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1 Operpast16def La misericordia di Dio nella Bibbia Il primo testamento Gen 4, 1- 16 Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore”. Poi partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo”. Caino disse al fratello Abele: “Andiamo in campagna! ”. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello? ”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? ”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”. Disse Caino al Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”. Ma il Signore gli disse: “Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte! ”. Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden. Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora. (Lettera agli Ebrei) Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino di Eden finalmente avviene qualcosa di positivo, la nascita di un figlio, il cui nome è spiegato secondo un'etimologia popolare espressione della religiosità'Ho acquistato un uomo dal Signore'" : poiché in ebraico qanah significa acquistare, il nome Caino esprime l’idea che concepire un figlio è avere un dono di Dio. "Poi Eva partorì ancora suo fratello Abele". Il personaggio principale del racconto è sin dall'inizio Caino. Abele non è presentato come figlio di Adamo ma come fratello di Caino e la parola fratello è ripetuta ben sette volte lungo il racconto. L'autore del racconto pone al centro la realtà della fraternità. Come Adamo ed Eva sono prototipi della umanità, così Caino ed Abele lo sono della fraternità, gli uomini cioè sono tra loro fratelli. Di Abele inoltre non si spiega il significato etimologico, anche perché più che un nome proprio è un nome comune, che ha pertanto una valenza simbolica. In ebraico hebel significa "respiro" "alito" e ritorna spesso nel libro del Qoelet: "Tutto è hebel", tutta la realtà è inconsistente, è un "soffio", ha la consistenza di un alito. "Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo". Sullo sfondo del rapporto tra questi due fratelli c'è anche il rapporto tumultuoso di due popoli: gli ebrei delle origini erano pastori seminomadi, che solo in seguito diventarono sedentari stanziandosi

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Operpast16def

La misericordia di Dio nella Bibbia

Il primo testamento

Gen 4, 1- 16

Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un

uomo dal Signore”. Poi partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino

lavoratore del suolo.

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì

primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì

Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a

Caino: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo

alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma

tu dòminalo”. Caino disse al fratello Abele: “Andiamo in campagna! ”. Mentre erano in campagna,

Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è

Abele, tuo fratello? ”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? ”. Riprese:

“Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da

quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il

suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”. Disse Caino al

Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questo

suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi

incontrerà mi potrà uccidere”. Ma il Signore gli disse: “Però chiunque ucciderà Caino subirà la

vendetta sette volte! ”. Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque

l’avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.

Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato

giusto, attestando Dio stesso di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora. (Lettera

agli Ebrei)

Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino di Eden finalmente avviene qualcosa di positivo, la

nascita di un figlio, il cui nome è spiegato secondo un'etimologia popolare espressione della

religiosità'Ho acquistato un uomo dal Signore'" : poiché in ebraico qanah significa acquistare, il

nome Caino esprime l’idea che concepire un figlio è avere un dono di Dio. "Poi Eva partorì ancora

suo fratello Abele".

Il personaggio principale del racconto è sin dall'inizio Caino. Abele non è presentato come figlio di

Adamo ma come fratello di Caino e la parola fratello è ripetuta ben sette volte lungo il racconto.

L'autore del racconto pone al centro la realtà della fraternità. Come Adamo ed Eva sono prototipi

della umanità, così Caino ed Abele lo sono della fraternità, gli uomini cioè sono tra loro fratelli. Di

Abele inoltre non si spiega il significato etimologico, anche perché più che un nome proprio è un

nome comune, che ha pertanto una valenza simbolica. In ebraico hebel significa "respiro" "alito" e

ritorna spesso nel libro del Qoelet: "Tutto è hebel", tutta la realtà è inconsistente, è un "soffio", ha la

consistenza di un alito.

"Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo".

Sullo sfondo del rapporto tra questi due fratelli c'è anche il rapporto tumultuoso di due popoli: gli

ebrei delle origini erano pastori seminomadi, che solo in seguito diventarono sedentari stanziandosi

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in una terra popolata dai cananei che erano agricoltori. Secondo alcuni il racconto di Caino e Abele

sarebbe stato alle origini un racconto sociale, che all’inizio ha alle spalle uno scontro fraterno.

Il peccato originale, originale non tanto in quanto cronologicamente primo ma in quanto

rappresenta l'essenza stessa del peccato, comune pertanto a tutti i peccati, mentre in Adamo ed Eva

era visto nel rapporto dell'uomo con se stesso, come rifiuto del proprio essere creatura, come sogno

di onnipotenza: basto a me stesso, non ho bisogno di Dio, chi è questo Dio che vuol stare sopra di

me?! Qui nell’episodio dell’assassinio di Abele, il peccato è visto nella sua caratteristica sociale, a

partire dal rapporto dell'uomo di fronte al fratello in quanto altro. "Dopo un certo tempo, Caino offrì

frutti del suolo in sacrificio al Signore. Anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro

grasso" (diversità delle offerte) "Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la

sua offerta". È qui presentata una diversità un po' umiliante per Caino e gratificante per Abele. Non

si spiega il motivo del diverso accoglimento e se non lo si spiega vuol dire che non è questo

l'aspetto più importante o interessante. "Caino ne fu molto irritato" Caino la prese proprio male,

non riesce ad assorbire la frustrazione, non accetta l'umiliazione. "e il suo volto era

abbattuto" L'immagine è quella di uno che cammina con la testa bassa e con lo sguardo fisso a

terra. Interviene di nuovo il Signore, che in una lettura laica, al di là di riferimenti religiosi,

potrebbe essere inteso come la coscienza o, senza mancare di rispetto, il grillo parlante di

Pinocchio:

"Il Signore disse allora a Caino: Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?" (è la voce di

una coscienza buona) "Se agisci bene non dovrai forse tenerlo alto?" (è un'analisi psicologica) "Ma

se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta" (si potrebbe pensare ad un cane

accovacciato, invece il contesto è molto minaccioso) "verso di te è il suo istinto" (il peccato è qui

presentato come una mala bestia accovacciata alla porta dell'uomo, nel suo centro decisionale) "ma

tu dominalo". Nelle tentazioni abbiamo molte possibilità umane di superarle, non ne siamo vittime

per forza; abbiamo una nostra possibilità di vincerle. Non siamo destinati a soccombere, non

compiamo il male senza volerlo; abbiamo tanti elementi che ci permettono di rinsavire. L'uomo, la

donna, è essenzialmente integro, libero, pienamente responsabile, pertanto ha la possibilità di

dominare la mala bestia.

Il racconto dell'omicidio è espresso in poche parole, neppure un versetto. Questo vuol anche dire

che l'interesse del racconto non è sull'omicidio in se, ma su ciò che lo precede e su quello che

segue. Innanzitutto sulle cause: la soppressione dell'altro nasce da una soggettività che non accoglie

la diversità dell'altro, Caino, frustrato, non accetta Abele gratificato. L'omicidio nasce dall'uomo che

accetta solo se stesso e altri uomini come se stesso. Ci sono ancora oggi omicidi o femminicidi di

questo tipo? Che cosa sono tutti i delitti di donne che si consumano nella coppia se non l’incapacità

di accogliere, capire, la diversità?!

Il problema non nasce solo dal fatto che Dio non ha accettato l’offerta di Caino; in questo

caso Caino avrebbe potuto dire: «Dovevo saperlo: tra Dio e me c’è una distanza infinita; capisco

che a Dio non interessino i frutti della mia terra; mica ne ha bisogno!». La tensione vera nasce dal

confronto: perché Abele sì e io no? Perché i suoi agnelli sì e il mio grano no? Questo è il vero

problema, antico e moderno insieme.

