento dei terreni. Si delega ai privati sia tutta la fase localizzativa, quella del disegno complessivo della città, sia la parte attuativa. Ad esempio, a Roma, nei 55 piani di zona abbiamo così strade non asfaltate a fronte del completamento degli edifici privati, ed abbiamo ancora problemi di fognature. È come se la città abusiva avesse invaso, anziché essere il contrario, la parte pubblica.

Per recuperare le periferie, tutti gli esempi stranieri, anche qualcuno italiano, più interessanti sono quelli di aprire la leva dell'infrastruttura pubblica. Sarebbe importante per diminuire i tempi per arrivare nei luoghi di lavoro trovare le forme di finanziamento per dotare le nostre città di mezzi di trasporto collettivi.

Se l'unico strumento è quello della valorizzazione fondiaria, se nel nostro orizzonte culturale c'è solo la speranza che aumentando le densità, allora forse il privato ci farà la carità di darci quel servizio o quella linea di trasporto che mancano, non riusciremo ad andare da nessuna parte.

Esiste il tema dell'utilizzo strategico del patrimonio pubblico esistente, del demanio esistente, statale, militare, con la verifica degli accordi in itinere con l'autorità della difesa, regionale e comunale.

Insomma, si tratta del tema della città pubblica come tema centrale nella gestione delle città. Occorre aumentare gli strumenti per la parte pubblica delle città, quindi per la realizzazione dei servizi.

Il pubblico si deve ritagliare uno spazio per l’acquisizione delle aree.

Ad esempio, non è scritto in nessuna legge che le opere di urbanizzazione primaria e secondaria si debbano realizzare prima degli immobili residenziali stessi. Probabilmente con questo vincolo riusciamo a prevenire un po’ di degrado.

I - Le politiche messe in atto sulle periferie

L'impulso è venuto dalla Commissione europea, che ha svolto un ruolo di catalizzatore, di soggetto capace di prendere le migliori esperienze fatte in Francia, in Gran Bretagna e in nord Europa e diffonderle attraverso i programmi di lotta alla povertà degli anni Ottanta, che sono diventati gli Urban pilot project della fine degli anni Ottanta e poi i programmi Urban per poi estendersi in Italia e in molte aree d'Europa.

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Per quanto riguarda il nostro Paese, gli interventi sono stati molteplici: se prendiamo in considerazione il periodo dai primi anni Novanta, quando c'è stato questo impulso, a oggi, c'è una lista molto lunga di programmi:

- programmi integrati di intervento del 1992;

- programmi di recupero urbano del 1993;

- programmi di riqualificazione urbana del 1994;

- contratti di quartiere del 1997;

- Urban-Italia del 2000;

- contratti di quartiere II del 2001;

- programmi di riqualificazione urbana del 2002;

- zone franche urbane del 2006; piano città del 2012;

- il piano nazionale per la riqualificazione e rigenerazione delle aree urbane degradate del 2015;

- programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie del 2016, quello più recente.

Per i programmi di recupero urbano, abbiamo utilizzato anche alcuni pochi strumenti di valutazione – perché è stato molto raro il lavoro di una vera e propria valutazione di questi programmi – e alcune ricerche, come appunto quella che poi è confluita nel rapporto Censis del 2015. Sui programmi di recupero urbano (PRU) del 1993, che venivano da misure urgenti per l'accelerazione degli investimenti a sostegno dell'occupazione, e sottolineo anche la varietà delle caratteristiche di questi strumenti: 283 programmi per 500 milioni di euro, senza criteri di selezione e semplicemente con un giudizio dato dal CER.

Per i programmi di riqualificazione urbana (PRiU), che venivano da Programmi di riqualificazione urbana a valere sui finanziamenti della legge del 17 febbraio 1992, abbiamo 87 programmi per 300 milioni di euro. In questo caso, c'era un unico criterio: il 70 per cento dei fondi doveva andare nelle città con più di 300.000 abitanti e il 30 per cento a città inferiori a 300.000 abitanti.

Il programma Urban I in Italia ha prodotto 18 programmi per 330 milioni di euro, mentre il programma contratti di quartiere I, che è stata la prima forma di intervento, nella legge finanziaria del 1996 (Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica), ha prodotto 58 programmi per 350 milioni di euro, in parte da fonti Gescal.

