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23 Democrazia e diritto n. 3-4 2009 Il caso italiano La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della democrazia di Oreste Massari Premessa Per comprendere e valutare i partiti e il sistema partitico dell’Italia d’oggi, dell’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica (post-1992), è forse utile comparare la situazione attuale da un lato con il passato dei partiti della Prima Repubblica, e dall’altro con la situazione dei partiti nelle altre democrazie europee, comparabili per dimensioni di scala e appartenenza geo-politica all’Italia. Senza questa duplice comparazione non avremmo, infatti, criteri di valutazione utili, magari per stabilire se il caso italiano odierno sia o meno anomalo e patologico. Solo l’individuazione delle diffe- renze può permettere di analizzare prima e di giudicare poi il caso italiano. Ma cominciamo con la prima comparazione, non fosse altro perché lo stato attuale è figlio del crollo del sistema partitico del 1992-1994. Intanto, quando si parla dei partiti della Prima Repubblica, occorre di- stinguere due fasi della loro evoluzione. Una prima fase coincide con l’instaurazione e il consolidamento della rinata democrazia italiana (1943- 1968 circa), la seconda con la degenerazione partitocratica della nostra democrazia (1968-1992). È bene fissare questa distinzione, per evitare inutili e improduttivi richiami nostalgici, e per capire perché si è prodotto quel crollo. 1. I partiti fondatori della repubblica (1943-1968) Nella prima fase i partiti sono stati attori centrali prima nella Resistenza al nazi-fascismo (1943-1945), che infatti diressero attraverso i Comitati di Liberazione nazionale, poi nel processo di transizione alla democrazia (1945-1948). Essi si svilupparono, perciò, nel fuoco di vicende storiche collettive drammatiche (fascismo, guerra, resistenza, ricostruzione), col-

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Page 1: La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a ... parabola dei... · rappresentano sono quasi tutte di natura politico-ideologica (divisione de- stra-sinistra, occidente-socialismo),

23Democrazia e diritto n. 3-4 2009

Il caso italiano

La parabola dei partiti in Italia:

da costruttori a problema della democrazia

di Oreste Massari

Premessa

Per comprendere e valutare i partiti e il sistema partitico dell’Italiad’oggi, dell’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica (post-1992), è forseutile comparare la situazione attuale da un lato con il passato dei partitidella Prima Repubblica, e dall’altro con la situazione dei partiti nelle altredemocrazie europee, comparabili per dimensioni di scala e appartenenzageo-politica all’Italia. Senza questa duplice comparazione non avremmo,infatti, criteri di valutazione utili, magari per stabilire se il caso italianoodierno sia o meno anomalo e patologico. Solo l’individuazione delle diffe-renze può permettere di analizzare prima e di giudicare poi il caso italiano.

Ma cominciamo con la prima comparazione, non fosse altro perché lostato attuale è figlio del crollo del sistema partitico del 1992-1994.

Intanto, quando si parla dei partiti della Prima Repubblica, occorre di-stinguere due fasi della loro evoluzione. Una prima fase coincide conl’instaurazione e il consolidamento della rinata democrazia italiana (1943-1968 circa), la seconda con la degenerazione partitocratica della nostrademocrazia (1968-1992). È bene fissare questa distinzione, per evitareinutili e improduttivi richiami nostalgici, e per capire perché si è prodottoquel crollo.

1. I partiti fondatori della repubblica (1943-1968)

Nella prima fase i partiti sono stati attori centrali prima nella Resistenzaal nazi-fascismo (1943-1945), che infatti diressero attraverso i Comitati diLiberazione nazionale, poi nel processo di transizione alla democrazia(1945-1948). Essi si svilupparono, perciò, nel fuoco di vicende storichecollettive drammatiche (fascismo, guerra, resistenza, ricostruzione), col-

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mando un vuoto istituzionale (il crollo non solo del regime fascista madelle istituzioni statali come tali, compresa la monarchia) e superando latradizionale debolezza – comparativamente alle altre democrazie occiden-tali – dell’associazionismo nella società civile (con l’eccezione delle regio-ni rosse). Rispetto alla società, i partiti si pongono come un elemento diforte strutturazione dall’alto e dal centro, perché si pongono come partitinazionali d’integrazione e internamente fortemente strutturati. In questa lo-ro caratteristica – di partiti d’integrazione sociale e di vocazione nazionale–, essi ridefiniscono la loro rappresentatività sociale evitando e assorbendoi cleavages sociali, pure esistenti, tra Nord e Sud, tra città e campagna, traindustria e agricoltura, tra centro e periferia. Le linee di divisione che essirappresentano sono quasi tutte di natura politico-ideologica (divisione de-stra-sinistra, occidente-socialismo), a parte quella significativa, ma minore,tra laici e cattolici1. I partiti di questa prima fase costruirono le istituzionidella nuova democrazia repubblicana, evitarono la precipitazione del con-flitto ideologico, grazie anche alla moderazione/mediazione delle élites di-rigenti dei due principali partiti, la DC e il PCI, integrarono all’interno delleloro strutture, non solo di quelle direttamente partitiche ma anche di quellefiancheggiatrici, masse estese (basti pensare al numero degli iscritti ai par-titi in questa fase) della società italiana, costituivano insomma potentistrutture di intermediazione tra società e stato2. In più – circostanza da nontrascurare –, la loro altissima legittimità proveniva anche dal fatto che leclassi dirigenti partitiche, e soprattutto i leader, si erano formate e selezio-nate attraverso esperienze storiche lunghe e intensissime. Molti leader ave-vano affrontato l’esilio, il carcere, la repressione, avevano fatto la Resisten-za, si erano forgiati nel rapporto diretto con le masse, le battaglie civili esociali, la drammaticità dei problemi. Le loro primarie erano state la duraselezione della storia stessa. La presenza poi di grandi personalità di leader,persino una forte personalizzazione della loro leadership (si pensi a De Ga-speri, a Togliatti, a Nenni, a Saragat ecc.) conviveva con strutture di partitosolide e strutturate, per cui le decisioni erano sempre frutto di un processopartecipato e collegiale. Ma anche nei gradini più bassi, la selezione era ve-ra e dura. I quadri intermedi (e questo valeva per tutti i partiti) erano sele-zionati in virtù della loro passione politica, del loro spirito di abnegazione,delle loro capacità e dell’intera loro storia personale. La legittimità, anche

1 P. Farneti, Il sistema dei partiti in Italia 1946-1979, il Mulino, Bologna, 1983; G. Pa-squino, Il sistema politico italiano. Autorità, istituzioni, società, Bonomia University Press,Bologna, 2002.