Il mondo è pieno di persone che, facendo il confronto con gli altri, si sentono trattate ingiustamente

dalla vita, dal mondo, da Dio: perché sono povere o malate, o deboli, o emarginate, o

rifiutate… Queste persone sono ben lungi dal pensare che la loro condizione di disgrazia abbia una

spiegazione logica; se la spiegazione logica ci fosse, non ci sarebbe il dramma. Ma proprio perché

la spiegazione logica non c’è (o, se c’è, noi non riusciamo a vederla), per questo ci si ribella e si

contesta.

Si contesta… chi? Dio? «Se ne ride chi abita i cieli, il Signore si fa beffe di loro» (Sal 2,4). L’unica

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reazione che può dare davvero soddisfazione sembra essere l’eliminazione dell’altro. Certo, non gli

posso attribuire una colpa morale, ma la sua esistenza, così com’è (cioè come esistenza fortunata,

più fortunata della mia), non ha motivazione sufficiente. Se lo elimino, non rendo migliore la mia

condizione, ma cancello il confronto e quindi cancello lo scandalo. Nel dramma di Caino c’è il

nostro stesso dramma, quello che ci porta a reagire a un mondo che non è logico come dovrebbe

essere.

Le conseguenze: Caino rifiuta di avere un fratello e di essere fratello. Caino ("Non lo so") ha

cancellato il fratello dalla realtà della sua mente ("sono forse il custode di mio fratello?").

L'omicidio è visto come cancellazione totale dell'altro dal proprio mondo. Caino, cancellando

Abele, cancella anche se stesso, cancella il suo essere fratello. Abele, che non ha mai parlato, una

volta ucciso, fa sentire la sua voce: "la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo". È la

voce del violentato, del crocifisso, che esige giustizia. La terra (l'uomo è il "terrestre" che è fatto di

terra) è profanata. Il Signore ascolta la voce dell’oppresso, del misero, del perseguitato.

"Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo

fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti." (La profanazione della

terra produce la sua ribellione) "Ramingo e fuggiasco sarai sulla terra". "Disse Caino al Signore:

'La mia colpa è troppo pesante da portare. Ecco tu mi scacci oggi da questo suolo, e io mi dovrò

nascondere lontano da te" (questo è importante in una prospettiva religiosa: l'uomo perde il fratello

perché l'uccide, perde la dimensione sua di fraternità e perde la terra) "io sarò ramingo e fuggiasco

sulla terra non coltivata e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere'". Si è stabilita ora una catena:

l'omicida incontrerà altri omicidi sulla terra non coltivata.

Ma il Signore vieta la vendetta: "Ma il Signore gli disse: 'Però chiunque ucciderà Caino subirà la

vendetta sette volte'". Qui il Signore protegge la vita di Caino anche se è omicida. Il divieto è

espresso in una forma plastica: chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte, cioè

innumerevoli volte. Alla violenza non si può rispondere con la violenza. Subirà la vendetta: la

vendetta è la vindicatio, il diritto dell'ucciso. "Il Signore impose un segno a Caino perché non lo

colpisse chiunque l'avesse incontrato". Dio si cura della vita di Caino, si fa il custode della vita di

Caino. Dio qui non è bifronte, ma ha un'unica faccia, quella di difesa del diritto di Abele e di difesa

della vita dell'omicida. "Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nord a oriente Eden" .

Così, con una notazione geografica si chiude questo racconto denso, pieno di senso per chi crede e

per chi non crede a Dio.

I primi tre capitoli del libro della Genesi sono una rilettura teologica della condizione della

umanità. Alla conclusione c'è il dramma della lacerazione tra l'umanità e Dio. Il male ha trionfato

agli albori del capolavoro di Dio che ha creato il mondo e ha posto l'umanità al vertice, capace di

armonia. padrona di tutta la realtà. C'è però un limite invalicabile che è un segno: piccolo in sé ma

portatore di ubbidienza e di fiducia. "Non mangiare dell'albero". Ma la suggestione di avere a

portata di mano tutta la potenza di Dio, a poco prezzo, fa crollare la fiducia e la confidenza. L'uomo

e la donna hanno compromesso totalmente la loro libertà ed hanno spalancato il loro mondo alla

tentazione e al male.

Il primo racconto della famiglia umana, dopo il peccato dei progenitori, è collocato in un

mondo duro e difficile. Il lavoro è indispensabile nelle due qualità di operosità del tempo dell'autore

biblico: la pastorizia e l'agricoltura. Da sempre c'è stato conflitto tra le due culture ed i due clan

poiché l'agricoltura sottrae terreno da coltivare e i pastori sono allontanati dalle terre coltivate

poiché distruggono ciò che cresce. L'autore biblico, comunque, segue la sua meditazione del

dramma della lontananza da Dio. Alla frattura dei rapporti profondi di comunione nella prima

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coppia segue la frattura dei rapporti tra fratelli. Anzi, il primo richiamo alla morte, nel mondo, non

avviene per malattia o per debolezza della carne, ma per l'esplosione della violenza che fa

dimenticare ogni valore, ogni solidarietà ed ogni legame profondo. La fecondità del lavoro di Abele

appare benedetto mentre quello di Caino, spesso soggetto all'aridità o allo stravolgimento delle

stagioni, appare maledetto e rifiutato. La prima reazione al successo dell'altro è fatta di gelosia, e

quindi di rabbia, di odio, di conflitto arrivando alla prospettiva di eliminare l'altro dalla propria

strada. Solo l'esperienza ha aiutato noi a capire, se lo vogliamo capire, che l'elemento fondamentale

di un cammino comune è la solidarietà perché ciascuno riceva ciò che serve per una vita dignitosa.

Si è giunti faticosamente nel mondo del lavoro, arrivando alle associazioni, ai sindacati, alle

contrattazioni, alla fatica dello sciopero per giungere a capire che ci si deve mettere d'accordo. E

dopo due guerre mondiali lo ha imparato l'Europa che, pure, ha ancora molto cammino da fare. Lo

impariamo tutti a livello sociale nell'accoglienza, nella scuola, nella sanità, nel fare le leggi giuste e

non per lobby e privilegi. Il testo garantisce che Dio è attento a ciascuno e perciò anche a Caino ed

offre suggerimenti per affrontare la situazione di delusione e di rabbia. "Il peccato è accovacciato

alla tua porta, ma tu puoi dominarlo". Ci viene garantita la lotta ma anche la possibilità di vittoria. E

ci viene riconosciuto il valore della fondamentale libertà personale che, per quanto difficile, libera

dalla rassegnazione.

Ad Adamo Dio pone la domanda: "Dove sei?" (Gen 3,9). Qui continua la ricerca di senso

dell'umanità. "Dov'è Abele, tuo fratello?". In queste due domande si raccolgono tutti gli

interrogativi morali: saranno sviluppati dai profeti e da Gesù. Ci ritroviamo di fronte alle scelte nei

confronti di Dio e dei nostri fratelli e sorelle e quindi alla società in cui viviamo.

