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1 PARTENZE (DAL CAHIER NOIR) 1 La nostalgia può essere calcolata anche usando i numeri. È distanza moltiplicata per un fattore di amore. Beremiz Samir, in L’uomo che sapeva contare, di Malba Tahan La fuga nella vita, chi lo sa, che non sia proprio lei la quintessenza. Paolo Conte 03.01.2009 03.01.2009 03.01.2009 03.01.2009 treno ‘Cisalpino’ Milano/ treno ‘Cisalpino’ Milano/ treno ‘Cisalpino’ Milano/ treno ‘Cisalpino’ Milano/Zü Zürich rich rich rich HB HB HB HB Sono finalmente sul treno. L’ennesimo. Quello di ieri sera per arrivare qui a Milano è stato il solito viaggio della speranza: il profondo nord non si smentisce: su un viaggio di due ore scarse Torino-Milano siamo riusciti ad accumulare mezz’ora di ritardo. Quella di stamattina si configura come una mezza fuga da una città che respinge. Respinge la sua metro che dorme, respinge la millanteria di una città che si dice europea e ha manifesti pub- blicitari che danno la notizia strabiliante che la metro tiene aperta un’ora in più (non si capisce se solo il fine settimana o meno). Una cosa strabiliante che forse appena fuori da questi angusti confini di stato è un evento che accade da sempre. Questo il motivo della fuga: gli angusti confini di stato. Fuggire, almeno per qualche giorno, da cartelloni pubblicitari che dicono che “comprare Philips da Darty è un tuo diritto”. I diritti dovrebbero essere ben altri, come quelli rivendicati con una certa par- tecipazione dalla signora seduta di fronte a me, che sostiene, al controllo dei documenti di viaggio, l’incompetenza (possibile, probabile) di chi le ha fatto i biglietti qui in Italia. Lei paga un qualche ab- bonamento in Svizzera che le dà diritto a. Il controllore sa, capisce, sorride alla veemenza del- le rivendicazioni. Timbra e saluta, quasi a non vo- ler, alla fin fine, dar soddisfazione a tutto quell’agitarsi. Il contrappasso dei diritti di chi si è autoesiliato appena oltre il confine. Chissà che non abbiano ragione loro. La pubblicità da cui fuggo – sempre intravista in metro – è quella che mostra una specie di schermo ipod/iphone con icone che indicano percorsi di formazione, di apprendimento, non capisco promossi da chi, a che scopo (che se è quello ‘nobile’ dell’inserimento nel mondo del lavoro, allora siamo in buona compagnia…). La scritta che cam- peggia in grande suona qualcosa del tipo “il processo formativo” o “costruttivo”, su cui qualcuno, stanco di essere preso in giro da queste cose, ha opportunamente cancellato il “pro”, probabil- mente per renderlo più vicino al reale. Il ‘Cisalpino’ oramai oltre Monza (anzi ad Albate o qual- 1 Le riproduzioni qui proposte sono quadri di Giampaolo Talani, al quale NON ho chiesto espressamente il consenso, seppure, in una mail a cui ancora non ho ricevuto risposta, ho manifestato interesse per una delle sue (ri)produzioni che vorrei acquistare. Per informazioni sulle sue opere si veda il sito www.talani.it. Partenze © Giampaolo Talani

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PARTENZE (DAL CAHIER NOIR)1

La nostalgia può essere calcolata anche usando i numeri. È distanza moltiplicata per un fattore di amore.

Beremiz Samir, in L’uomo che sapeva contare, di Malba Tahan

La fuga nella vita, chi lo sa, che non sia proprio lei la quintessenza.

Paolo Conte

03.01.2009 03.01.2009 03.01.2009 03.01.2009 ���� treno ‘Cisalpino’ Milano/ treno ‘Cisalpino’ Milano/ treno ‘Cisalpino’ Milano/ treno ‘Cisalpino’ Milano/ZüZüZüZürichrichrichrich HB HB HB HB Sono finalmente sul treno. L’ennesimo. Quello di ieri sera per arrivare qui a Milano è stato il solito viaggio della speranza: il profondo nord non si smentisce: su un viaggio di due ore scarse Torino-Milano siamo riusciti ad accumulare mezz’ora di ritardo. Quella di stamattina si configura come una mezza fuga da una città che respinge. Respinge la sua metro che dorme, respinge la millanteria di una città che si dice europea e ha manifesti pub-blicitari che danno la notizia strabiliante che la metro tiene aperta un’ora in più (non si capisce se solo il fine settimana o meno). Una cosa strabiliante che forse appena fuori da questi angusti confini di stato è un evento che accade da sempre. Questo il motivo della fuga: gli angusti confini di stato.

Fuggire, almeno per qualche giorno, da cartelloni pubblicitari che dicono che “comprare Philips da Darty è un tuo diritto”. I diritti dovrebbero essere ben altri, come quelli rivendicati con una certa par-tecipazione dalla signora seduta di fronte a me, che sostiene, al controllo dei documenti di viaggio, l’incompetenza (possibile, probabile) di chi le ha fatto i biglietti qui in Italia. Lei paga un qualche ab-bonamento in Svizzera che le dà diritto a. Il controllore sa, capisce, sorride alla veemenza del-le rivendicazioni. Timbra e saluta, quasi a non vo-ler, alla fin fine, dar soddisfazione a tutto quell’agitarsi. Il contrappasso dei diritti di chi si è autoesiliato appena oltre il confine. Chissà che non abbiano ragione loro. La pubblicità da cui fuggo – sempre intravista in metro – è quella che mostra una specie di schermo ipod/iphone con icone che indicano percorsi di

formazione, di apprendimento, non capisco promossi da chi, a che scopo (che se è quello ‘nobile’ dell’inserimento nel mondo del lavoro, allora siamo in buona compagnia…). La scritta che cam-peggia in grande suona qualcosa del tipo “il processo formativo” o “costruttivo”, su cui qualcuno, stanco di essere preso in giro da queste cose, ha opportunamente cancellato il “pro”, probabil-mente per renderlo più vicino al reale. Il ‘Cisalpino’ oramai oltre Monza (anzi ad Albate o qual-

1 Le riproduzioni qui proposte sono quadri di Giampaolo Talani, al quale NON ho chiesto espressamente il consenso, seppure, in una mail a cui ancora non ho ricevuto risposta, ho manifestato interesse per una delle sue (ri)produzioni che vorrei acquistare. Per informazioni sulle sue opere si veda il sito www.talani.it.