Dopo il successo del programma Urban, che con poche risorse (soltanto 900 milioni) è riuscito a produrre a livello europeo un grosso fermento, l'intenzione della Commissione era di non proseguire con questo programma ed è stato il Parlamento a chiedere di rinnovarlo e di realizzare il programma Urban II. In Italia, ci sono stati dieci programmi con 174 milioni di euro. Poi, c'è stato il Programma Urban-Italia. Le domande anche in Italia erano state molte, quindi si è deciso di finanziare altri 20 programmi, oltre i 10 che erano stati ammessi al programma europeo, con 103 milioni di euro. I contratti di quartiere II, che sono stati la seconda edizione, hanno prodotto 184 programmi per

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1.288 milioni di euro con fondi Gescal. Per le zone franche urbane, ci sono stati 23 programmi per 605 milioni di euro.

C'è stato il piano nazionale per le città del 2012. Anche in questo caso, c'è stato il decreto-legge recante Misure urgenti per la crescita del Paese, quindi non strumenti specifici, e sono stati prodotti 28 programmi per 318 milioni di euro.

Con D.M. n. 273 del 27.04.2016 sono stati stanziati 10 milioni di euro per la realizzazione di interventi per la prevenzione della dispersione scolastica nelle zone periferiche delle città metropolitane caratterizzate da elevato tasso di dispersione scolastica. Il Decreto riporta i criteri stabiliti e le modalità per l’avvio di un programma sperimentale di didattica integrativa e innovativa da realizzare in orario extra-curricolare nelle istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado delle aree delle città metropolitane di Roma, Milano, Napoli e Palermo. Le istituzioni scolastiche sono state chiamate a candidarsi per ricevere un finanziamento, nel limite massimo di euro 15.000,00 (quindicimila), presentando un progetto di didattica integrativa e innovativa (entro il 20 giugno 2016).

La legge n. 185/2015 ha istituito il Fondo "Sport e Periferie", da 100 milioni di euro nel triennio 2015-2017. Per individuare gli interventi da proporre alla Presidenza del Consiglio, il CONI aveva invitato chiunque a segnalare entro il 15 febbraio 2016 le proprie proposte di intervento: sono arrivate 1.681 proposte, per circa 1 miliardo e 300 milioni di euro di richieste di contributo, mentre gli interventi finanziati sono 183.

Con il Decreto legge n. 83 del 2014, è stato previsto che a decorrere dal 2014, una quota pari al 3 per cento delle risorse aggiuntive annualmente previste per le infrastrutture e iscritte nello stato di previsione della spesa del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti sia destinata alla spesa per investimenti in favore dei beni culturali, ma ben poco è previsto per le periferie: per il triennio 2015-2018, 3 milioni di euro di queste risorse sono destinati a finanziare progetti culturali nelle periferie urbane elaborati dagli enti locali. Poi c'è stato il piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate del 2015, con 200 milioni di euro, che sono in corso di assegnazione. Infine, c'è stato il programma per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie. È appena terminata la fase di valutazione per questi ultimi due. Sappiamo che l'ammontare della cifra è di 200 milioni nel primo caso e di 500 milioni di euro nel secondo.

Con i 500 milioni di cui sopra, stanziati dalla legge di stabilità per il 2016 (legge n. 208/2015 - commi 974-978), si sono finanziati i primi 24 progetti classificati su un totale di 120 progetti presentati dai Comuni capoluogo di Provincia e dalle Città metropolitane. Tutti questi progetti sono stati accettati per una somma complessiva pari a circa 2.061 milioni.

Uno schema di D.Lgs. attualmente al parere del parlamento (AG n. 409) introduce un finanziamento ulteriore per 800 milioni in 3 anni (270 mln per il 2017 e il 2018; 260 mln per il 2019) attingendo al Fondo di cui al comma 140 del Bilancio 2017 (legge n. 232/2016), istituito per assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, che include tra le proprie finalità gli "i) investimenti per la riqualificazione urbana e per la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia" .