Vengono formulati tre castighi. Caino che ha ucciso è maledetto (non l'umanità); quella terra che

coltivava e che ha bevuto il sangue di Abele gli si rivolterà contro, diventando sterile; infine Caino

sarà "ramingo e fuggiasco" cioè lontano da Dio e dagli uomini. E tuttavia il castigo è mitigato. Se

Caino è maledetto, nessun uomo ha il diritto di prendere il posto di Dio nell'esecuzione della

sentenza perché "la vendetta appartiene a Dio "(Rom 12,19).

Un bel racconto di Borges ci aiuta a leggere nel testo il perdono, la misericordia:

Abele e Caino s'incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da

lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e

mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava

qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla

fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca

chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: "Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te?

Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima". "Ora so che mi hai perdonato davvero" disse

Caino "perché dimenticare è perdonare. Anch'io cercherò di scordare". Abele disse lentamente: "È

così. Finché dura il rimorso dura la colpa". (Jorge Luis Borges)

Il perdono che elide totalmente il delitto: attraverso l’oblio si cancella la vendetta e quindi la colpa

altrui, che così viene dissolta.

Il peccato umano è lo sfondo oscuro da cui dipartono i raggi illuminanti della misericordia di

Dio. L’esperienza della misericordia divina si configura sempre come un passaggio dalle tenebre

alla luce, dalla notte al mattino, dalla morte alla vita. In una parola è esperienza della pasqua (il

termine ebraico «pasqua» significa «passaggio»).

Il Dio biblico non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. È un Dio che fin

dalle prime battute della pagina della Genesi si rivela come con-discendente che cerca l’uomo là

dove il peccato lo ha condotto e che nel Figlio Gesù Cristo è il pastore che viene a cercare la pecora

sperduta. L’apostolo Paolo l’ha capito e lo esprime con una certezza: tutto «concorre al bene di

coloro che amano Dio» (Rm 8,28).

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La santità a cui noi tutti siamo chiamati si configura non come mancanza di peccato, ma

come frutto della fede nella «misericordia» di Dio. Misericordia divina che è più forte della potenza

del peccato. I santi, testimoniano che la vittoria appartiene alla misericordia di Dio e non al peccato

dell’uomo.

La misericordia non segna solo i rapporti verticali uomo-Dio ma anche quelli orizzontali

uomo-uomo: designa il legame tra fratelli (Gen 43,30). Anche se questi possono andare in crisi, il

percorso faticoso della riconciliazione non può che non passare per il perdono reciproco (cfr. le

storie di Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli). Esso si qualifica come una vera rinascita un

ri-annodare quella fratellanza interrotta.

La misericordia data e ricevuta diventa il banco di prova degli stessi rapporti con Dio,

perché è l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno: «siate misericordiosi come è

misericordioso il Padre vostro!». È il comando di Gesù, il nostro Maestro. Esso non può essere

eluso da parte della Chiesa. Ce lo ha ricordato molto bene Giovanni Paolo II con la sua lettera

enciclica Dives in Misericordia.

Di fronte al peccato, alla legge infranta, al vincolo fraterno fallito, all’alleanza tradita, resta

la misericordia unilaterale e incondizionata: così ce la rivela Gesù nell’incontro con l’adultera che

stava per essere lapidata (Gv 7,53-8,11).

I sette passi per trasformare la rabbia, l’aggressività e la violenza.

1. Diventare consapevoli della propria rabbia e aggressività

La rabbia è una emozione e nasce dall’interno. Quindi intimità profonda e diretta con la nostra

mente

2. Assumersi le proprie responsabilità

Pensare che un evento esterno causi la nostra rabbia è un errore. Diamo sempre la causa a qualcuno

o qualcosa fuori di noi, ma occorre entrare dentro di noi.

3. Capire la rabbia, l’aggressività e la violenza

Se la capiamo di più e ce ne sentiamo responsabili, la conosciamo più chiaramente e ne vediamo

meglio le conseguenze

4. Riflettere

La rabbia è radicata sulle nostre motivazioni più profonde: desiderio di vivere, essere felici,

avversione alla sofferenza… Questo me lo ottengono la rabbia e la violenza?

5. Decidere

L’impegno è rinnovare l’intenzione di assumercene la responsabilità. Che voglio che ora non ho?

Che cosa me ne viene che non vorrei? Sono disposto ad accontentarmi?

6. Rilassarsi e lasciare andare

Avere pazienza, aiutarsi a tollerare, capire che tutto non dipende da noi. E’ difficile?! Rilassati e

bevi una tazza di thè.

7. Aprire il cuore

Significa centrarsi, lasciare andare quello che non possiamo ottenere e trovare l’equilibrio tra cuore

e testa. Se apri il tuo cuore alla vita, vedrai la vita entrarti nel cuore.

Il perdono di Dio al re Davide dopo l’assassinio di Uria (2 Sam 11, 1-17.26-27. 12,1-13)

L’anno dopo, al tempo in cui i re sogliono andare in guerra, Davide mandò Ioab con i suoi servitori

e con tutto Israele a devastare il paese degli Ammoniti; posero l’assedio a Rabbà mentre Davide

rimaneva a Gerusalemme. Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare

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sulla terrazza della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la

donna era molto bella di aspetto. Davide mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: “È

Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Hittita”. Allora Davide mandò messaggeri a prenderla.

Essa andò da lui ed egli giacque con lei, che si era appena purificata dalla immondezza. Poi essa

tornò a casa.

La donna concepì e fece sapere a Davide: “Sono incinta”. Allora Davide mandò a dire a

Ioab: “Mandami Uria l’Hittita”. Ioab mandò Uria da Davide. Arrivato Uria, Davide gli chiese come

stessero Ioab e la truppa e come andasse la guerra. Poi Davide disse a Uria: “Scendi a casa tua e

làvati i piedi”. Uria uscì dalla reggia e gli fu mandata dietro una portata della tavola del re. Ma Uria

dormì alla porta della reggia con tutti i servi del suo signore e non scese a casa sua. La cosa fu

riferita a Davide e gli fu detto: “Uria non è sceso a casa sua”. Allora Davide disse a Uria: “Non

vieni forse da un viaggio? Perché dunque non sei sceso a casa tua? ”. Uria rispose a Davide:

“L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore e la sua gente sono accampati in

aperta campagna e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per dormire con mia moglie?

Per la tua vita e per la vita della tua anima, io non farò tal cosa! ”. Davide disse ad Uria: “Rimani

qui anche oggi e domani ti lascerò partire”. Così Uria rimase a Gerusalemme quel giorno e il

seguente. Davide lo invitò a mangiare e a bere con sé e lo fece ubriacare; la sera Uria uscì per

andarsene a dormire sul suo giaciglio con i servi del suo signore e non scese a casa sua.

La mattina dopo, Davide scrisse una lettera a Ioab e gliela mandò per mano di Uria. Nella

lettera aveva scritto così: “Ponete Uria in prima fila, dove più ferve la mischia; poi ritiratevi da lui

perché resti colpito e muoia”. Allora Ioab, che assediava la città, pose Uria nel luogo dove sapeva

che il nemico aveva uomini valorosi. Gli uomini della città fecero una sortita e attaccarono Ioab;

parecchi della truppa e fra gli ufficiali di Davide caddero, e perì anche Uria l’Hittita…

La moglie di Uria, saputo che Uria suo marito era morto, fece il lamento per il suo

signore. Passati i giorni del lutto, Davide la mandò a prendere e l’accolse nella sua casa. Essa

diventò sua moglie e gli partorì un figlio. Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del

Signore.