Partenze – © Giampaolo Talani

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cosa del genere: altro stucchevole dettaglio di questo ipertrofico hinterland milanese è la terribi-le toponomastica di tutti questi luoghi satellite che terminano in “-ate”…) si inerpica verso la montagna. Siamo in arrivo a Como. Posto che già mi sembra frontierasco, per i racconti (anche) di un cugi-no di mia madre che credo abbia fatto i soldi in gioventù facendo il contrabbandiere. Il treno ha trovato una sua quiete dopo una logistica difficoltosa: sono bastate un paio di persone con valige over size impossibili da stipare se non su seggiolini destinati a persone, a intoppare gli angusti corridoi di questo treno che vuole assomigliare sempre più a un aereo. Si sentono cellulari in cui si parlano esclusivamente varietà di dialetti del Sud o italiani con in-flessioni dialettali marcate: il Sud dell’emigrazione, della Puglia, della Sicilia. La mia stessa storia – penso a tanta parte dei parenti di madre – sarebbe potuta essere non tanto diversa da queste. Sarei potuto essere uno di questi tanti figli trapiantati. Nel frattempo ci sono casini con le prenotazioni dei posti a sedere: la signora – in compagnia di madre e figlia – che rivendicava i propri svizzeri diritti, pare non abbia i titoli per stare seduta dove sta, insieme alla figlia piccola e alla madre letterata (o quanto meno: di letture impegnate, visto che aveva sfoderato niente meno che una consunta edizione tascabile Einaudi di un Dalla parte di Swann…) e disattenta (credo che tutti quelli che le sono passati accanto abbiano raccol-to qualche pezzo del suo vestiario: dalla sciarpa al cappello di pelliccia, passando per guanti e maglione…). Una coppia di colore, infatti – che parla un po’ di inglese, nessun francese e molto tedesco – mi dicono, mostrandomi il biglietto, che hanno i posti delle signore. Mentre avviene la conversazione la signora con la figlia piccola sono via, al bar, e la madre lette-rata e disattenta cerca di interagire in francese, ma il ragazzo si rivolge a me dicendomi che posso libe-ramente parlargli in tedesco, se preferisco. Col mio approssimato inglese, usato per tentare di spiegare il pasticcio, gli rispondo, ma m’hai visto bene?, che sono italiano: Entschuldigung, mi spiace, Ich ver-stehen sehr wenig Deutsch, und nicht sprechen… Insomma: una babele linguistica commovente. Nel frattempo arriviamo a Chiasso, confine che il Consorzio Suonatori Indipendenti (ma non solo lo-ro) vorrebbero illusoria convenzione arbitraria fatta di aria e luce. Ma illusoria non è: di solido confine si tratta per paesaggio che non muta nella sostanza, ma che ha materializzato d’incanto gendarmi che, nel millennio terzo dell’era cristiana, vedo soprag-giungere sul treno. Divise di guardie di frontiera, finanzieri, tra l’Europa Unita e uno staterello-caccola come la Svizzera che all’Europa, con tutta evidenza, non si vuole unire. Illusoria questa aria e luce, questo etere che di tutti non è: appena varcato il confine quasi all’unisono i cellulari ricevono il messaggio di benvenuto nel roaming internazionale.

Partenze nella nebbia – © Giampaolo Talani

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A tal proposito vien utile citare Marco Aime:

L’enfasi sempre maggiore posta sulle culture e sulle loro presunte radici conduce a una crescente at-tenzione verso il locale e i localismi. Accade poi che alcuni localismi, impugnati da élite dotate di suf-ficiente potere, vengano gonfiati di aspirazioni globali: le regioni vogliono diventare stati, i dialetti lingue e così via. Tutto questo in nome dei cosiddetti popoli o delle culture locali che rivendicano au-tonomia nei confronti degli stati-nazione. Alcuni sostengono che una lingua altro non è che un dia-letto che ha fatto fortuna, altri, come Noam Chomsky, affermano che «una lingua è un dialetto con un passaporto e un esercito». Che cosa sono esercito e passaporto se non i segni evidenti di uno stato-nazione, con il suo monopolio della forza e il suo controllo sui confini e sugli individui? Esattamente quanto molti localisti (sinceri) vorrebbero rifuggire, ma che, spinti da élite meno spontanee con vel-leità di potere e capacità di strumentalizzazione, vorrebbero creare. Ecco come nascono molti «conflitti culturali» che sembrano caratterizzare la nostra epoca e che sotto la patina della cultura celano spesso ben altre spinte, ben altri interessi. Nel dicembre 2002 sono stato a Istanbul. Osservando dall’alto della collina di Sultanahmet la striscia grigia del Bosforo mi sono tornate in mente le parole del «Filemazio, protomedico, matematico, astro-nomo, forse saggio» della canzone di Francesco Guccini, Bisanzio. «Me ne andavo l’altra sera quasi inconsciamente, / giù al porto Bosforeion là dove si perde, / la terra dentro al mare, fino quasi al niente / e poi ritorna terra e non è più Occidente. / Che importa a questo mare essere azzurro o verde?» Appunto. Europa, Asia, che importa? Tutte le guide turistiche e i libri enfatizzano il confine tra i due continenti, e il Bosforo assurge a simbolo di linea d’acqua tra due mondi, due civiltà, due culture. Di qua l’ellenica Europa, poi divenuta Occidente; di là il mondo ottomano, quello delle delizie degli ha-rem e delle affilate scimitarre di sultani assetati di sangue cristiano. Eppure a Istanbul – già Costanti-nopoli, già Bisanzio – delle astrazioni dei geografi e degli storici, impegnati a separare continenti, e delle fantasie dei romantici esotici nulla importa. Esiste, uguale a se stessa, sulle due sponde. Nessuno deve aver detto ai suoi abitanti che vivono a ca-vallo di un orizzonte generato dagli occidentali, specialisti nel creare confini. Chiamarla Santa Sofia o Aya Sofya non fa differenza. Lo splendido edificio che domina la collina di Sultanahmet venne fatto costruire da Giustiniano in nome della Divina Sapienza nel 537, e fino al 1453, quando passo agli Ottomani, rimase la più grande chiesa della cristianità; poi divenne una mo-schea e tale restò fino al 1935. Oggi è un museo. L’impressione che si prova a visitare questa maestosa costruzione è ingannevole. Mosaici cristiani e versi del Corano sembrano inseguirsi; linee armoniose e contrafforti aitanti si confondono in un gioco di contraddizioni stilistiche, in un susseguirsi di affer-mazioni e negazioni architettoniche2. Era il simbolo della cristianità, ma non è stata distrutta dai mu-sulmani: anzi, furono proprio i fedeli di Allah a costruire i rinforzi che ne hanno impedito il crollo. Ecco perché al razionale Filemazio, Bisanzio appare come «un simbolo insondabile, crudele e ambi-guo, come questa vita. Bisanzio è un mondo che non mi è consueto». Anche a noi non è consueto pensare alla cultura come a quell’edificio: un sovrapporsi e un intrecciarsi di storie, idee, gusti, identità, sogni, scienze. È più facile pensare a linee nette che segnano confini precisi, frontiere che ci piace credere come naturali e pertanto difficili da cancellare. «Le frontiere? – ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal – Esistono eccome. Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini».3