2 L. Morlino (a cura di), Costruire la democrazia. Gruppi e partiti in Italia, il Mulino,Bologna, 1991.

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morale, della classe politica non era in discussione. Quanto al modello or-ganizzativo seguito, questo era quello classico del partito novecentesco dimassa, con delle differenze per quanto riguarda il regime interno di demo-crazia tra il PCI, fermo al centralismo democratico leninista che vietava lecorrenti, e tutti gli altri, che le ammettevano. Ma tutti i partiti avevano otentavano di avere una diffusione capillare sul territorio, attraverso cellule(per il PCI), sezioni, circoli e organizzazioni collaterali. I due più grandipartiti di massa, la DC nella versione denominazionale (confessionale) e ilPCI nella versione del partito di massa d’integrazione sociale, concepisco-no e vivono la propria organizzazione come un partito di massa “che è so-cietà che si fa stato”, secondo una definizione elaborata dal costituzionalistacattolico Mortati e ripresa poi da Togliatti. Ma anche quelli che risulterannoessere medi (PSI) e piccoli partiti (repubblicani, socialdemocratici, liberali,missini) – pur rientrando questi ultimi nella categoria dei partiti di élite,d’opinione o di notabili – aspiravano a organizzarsi secondo il modelloideale del partito di massa, radicato territorialmente, fondato sugli iscritti,attorniato da organizzazioni di interessi collaterali, sorretto da subculture,gestito da una burocrazia di partito, diretto collegialmente da un ceto politi-co altamente professionalizzato.

Insomma possiamo ben riconoscere che i partiti di questa prima faseassolsero con successo le funzioni cui erano stati delegati dalle vicende sto-riche di costruzione della nuova democrazia italiana.

2. La degenerazione partitocratica (1968-1992)

Tuttavia, c’è un ma. Il sistema partitico era certamente fortemente strut-turato, condizione minima questa necessaria per avere una buona democra-zia. Ma era pur sempre – a causa soprattutto del PCI, ma anche del MSI – unsistema multipartitico polarizzato3, fatto che impediva il funzionamentonormale di una democrazia parlamentare, sia nella sua versione maggioritaria(che implica l’alternanza), sia nella versione consensuale (che implica chetutti i partiti possano partecipare al governo). Preclusi entrambi questi duemodelli di democrazia4 per la presenza di un forte partito comunista legato al-l’URSS, la via percorsa fu quella di una sorta di adattamento consociativo tramaggioranza di governo e opposizione comunista nell’ambito di una demo-

3 G. Sartori, Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, Cambridge Univer-sity Press, Cambridge, 1976; G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, Sugarco, Milano,1982.

4 A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, il Mulino, Bologna, 2001.

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crazia proporzionale e conflittuale. Nella prima fase questo adattamento sal-vò il regime democratico. Fu una via percorsa con grande lungimiranza dallaprima DC, quella di De Gaspari e poi di Moro, nell’obiettivo di governare iconflitti all’interno del quadro repubblicano e di allargare i confini dell’areademocratica di governo (con l’apertura alla formula del centro-sinistra neglianni Sessanta). La DC, su cui si reggevano tutte le possibili coalizioni di go-verno, perseguì questo obiettivo con una politica che possiamo definire di“mediazione”. In un partito dominante composto di correnti, in governi dicoalizione, in un sistema partitico polarizzato e in una società fortementecorporativa e squilibrata al suo interno (pensiamo alla questione meridiona-le), la mediazione elevata non solo ad arte politica, ma anche a strategia poli-tica e comportamentale, fu una grande risorsa per la sopravvivenza e lo svi-luppo economico e sociale del Paese. Il PCI sostanzialmente accettò e parte-cipò a questo accomodamento fondato sulla mediazione, che comunque im-plicava il rispetto delle regole e delle istituzioni della Costituzione. Possiamomisurare oggi, in una fase di strappi istituzionali continui e di pericoli per ilquadro liberaldemocratico, la bontà di quell’attitudine alla mediazione e diquel rispetto verso gli avversari e le istituzioni.

Ma il sistema non resse all’irruzione di nuove sfide nazionali e interna-zionali e non ressero quei partiti artefici della democrazia. Partiti e sistemadegenerarono attraverso una lunga incubazione che comincia negli anniSettanta, si protrasse per tutti gli anni Ottanta e infine crollò nel 1992-1994.Inutile riandare a tutti i passaggi di questa degenerazione, ben conosciuti ecomunque avvertiti dall’opinione pubblica. Sta di fatto che il sistema politi-co e istituzionale – a causa della mancanza di alternanza e di ricambio, diuna democrazia sostanzialmente bloccata, nonostante il tentativo corsaro diCraxi di romperne gli equilibri fondati su DC e PCI – degenerò in partito-crazia. La partitocrazia non fu solo una formula ideologica o polemica, mafu una formula descrittiva esatta del funzionamento reale dei partiti e delleistituzioni. Né bisogna confondere il governo di partito, come tale necessa-rio al funzionamento della democrazia, con la partitocrazia, che è una for-ma, in negativo, inedita di regime democratico. Il governo di partito, tipicodelle democrazie parlamentari occidentali, vive in un regime democraticonormale, in cui c’è alternanza al governo, continuo ricambio della classepolitica, accountability verso l’elettorato e l’opinione pubblica, controllo diquest’ultima verso i comportamenti della classe politica, c’è insomma eser-cizio della responsabilità politica (distinta da quella accertabile in sede giu-diziaria) dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto5. Nella partitocrazia