Capitolo 12 Rimproveri di Natan. Pentimento di Davide

Il Signore mandò il profeta Natan a Davide e Natan andò da lui e gli disse: “Vi erano due

uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran

numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e

allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua

coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo

ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una

vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò

una vivanda per l’ospite venuto da lui”. Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a

Natan: “Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore

della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà”. Allora Natan disse a Davide: “Tu

sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle

mani di Saul, 8 ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo

padrone, ti ho dato la casa di Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi avrei aggiunto

anche altro. Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi

occhi? Tu hai colpito di spada Uria l’Hittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la

spada degli Ammoniti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai

disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l’Hittita. Così dice il Signore: Ecco io sto per

suscitare contro di te la sventura dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per

darle a un tuo parente stretto, che si unirà a loro alla luce di questo sole; poiché tu l’hai fatto in

segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole”.

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Allora Davide disse a Natan: “Ho peccato contro il Signore! ”. Natan rispose a Davide: “Il

Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai. Tuttavia, poiché in questa cosa tu hai insultato

il Signore (l’insulto sia sui nemici suoi), il figlio che ti è nato dovrà morire”. Natan tornò a casa.

Il peccato di Davide

Il testo letto descrive la storia di un processo nel quale, attraverso piccole circostanze

insignificanti, l'eroe Davide diventa sleale, infedele, traditore. Se qualcuno gli avesse detto, nel

giorno in cui era andato a passeggiare sulle terrazza: "Guarda che ucciderai il tuo miglior amico,

l'uomo che ti è più fedele di ogni altro"; avrebbe certamente risposto: "Questo non potrà accadere!".

La genesi di un peccato

Il primo versetto serve da introduzione al racconto. Davide non si pone nemmeno il

problema di andare in guerra: è felice del suo trono di re, non rischia più come una volta. Possiamo

dire che è ormai sicuro di sé. Con grande finezza psicologica, lo scrittore annota che tutto inizia da

un semplice sguardo curioso. Come mai l'ha guardata? Probabilmente perché riteneva che, essendo

vecchio e ricco di esperienze, gli era permesso: una semplice curiosità che non poteva avere

conseguenze per uno come lui.

Il secondo passo è un'imprudenza: "Davide fece prendere informazioni su quella donna, e gli

risposero: 'Ma è Betsabea, moglie di Uria l'Hittita'" (v. 3). Si tratta ancora di una circostanza molto

piccola, e Davide non si accorge di ciò che gli sta succedendo. Ora l'imprudenza si fa più grave.

Egli desiderava solo conoscerla, niente di più, e magari farla andare a corte per rendere dei servizi.

In realtà, nel suo cuore aveva già deciso.

Il testo incalza rapidamente. Dallo sguardo, alla donna incinta: tutto si è svolto come in un

sogno. Comincia la vera storia del peccato di Davide. Fino a qui si può parlare di debolezza, di

stupidità, di vanità: si credeva forte, superiore a certe quisquiglie. Adesso si pone il problema: Che

cosa fare?

Dapprima Davide pensa: Mi tirerò fuori dall'impiccio e farò di tutto per salvare la mia

reputazione e la rispettabilità della donna; la situazione è brutta, ma me la caverò. Chiama Uria e fa

finta di nulla, cerca di compiacerlo sottolineando la sua abilità di soldato, però diventa menzognero.

Forse Uria aveva capito, perché Davide parlando si era un po' tradito nella voce. O forse non aveva

capito ed era semplicemente rispettoso delle regole di guerra.

In quella prima notte, il re comincia a pensare che non è così facile come immaginava, che

non può dominare la situazione come credeva. Tuttavia non perde la sua padronanza. Il testo

seguente è pieno di ironia e si ha l'impressione che Uria si stia prendendo gioco del re, come se

avesse dei sospetti e volesse prenderlo a trabocchetto. Davide, ormai confuso, inganna l'uomo con

l'amabilità e l'ospitalità, mentre Uria, rovesciando il discorso, si appoggia alla lealtà, al rispetto per

Dio e per le regole.

Non vuole però darsi per vinto e invita Uria a bere e a mangiare in sua presenza, facendolo

poi ubriacare. Anche ubriaco, Uria dorme con i servi e non va a casa. In questa terribile notte,

Davide si accorge per la prima volta che è davvero prigioniero di se stesso. Non dice tuttavia: "Che

cosa ho mai fatto?", ma ha in mente una sola cosa. Egli vuole salvare tre valori, tutti grandi, che lo

prendono nella rete:

- la rispettabilità del re;

- la madre, col bambino, che vuole vivi a ogni costo. Avrebbe potuto abbandonare la donna,

sapendo che si sarebbe fatta uccidere piuttosto di rivelare al marito il nome dell'uomo che l'aveva

messa incinta, però la ama e non vuole perderla;

- l'amico, Uria, che non bisogna sopprimere. Non sa cosa fare. Passa da un valore all'altro,

senza voler rinunciare a nessuno. Questo è il peccato, il disordine: l'essere giunti per negligenza,

mancanza di attenzione, superficialità, a una situazione che diventa a poco a poco inestricabile.

Forse, per la prima volta nella vita, Davide ha paura e si rende conto che deve per forza rinunciare a

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uno dei tre valori. All'istante la decisione è presa: sacrificherà l'amico. Con astuzia e perfidia, ma

forse già col cuore spezzato, scrive una lettera a Ioab e manda Uria a portarla.

I versetti seguenti sono ancora una meraviglia di narrazione: gli uomini si fanno beffa del re,

capiscono benissimo quello che è accaduto e la rispettabilità, che Davide voleva salvare ad ogni

costo, è perduta. Il fedelissimo Ioab è il primo a prenderlo in giro. Manda al re tutti i dettagli del

combattimento e notate cosa dice di riferire al messaggero. Il messaggero parte, poi arriva e

riferisce al re il messaggio. Davide si adira molto e il messaggero spiega come sono andati i fatti,

concludendo: "Anche il tuo servo Uria l'Hittita è morto" (v. 24). A questo punto Davide gli dice:

"Ecco ciò che dirai a Ioab: Non ti affligga l'accaduto perché la spada divora ora qua ora là. Rinforza

l'attacco contro la città e distruggila. Così tu gli ridarai coraggio" (v. 25). Davide resta chiuso nel

suo peccato, convinto che non poteva agire diversamente, autolegittimandosi.

Questa è la conclusione a cui giungono tutti coloro che mancano alla fedeltà, all'amicizia,

alla famiglia: non vorrebbero fare del male, ma non hanno altro modo per uscire da quello che

ritengono un vicolo cieco. Ora il re non ha più difficoltà a prendere la moglie di Uria, proprio

perché pensa di aver fatto la sola cosa giusta possibile. Betsabea diverrà moglie di Davide e

partorirà un figlio.

Dio guida Davide verso il pentimento

Il capitolo 11 termina con una parola che capovolge la situazione: "Ma l'azione che Davide

aveva commesso dispiacque al Signore" (v. 27b). In realtà, il re si era dimenticato completamente di

Dio e dei canti che aveva composto: "Mio Dio, tu sei il mio Dio... ho sete di te... Tu sei la mia

roccia, la mia difesa". In tutta questa storia angosciante, non si dice che abbia mai pregato. Non gli

è mai venuto in mente di chiedere: Signore, aiutami tu a venirne fuori! Riteneva che il problema

fosse solo suo e che nessuno, nemmeno Dio, potesse aiutarlo.