Nella italianissima Svizzera oltre Lugano, nella babele linguistico-trenica cui ho fatto cenno, l’omino del carrello vivande non spiccica una parola d’inglese, al punto che ha fatto lo scontrino

2 Incidentalmente le sensazioni sono le stesse che ho provato frequentando e visitando chiese in Sicilia e Puglia, nell’estate del 2006: una diacronia riassunta in una storia architettonica stratificata nei secoli: una sorta di “macchina del tempo” in situ, con parti antiche alle quali si sono aggiunte nell’accavallarsi delle stagioni parti più moderne, ma alla quale si affianca la inevitabile sincronia di avere tutto davanti insieme, in quel momento. L’effetto, come dice Aime, è straniante. 3 Marco Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, pp. 4-6.

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alle signore di fianco per far capir loro quanto dovevano sborsare. Un po’ di francese? Chissà come va il suo tedesco… Chiudo gli occhi. Mi appisolo. E quando li riapro il cielo è tornato azzurro e il Cisalpino serpeg-gia sinuoso e lento, in una gola stretta di queste alpi. L’idioma, come l’architettura, è cambiato: siamo in Germania. Dopo Arth-Goldau – dove è tornato il tempo grigio e bigio – scorgo un bel-lissimo lago sulla sinistra (Zuger See) dopo essermene perso uno sulla destra (Lauerzer See). La fuga, da transfuga comunitario in terra extracomunitaria, ha una sua precisa connotazione le-gata al fatto che (1) giro con una borsa che mi fa sembrare un venditore di tappeti quando la porto sulla spalla e (2) posso pagare il biglietto Zürich/Luxembourg in contanti ma danno il re-sto in franchi svizzeri – di cui onestamente non so che farmene – oppure, ovviamente, con carta di credito che, tra mille scuse della signorina oltre lo sportello, richiede mille controlli (carta d’identità, firma, ecc.).

Mangio un panino e bevo una bottiglietta d’acqua do-ve accettano euro (anche se, al solito, mi danno un re-sto in franchi che spendo per una cartolina). Zurigo è negozi, negozi e ancora negozi («non voglio compera-re né essere comprato…» dice il buon Giovanni Lindo Ferretti). Il freddo tagliente, accompagnato da un leg-gera brezza, e il borsone da emigrante mi fanno desi-stere da ogni proposito escursionistico, per quanto mi faccia piacere camminare, nella considerazione che mi attendono altre funf stunde tonde tonde di viaggio (14.36 � 19.36) prima di arrivare. Ora sono in compa-gnia di una allegra combriccola caciarona di giovani di lingua tedesca, molto probabilmente di ritorno da qualche giro sulla neve: hanno snowboard, pantaloni col cavallo basso, ipod, iphone e birre a volontà. Alla terza a testa cominciano i rutti, ma i ragazzi, a parte questo vezzo, sono innocui. Ci mangiano sopra e questo aiuta a non far dare di te-sta. A Basilea il treno si affolla. Una bambina (10, forse 11 anni, non credo di più) siede di fronte a me. Ha i lineamenti, le pose e i vestiti di una donna adulta. È

molto bella – e forse, ahimè, già troppo consapevole di esserlo. Da grande farà girar la testa a molti uomini. Due posti più in là un uomo sfoglia Le Figaro : l’ultima pagina è occupata quasi per intero da una foto che mi pare ritrarre il nostro Paolo nazionale (Conte), nella sua posa più classica: vagamen-te imbronciato e col baffone fluente. Nonostante il passare degli anni e un successo decretato in qualche modo anche al di qua dei confini nazionali, continua a valere anche per lui la singolare ‘regola’ che nessuno è profeta in patria. La montagna nel frattempo ha definitivamente ceduto il passo alla piana e non c’è traccia di ne-ve. Compare un inatteso sole dal coperchio di nuvole, sul filo dell’orizzonte. Colonna sonora, fi-no a questo momento: i CSI di Tabula Rasa Elettrificata e i Placebo, nel programmatico Without you I’m nothing. I cellulari si sono rimessi a squillare ed è assai probabile che si sia oltrepassato qualche altro confine.