All'appello per completare e finanziare tutti i 120 progetti mancherebbero dunque, circa 761 milioni che un nostro emendamento al decreto legge n. 50/2017 (la cd. "manovrina") prevede di erogare in

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tre anni attingendo al Fondo per gli investimenti citato. Complessivamente, negli ultimi 20-25 anni, sono stati stanziati quasi 5 miliardi di euro, quindi parliamo di flussi finanziari piuttosto consistenti. I provvedimenti sono stati sempre di diversa natura (articoli di legge finanziaria, DPCM, decreti ministeriali), senza una continuità dei soggetti responsabili. La valutazione è stata scarsa e piuttosto episodica. I comuni si sono trovati, nella generalità dei casi, impreparati e hanno proposto progetti che avevano già nel cassetto, predisposti per altre finalità. Gli indicatori da rispettare per la selezione delle aree di intervento hanno rappresentato un filtro molto debole, quando c'è stato questo filtro. La capacità dei comuni di partecipare con successo ai bandi è stata estremamente disomogenea. C'è stata anche una fase di concentrazione temporale fino al 2000 e poi una fase di interruzione dal 2000 al 2012, mentre adesso c'è una nuova fase di concentrazione di interventi.

J - Alcune prime proposte della Commissione in merito alle politiche per le periferie

1. È molto importante riuscire a selezionare con maggiore accuratezza gli indicatori da utilizzare per individuare le aree critiche del Paese, perché, lavorando su tutto il territorio nazionale con gli stessi strumenti e con le stesse misure e introducendo elementi per cui in ogni regione ci devono essere alcuni programmi, si ottengono risultati non interessanti dal punto di vista dell'efficacia sugli interventi.

2. Assumere come priorità le aree nelle quali il rischio socio-economico si incrocia con il rischio naturale.

3. Un terzo aspetto consiste nel cercare di costruire un quadro stabile di politiche di prevenzione delle fragilità legate al rischio socio-economico, che non debbano essere affidate a strumenti così diversi e a soggetti anche così diversi.

4. La questione della capacità progettuale dei comuni è molto importante: bisogna finanziare studi di fattibilità degli interventi sulle aree critiche per stimolare una progettualità efficace, con un canale distinto dal finanziamento dei bandi, cosa che ci sembra un fatto molto importante.

5. C'è una stagione recentissima, molto difficile in questo momento valutare, quella dei patti per le città. L'impressione in questo momento è che si tratti di un importante accordo governo centrale e città, ma, allo stesso tempo, non si vedono ancora chiaramente i criteri e le priorità, che possano essere inserite all'interno di questo modo di costruire i rapporti centro-periferia, a livello delle politiche urbane. 6. Se andassimo sulle aree interne, troveremmo una situazione non particolarmente diversa e più complessa per capire che cosa si può fare, perché ci sono: programmi leader; progetti territorio snodo; patti territoriali; contratti d'area; strategia nazionale per le aree interne, forse la politica più strutturata in merito; masterplan per il Sud; iniziative dell'Unesco. In questo caso, abbiamo un elenco molto ampio di interventi e soggetti molto diversi che intervengono, quindi è più difficile capire quali potrebbero essere le soluzioni, mentre su un bagaglio ormai consolidato di esperienza e di riflessione, come quello degli interventi sulle periferie urbane, forse ormai siamo arrivati a un punto in cui si capisce quali sono gli elementi di debolezza e forse il tema rilevante è capire come trasformare questa comprensione in azione politica.

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7. Serve una strategia, una visione a medio termine. Questo richiede di conseguenza una struttura, che deve essere stabile. Serve un presidio politico stabile con una struttura amministrativa stabile, che debba essere presso la Presidenza del Consiglio, perché questa è una tipica attività su cui c'è un coordinamento di amministrazioni diverse. Abbiamo avuto il Ministero per i problemi delle aree urbane per pochissimi anni e un Dipartimento per qualche anno ancora, ma poi, di fatto, non c'è stato più nessun presidio specifico su questi temi.

K - L’istituzione della “Città metropolitana”

Per affrontare tematiche come il disagio sociale servono interventi che hanno bisogno di tempi lunghi e obiettivi certi: si potrebbe utilizzare l'istituzione "Città metropolitana". Essa consentirebbe di fare un'analisi delle complessità del sistema, delle differenze tra territori, per poi capire come su alcune cose andare anche oltre il confine comunale.

Infatti, queste città spesso non sono policentriche. La rete dei servizi è diradata. Servirebbe un sistema di mobilità adatto a cucire o collegare questa dispersa condizione insediativa, con problemi di intervento sulla rigenerazione urbana dei tessuti senza consumo del suolo.