5 E. E. Schattschneider, Party Government, Rinehart, New York, 1942; R. S. Katz

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tutto questo non c’è. In assenza di alternanza, ricambio, accountability, re-sponsabilità politica, c’è il potere di una nomenklatura, o come poi saràchiamata di una casta. Si parla di nomenklatura quando lo status della clas-se politica è di assoluto privilegio, quando non c’è ricambio e c’è l’inamo-vibilità, quando c’è irresponsabilità (cioè non c’è esercizio di controllo néci si sottopone al controllo), quando c’è senso di impunità (specie per i par-titi sempre al governo), e quando infine, per tutte queste caratteristiche, lacorruzione è diffusissima al di là dei limiti fisiologici inevitabili in qualsiasidemocrazia matura. La partitocrazia oltre a generare una nomenklatura, ge-nera poi una forma di potere, di controllo e di dominio in tutti gli ambitidella vita politica, sociale ed economica. Basti pensare all’alto numero dicariche da distribuire sia nella sfera politico-amministrativa sia in quellaeconomica dell’ampio settore pubblico dello Stato, e all’incidenza dellapolitica, ossia della “raccomandazione” politica nel mercato del lavoro nelsettore pubblico (dalla Rai all’ultimo posto per bidello). Colonizzazionedella società, clientelismo, voto di scambio, arroganza del potere, torsionedella politica verso gli affari ne conseguono. Da questo punto di vista, il ca-so italiano è comparabile più con la situazione dei Paesi dell’est europeo, incui prima della democratizzazione esisteva una nomenklatura e in cui dopola democratizzazione si avrà un sistema partitico poco strutturato, che conle democrazie mature dell’occidente. È una comparazione che pure è statafatta nell’ambito della politica comparata6.

Naturalmente, l’avvento e il predominio della partitocrazia fin daglianni Settanta e fino al crollo del sistema partitico tradizionale nei primi an-ni Novanta, non fu dovuta solo e tanto alla malvagità dei politici, ma a unaragione storica – la democrazia bloccata –, su cui però si innestò una vera epropria degenerazione dei partiti, sia pure in forme diverse tra quelli di go-verno e quelli di opposizione7. Mentre i primi si arroccarono nella loro fasefinale in una formula di governo completamente asfittica e chiusa, comepoi apparve con il puro patto di potere del CAF (Craxi-Andreotto-Forlani),agli antipodi della strategia di apertura e di ricerca di vie nuove delineata daMoro poco prima del suo assassinio nel 1978, il PCI, pur non essendo coin-

(a cura di), Party Governments: European and American Experiences, De Gruyter,Berlin, 1987.

6 G. Pridham, P. G. Lewis (a cura di), Stabilising Fragile Democracies. Comparing New

Party Systems in Southern and Eastern Europe, Routledge, London and New York, 1996; O.Massari, “Italy’s Postwar Transition in Contemporary Perspective”, in G. Pridham, P. G. Le-wis (a cura di), Stabilising Fragile Democracies, cit., pp. 126-144.

7 G. Pasquino, Degenerazione dei partiti e riforme istituzionali, Laterza, Roma-Bari, 1982.

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volto nella corruzione nella stessa misura dei partiti di governo ma comin-ciandone a essere sfiorato, nondimeno registrò negli anni Ottanta un ritardoculturale, e quindi poi politico, impressionante, chiuso anch’esso in unasorta di fortilizio ideologico autoreferenziale (basti ricordare la “diversitàcomunista”, l’antioccidentalismo, il pacifismo, la difesa del centralismodemocratico leninista, l’avversione al socialismo europeo ecc.). Il PCI ebbela sua parte rilevante nella degenerazione del sistema. Rifiutandosi di co-struire un’alternanza di governo secondo gli schemi occidentali e normali, equindi rifiutandosi pervicacemente di trasformarsi in socialdemocrazia (cheaborriva e che disdegnò anche quando fu costretto a cambiare ragione so-ciale con il crollo del Muro nel 1989), fu responsabile anch’esso delle ma-cerie che si abbatterono sull’Italia anche in seguito a quell’evento epocale.Nessun partito si può tirare fuori dalla degenerazione.

Segno tangibile di questa degenerazione fu il fatto che nei partiti ora-mai, sia a livello nazionale che a livello locale, cominciavano ad annidarsiveri e propri comitati d’affari, affari condotti sia a beneficio del partito sia abeneficio della corrente sia a beneficio personale. Gli anni Ottanta – anni dimodernizzazione, di ottimismo, di affermazione del cosiddetto “edonismoreaganiano”, in cui la parola d’ordine era “arricchitevi”, e comunque annidi rampantismo – testimoniarono di questa vera e propria mutazione, comesi disse, antropologica. L’epicentro di questa mutazione fu naturalmente ilPSI di Craxi. Intendiamoci: sul piano delle proposte e della cultura politi-che il partito socialista era certamente il partito più avanzato e più moderno,ma la sua costituzione materiale era ben altro, intessuta com’era di affari-smo, tangentismo e rampantismo. Lo “scambio occulto” tra tangenti e favo-ri politici fu attuato dal PSI di Craxi in modo sistematico, scientifico, piani-ficato come non mai era avvenuto e come non si era verificato neppurenella DC. Fu anche per questo che il PSI e lo stesso Craxi pagarono più ditutti e più pesantemente di tutti. La forma-partito del PSI di Craxi mutòdrasticamente. Del partito a vocazione di massa e popolare, legato a unagloriosa tradizione, era rimasto solo l’involucro formale. Aveva perso o siera venduta l’anima. Quella di Craxi fu la prima personalizzazione dellapolitica in senso tipicamente italiano (nelle democrazie mature c’è la per-sonalizzazione, ma ci sono strutture partitiche e istituzionali solide, e que-sto fa la differenza). La sua leadership personale e carismatica conquistò ilpartito e lo rese dipendente dal suo stesso destino personale. Il partito sottoCraxi e con Craxi divenne al centro una monarchia assoluta temperata inperiferia da un’anarchia feudale diffusa8. Ma come un fuscello fu spazzato

8 O. Massari, “La leadership di Craxi e gli effetti sul partito”, in L. Cavalli (a cura di),

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via dal terremoto del 1992-1994. La colpa non fu dei giudici, ma della suapropria degenerazione. Quando i partiti sono vivi e veri resistono alle tem-peste, quando sono oramai gusci vuoti vengono schiacciati. Insomma, nonfu per caso o per un “destino cieco e baro” che il sistema partitico tradizio-nale crollò.