Due musicisti – © Giampaolo Talani

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Il freddo di Zurigo mi fa ripensare alle terribili testimonianze di Germano Facetti4 sulla deporta-zione verso i campi di concentramento. Germano racconta che le guardie più sadiche facevano letteralmente, e con la massima semplicità, morire di freddo il deportato che aveva commesso qualcuna delle inspiegate disobbedienze legate all’assurdo codice di condotta dei campi. Bastava lasciarlo fuori una notte. Scarsamente vestito. Già deperito il giusto. Lui racconta di aver sentito uno dei primi morti di cui si è preso la briga di tener conto, tutta la notte lamentarsi. La mattina successiva ai rigori dell’inverno continentale si era aggiunto il definitivo rigor mortis. Non so perché questo pensiero. Non c’è motivo specifico. Ma avere freddo, questo freddo, e pensare di non aver alcuna possibilità di difendersene credo possa gettare nel panico anche la mente più salda. Ora, dentro il treno, questo languido e serafico tramonto, composto come le persone che occu-pano questa carrozza – la combriccola di ragazzi tedeschi nel frattempo è scesa – illumina vecchi edifici industriali di mattoni rossi, che scorrono sullo schermo del finestrino. Dalle finestre orbe, coi vetri rotti, non so perché non mi sarei stupito di vedere un angelo – sì, sempre quelli di Wenders ne Il cielo sopra Berlino… – comparire all’interno, affacciarmi, sorridere e salutarmi con un cenno della mano. Deve essere l’effetto collaterale di qualche farmaco che prendo a ren-dere così vivida la mia fantasia. PS: che questa sia zona frontierasca lo dice l’intercambiabilità di francese e tedesco. La ragazza nel seggiolino di fronte al mio, accanto alla bimba-adulta, esaurito il suo romanzo francese Un regalo inatteso, ha tirato fuori un corposo volume della Suhrkamp, di cui però ignoro autore e titolo (e quindi se narrativa o saggistica). 06060606.01.2009 .01.2009 .01.2009 .01.2009 ���� TGVTGVTGVTGV Luxembourg/ParisLuxembourg/ParisLuxembourg/ParisLuxembourg/Paris Sto arrivando nella città in cui sarei voluto arrivare con la donna amata, da amare. Ci arrivo con l'amica di sempre, Va-leria, che in poche ore mi abbandonerà. Penso curiosamente al mio primo vero amore platonico internazionale che era francese: Benedicte di Monfort. Quelle cose da quindicenni per le quali fino a quando si è l'uno accanto all'altra in va-canza, al sole, nel mare, non succede assolutamente niente. Fino al momento della partenza fatta da un solo unico lun-ghissimo bacio – Je t’aime. Moi aussi – e tonnellate di lacri-me e lettere in francese che ancora in qualche recondito an-tro di una cantina o di in solaio conservo in qualche dimora nella quale ho vissuto. Lettere che capivo e alle quali rispon-devo in italiano e mi facevo tradurre in francese da Piera, la sorella di Anna. Chissà dov'è Benedicte. Che cosa ha fatto in questi oltre vent'anni. Come sta. Se è felice. Spero che come me non stia su facebook a rincorrere o/e a farsi rincorrere da compagni dell’asilo che le chiedono l’amicizia. Non voglio caricare di attese questo passaggio parigino, ma è una città nella quale non sono mai stato. Che mi è stata negata nella vita precedente, da amori prece-denti.

4 Raccolte da Paolo Crepet, in un libro scritto a quattro mani: La ragione dei sentimenti, Einaudi, Torino.

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Tutto questo penso mentre il tgv fa il suo dovere di tgv nella tratta Metz Parigi nel sole pallido, ostaggio del ghiaccio del cielo. Missile con le ruote che solca la campagna ibernata in un accordo commerciale transnazionale con le DB tedesche. Colonna sonora: ancora Without you I’m nothing (Placebo). 06060606.01.2009 .01.2009 .01.2009 .01.2009 ���� Hotel Cambrai, 129 bis, Boulevard Magenta Hotel Cambrai, 129 bis, Boulevard Magenta Hotel Cambrai, 129 bis, Boulevard Magenta Hotel Cambrai, 129 bis, Boulevard Magenta –––– Paris, 75010 Paris, 75010 Paris, 75010 Paris, 75010 Il tempo, in Lussemburgo, è trascorso veloce. La casa accogliente e calda che Daniele ha trovato in affitto è stata la casa del riposo: il clima rigido e il poco da vedere all’esterno – a parte il Granduca ☺ – hanno giocato un loro preciso ruolo. Lussemburgo ville, alla fine fa 77mila e rotti residenti. Un quartiere di Torino, più o meno. Metti che con l’indotto della Comunità Europea arrivi al doppio, ma è sempre poco più di una modesta cittadina italiana. Graziosa, ma che si gira davvero in poco, al punto che la già sottile guida verde del Touring Club – notoria per la sua dovizia di particolari – comprendente Belgio e Lussemburgo, dedica a quest’ultimo giusto qualche pagina. Belli alcuni scorci, soprattutto quando il tappo di grigio decide di lasciar spazio ad altri colori e qualche raggio di sole arriva… mentre nevica! La casa di Daniele è curiosamente un sottotetto come quella di Francesco a Berlino: dalle finestrelle sugli spioventi si tassellano e riquadrano piccole superfici di un cielo spesso omogeneo per tonalità e, per quel che m’è dato vedere finora, con tonalità di prevalenza al grigio. Atmosfere languido-malinconiche che hanno fatto oscillare l’animo tra un film di Wenders e uno di Kiesslowski. Siamo arrivati a Parigi nell’intorno di mezzogiorno. Il ghiaccio lussemburghese non è diminuito, anzi: è pure un po’ aumentato. Una volta espletate le singole burocrazie – per me la presa di pos-sesso della stanza dalla quale in questo momento scrivo, non lontana dalla Gare de l’Est, dove siamo scesi; per Valeria la riconversione in biglietto di una prenotazione, a cui è seguito un bi-glietto che però non le è arrivato a casa in tempo e che quindi le è costato un nuovo biglietto che, dicono i francesi in francese, le verrà rimborsato dalla prestigiosa SNCF direttamente sulla

