la musica andina che noia mortale

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In una Palermo anni Ottanta un gruppo di giovani inizia la propria avventura nel mondo della musica. Solo che la musica in questione è quella andina, gli strumenti sono difficili da trovare o artigianali e la sala prove è gelida come le Ande in inverno. L’incontro con Jesus che “no tiene espiccioli” segnerà l’ascesa dei “Los Siculindios” che, al ritmo delle musiche degli Inti Illimani, conquisteranno il pubblico e incontreranno i loro idoli. 2015 - ISBN 9788896926413- brossura - pp. 80

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Pietro Lo Cascio

La musica andina

che noia mortale

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Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è pu-

ramente casuale ma, indubbiamente, qualcosa avrà pur dovuto

ispirare questo racconto. Lo vorrei dunque dedicare a coloro che,

come me, hanno amato e seguitano ad amare la musica andina;

ai tanti musicisti che se ne fregano delle mode e del tempo che

passa, continuando a suonare quello che gli piace; infine, a tutti

quelli che hanno già trovato la strada per inseguire i propri sogni,

o la cercano ancora, perché i sogni valgono molto.

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Copyright © 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i PaesiCasa Editrice AntipodesVia Toscana, 290144 [email protected]

ISBN: 978-88-96926-41-3

Copertina realizzata da Flavia Grita (armadillo: photo copyright

Vlad Lazarenko, cc by sa 3.0).

Pietro Lo Cascio, La musica andina che noia mortale, Antipodes,Palermo 2015

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Apologia di un charango

L’autobus arrancava nel traffico di corso Calatafimi, stra-colmo di passeggeri pigiati sui sedili, nel corridoio e per-sino negli interstizi più angusti. Il conducente si ostinava

però a spalancare le bussole ad ogni fermata, forse con il subdolointento di alleggerirne il carico.

Privi di argini che li contenessero, gli occupanti ammassati inprossimità delle aperture sembravano infatti sul punto di tracimarnefuori, ma, ormai avvezzi al periglio, resistevano con rinnovata de-terminazione.

La vista di quell’impenetrabile conglomerato umano faceva so-spirare di rassegnazione chiunque avesse sperato di salire a bordo;persino un controllore ci lanciò uno sguardo malinconico, per poigrattarsi un orecchio e sbirciare l’orologio con aria distratta.

In compenso, dalle bussole entravano scampoli pastosi di sci-rocco, e per pochi istanti godevamo della benefica sensazione direspirare qualcosa di diverso dall’afrore dei vicini.

Il mio era piuttosto sudaticcio, ma almeno non si lamentava delfatto di avere la mia sacca a tracolla ormai incistata nel suo fianco.Anzi, la guardava con insistenza, come se ne fosse stato ipnotiz-zato. A un tratto fece un cenno del mento in direzione del manicoche sporgeva vistosamente dall’apertura e domandò «che stru-mento è? Un ukulele?»

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«No» gli risposi «un charango» Una massiccia signora inca-strata pochi centimetri più avanti, da quell’istante, prese a scrutarcicon sospetto.

«Infatti» la mia risposta sembrava averlo rincuorato «lo sapevoche non era un ukulele, con tutte ‘ste corde».

Dato che la sua conclusione non richiedeva ulteriori approfon-dimenti, mi girai a guardare altrove.

«Mi interessano gli strumenti musicali» riprese lui «sa, io suonoil mandolino». Per buona creanza, decisi di annuire.

«Il mandolino ha quattro corde doppie» continuò «accordatecome il violino, sol re la mi». Gli risposi che il charango ne avevacinque «sol do mi la mi».

«Posso vederlo?» esclamò improvvisamente, mentre con ilcollo allungato era già proteso a sbirciare nella borsa.

Non mi sembrava affatto il caso, ma non volevo essere scortesee tentai di guadagnare tempo, «non adesso, però. Magari aspet-tiamo quando scende un po’ di gente»; invece, lo vidi arretrare efarsi spazio con una mossa a sorpresa, incurante dei mugugni chesi udivano alle sue spalle.