Ma ciò che più importa è che le modalità del crollo segnarono e con-dizionarono il futuro del nuovo sistema partitico dal 1994 a oggi. Intantosi aprì un enorme vuoto politico al centro del sistema che fu rapidamenteriempito da due soggetti nuovi, la Lega Nord, un partito regionale che ri-uscì nei suoi territori a intercettare il voto democristiano, e Forza Italia,un partito messo in piedi in vista delle elezioni del 1994 da un imprendi-tore particolare come Silvio Berlusconi, particolare perché proprietario,tra l’altro, di televisioni private e di giornali. Il crollo poi era avvenuto acausa di un rigetto radicale da parte dell’opinione pubblica dei vecchipartiti, della vecchia politica, dei vecchi personaggi (rigetto che si espres-se nei referendum elettorali del 1991 e del 1993 e nel sostegno all’azionedei giudici di “Mani pulite”). Si produsse così una divisione vecchio-nuovo che contò nell’incredibile affermazione di Forza Italia, riuscendoBerlusconi nella grande operazione di marketing mediatico di presentarsicome “nuovo”. L’operazione riuscì anche perché non trovò resistenzeadeguate nel campo del centro-sinistra, che avrebbe potuto sollevare ilproblema del conflitto di interessi prima delle elezioni del 1994. Ma ilceto politico della sinistra era disorientato, fiacco, pieno di sicumera ver-so un avversario che considerava “di plastica”, e probabilmente anchesordo e non interessato ai delicati problemi degli equilibri costituzionali(come è quello della separazione tra informazione e potere politico). Eanche dopo il 1994 – ma oramai i buoi erano usciti dalla stalla – non ebbela forza né probabilmente la volontà di affrontare il problema, anchequando fu al governo. Si potrà anche chiamare e liquidare l’avversione alvecchio sistema “antipolitica”, ma resta la sostanza di una delegittimazio-ne della vecchia politica ampiamente meritata e comunque condivisa dallastragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Inoltre, il crollo produsseuna scia di risentimenti, di rancori, di recriminazioni che non poteva noncondizionare il nuovo sistema partitico. Il caso più eclatante è quello delpartito socialista che si sentì ingiustamente colpito, laddove le sue ragionierano state premiate dagli eventi storici (crollo del comunismo). Moltisuoi dirigenti e quadri, e probabilmente buona parte del suo elettorato,passarono nel campo berlusconiano, ritenendo un’ingiustizia storica la

Leadership e democrazia, Cedam, Padova, 1987, pp. 301-318.

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sopravvivenza politica invece degli ex comunisti, che peraltro, come giàaccennato, non imboccarono la via maestra del socialismo europeo. Que-sta peculiare circostanza italiana legata al PSI peserà, credo, anche eletto-ralmente sullo schieramento di centro-sinistra, che non potrà contare sulpieno dei voti dell’elettorato tradizionale dei partiti di sinistra. E, difatti,nelle elezioni tenutesi tra il 1994 e il 2001 con il sistema elettorale mag-gioritario misto, il centro-sinistra risulterà sempre con meno voti nel ca-nale proporzionale rispetto al centro-destra.

3. Partiti e sistema partitico della “Seconda Repubblica”

Con la crisi di regime del 1992-1994, tutti i vecchi partiti di governosono stati in brevissimo tempo o completamente spazzati via (PSI, PRI,PSDI, PLI) o fortemente ridimensionati e ridotti a una presenza sempre piùresiduale, anche per effetto delle continue scissioni (è il caso della DC, co-stretta peraltro a cambiare nome in quello di Partito Popolare Italiano)9.

Il sistema partitico che si manifesta con le elezioni politiche del 1994,le prime a svolgersi con il nuovo sistema elettorale misto, è composto divecchi partiti che hanno cambiato simbolo, sigla, denominazione e chehanno subito tutta una serie di scissioni e da nuovi partiti. Tra questi ultimibisogna distinguere quelli veramente nuovi, nati ex novo proprio in vistadelle elezioni del 1994 (come Forza Italia), o comunque quelli nati dalladissoluzione del vecchio e precedente sistema partitico (come la LegaNord), quelli frutto di scissione da precedenti partiti tradizionali e quelliche si sono formati inizialmente a livello parlamentare per poi ricomporsivariamente tramite fusioni e aggregazioni varie. Il conteggio risulta vera-mente complicato a causa della natura ancora fluida del nuovo sistema par-titico, fluidità accentuata dal fatto che proprio il maggioritario a turno unicoin collegi uninominali, intervenendo in una fase di destrutturazione radicaledei vecchi partiti e spingendo alla necessità di larghe alleanze elettorali perla vittoria nei collegi uninominali, offre quindi anche a piccolissimi partitiun potenziale di coalizione e di ricatto (nel momento della costituzionedelle alleanze elettorali per la conquista dei seggi nella parte maggioritaria)che ne facilita la formazione e la riproduzione. Alla fluidità nel sistemapartitico corrisponde, infatti, una fluidità delle coalizioni elettorali10 e una

9 C. Baccetti, I postdemocristiani, il Mulino, Bologna, 2007.10 D. Giannetti, M. Laver, “Party System Dynamics and the Making and Breaing of Ita-

lian Governments”, Electoral Studies, 20, 2001, pp. 529-553.