Davide si era dunque molto allontanato da quello spirito di fede, di umiltà, di abbandono,

che era il suo. Probabilmente, anzi, aveva pensato: Il Signore mi ha lasciato entrare in questo

pasticcio, non è più con me.

Con il cap. 12, Dio riprende il filo della storia: "Il Signore mandò il profeta Natan da

Davide" (v. 1). Se non l'avesse mandato, Davide sarebbe rimasto per tutta la vita nella convinzione

di aver scelto la sola via possibile. Il Signore però vuole l'ordine, la pace, la verità, secondo le

parole del Salmo: "Tu ami la verità nel profondo dell'essere".

Il racconto continua con una parabola che, a poco a poco, ricostruisce la verità in Davide. La

narrazione è semplice, un po' ingenua, perché descrive una situazione estrema. Davide ritorna se

stesso. Dio lo libera facendo presa, nella sua infinita bontà e finezza psicologica, sui suoi sentimenti

migliori: la lealtà, il bisogno di difendere la giustizia. Non viene rimproverato, come faremmo noi

in un caso del genere. Se Natan l'avesse accusato probabilmente avrebbe trovato delle

giustificazioni.

L'appello non è rivolto al Davide peccatore, bensì al Davide giusto, leale, e per questo

riesce, e Davide, preoccupandosi della giustizia, esclama: "Pagherà quattro volte il valore della

pecora per aver commesso questa azione e non aver avuto pietà". Adesso il momento è

delicatissimo: che cosa dirà Natan? Avrà il coraggio di parlare? Sappiamo per esperienza come è

difficile dover affrontare certe situazioni e come spesso ci manca il coraggio della verità. "Tu sei

quell'uomo!".

Davide è colpito fortemente e confessa a Natan che gli ha annunciato il castigo di Dio: "Ho

peccato contro il Signore!". Ora riprende tutta la sua statura spirituale, esce dall'incubo terribile e

ritrova quella che sarebbe stata la via di uscita più semplice, più ovvia: rinunciare alla dignità per

affermare il supremo valore di Dio. Avendo voluto difendere il privilegio di re è entrato in una serie

di menzogne, di infedeltà fino all'omicidio. La sua ammissione nasce da un cuore umiliato e sincero

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e Natan gli dice che il Signore lo perdona, risparmiandogli la morte. Invece morirà il bambino nato

da Betsabea.

Riconoscersi in Davide.

Questa storia piena di saggezza non è lontana da noi perché Davide è un grande modello per

tutti i tempi. Ci insegna come da piccole disattenzioni l'uomo entra in gravi difficoltà, e se non tiene

lo sguardo fisso in Dio cade in errori sempre più grandi per coprire i precedenti. Dio però è ricco di

misericordia e interviene per aiutarci a ritrovare il meglio di noi, a ritrovare ciò che lo Spirito ha

messo come dono nel nostro cuore: l'amore per la verità, per la giustizia, per la lealtà. Le parole di

Gesù ci ammoniscono oggi e sempre: "Dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli

adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le diffamazioni. Ecco le cose che rendono

l'uomo impuro" (Mt. 15, 19). Ci riconosciamo in Davide perché in ciascuno di noi c'è il cuore

cattivo da cui proviene il disordine. Per questo siamo invitati dal racconto, a riflettere seriamente:

non possiamo presumere di essere esenti dalla colpa solo perché non siamo re o non abbiamo la

potenza di Davide. È la nostra condizione umana che si trova in un destino di disordine e quindi

rischia di farci diventare, almeno nelle piccole circostanze, prigionieri di noi stessi, incapaci di

riconoscerci e di confessarci peccatori. Solo la grazia di Dio, continuamente invocata e accolta, ci

rimette ogni giorno nella verità.

Salmo 51 Miserere Quando venne da lui il profeta Natan dopo che aveva peccato con Betsabea.

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;

nella tua grande bontà cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe,

mondami dal mio peccato.

Riconosco la mia colpa,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;

perciò sei giusto quando parli,

retto nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa sono stato generato,

nel peccato mi ha concepito mia madre.

Ma tu vuoi la sincerità del cuore

e nell’intimo m’insegni la sapienza.

Purificami con issopo e sarò mondo;

lavami e sarò più bianco della neve.

Fammi sentire gioia e letizia,

esulteranno le ossa che hai spezzato.

Distogli lo sguardo dai miei peccati,

cancella tutte le mie colpe.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

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Non respingermi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia di essere salvato,

sostieni in me un animo generoso.

Insegnerò agli erranti le tue vie

e i peccatori a te ritorneranno.

Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,

la mia lingua esalterà la tua giustizia.

Signore, apri le mie labbra

e la mia bocca proclami la tua lode;

poiché non gradisci il sacrificio

e, se offro olocausti, non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,

un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.

Nel tuo amore fa grazia a Sion,

rialza le mura di Gerusalemme.

Allora gradirai i sacrifici prescritti,

l’olocausto e l’intera oblazione,

allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

Il Salmo 51 Il "Miserere" è forse il più famoso dei Salmi. Stupenda la ricchezza di questo

Salmo che ci incanta per l'ampiezza dei sentimenti che evoca e la tenerezza, la finezza delle parole.

In esso si riflettono tutti i movimenti cattivi e tutti i movimenti di bene presenti nel cuore umano.

Vi suggerisco quindi di provare a confessarvi partendo dall'esperienza del salmista (Salmo

51), mettendo al primo posto la lode di Dio, l'affermazione della sua bontà e tenerezza, le

meraviglie da lui compiute nella vostra vita. Allora il cuore si apre, riafferma il tempo passato e

presente, facendoci confessare quello che siamo, dicendo a Dio i sentimenti di fondo - nervosismi,

inquietudini, amarezze, disgusti, inimicizie - che ci pesano e che sono la radice di tante mancanze.

A questo punto comincia la confessione di fede, la richiesta di essere liberati, purificati da

ciò che non vogliamo essere, di essere cambiati: "Crea in me, o Dio, un cuore nuovo, donami la

gioia della tua salvezza, non privarmi del tuo santo spirito, perché non è la grandezza del mio

pentimento, bensì il tuo amore, che trasforma la mia vita!" È la preghiera che ci immette

pacificamente nella misericordia di Cristo, quella misericordia che scende su di noi nel sacramento

della penitenza.

Il perdono di Dio al popolo di Israele dopo l’amore tenerissimo tradito (Osea 11, 1-9)

Dal libro del profeta Osea

Quando Israele era giovinetto,

io l’ho amato

e dall’Egitto ho chiamato mio figlio.

Ma più li chiamavo,

più si allontanavano da me;

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immolavano vittime ai Baal,

agli idoli bruciavano incensi.

Ad Efraim io insegnavo a camminare

tenendolo per mano,

ma essi non compresero

che avevo cura di loro.

Io li traevo con legami di bontà,

con vincoli d’amore;

ero per loro

come chi solleva un bimbo alla sua guancia;

mi chinavo su di lui

per dargli da mangiare.

Ritornerà al paese d’Egitto,

Assur sarà il suo re,

perchè non hanno voluto convertirsi.

La spada farà strage nelle loro città,

sterminerà i loro figli,

demolirà le loro fortezze.

Il mio popolo è duro a convertirsi:

chiamato a guardare in alto

nessuno sa sollevare lo sguardo.