carta di credito… – ci siamo chiusi in una brasserie af-follata e riscaldata in modo approssimativo per un boccone frugale, di fronte alla Gare de Lyon. Riaccompagnata Valeria al treno per l’Italia, sono pronto per affrontare Parigi in solitudine. Sbaglio su-bito strada, perché nonostante i consigli di Vale, deci-do di andare a piedi: vuoi mettere passeggiare (e per-dersi) per Parigi, ora che si è pure messo al sereno e il freddo che non soffro (sono senza guanti, senza cap-pello…) rischia di staccarmi di netto le orecchie? Le strade, i marciapiedi soprattutto, sono ghiacciati e c’è poco da star col naso all’insù: si rischia di volare a ogni passo (e un paio, di cui un signore non proprio giova-nissimo che deve essersi anche fatto male, me li sono visti in diretta). Non che da queste parti se ne curino molto, mi sem-bra: per altro la gente continua ad andare in scooter o

con le velò – che si possono, come in Lussemburgo, affittare in ogni cantone. Sento che però il freddo morde più di quanto son pronto ad affrontare (soprattutto per l’abbigliamento che è standard: maglioncino, camicia, jeans…) e presto ne scopro il perché su

L’uomo e la rosa – © Giampaolo Talani

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uno di quei termometri digitali che le farmacie espongono insieme alla croce verde: dice -4 alle tre del pomeriggio. Sbaglio strada, dicevo, dirigendomi verso la Bastiglia, di cui vedo però solo il monumento che è una sorta di Siegessäule in miniatura. Una volta chiaritomi la geo-grafia, taglio giù verso la Senna per andare al cuore del-la città. La cattedrale di Notre-Dame, il museo del Lou-vre (obiettivo della giornata), gli Champs-Élysées e, se proprio sono in forma, l’Arco di Trionfo. La mappa mi inganna perché sembra tutto più vicino di quanto lo sia nella realtà. Così, passato davanti a Notre-Dame – non viene tanto da indugiare e fare “ooooh” a -4… – viaggio spedito verso il Louvre. Eh! Si fa presto a dire Louvre! Una struttura immensa dove ci metto più di un attimo – anche perché non ci sono indicazioni – a capire da dove si entra (ovvero: dalla parte opposta rispetto a quella da cui arrivo io). Contento della scoperta e di pensarmi al caldo, di fron-te a un Mantegna o alla Gioconda, arrivo alle famose piramidi di accesso (che ignorante! Neppure sapere da dove si entra!), salvo il fatto che il museo è… fermeé. Così, con il sorriso beffardo di chi fa crollare le speranze a un disgraziato come me, che in tren-totto anni, in una vita seconda, restituitagli, cerca di mettere piede in uno dei musei più impor-tanti del mondo, così pronuncia la parola tranquilla il gendarme/custode. Leggo bene sugli scarni avvisi: vicino alle tariffe per l’ingresso dice: martedì giorno di chiusura. E a questi non gliene importa una pippa se oggi è la befana: mica siamo in Italia! Sorrido - per-ché nella vita non si può che sorridere di fronte a certe cose. In trentotto anni mi fermo venti-quattro ore a Parigi e in quelle ventiquattro ore il museo è chiuso. Mi dico: segno evidentissimo che qui ci devo tornare. Solo che sono talmente abbattuto e affran-to dal vento e dalla temperatura che non so più neanche bene dove andare. Torno verso nord, verso rue de Rivoli, abbandonando la Senna. Non riesco neppure a far foto tanto mi sento rat-trappite le mani. E poi m’è pure passata la voglia. Scopro quasi casualmente che poco distante, alla Biblioteque Nationale de France, in rue de Ri-chelieu, c’è una mostra che mi incuriosisce: «’70: la photographie americaine». Certo, non è il Louvre, ma almeno faccio una scorta di caldo. Così è: entro, mi avventuro, la biblioteca è bellis-sima, la mostra mantiene meno di quel che promette, ma si lascia guardare. Alle 18 sono di nuo-vo fuori al gelo, determinato a godermi ancora qualche scorcio. Vado nella direzione che è press’a poco quella dell’albergo e, in un grande boulevard di cui non ricordo il nome, trovo uno di questi megastore Virgin: decido di entrare più per la solita questione del caldo – nel frattem-po il sole se n’è definitivamente andato e magari la temperatura è scesa di un altro paio di gradi – che per l’effettiva necessità di acquistare qualcosa. Al netto di una impressione di ‘globalizzazione’ e di omologazione, i francesi sono davvero lin-guisticamente impermeabili: tutto è in francese; al bancone TGV delle ferrovie Valeria non ha trovato nessuno che parlasse inglese (nel centro d’Europa, nell’anno domini 2009!); qui nel me-gastore, allo scaffale ‘turismo’ le guide nazionali – la Francia, Parigi – sono scritte… in francese e basta! Il 90% degli scaffali del piano sotterraneo, che contengono musica e video in grandi

La valigia delle donne – © Giampaolo Talani

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quantità, vedo solo cantanti, musicisti, registi, film, documentari francesi. Ma non tradotti in francese – come può accadere da noi in Italia, che si traduce quel che arriva da fuori – proprio francesi e basta! Autarchia! Non so: faccio fatica a pensare che un posto del genere abbia un ri-lievo così determinante per la cultura europea. Non mi si fraintenda: di fatto lo è e questo ruolo ce l’ha. Ma è questa sorta di ‘impermeabilità’ a lasciarmi perplesso. Poi è vero: la lingua ufficiale delle ex colonie (loro) è il francese e questo di sicuro ha un suo peso specifico, ma se la lingua ‘franca’ è stata ormai universalmente riconosciuta come l’inglese, davvero non capisco perché si ostinino così tanto. Di sicuro ci saranno precise ragioni storiche, antropologiche, ecc., ma la «ca-pacità di cambiamento»?5 Mi è sembrato, in tal senso, molto più crogiolo e ricco di aperture linguistiche (e quindi tout court culturali) il Lussemburgo (dove si parla l’inglese, il tedesco, il francese e quello che sembra somigliare a un fiammingo/olandese…) che non Parigi! Esco un po’ perplesso. Il mio soggiorno francese si chiude in un ristorante indiano, di cui sono