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fluidità all’interno degli stessi partiti che indica un’ancora mancata struttu-razione, una dipendenza da fattori congiunturali (come le leadership e ilsuccesso personali) e la persistenza di incentivi alla frammentazione e algiocare in proprio anche da parte di piccolissime aggregazioni di parla-mentari. Non c’è dubbio, infatti, che il sistema partitico nato con le elezionidel 1994 e perdurante, con notevoli cambiamenti interni, fino alle elezionidel 2008 presenta un numero di partiti assai maggiore del sistema partiticoprecedente. Il nuovo sistema perde la polarizzazione ma acquista unaframmentazione sconosciuta nel passato, tanto da non assicurare la gover-nabilità nel nuovo contesto di democrazia maggioritaria. Il bipolarismo dicoalizione che caratterizzerà il sistema politico italiano dal 1994 al 2008sarà un bipolarismo fasullo, perché essendo fondato su larghe coalizionieterogenee sarà inadatto ad assicurare sia la governabilità sia il funziona-mento di una normale democrazia dell’alternanza (maggioritaria)11. Del re-sto, non è un caso che proprio la fallimentare esperienza del governo Prodi2006-2008, contrassegnato com’era dalla più eterogenea coalizione possi-bile, dall’indeterminatezza del programma, dalla litigiosità permanente, daldistacco brutale tra le promesse elettorali e le politiche di governo, dal-l’insufficienza dei numeri della maggioranza, segnò la fine, riconosciuta datutti i leader politici, del cosiddetto bipolarismo di coalizione inteso comebipolarismo “coatto” e aprì la strada verso il tentativo di costruzione di“partiti a vocazione maggioritaria”.

Anche nel caso dei partiti post-1994, infatti, dobbiamo distinguere duefasi. La prima, dal 1994 al 2008, si svolge all’insegna della frammentazionedel sistema partitico, del bipolarismo di coalizione altrettanto frammentato,della debolezza organizzativa dei singoli partiti (a parte l’eccezione dellaLega Nord, che comunque rimane un partito regionale). La seconda, natanelle elezioni del 2008 e possibile anche grazie al nuovo sistema elettoraleproporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento intro-dotto nel 2005, si svolge all’insegna del tentativo di costruire partiti mag-gioritari, di formare un bipolarismo fondato su questi ultimi, riducendo lamolteplicità degli attori delle precedenti coalizione elettorali e di governo.Ma, come vedremo più avanti, in nessuna delle due fasi si hanno partitistrutturati e stabili.

Ma con un’avvertenza. Occorre, infatti, sottolineare un’asimmetrianetta tra i due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra. Frammen-tazione e debolezza organizzativa sembrano infatti colpire più quest’ultimoche il primo. Mentre i principali partiti del centro destra – FI, AN, Lega

11 O. Massari, “La crisi di governo e il bipolarismo difettoso”, il Mulino, 3, 2005.

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Nord –, tra il 1994 e il 2008 (quando si passerà alla fase dei partiti maggio-ritari e alle fusioni, tanto a destra che a sinistra), conserveranno la stabilitàorganizzativa data dalla stabilità delle rispettive leadership (Berlusconi, Fi-ni, Bossi), dalla non problematicità del modello di partito da costruire o daricostruire (perché FI è solo lo strumento elettorale di Berlusconi, la Leganon ha motivo di ricercare chissà quali modelli, in quanto il suo radica-mento territoriale funziona, e AN dopo tutto cresce elettoralmente e orga-nizzativamente), tutto questo non avviene nel centro-sinistra. Mentre i go-verni di centro-destra sono stati guidati sempre e solo da Berlusconi, i go-verni di centro-sinistra sono stati guidati da Prodi, D’Alema, Amato, senzache nessuna di queste leadership si consolidasse. Bisogna aggiungere poiche come candidato-premier il centro-sinistra ha proposto nel 2001 Rutellie nel 2008 (ma siamo nella fase dei “partiti maggioritari”) Veltroni. In-somma una girandola di premier e candidati premier. Se guardiamo poi alprincipale partito del centro-sinistra – i post-comunisti – prima si chiameràPDS, poi DS, infine confluirà nel PD, assieme alla Margherita. I suoi se-gretari dal 1994 sono stati D’Alema, Veltroni, Fassino. Il PD nell’arco dipoco più di due anni ha avuto già ben tre segretari: Veltroni, Franceschini,Bersani. Sono tutti questi indicatori che segnalano uno stato permanente diprovvisorietà e di mancato consolidamento organizzativo e di leadershipnel campo del centro-sinistra12.

Ma quale modello di partito si impone dopo il crollo del sistema partiti-co del 1992-1994? Scomparso il partito di massa come reale attore dellapolitica italiana e come modello di riferimento per tutti i partiti italiani, do-po il 1992 abbiamo la compresenza di una pluralità di modelli di partito checonvivono: dal residuo del partito di massa (post-comunisti e post-fascisti),al nuovo partito elettoralistico (Forza Italia), al partito-patrimoniale o busi-

ness-party (sempre Forza Italia), a partiti populistici (trasversalmente,avendo caratteri populistici sia FI, sia la Lega, sia il partito di Di Pietro), aipartiti territoriali (come la Lega Nord), ai partiti della nuova destra, al mo-derno partito di quadri come i vari partiti post-democristiani) ecc. Laframmentazione del sistema partitico si traduce anche in una pluralitàframmentata di modelli di partito, anche se il tratto comune sembra esserequello di costruire “partiti del leader” o partiti fortemente personalizzati(anche se a sinistra, nel PDS/DS/Margherita/PD in particolare, ciò non siverificherà mai, perlomeno nella misura dei partiti di centro-destra)13.

12 A. Sardoni, A., Il fantasma del leader. D’Alema e gli altri capi del centrosinistra,Marsilio, Venezia, 2009.

13 M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari, 2000.

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4. La fase della frammentazione (1994-2008)

Nella prima fase, quella della frammentazione (1994-2008), possiamovalutare lo stadio di consolidamento o meno dell’organizzazione, esami-nando le tre facce o i tre livelli del partito – ossia, il partito nel territorio(iscritti), il partito al centro, e il partito nelle istituzioni (il partito degli elet-ti), rifacendoci alla classica tripartizione di Katz e Mair14 e richiamandoci auno studio recente di Bardi, Ignazi, Massari15.

Ma anche se poco consolidati – pur con le differenze già dette tra i dueschieramenti del bipolarismo italiano – i partiti italiani sotto il profilo deicambiamenti organizzativi rientrano, sia pure con specificità proprie, neitrend più generali delle trasformazioni dei partiti occidentali.