Come potrei abbandonarti, Efraim,

come consegnarti ad altri, Israele?

Come potrei trattarti al pari di Admà,

ridurti allo stato di Zeboìm?

Il mio cuore si commuove dentro di me,

il mio intimo freme di compassione.

9Non darò sfogo all’ardore della mia ira,

non tornerò a distruggere Efraim,

perchè sono Dio e non uomo;

sono il Santo in mezzo a te

e non verrò nella mia ira.

In questi testi del profeta Osea si trova il punto più alto della rivelazione del primo

testamento della misericordia di Dio. Il tempo della sua vita è stato drammatico per le sventure

capitate a Israele: guerre, deportazioni, infedeltà, idolatrie. Il messaggio quindi diventa ancora più

sentito e drammatico. Il popolo ha infranto l’alleanza ed è diventato una prostituta disonorata.

Perciò, Dio ha rotto con il suo popolo e ha deciso di non mostrare più nessuna misericordia al

popolo infedele. Il suo popolo non è e non sarà più il suo popolo (Os 1,6. 9). Tutta l’alleanza pare

finita, e non s’intravvede più alcun futuro. All’improvviso avviene imprevista, non attesa, né

sperata una svolta drammatica: «Il mio cuore si rivolta contro di me». Il che vuol dire: Dio

capovolge la propria giustizia, per così dire, la getta via. Il posto dello sconvolgimento annientatore

è preso dallo sconvolgimento all’interno di Dio stesso. La sua compassione esplode e in Lui la

misericordia prevale sulla giustizia. La motivazione di questo sconvolgimento manifesta tutto

l’abisso del mistero divino: «Perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non

verrò da te nella mia ira» (Os 11,9).

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Con quest’affermazione sorprendente si intende che la santità di Dio, il suo essere

totalmente diverso da tutto l’umano, non si manifesta nella giusta ira e neppure nella sua

trascendenza inaccessibile e insondabile all’uomo. L’essere di Dio si manifesta nella sua

misericordia. La misericordia è espressione della sua essenza divina. La misericordia lo distingue

completamente dagli uomini e lo eleva al di sopra di tutto l’umano. Essa è la sua sublimità e la sua

sovranità. Il profeta Michea dice: «Egli si compiace di manifestare il suo amore» (Mich 7,18).

L’Antico Testamento non è, come molti sospettano, solo un messaggio di giustizia, oppure della

vendetta e dell’ira di Dio. L’Antico Testamento già prepara il messaggio di Gesù e del Nuovo

Testamento sulla misericordia di Dio.

v. 1. Prima c’è l’amore di Dio (Israele è solo «giovinetto»): il suo è dunque un amore assolutamente

gratuito, paragonabile all’amore paterno-materno nei confronti del figlio. La giovinezza e (nei

versetti seguenti) l’infanzia sono simbolo dell’esodo dall’Egitto e del viaggio nel deserto verso la

terra promessa.

v. 2. È l’esperienza del peccato, vissuto come un fare a ragion veduta il contrario di quello che ci

viene richiesto. Avete in mente quando ci chiama o ci chiamava mamma a gran voce e noi a non

rispondere o ad allontanarci invece che raggiungerla? Suggestivo riesce l’accostamento a Is 1,3: «Il

bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo

non comprende» e ai toccanti accenti del Sal 55: «Se mi avesse insultato un nemico l’avrei

sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio

compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio

camminavamo in festa» (vv. 13-15). Giuda non ha fatto proprio cosi quando ha tradito Gesù?

Pietro pure si comporta così quando lo rinnega. Del resto tutti gli apostoli si danno alla fuga

abbandonandolo.

v. 3. Dio usa l’immagine, che tutti abbiamo negli occhi e nel cuore, di quando papà o mamma ci

insegnavano a camminare, ci rialzavano dalle cadute, ci spegnavano subito il pianto disperato non

tanto per il dolore, quanto per l’umiliazione. Questa attenzione e cura non viene riconosciuta dal

popolo e non viene interpretata come segno d’amore, ma come altro (non mi lascia fare quello che

voglio? Non mi fa rischiare la mia libertà, si intromette nella mia vita )

v. 4. L’esperienza di un papà e una mamma in famiglia con il proprio figlio è impagabile e fa parte

della nostra esperienza umana. Non c’è tecnica che sta alla stessa altezza, checché ne dicano, con

tutte le nostre manie di uteri in affitto o eterologhe raffinate. Quale padre o madre non fa così con

suo figlio?

vv. 5-6. Si fa strada una minaccia che vuol mettere le cose a posto di fronte a un misconoscimento e

una infedeltà così assurda. Dio monta su tutte le furie e decide di punire. L’ira è qui espressione di

amore intensissimo. Quale padre-madre non si comporta così?

v. 7. Quante volte anche noi non volgiamo sollevare lo sguardo, affidarci alla preghiera, rivolgerci

umilmente a Dio, pur avendo la capacità di farlo.

v. 8. È un soliloquio di una bellezza estasiante. Non devo più sentirmi padre, posso rinunciare ad

essere madre? È impossibile? Perché ciò implicherebbe dare ad altri uno che mi appartiene, che ho

intensamente desiderato. Questo figlio – è vero – ne fa di tutti i colori, ma resta pur sempre mio

figlio: l’ho tenuto per mesi dentro le mie viscere, l’ho nutrito, ha riposato e giocato dentro di me. Mi

prende una morsa alle viscere: no, non è proprio possibile che io, Dio, abbandoni mio figlio.

v. 9. Dio ama fino a perdonare. Perdonare è un agire divino, un miracolo pari all’atto della

creazione. Se l’uomo arriva a perdonare, è perché Dio gliene dà il coraggio e la forza.

Quale volto di Dio si delinea ai nostri occhi?

1) Dio è amore, è colui che ama. Mi ha intensamente desiderato prima che venissi al mondo e,

adesso, mi accoglie, accompagna, sostiene. Nulla viene prima del suo amore per me. «In questo sta

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l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10). «Noi amiamo

perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19).

⇒Lascio a Dio l’iniziativa d’amare o mi illudo di poter essere io a dargli suggerimenti in proposito?

Amare è anche lasciarsi amare; anzi, nel caso di Dio, è anzitutto e soprattutto lasciarsi amare. C’è

un tratto di egoismo, una sorta di delirio d’onnipotenza, nel voler essere noi coloro che amano Dio,

immaginandolo sempre passivo o esigente o impositivo…

2) Dio è Padre e Madre. Rileggiamo alcuni versi che hanno Dio come soggetto: Dio mi chiama, mi

insegna a camminare, mi tiene per mano, mi attira con legami di bontà e con vincoli d’amore, mi

solleva alla sua guancia, si china per darmi da mangiare. Sono espressioni – chi oserebbe negarlo? –

di una tenerezza struggente, che descrivono minuziosamente quasi assaporandola ogni singola

azione. L’amore di Dio è paterno e materno: e se quest’ultimo è prorompente, incontenibile,

letteralmente viscerale (che cosa non fa una mamma per il suo bimbo? per una donna il suo bimbo è

tutto il mondo), quello paterno evidenzia soprattutto la responsabilità educativa (un padre è felice

quando il figlio sa camminare sulle proprie gambe diventando sempre più artefice del proprio

destino). Inoltre l’amore tra papà e mamma, rispetto a quello tra marito e moglie, sottolinea

maggiormente la gratuità. Mentre nell’amore tra marito e moglie i due preesistono al loro amore, in

quello genitoriale il figlio è frutto proprio dell’amore dei genitori: il figlio mai potrà assolvere

adeguatamente il debito di gratitudine verso di loro, dovendo per poterlo fare diventare... genitore

dei suoi stessi genitori.