l’unico avventore, a pochi passi dall’albergo (basta freddo: ho fatto il pieno!). Curato, ha i suoi begli ele-menti kitsch dei quali sorrido tra me. Saluto, che do-mani sarà comunque un’altra lunga giornata di viaggio verso ‘casa’ (Milano: non propriamente casa, ma in-somma…). Sulla via del ritorno penso a questa mo-dernità che accomuna e appiattisce: anche a Parigi hanno i numeri verdi (che però si chiamano azzurri) dove magari hanno tanti signor Malaussène che di mestiere fanno i capri espiatori e si prendono i cazzia-toni della gente. Anche qui, come da noi, hanno agen-zie interinali con posti da elettricista e tornitore ad as-sunzione immediata. PS (prima di dormire): alcune volte credo che il non avere un buon possesso di una lingua straniera sia una specie di fortuna che fa da forte deterrente a qualche curioso pensiero per il quale mi vien voglia di mollar tutto e tutti per ricominciare daccapo da un’altra par-te.

07070707.01.2009 .01.2009 .01.2009 .01.2009 ���� Aeroporto Charles De Gaulle, terminal 2BAeroporto Charles De Gaulle, terminal 2BAeroporto Charles De Gaulle, terminal 2BAeroporto Charles De Gaulle, terminal 2B Come previsto arrivo con largo anticipo, ma non senza imprevisto: abbandonata la pur dignitosa (e confortevole: almeno per il letto) stamberga nella quale ho alloggiato questa notte, passato per un café che mi ha ricordato di essere ancora e pur sempre a Parigi (caffè e croissant 4 €: poi ci si chiede il motivo di certi sommovimenti popolari come quelli avvenuti alle Balenieu), mi avvio alla Gare du Nord : ieri, mentre accompagnavo Valeria, ho visto una specie di servizio navetta che conduce all’aeroporto. Cerco di fare il biglietto alle macchinette automatiche, metà delle quali sono fuori servizio. Mi metto diligentemente in coda in una di quelle in servizio. Scopro, scegliendo sul menu a video, che il biglietto costa 8,40 €, ma anche che la macchinetta non accetta nient’altro che monete!

5 Per chi fosse interessato ad approfondire un minimo la questione linguistico-culturale francese, Marco D’Eramo, in un suo vecchio e illuminante libro, Lo sciamano in elicottero, dedica un intero capitolo a questa vicenda.

Notte di S. Lorenzo – © Giampaolo Talani

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Non avendo ottovirgolaquarantaeuro in monete, desisto e vado alla biglietteria: la signora capi-sce immediatamente, nonostante io parta dall’inglese, la mia latinità e si sforza di parlare un ita-lo-spagnolo commovente. Forse cara andrebbe bene anche la tua lingua madre, purché non par-lata come una scheggia. Mi indica anche il binario, il 43, della RER (uno dei sicuri acronimi francesi che sta tra TGV – pronuncia: tegevè – e VTT – pronuncia: vetetè6), una specie di “ferro-via leggera”, di metro extraurbana. Guardo, cerco conferma e… riesco a sbagliare il tornello d’ingresso! Solo che una volta pinzato il biglietto indietro non si torna (non è come per la maggior parte delle metro italiane, per le quali l’accesso in uscita è sempre garantito), salvo imitare il giochetto di uno che ha avuto la mia stessa sorte e che, con noncha-lance, si accoda appiccicandosi a uno che esce col bi-glietto letto per l’uscita. Aspetto un po’ poi faccio lo stesso, ma il problema, avendo già convalidato in ingresso il biglietto una volta, si ripresenta: non vengo accettato per un se-condo ingresso. Così, vista l’assenza del personale di controllo, faccio il portoghese, anzi: l’italiano e, di nuovo, pure in ingresso, mi infilo al volo dietro uno che entra. Stavolta sono nel posto giusto, anche se i treni per l’aeroporto sono in ritardo e la banchina è sovraffollata. Riesco a stiparmi, a farmi acciuga nono-stante il bagaglio e, in capo a due fermate, la ressa scema al punto da potersi comodamente sedere. L’ultimo attimo di panico mi viene all’uscita del terminal 2, dove il biglietto metro/RER deve essere riconvalidato per poter uscire. Il giochino, com’è lo-gico che sia (in effetti dalle infernali macchinette dei tornelli è stato timbrato una sola volta in ingresso), funziona, anche se date le premesse, poteva non essere scontato. La morale della storia è: se prendete la metro a Parigi NON buttate MAI via il biglietto PRIMA di essere usciti definitiva-mente dalla metro e NON lo perdete (e li fanno sufficientemente piccoli apposta che non è un’ipotesi remota…): potrebbe costarvi caro. Soprattutto perché bisogna spiegare al personale SNCF e poi, se questi non capiscono, alla gendarmerie francese che magari parla solo francese, perché il solito italiano furbo che sembra non voler pagare e/o aver trovato il solito escamotage per, in realtà ha solo sbagliato a infilare una porta per sbadataggine, ma fors’anche per una se-gnaletica non proprio limpida (ma, almeno qui, anche in inglese). 07.01.2009 07.01.2009 07.01.2009 07.01.2009 ���� Gare de l’Est, Gare de l’Est, Gare de l’Est, Gare de l’Est, ParisParisParisParis, , , , TGV Paris TGV Paris TGV Paris TGV Paris ���� Luxembo Luxembo Luxembo Luxembourgurgurgurg Gli imprevisti non sono finiti e pare abbiano portata maggiore di quanto previsto. I voli Easyjet diretti verso l’Italia (ovvero: verso tutti gli aeroporti del nord Italia…) di oggi sono stati cancel-lati causa neve. I treni, ammesso che qualcuno parta, subiscono stessa sorte e stesso incerto de-stino. Prigionieri di Francia, dunque, per almeno un giorno. Mi faccio delle pensate. Potrei ri-

6 Come non sapete cos’è una VTT? La mountain bike, no? Solo, siccome i francesi traducono tutto, l’acronimo indica le velò tout terrain. E vabbé, coi francesi va così…