Queste trasformazioni, in sintesi, indicano un distacco progressivo dallasocietà, una penetrazione nello e una dipendenza dallo Stato, una centralizza-zione, verticalizzazione e personalizzazione dei processi decisionali nellemani della leadership centrale a scapito degli organi collegiali, un ruolo piùpronunciato per il partito degli eletti. Ma queste linee di tendenza, pur ri-scontrabili un po’ dappertutto, si declinano nei vari contesti nazionali e nellevarie organizzazioni partitiche in modo tale che possono produrre più o menoeffetti destabilizzanti16. E non c’è dubbio che l’Italia – per il modo come si èoperata la ricostruzione dei nuovi partiti dopo il crollo del 1992 – si collochiverso il di più di destabilizzazione e di involuzione della funzione democrati-ca dei partiti. Le tendenze riscontrabili in generale, in Italia hanno assuntoun’intensità sconosciuta negli altri Paesi occidentali17. Calate in un ambiente

14 R. Katz, P. Mair, “Changing Models of Party Organization and Party Democracy. TheEmergence of the Cartel Party”, Party Politics, vol. 1, 1995, pp. 5-28; L. Bardi, P. Ignazi, O.Massari (a cura di), I partiti politici italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, Università Bocconi,Milano, 2007; L. Bardi, P. Ignazi, O. Massari, Party Organisational Change in Italy (1991-

2006), Modern Italy, vol. 15, 2010, pp. 197-216.15 L. Bardi, P. Ignazi, O. Massari (a cura di), I partiti politici italiani, cit.; L. Bardi, P.

Ignazi, O. Massari, Party organisational change in Italy (1991-2006), cit., pp. 197-216.16 R. J. Dalton, M. P. Wattenberg (a cura di), Parties without Partisans. Political

Change in Advanced Industrial Democracies, Oxford University Press, Oxford, 2000; L.Diamond, R. Gunther (a cura di), Political Parties and Democracy, The John Hopkins Uni-versity Press, Baltimore and London, 2001; R. Gunther, J. R. Montero, J. J. Linz (a cura di),Political Parties. Old Concepts and New Challenges, Oxford University Press, Oxford,2002; P. Webb, D. Farrell, I. Holliday (a cura di), Political Parties in Advanced Industrial

Democracies, Oxford University Press, Oxford, 2002; O. Massari, I partiti politici nelle de-

mocrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari, 2004.17 L. Morlino, “The Three Phases of Italian Parties”, in L. Diamond, R. Gunther (a cura

di), Political Parties and Democracy, cit., pp. 109-142; L. Bardi, “Italian Parties: Changeand Functionality”, in P. Webb, D. Farrell, I. Holliday (a cura di), Political Parties in Ad-

vanced Industrial Democracies, cit.

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istituzionale-politico che non ha saputo garantire le distinzioni tra potere me-diatico ed economico da una parte e potere politico dall’altra hanno generatouna situazione che tocca direttamente la qualità della democrazia.

Ma esaminiamo più analiticamente queste trasformazioni in Italia.

4.1. Il partito nel territorio18

Per quanto riguarda il partito nel territorio – the party on the ground –occorre ricordare che l’Italia fino alla crisi aveva registrato i più alti tassi dimembership tra i principali Paesi europei, dovuti principalmente al-l’espansione organizzativa sin dal dopoguerra della DC e del PCI (nei primianni Cinquanta quasi due milioni di iscritti ciascuno). Ma ancora nel 1980 ipartiti italiani avevano circa 4 milioni di tesserati, che rapportati al-l’elettorato facevano circa il 10% di questo19. Un indice (quello del rapportotra iscritti ed elettorato) più alto di quello presente in Francia, Germania,Regno Unito e più basso solo di quello di piccoli Paesi come Austria, Fin-landia, Norvegia e Svizzera.

Nei primi anni Novanta la membership si dimezza a circa 2 milioni com-plessivi, risalendo a circa 2,4 milioni nel 2003 (ultimo anno in cui si hannodati complessivi sicuri). Con una ratio di 4,7 sull’elettorato. Questo dato èfortemente negativo rispetto alla fase precedente dei partiti in Italia, ma nonlo è rispetto ai trend europei dello stesso periodo, giacché l’Italia continuapur sempre a registrare tassi di membership più alti degli altri grandi Paesieuropei20. Ciò significa che, nonostante il crollo del 1992, in Italia rimane re-lativamente alta, e comparativamente parlando, la propensione all’iscrizioneai partiti. Del resto, basti pensare agli alti tassi di partecipazione alle primariedi coalizione (Prodi 2005) o di partito (Veltroni 2007) nazionali e locali perconvenire che i problemi in Italia non stanno dalla parte del partito sul territo-rio o dalla parte della base. Da questo punto di vista la disponibilità alla par-tecipazione politica dal basso in Italia rimane sorprendentemente alta, comeha notato rispetto alla Francia Marc Lazar21.

18 Devo i dati che utilizzo in “Il partito nel territorio” e “Il partito al centro” rispettiva-mente a L. Bardi e a P. Ignazi nell’articolo comune del 2010. Per i dati completi cfr. L. Bar-di, P. Ignazi, O. Massari (a cura di), I partiti politici italiani, cit.; L. Bardi, P. Ignazi, O. Mas-sari, Party organisational change in Italy (1991-2006), cit.

19 L. Bardi, “Italian Parties: Change and Functionality”, cit.; L. Morlino, “The ThreePhases of Italian Parties”, cit.

20 P. Mair, I. van Biezen, “Party Membership in Twenty European Democracies, 1980-2000”, Party Politics, n. 1, 2001, pp. 5-22.