Di solito, la vista della corazza di armadillo al posto della cassaarmonica produceva reazioni contrastanti.

In quel caso, il vicino l’accolse con un «miii» di meraviglia,mentre la signora accanto, che non aveva mai smesso di sovrin-tendere al nostro turpiloquio, proruppe in un gemito accorato:

«ma chi schifìu è?»1

E lo fece in modo talmente appassionato e genuino da innescareuna tempestiva catena di solidarietà.

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1 «Ma che schifo è?»

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Una vecchietta, fino a quel momento piazzata all’altezza delcavo ascellare della signora e apparentemente narcotizzata, si ri-prese infatti con insospettato vigore e rilanciò l’allarme: «matrisantissima, pari un surci!»2, così che tra gli occupanti si sparserapidamente la notizia che c’era un tizio con un topo nascostonella borsa, no, non era vivo, era un topo morto incollato a unpezzo di legno, e aveva pure le corde.

Prima che la faccenda si arricchisse di altri macabri dettagli,pensai bene di rimettere il mio charango nella borsa.

Non potete immaginare che fatica procurarsi un charango a Pa-lermo negli anni Ottanta. Internet non era ancora stato inventato,e se foste entrati da Ricordi per comprarne uno, sarebbe stato piùsemplice convincere il commesso che Godzilla non era una fin-zione cinematografica, ma si aggirava per la città e probabilmentestava già calpestando la sua auto nel parcheggio a ore di PiazzaleUngheria.

Uno strumento del genere non esisteva, chissà cosa dovevoavere visto, «ora la devo lasciare, c’è gente che aspetta.»

Quando gli indicai il chitarrino sulla foto di un disco degliInti Illimani, il commesso assunse un’espressione agnostica,forse pensando a quanto bislacco dovesse essere il liutaio cheaveva usato il guscio di un armadillo per costruire una cassa ar-monica.

«Comunque, da noi non lo può ordinare.»«Mi scusi, perché da voi non lo posso ordinare?»«Qui non trattiamo strumenti di questo tipo» tagliò corto, ri-

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2 «Madre santissima, sembra un topo!»

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volgendomi un sorriso di commiserazione, «fa prima a trovarequalcuno che glielo porta direttamente dal Sudamerica.»

Dopo l’ennesima risposta del genere, nonostante avessi inter-pellato in più occasioni i vari commessi che si aggiravano nel ne-gozio, mi venne l’idea di dare un’occhiata ai padiglioni etnici dellaFiera del Mediterraneo: ce ne sarebbe stato almeno uno del Perù,della Bolivia o di qualche altro paese dove gli armadilli si tengonoprudentemente alla larga dalle liuterie.

E infatti lo scovai, quasi celato in un capannone discosto e pocoilluminato. Il banco era ricoperto da stoffe decorate da file di pic-coli lama con arditi accostamenti cromatici, poncho e maglioni dilana grezza e pesantissima che solo a guardarli si rischiava l’iper-termia, idoletti preincaici di terracotta dal ghigno sardonico e, tal-volta, dotati di ambiziose protuberanze falliche.

Del charango, però, nessuna traccia.Chiesi al tizio dietro al banco, che aveva la stessa espressione

degli idoletti; lui, impassibile, appoggiò sul banco un’elegante cu-stodia di velluto rosso e ne sfilò un flauto di canna.

«Se vuoi, ho questo».Mentre uscivo sconsolato dal padiglione, mi sentii richiamare

«aspetta, aspetta» e tornai indietro.«Tra due mesi torno per un’altra fiera. Se cerchi un charango,

te lo posso procurare.»«Benissimo!»Già mi vedevo a pizzicarne le corde sullo sfondo della cordi-

gliera, avvolto da un poncho di lana assassina.«Ma deve essere un charango vero, mi raccomando, non una

cosa per turisti.»Da quel momento cominciò un periodo di rigore ascetico:

a detta del tizio, infatti, per un charango del genere ci vole-vano almeno duecentomila lire, una cifra di tutto rispetto per

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uno studente che aveva in dotazione una modesta paghetta set-timanale.