L’uomo che aspetta – © Giampaolo Talani

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manere qui a Parigi, ma ho la cattiva impressione che domani sia come oggi. Forse cattivo pre-sagio, non so. So che non ho voglia di. Certo: potrei anche andare finalmente a vedere il Louvre, ma c’è qualcosa di definitivo in certi episodi: ho deciso che sarà per un’altra volta. Mi pare che Parigi sia una città intasata, che non offra soluzioni a tutte le persone che oggi sono bloccate qui e per le quali domani si prospetta comunque un rientro rocambolesco. Forse mi sbaglio, ma, al solito, sono portato all’azione. Chiedo informazioni a Valeria via sms su quali sono le condizioni meteo in Italia, su quali sono le concrete possibilità di rientro sulla linea alternativa percorsa all’andata (Milano, Zurigo, Lus-semburgo), che, alla fine, diventerà anche quella del ritorno. Certo: toccherà viaggiare al solito tutto il giorno, ma alla fine mi pare il risultato più sicuro. Vedremo. Vedrò quando arriverò alla stazione di Lussemburgo, alle 18,20. Quanti giorni l’anno è impossibile rientrare nel proprio Paese per il maltempo (soprattutto quando il Paese in que-stione ha un clima mite come l’Italia)? Probabilmente con un frequenza non lontana a quella per la quale si capita a Parigi una volta in 38 anni e si trova il Louvre chiuso.

08080808.01.2009 .01.2009 .01.2009 .01.2009 ���� Lussemburgo stazione. In partenza veLussemburgo stazione. In partenza veLussemburgo stazione. In partenza veLussemburgo stazione. In partenza ver-r-r-r-so Zurigoso Zurigoso Zurigoso Zurigo Così sono tornato qui. Daniele mi accoglie tra lo stra-volto e il perplesso dal lavoro: fatica – non avevo dub-bi – con la lingua che per convenzione è l’inglese, ma l’inglese di chi è tedesco, quello di chi è olandese o francese o spagnolo. Inglesi diversi comunque, e non standard. In più è tutto nuovo: casa, città, colleghi, so-litudini. Il ragazzo è giovane e di belle speranze. Come si dice in questi casi: si farà. Ma, fuori da ogni possibile battuta, Daniele è uno in gamba e presto, prima di quanto creda, arriverà a padroneggiare con sufficiente sicurezza anche questo aspetto di questo nuovo assetto di vita. Per cena ci consoliamo con una pizza, in un ristorante italiano, anzi siciliano, visto che si chiama “La Zaga-ra”. Il richiamo di casa, lo capisco, è forte. Ci si sente un po’ spersi in un luogo dove si deve pensare a ogni frase che si dice, in una lingua che, per altro, non è

neppure quella di questo Paese. Ma così è. Chiacchieriamo di molte cose. La serata passa veloce, tra il sottofondo costante delle canzoni di Adriano Celentano e i menu scritti in questo italiano un po’ approssimativo, che mi fa tenerez-za, come il cameriere che ci tiene a parlare italiano, perché nato in Sardegna. E ci tiene a cor-reggersi quando lo guardiamo (forse senza pensare) con sguardo interrogativo per una macedo-nia alcolizzata, anziché alcolica. Si corregge, ci chiede scusa per l’errore e pure arrossisce un poco. Mi viene per un attimo, voglia di alzarmi e abbracciarlo. Anche da questo, penso, passa l’amor di patria. Chissà quanto ha gira-to, in quanti posti sarà stato questo ragazzo sardo che non ricorda alla perfezione la sua lingua madre. Torniamo indietro sulle strade bianche, polverose di sale cosparso a piene mani, a differenza della verglassen Parigi. Qui sarà che sono in pochi, ma si vede che il granduca ci tiene un po’ di

Partenza di un violinista – © Giampaolo Talani

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più alla salute dei propri concittadini. Bianco del sale che si frammischia al bianco della neve indurita, gelata, che crea scorci suggestivi. Questa mattina i saluti. Esco dopo Daniele tirandomi la porta dietro. Il tempo si è messo al sere-no e si è quindi fa il freddo che ha fatto a Parigi l’altro giorno, accompagnato dalla sgradevole sensazione che le orecchie debbano cascare come due cubetti di ghiaccio da un momento all’altro (ovviamente continuo a non avere né guanti né cappello…). Il treno ha 15 minuti di ri-tardo che diventano 25 alla partenza (scopro che Lussemburgo è una sorta di capolinea). Ho un’ora e 10 minuti di attesa per il cambio a Zurigo e mi auguro di farcela. Nell’androne della quieta stazione nordica, poco fa, tre anziani ne chiamano un quarto con sibili e fischi brevi, senza nome. Come un codice a lungo sperimentato. Fanno immediatamente croc-chio e un po’ di caciara. Indovinate un po’ quale può essere la loro nazionalità? Tre su quattro hanno la coppola, il quarto, rubizzo, porta un cappello a tesa larga e sotto le gote evidenti due mustacchi di una volta. Hanno aspetto e aria florida, sono allegri. Italienisch, emigrantes, cìngali, direbbe Mario Perrotta. Starei a osservarli tutta la mattina se non dovessi prendere il treno. Nonostante siano le 11 del mattino il sole non scalda neanche un po’ il ghiaccio intorno.