⇒Ho fede in Dio quale padre e madre? In quali circostanze mi riesce più spontaneo crederlo, e

quando invece mi risulta particolarmente difficile? Ho ricordi di belle esperienze fatte con papà e

mamma che mi danno energia nei momenti difficili? I miei genitori sono custodi di un albergo o

spina dorsale dei miei affetti?

Se sono padre o madre, sono generoso o freddo calcolatore nel dare la vita e solerte nel

prendermene cura? Non mi pare che una società fatta di molti anziani e di pochi bambini e giovani,

misuri la nostra sfiducia e disperazione, la nostra «fragile fede» e la nostra «debole speranza» nella

paternità-maternità di Dio?

3) Dio è Colui che ama tutti e ciascuno. Si noti la dialettica tra i plurali e i singolari, i sostantivi

plurali e quelli singolari: Israele, popolo, essi, Èfraim, figli da una parte; giovinetto, figlio, bimbo,

nessuno, tu dall’altra. L’amore del Signore è ad un tempo universale e particolare.

Mi sento amato personalmente dal Signore? Credo che il Signore ama tutti gli altri? Ritengo il suo

amore generale ma non generico, personale ma non esclusivo? E io dal mio amore escludo

deliberatamente qualcuno? Chi precisamente e perché? Mi sento desiderato da Dio prima ancora di

addestrarmi ad avere io il desiderio di Dio?

4) Dio è Colui che ama arrabbiandosi (vv 5-6). Ogni vero amore sa anche «rodersi dentro» fino a

dire dei «no» necessari. Dio non mi fa mai concessioni illimitate, non chiude mai tutti e due gli

occhi, anzi li spalanca più che può per vedere meglio chi ama. E ciò non per farsi valere, per

sentirsi... più Dio, ma per il mio bene, per farmi valere, per far sì che io sviluppi ogni mia risorsa.

Del resto – a prescindere da ogni altra considerazione – l’arrabbiarsi esprime quanto meno

coinvolgimento emotivo, dice che la persona con cui mi arrabbio mi sta a cuore.

Che Dio mi ami arrabbiandosi con me mi fa paura o mi fa piacere? Mi mette angoscia o mi

responsabilizza? Mi scoraggia o fa sì che mi dia una mossa?

5) Dio è Colui che ama commuovendosi (v. 8). Non si vergogna del fatto che una morsa gli dilani

le viscere, gli vengano le lacrime agli occhi, si lasci andare, scoppi in pianto (Gv 11,35). Perché lui

è così fatto che non riesce a sopportare che anche uno solo dei suoi figli soffra.

Credo veramente che io ho il potere di commuovere Dio, di farlo piangere? Che dire allora del mio

pensare Dio come un essere glaciale, impenetrabile, refrattario, asettico, compassato, che non lascia

trapelare nessun sentimento o addirittura che non sa nutrire sentimenti ed emozioni? E che dire del

mio reprimere la mia commozione anche in presenza degli eventi più dolorosi, quasi che

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l’espressione di essa mi diminuisca come uomo e cristiano? Ridere per niente è bene, piangere per

un motivo valido è male: che scemenza di regola è mai questa che ci siamo inventati e

rigorosamente osserviamo?

6) Dio è Colui che ama convertendosi e perdonando (v. 9). Se smetto di seguirlo, si mette lui a

venirmi dietro (Lc 15,4). Se m’allontano da lui, lui mi si avvicina correndomi dietro. Se me ne vado

sbattendo la porta, lui ogni giorno si affaccia alla porta per scrutare con speranza un mio ritorno (Lc

15,20). Se mi perdo, lui parte a razzo alla mia ricerca finché non mi ritrova (Lc 15,8). «Il suo amore

per noi è così grande che egli ha scelto di non essere più sé stesso se non con noi: il nome che Dio si

è attribuito è per sempre “Dio con noi” (cfr. Mt 1,23; Ap 21,3)». (C.M. Martini, Ritorno al Padre di

tutti, Centro Ambrosiano, Milano 1998, p.30). Il suo nome è «Conversione» e «Perdono».

Credo fermamente che Dio fa di tutto per venirmi incontro? Credo che Dio mi perdona sempre?

Credo che io potrei persino arrivare ad odiare me stesso, ma non posso impedire a Dio di volermi

bene? E io, come sto quanto al perdono offerto a chi mi ha fatto del male?

Il secondo Testamento

Il perdono oltre ogni misura, al di fuori di essa (Mt 18, 21-22)

La vita di ogni giovane ha tutti i suoi tempi: i tempi del riposo, dell’incontro con le persone,

del lavoro, delle relazioni famigliari, della movida; ci sono i tempi dell’amicizia, degli affetti, dei

colloqui, della sopportazione, del fastidio, del sordo arrabbiarsi e della conciliazione. Ecco quest’

ultimo si sta sempre più restringendo. Aumenta il tempo dello shopping, dello stare a guardare la

TV , dello smanettare in Internet, del fare notte al pub, dello stare in piazza a sparare idiozie, del

talk show, che proprio è più un vedere che un comunicare, uno spettacolo più che un aiuto a

pensare.

Diminuisce enormemente il tempo del perdonarsi, dell’accettarsi, dell’ascolto,

dell’accoglienza, della pazienza. Un giorno entra in campo proprio l’apostolo Pietro, in tempi non

sospetti, quando proprio il suo rapporto con Gesù non è solo ingenuo, immediato, spontaneo, ma

anche di vero entusiasmo per Lui. Amava vivere tempi di gratuità, ma se li vedeva restringere

sempre più. Ne avvertiva la sconvenienza, ma voleva essere rassicurato.

Gesù, non ti sembra che quando è troppo, è troppo! Io perdono, sto zitto, ho imparato nella

vita a non reagire troppo in fretta per non offendere, sto ad ascoltare ore e ore, non mi manca la

capacità di attutire, di stemperare, ma qualche volta non se ne può proprio più! Soprattutto quando ti

offendono senza motivo, diventano petulanti e ti fanno del male, ti fanno sentire uno straccio; hanno

pretesa di giustificare tutte le storture che compiono nella loro vita; sono insolenti, violenti e

sporchi. Vorrebbero sporcare anche me. Non ti sembra che bisogna dire basta prima o poi, anzi che

forse tu con la tua bontà li stai coccolando troppo, hai sempre una parola buona da dire. Non ti

sembra che ne approfittino.

A 7 volte io ci arrivo, vuol dire che non mi faccio ricrescere nessuna pazienza. Capisco le

debolezze, ce ne ho tante anch’io; capisco che si possono avere momenti di rabbia. Ma bisogna dare

un taglio. Il perdono che è? Un incitamento a delinquere?!