21 M. Lazar, Democrazia alla prova. L’Italia dopo Berlusconi, Laterza, Roma-Bari, 2006.

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L’andamento del tasso di membership è, invece, largamente differen-ziato all’interno dei vari partiti italiani. Mentre i partiti eredi della DC e ANhanno costantemente incrementato i loro iscritti, un andamento alterno,fatto di alti e bassi, si registra per FI, LN, i radicali e i verdi, e una diminu-zione per gli eredi del PCI. FI, il primo partito elettorale, oscilla tra un mi-nimo di 139.546 nel 1997 a un massimo di 249.824 nel 2003, qualificando-si essenzialmente come un partito elettorale e non di membership22. Signifi-cativo poi il dato a sinistra. Nel 1991 il PDS registrava 989.708 tesserati eRC 112.278, nel 2004 i DS avevano 561.193 e RC 97.300 (il PdCI circa30.000), quindi con una calo netto dei DS. Nello stesso anno AN registra593.951 iscritti, portandosi così come il primo partito per membership, su-perando il primato storico della sinistra (prima comunista, poi post-comunista). Questi dati indicano in particolare l’esistenza per i DS di unproblema questa volta dalla parte del radicamento territoriale.

Sul versante del partito nel territorio, è interessante notare come gli an-ni dopo il crollo siano stati anni di tentativi di innovazioni organizzativenelle strutture di base. Un po’ tutti i partiti rigettano il modello della sezio-ne territoriale, legata al modello del partito di massa, adottando la formulaassai più leggera dei club, dei circoli (persino RC!), delle aggregazioni te-matiche o legate a gruppi di interesse. Ma non pare che questi tentativi sia-no stati soddisfacenti, basati com’erano sulla pura contingenza e talvoltaimprovvisazione. Se i partiti al centro sono svuotati, non sono più strutturedi partecipazione effettiva, basata su una catena di organizzazioni collettivee di organi collegiali, non sono più capaci di costituire i terminali di proces-si rappresentativi e decisionali che partono dal basso, anche alla base glieffetti non possono che essere quelli di un attivismo velleitario e vuoto diprospettiva. Insomma, il partito sul territorio cessa di essere negli anni dellatransizione il fulcro dell’organizzazione partitica. Il centro di gravità deipoteri interni appare ancorato da una parte al partito centrale e dall’altro alpartito degli eletti.

4.2. Il partito al centro

Per quanto concerne il partito centrale – the party in central office –, èvero che questo appare dimagrito quanto a personale impiegato (i funziona-ri), ma non lo è per quanto riguarda il finanziamento pubblico e i poteri de-

22 E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bo-logna, 2001.

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cisionali. Quest’ultimi, anzi, appaiono cresciuti in maniera rilevante rispettoal passato. Ma andiamo con ordine. I partiti eredi dei vecchi partiti pre-1994, PDS-DS, AN e i partiti post-DC, mostrano una marcata riduzione neifunzionari centrali. Basti pensare che nell’ultimo anno del PCI, il 1990, lostaff che lavorava nella Direzione centrale era di 451 unità. Ma già l’annodopo il PDS aveva ridotto lo staff a 289 unità e ancor più nel 1996 con soli91 funzionari, anche se il numero poi risalì negli anni seguenti attestandositra i 150 e i 200 funzionari. Le nuove formazioni, come FI, LN e RC, nonavevano bisogno di tagliare e si attestarono sin dall’inizio su bassi numeri(intorno ai 50 funzionari), mentre un partito come la Margherita si attestaattorno alle 100 unità. Dunque, la forza del partito centrale non sta neglistaff impiegati. Sta, invece, nei poteri acquisiti, che sono tanto poteri di de-cisione politica in ordine al programma e alle politiche quanto ai poteri dinomina. Sia pure in diversa misura tra i vari partiti, il processo decisionalee di nomina appare concentrato in sempre meno mani, impoverendo così lefunzioni deliberative, di formazione delle politiche e di controllo degli or-gani collettivi come i comitati centrali, i consigli o le assemblee nazionali.Lo spartiacque corre tra i partiti i cui organi centrali sono eletti dalle istanzedi partito più basse e che quindi conservano una qualche parvenza di demo-crazia rappresentativa interna e quei partiti i cui leader concentrano perso-nalmente il potere decisionale e intervengono direttamente nel processo dinomina. Tra i primi vanno annoverati i partiti che conservano una qualchetradizione di democrazia interna che procede dal basso (come i partiti post-comunisti e post-democristiani), oppure che si collocano tra i fautori di unademocrazia di base (come i partiti dei verdi, i radicali ecc.), tra i secondivanno annoverati soprattutto i nuovi partiti come FI e la LN, ma anche AN,che presentano una più marcata centralizzazione, un’assenza di controlli daparte di organi collegiali e un ruolo decisionale preminente del leader. Nelcaso di FI il potere del leader/fondatore, Berlusconi, assomiglia assai a unasorta di potere monarchico, ma in qualche misura lo stesso avviene con laleadership di Bossi nella Lega e di Fini in AN. In questi partiti, il potere delleader è preminente per esempio nella nomina dei membri degli organismicentrali, tanto da ridurli a emanazione della sua volontà. Per fare qualcheesempio, nel Consiglio Nazionale di FI soltanto il 20% dei membri venivaeletto dal Congresso, laddove il presidente ha il potere di nominare piùdella metà dei membri, il resto sono membri ex officio. Lo stesso è per ilComitato di Presidenza: dal 1998 in poi su circa 38 membri solo 6 sononominati dal congresso, mentre tutti gli altri o sono di nomina presidenzialeo ex officio. In AN, il presidente nominava direttamente 159 membri su 500dell’Assemblea Nazionale e proponeva per la ratifica all’Assemblea i

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membri dell’esecutivo. Nella Lega il Consiglio Federale (l’organo esecuti-vo) è composto da circa 25/30 membri, nessuno dei quali eletto, essendotutti membri ex officio (e quindi in qualche modo riconducibili alla coopta-zione da parte del leader).

L’apparenza di una democrazia interna che procede dal basso esistenaturalmente per i partiti di sinistra e per i partiti post-democristiani (com-presa la Margherita), ma o gli organismi sono talmente pletorici da risultaresvuotati delle loro funzioni deliberative e di controllo (è il caso delPDS/DS), oppure sono attraversati da un forte fazionalismo interno (comeRC e PdCI).

Insomma, i partiti al centro hanno perso la forza degli apparati, mahanno, in misura diversa, centralizzato attorno al leader i poteri di decisionee di nomina.