Primo pomeriggio Primo pomeriggio Primo pomeriggio Primo pomeriggio ���� in in in in arrivo a Saint arrivo a Saint arrivo a Saint arrivo a Saint Louis, uLouis, uLouis, uLouis, ultimo pezzo di Francia prima ltimo pezzo di Francia prima ltimo pezzo di Francia prima ltimo pezzo di Francia prima della della della della SviSviSviSvizzzzzerazerazerazera Due ragazzi spartani nel vestire, forse operai, forse macchinisti della SNCF, chiacchierano fitto mentre la campa-gna, il paesaggio intorno, viaggiano veloci, come le dita di Paolo Conte sul pianoforte che suona Elegia in mp3, nelle mie orecchie. Ore 17 circa Ore 17 circa Ore 17 circa Ore 17 circa ���� Zurigo, in partenza Zurigo, in partenza Zurigo, in partenza Zurigo, in partenza per Lugano e, si spera, Milanoper Lugano e, si spera, Milanoper Lugano e, si spera, Milanoper Lugano e, si spera, Milano Uno strisciante sciovinismo sembra essere presente anche qua: se la de-stinazione finale del treno è un’altra, perché non metterla? Vabbè, sono fi-nito in coda, che adesso diventa la te-sta, proprio a ridosso della cabina di guida. Vedo il macchinista che apre la porticina di accesso. Si è portato, con passo lento e gesti misurati, i “ciottolini”, quelli del cambio banco, da questa parte. Il macchinista che fa vita grama anche oltre il confine, guidando locomotive marchiate “car-

go” (quindi atte al trasporto merci) che trainano carrozze viaggiatori (visto in arrivo in stazione qualche minuto fa).

L’uomo che se ne va – © Giampaolo Talani

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Interrompo la scrittura perché scopro… di essere sul binario sbagliato! Ero sull’ETR sbagliato, il Dürrenmatt. In effetti la direzione era la stessa, ma non la destinazione (Lugano e non Milano, da qui il pensiero sullo ‘sciovinismo’…). Solo non c’era scritto ‘Cisalpino’. Poi la fleißig signori-na degli annunci aveva annunciato «gleis funf» e ha ripetuto in italiano binario cinque. Mi sem-brava troppo vuoto e poi ho visto arrivare questo sul quale sono seduto, sul binario di fianco. E vabbè dopo tutto ‘sto viaggiare ed essere quasi arrivati, sarebbe stato il colmo sbagliare il penul-timo (ma decisivo) treno per arrivare.

Come ho fatto a sbagliare! Con tutta l’italianità cacia-rona che ho intorno – a differenza della totale assenza di persone dell’altro, sul quale sta addirittura scritto in tedesco «zona del silenzio», con una bella croce sul simbolo del cellulare e pure di lettori audio con le cuf-fiette! Vabbè, prima di partire, ora, con 15 minuti di ritardo, mi sono fatto il mio giretto per sgranchire le gambe ai -5 offerti dalla città. Fuori dalla stazione la fontana, all’andata, non la ricordavo con una barba di ghiaccio così folta. Comunque torno in fretta nel centro com-merciale sotterraneo, sotto la stazione, per osservare, se mai ve ne fosse il bisogno, quanto son brutte le scarpe nei negozi. Sapranno pure fare gli orologi e an-che la cioccolata, ma quanto a vestirsi e calzarsi, tran-ne qualche rara eccezione, siamo ancora lontani dal buon gusto. Osservo con curiosità una rastrelliera alla quale sono legati dei portafogli: che non porti fortuna averne uno svizzero, visto che è un posto nel quale pa-re che i soldi si conservino bene?

Ora ho seduto di fronte a me un ragazzo che ha interloquito al telefono con la fidanzata, chia-mata “amore”. Quella che si dice una sineddoche. La più fantastica e abusata delle – aggiungerei. Al netto dello stucchevole tono della conversazione (quanto mi ami? Che fai? Mi manchi. An-che tu. Ma quanto. Tanto. Ma tanto quanto, ecc. ecc.), mi fa impressione una frase per la quale questo giovanotto sveglio, nel pieno dei suoi anni e delle sue facoltà ha chiesto a un altro italia-no – simpatico, che lavora all’ambasciata – quale fosse il treno giusto. Vabbè, io l’ho sbagliato, per una sorta di leggerezza e di approssimazione con la quale alle volte faccio le cose, ma arrivare a «è stato gentile, mi ha aiutato», mi pare fin eccessivo: dove siamo, nella foresta amazzonica? Zurigo, alla fine, è dietro casa ragazzo! Provenienza: Treviglio, tra Milano e Bergamo. Profondo nord. Che incontra il profondo sud: il ragazzo nella conversazione telefonica prosegue infatti, sostenendo di aver incontrato durante questo viaggio un altro italiano con il quale ha conversato un po’. Un siciliano che vive da vent’anni in Germania (quindi si presume sappia il tedesco almeno come l’italiano). Morale – ammesso che una la si voglia trovare in questo aneddoto finale: la necessità aguzza l’ingegno e talvolta (quasi sempre) conduce un pezzo più avanti chi ne è soggetto. La Svizzera a quest’ora, dopo tutte queste ore di viaggio, scorre lenta, con i suoi 25 minuti di ri-tardo, le sue curve, i suoi bui, i suoi silenzi.

La violinista – © Giampaolo Talani

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17.01.2009 17.01.2009 17.01.2009 17.01.2009 ���� Massa, casa dei miei Massa, casa dei miei Massa, casa dei miei Massa, casa dei miei –––– un post scriptum un post scriptum un post scriptum un post scriptum Ripenso a questo scritto. E ad altri di viaggi passati. Non so dire se in essi vi sia poesia o meno. Di certo nel suo senso etimologico di ‘composizione’, ‘produzione’, senz’altro. Ma per come la si intende comunemente, o almeno, per come a me piace intenderla – aspetto immaginifico, po-tenza della parola che trasporta altrove chi legge – credo che il successo sia modesto e per lo più si tratti di tentativi e prove. Di qualcosa di definitivo che forse verrà o forse non verrà mai. In ogni caso, di qualunque cosa si tratti, è possibile che tutto possa venir capitalizzato, in una vi-ta intera, per un solo “verso immortale”, come suggerisce Rainer Maria Rilke ne I quaderni di Malte Laurids Brigge:

...Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e racco-gliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riu-scirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a in-contri inaspettati e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni d'infanzia che sono ancora ine-splicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capi-vamo (era una gioia per altri), a malattie dell'infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavamo alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e non basta ancora poter pensare a tutto ciò. Si devono avere ricordi di molte notti d'amore, nessuna uguale all'altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma an-che presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la fi-nestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimen-ticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ri-cordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.

Luciano

Un uomo – © Giampaolo Talani