Ma ne valeva certamente la pena.

Quel pomeriggio denso di scirocco stavo risalendo Corso Ca-latafimi in direzione di Monreale, dove avrei dovuto provare conil mio gruppo di musica andina; il nome preferisco dirvelo dopo,confidando nel fatto che poi comprenderete questa iniziale reti-cenza.

Tutto, comunque, aveva avuto inizio dopo aver conosciuto Ta-nino, che studiava chitarra al Conservatorio e la domenica mattinasuonava nella chiesa del quartiere. Me lo avevano presentato al-cuni amici, poiché non frequentavo granché la parrocchia, anzi, adire il vero non la frequentavo affatto.

Fischiettando ancora qualche lode, Tanino aveva preso l’abitu-dine di passare a trovarmi dopo la messa, per chiacchierare e ascol-tare musica. Presto avevo scoperto che gli piacevano molto i dischidegli Inti Illimani; glieli propinavo in lunghe sessioni dal pigliodidattico, perché li conoscevo tutti a memoria.

La mia passione per questo gruppo era infatti di vecchia data.Esattamente risaliva a quella volta che mio padre mi aveva portatoal loro concerto, piazzandomi sulle sue spalle e dicendomi «alzail pugno»; intorno a noi, la folla faceva altrettanto e cantava incoro «el pueblo unido jamás será vencido», fregandosene dellapioggerellina perniciosa.

Avrei ricordato quel concerto per sempre, nei minimi dettagli:gli Inti Illimani indossavano dei poncho rossi e leggevano unalettera dal Cile che parlava di stadi e di fascismo, e tutti si eranocommossi; poi si erano messi a soffiare dentro strani strumenti,fatti con una serie di canne, dalle quali uscivano suoni ansimanti,remoti, arcaici.

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«Celestiali» era la definizione preferita da Tanino.«Si chiama sicu, è tipo un flauto di Pan», gli spiegavo.Poi, dato che lui aveva la chitarra al seguito, suonavamo anche.

Il charango alla fine era arrivato.L’idolo preincaico aveva preteso duecentocinquantamila lire,

sostenendo che si trattava di uno strumento di ottima fattura.Così,tornai una seconda volta in Fiera per consegnargli la differenza,messa assieme con parecchie ipoteche sulle paghette a venire.

In effetti era stupendo, con quegli intarsi di legno attorno alforo della cassa, quelle meccaniche fitte e assiepate ai marginidella paletta, che aveva una lunghezza sproporzionata rispetto almanico; ne usciva lo stesso suono che si ascoltava nei dischi, lastessa voce piena di note acquose e delicate, che quando accom-pagnava i ritmi più incalzanti si trasformava invece in un ruggitoe mi faceva venire in mente il galoppo dei puledri della pubblicitàdel Vidal.

Per un modico supplemento di tremila lire, il tizio aveva ag-giunto anche un prontuario di accordi ciclostilato, che contenevapersino i rudimenti delle tecniche di esecuzione.

Era in spagnolo, ma per fortuna ampiamente illustrato.Nella penombra pomeridiana della mia camera, trascorrevo ore

a rigirare tra le mani questo centauro per metà di legno, per metàdi armadillo; ne accarezzavo il muso, che affiorava dal manicocome un vorace coccodrillo nascosto in un pantano, e le piccoleorecchie pendule. L’unica cosa che mi turbava era quel persistentepuzzo di pellame stantio che si effondeva dalla cassa armonica,ma mi ci abituai rapidamente.

Quando Tanino lo vide per la prima volta ne ispezionò l’in-terno, dove su un’etichetta quasi illeggibile si distinguevano ap-pena le scritte «Cochabamba» e «artesania»; poi controllò

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