E Gesù candidamente moltiplica a Pietro il tempo della perfezione giudaica. 7 è un numero

che indica pienezza? Per il perdono non c’è mai pienezza che tenga. Dio è spropositato nel suo

perdono. E’ 70 volte 7 , è il numero perfetto oltre ogni paragone e limite. Il mio cuore è una

speranza vera, per tutti e per sempre. A te Pietro che avrai le chiavi del perdono nella chiesa, dico

che il perdono non è una quantità da contare come i soldi, o da tenere in banca come i risparmi, ma

è uno stile di vita, una nuova qualità di relazioni tra Dio e l’uomo, una strada definitiva, che una

volta imboccata, non permette ritorni; ha come legge solo una accoglienza generata dal pentimento

e dalla contemplazione dell’amore Crocifisso.

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Il perdono sproporzionato: 10.000 talenti e 100 denari (Mt 18, 23-35)

Il personaggio del vangelo si rifa subito sul suo debitore, unico forse, che gli deve una

miseria, lui invece ha un debito con il suo padrone da far paura. 10.000 talenti d’oro contro 100

denari. Siamo nell’ordine di 350 tonnellate di metallo prezioso. Una colonna di 350 furgoni lunga 3

Km. Contro quattro pezzi di carta che stanno in un portafogli, o monetine che usi la domenica

quando in chiesa passa la bussola o la tua scorta in automobile per chi ti lava i vetri. E’ sfrontato,

supplica il suo creditore credendolo pure stupido, perché il suo debito è impossibile da pagare

eppure vuol ingannare il suo padrone con pianti disperati a catinelle. Il suo piccolo debitore invece

lo fa mettere in galera, lui con moglie e figli.

Il suo debito è sempre ancora una pallida idea di quello che Dio ci ha dato. Abbiamo

bisogno ogni tanto di riflettere sui doni incalcolabili di Dio, gratuiti, che Lui ci ha donato, ma che

diventano debiti perché ne facciamo scempio o li usiamo per rivoltarci contro di Lui. Sono i furgoni

del nostro tesoro che va restituito al Creatore, che devono trovare la strada verso la sorgente e non

verso la dispersione o la distruzione. Questo opera il suo perdono.

La vita. E’ un bene senza prezzo. Quante persone avrebbero dato tutto per vivere un secondo in più.

Quante persone sarebbero dovute essere morte invece sono sopravvissute a tutte le malattie e a tutti

gli attentati. La vita è sempre dono di Dio. Riflettere su come la valorizziamo, la accogliamo, la

custodiamo, la trattiamo, è sempre il primo grande compito che abbiamo nei confronti di Dio

Il creato, la terra, il sole, la natura, sono il grande contesto in cui possiamo godere la vita, un bene

prezioso che spesso è sull’orlo della distruzione per le guerre, è un patrimonio che viene distrutto e

inquinato. La creazione è la dote che Dio ci mette a disposizione nel patto d’amore che stabilisce

con noi e spesso noi la dilapidiamo stupidamente

La sessualità: ci ha fatto uomini e donne, ha messo nella intelligenza, nella vita, nella

conformazione del corpo, nei pensieri, nelle aspirazioni, negli istinti, il desiderio di incontro, di

dialogo, la voglia di stare assieme, la luce che si accende negli occhi, quando ci si vede, la tensione,

la ricerca della bellezza, i pensieri inquieti, l’attesa, la musica per esprimere, la poesia per avere

parole, tutte insufficienti per dare voce ai sentimenti, alle emozioni, la capacità di generare vita

La giovinezza: sono gli anni della ricerca, della tensione verso ideali alti; la giovinezza è il tempo di

una visione pulita della vita, dell’entusiasmo, dello slancio, della leggerezza rispetto al passato che

è di altri; spesso invece è l’età della noia, dello spreco, della cattiveria senza motivo, della

distrazione e della superficialità

C’è il furgone della salute, della intelligenza, dell’amore, della capacità di lavoro, del benessere,

della pace, della dignità

Questa colonna di furgoni l’abbiamo sequestrata, l’abbiamo fatta deviare nei nostri territori e ne

abbiamo fatto scempio.

Mettiamo su questi 350 furgoni tutto quello che abbiamo ricevuto da Dio. Dio ce li condona tutti col

suo perdono e si aspetta solo che noi sappiamo nutrire odio per nessuno, siamo capaci di perdono.

I due fratelli sbagliati e il padre misericordioso (Lc 15, 11-33)

I figli riconoscono di amare il padre sbagliando e il padre li ama perdonando. Potremmo

riassumere così questa splendida pagina di vangelo. Da una parte la contorta vita di due fratelli che

mette il padre all’angolo o per una fuga o per una permanenza forzata senza amore e dall’altra la

pazienza, l’attesa preoccupata, la gioia di un abbraccio e la mediazione faticosa, la conciliazione in

attesa di un amore sincero.

Ambedue i fratelli hanno bisogno del padre per vivere, per essere, per crescere e diventare

adulti e passano dal bisogno all’amore, dallo sfruttamento a un inizio di consapevolezza. Il padre è

tutto proteso a riconquistarsi all’amore il figlio maggiore.

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Tuo fratello. in mezzo ai porci, da cui rubava carrube a bocconi, si è accorto di avere una sua

dignità di uomo e ha cominciato a paragonarsi ad altri uomini che aveva conosciuto come te: i

nostri dipendenti che lavoravano sodo, ma che sapevano di avere diritto e godere di un pranzo, di

una cena, di un tempo bello per la propria famiglia e i propri figli. Magari voi li guardavate con

superiorità, perché eravate figli del padrone e avete cominciato a ragionare da padroni su di loro,

magari li avete guardati dall’alto in basso, li avete un po’ compatiti e non stimati. Forse proprio

pentendosi di questo, avendolo provato sulla sua pelle, vivendo ancor peggio dei nostri servitori si è

accorto di avere una dignità di figlio, un amore cui potersi sempre riferire ed è tornato.

Quell’abbraccio mi ha dato una gioia che sognavo da quando l’ho visto sbattere la porta.

E tu? Hai notato il mio dolore in questi lunghi giorni. Mi aspettavo uno sguardo di

comprensione, ma mi chiedevi sempre e solo vitelli per le tue feste.

Figlio tutto quello che è mio è tuo, non mi stare in casa solo perché mi vuoi sfruttare!

Cambia la tua convivenza in amore disinteressato, rischia anche tu la dolcezza e la sofferenza di un

amore non corrisposto, ma senza del quale non puoi dare senso alla tua vita e provare felicità.

La mia tenerezza verso questo tuo fratello giovane, che ti ha offeso, che si è già dilapidato la sua

parte di eredità, che ha conosciuto il disprezzo, il fallimento, l’inganno è stato il suo unico sogno

nella disperazione cui era giunto. Poteva concludere la sua vita con gesti insani, invece ha osato

leggere nel mio cuore e nella tua fratellanza l’ultimo appiglio per una vita degna di essere vissuta.

Credi che questa tenerezza non entri in lui come forza di cambiamento, come energia di

bontà da far crescere in tutti noi? Già mi ha svelato i tuoi pensieri egoisti che io non ho mai voluto

ammettere, perché ti pensavo coinvolto nella storia di amore della nostra famiglia.

Ero illuso, forse non troppo attento, ma, se mi permetti, ti avevo già fotografato il cuore, ne

avevo visto il disordine, la maschera, ma aspettavo, osavo sperare e puntavo sulla tua bontà che hai

nel profondo del tuo cuore. Perché sei sempre mio figlio. Questo figlio, e tuo fratello, ha messo

anche te davanti alla sincerità di una vita che possiamo riscrivere di nuovo assieme, una vita

d’amore e non più di pretese, di tenerezza e di perdono e non di freddo calcolo.