Le Regioni a cui spettano gran parte delle competenze in materia, possono continuare da essere il potere democratico sul territorio?

Abbiamo una funzione amministrativa separata in due, qualcosa fa il municipio, qualcosa fa il comune, e poi c'è una regione che svolge le funzioni di indirizzo e di programmazione dello sviluppo, di indirizzo e di programmazione sulla sanità, sulle questioni urbanistiche e anche sulla gestione delicatissima dei fondi nazionali del trasporto e della casa. Infatti, i fondi nazionali per il trasporto e per la casa che vengono distribuiti alle regioni arrivano ai comuni mediamente tre anni e quattro anni dopo.

L - La proposta di Sinistra Italiana: un Piano decennale per la riqualificazione delle periferie (AC 3900)

Il carattere strutturale delle periferie della città globalizzata impone politiche di carattere radicale, che affrontino il problema del modello di sviluppo e dell'organizzazione complessiva delle città. Infine, siano esse luoghi di assenza di progetto, ovvero territori abbandonati, di scarto, di accumulo di funzioni «indesiderate», oppure, nel caso dei quartieri di edilizia pubblica, luoghi di cristallizzazione dell’iper-progetto, espressione di un'epoca storica e di un'ideologia dell'intervento esperto-risolutore, le periferie contemporanee sono oggi luoghi dell'assenza del progetto pubblico e delle istituzioni e dove è venuta meno la mediazione politica. Al tempo stesso, vedono sorgere al proprio interno progettualità molteplici, con fini eterogenei e plurali. Nella periferia registriamo una proliferazione di movimenti, comitati e di associazioni locali, ma anche pratiche non organizzate che si occupano della riqualificazione urbana, della questione abitativa, delle condizioni di vita nei propri quartieri e altro. Si moltiplicano esperienze di autorganizzazione urbana, che spesso implicano anche forme di riappropriazione degli spazi, siano essi edifici abbandonati e dismessi, luoghi pubblici, terreni incolti o altro.

Sono gli abitanti delle periferie che creano relazioni, "fanno luogo", fanno la città.

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Decisiva sarà la partecipazione dei cittadini. Le soluzioni devono corrispondere alle vere domande e richieste provenienti dai cittadini che vivono nei quartieri periferici. La progettualità dal basso deve diventare parte integrante del progetto di trasformazione della città ma è anche vero che l'assenza delle istituzioni nei territori costituisce un problema di prima grandezza e va rimossa innanzitutto la farraginosità del sistema istituzionale locale, in particolare nelle aree metropolitane.

Per redigere la nostra proposta di legge abbiamo utilizzato alcune lenti (sei) attraverso le quali reinterpretare e leggere un reale processo di riqualificazione urbana delle periferie: progetti per l'occupazione nell'ambito di un'economia territoriale sostenibile, welfare, uso del patrimonio pubblico e accesso alla cultura, all'ambiente e alla sicurezza. Senza un progetto per creare occupazione e dare lavoro qualunque politica di contrasto al degrado delle periferie è monca e perde di vista l'aspetto centrale della questione: la spazializzazione dei disagi sociali non può nascondere che la marginalità è strettamente collegata alla disoccupazione e alla precarietà lavorativa. Il Piano nazionale istitutivo della presente proposta di legge per le periferie è un piano decennale che prevede inoltre una collaborazione tra le progettualità dal basso e le istituzioni e fa dell'esperienza del bilancio partecipativo il propulsore centrale della partecipazione. Le periferie vanno riprogettate, non rammendate. Proprio le nostre periferie possono diventare un modello propulsore verso un nuovo modello di città, di architettura, di relazioni umane e di qualità della vita. Il provvedimento prevede dunque un Piano nazionale decennale per la rigenerazione delle periferie delle aree metropolitane (aree metropolitane di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Cagliari, Palermo e Catania) dove più acuto è il degrado sociale, culturale e urbanistico tramite programmi integrati e con una spesa di 2 miliardi l'anno per un totale di 20 miliardi nel decennio.

Per finanziare tale Piano si prevede l'introduzione della cd. «web tax», la riduzione della franchigia sulle imposte di successione, una minore deducibilità per gli istituti di credito degli interessi passivi e l'incremento dell'aliquota per il calcolo delle ritenute e delle imposte sostitutive sugli interessi, premi e ogni altro provento di capitali dal 26 al 28 per cento.