4.3. Il partito degli eletti

Ciò ha influito anche sul partito degli eletti – the party in public office –limitandone il ruolo decisionale nella struttura di partito, nonostante ilmaggior peso in termini di finanziamenti, di staff, di risorse varie e di com-petenze nel campo legislativo.

La centralità decisionale del partito degli eletti, in senso appropriato epregnante, nell’intera organizzazione non si è in Italia imposta come in altriPaesi occidentali. Il peso degli eletti non ha, infatti, trasformato i partiti inpartiti a direzione parlamentare, come nei casi inglese e americano, né haimposto canali di accountability/responsabilità tra elettori ed eletti. Il colle-gio uninominale, esistito dal 1994 ala 2005, poteva creare un tale rapporto,ma la gestione “partitocratica” o da ceto politico dei candidati e degli elettinei collegi ha vanificato una tale possibilità (si pensi ai candidati“paracadutati”, al mancato radicamento degli eletti nel territorio ecc.).

E ciò per varie ragioni. Intanto, nel passaggio dal vecchio al nuovo si-stema partitico, i nuovi partiti hanno mantenuto una certa forza d’inerzia,che li ha portati a replicare, magari in dimensioni più ridotte, il ricordo delpartito di massa nel quale i gruppi parlamentari erano dipendenti dall’orga-nizzazione extraparlamentare. A ben guardare, e a guardare tutte e tre lefacce dell’organizzazione, tutti i nuovi partiti conservano comunque l’im-pronta delle organizzazioni precedenti, nonostante i vari rifacimenti statuta-ri. In secondo luogo, la velocità del cambiamento politico, la permanenza diuna transizione mai conclusasi, lo stato di fluidità delle coalizioni, e so-prattutto l’alto tasso di ricambio dei parlamentari (come nel 1994 e 1996),

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l’esistenza per molti partiti della regola di due mandati per i parlamentari,salvo eccezioni, non hanno permesso il consolidamento e la stabilizzazionedi un’élite parlamentare in grado di costituire il baricentro del potere inquanto tale. Il che non significa che non ci sia un esteso overlapping tra iparlamentari e i dirigenti del central office, riscontrabile in misura più omeno maggiore in tutti i partiti. E se si considerano le altre cariche elettive,come quelle locali, la quasi totalità risulterebbe di eletti

Nel valutare il peso della componente elettivo-parlamentare, non sideve trascurare la dimensione delle risorse. Anche se non abbiamo daticompleti e omogenei, gli staff dei gruppi parlamentari sono un indicatoreimportante del loro peso. Per un partito come AN, su cui abbiamo i datidisaggregati, lo staff parlamentare è di gran lunga più grande dello staffcentrale (nel 2003 rispettivamente di 130 unità a fronte di 49). È ipotizza-bile che anche per gli altri partiti valga qualcosa di simile. Anche per i DSi numeri dello staff parlamentare, infatti, superano in alcuni anni, ma nonin tutti, i numeri dello staff centrale (dal 1993 al 1999 lo staff parlamenta-re è superiore di numero a quello centrale, dal 2000 invece quest’ultimorisulta leggermente superiore al primo). Ma dove le risorse del party in

public office sono chiaramente individuabili è il finanziamento pubblico.Qui, anche se i flussi vanno al partito centrale e gestiti da questo, è chiaroche il finanziamento viene dato per le funzioni pubbliche (dal 2001 sottoforma di rimborsi elettorali) svolte dai partiti, e quindi è da essere impu-tato al party in public office. La quota di finanziamento pubblico sul to-tale delle entrate è per tutti i partiti estremamente elevata, raggiungendo, aseconda degli anni e dei partiti, sovente la soglia del 90%. Tra i partiti chemeno dipendono, proporzionalmente parlando, dal finanziamento pubbli-co spiccano i DS che si attestano, per esempio, nel 2002 e nel 2003 attor-no al 36% (ma nel 1999 hanno toccato la soglia del 99%), segno forsedell’incidenza ancora significativa del contributo proveniente dal tesse-ramento e da altre fonti volontarie. C’è da tenere conto, peraltro, che nellavoce finanziamento non pubblico, occorre mettere in conto il contributoversato dai singoli parlamentari, e più in generale dagli eletti, nelle cassedel partito, che è un modo indiretto di trasferire denaro pubblico dal party

in public office al partito centrale e periferico.Come indicatore delle risorse del party in public office va poi tenuto

conto dei finanziamenti diretti ai gruppi parlamentari, finanziamenti signi-ficativi che danno la possibilità ai gruppi di una relativa autonomia finan-ziaria e quindi politica.

Nel complesso si può affermare che anche nella situazione italiana ilparty in public office è in crescita, tanto da giustificare oramai la configura-

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zione dei partiti come partiti degli eletti, anche se da un punto di vista deltipo di partito che emerge, il quadro può essere ancora confuso e talvoltacontraddittorio. Ma non c’è dubbio che dal punto di vista finanziario siaoramai il party in public office (sotto varie forme e voci) a finanziare il o areggere la grandissima parte delle spese sostenute dal partito centrale. Chepoi questo ruolo cruciale per la sopravvivenza dell’organizzazione si tra-muti anche in ruolo politico nella struttura di potere del partito ciò dipendedalle dinamiche di potere e dai vincoli organizzativi interni.

5. I partiti nelle e dopo le elezioni 2008: verso i partiti maggioritari?

L’ultimo stadio dell’evoluzione dei partiti italiani è quello verso i partiticosiddetti maggioritari e verso, conseguentemente, il bipartitismo23. Dietroquesta scelta perseguita dai leader dei partiti maggiori (Berlusconi e Veltro-ni) sta il fallimento degli assetti partitici che dal 1994 al 2008 avevano sor-retto il bipolarismo coalizionale italiano. Si era scoperto, cioè, che non cipuò essere democrazia maggioritaria senza partiti maggioritari. Di qui laspinta da entrambi gli schieramenti a superare la frantumazione partitica siacon l’iniziativa politica verso le fusioni partitiche sia con la cogenza di unalegge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e con relativa-mente alte soglie. Il punto di svolta o di discontinuità è stata certamentel’esperienza del governo Prodi 2006-2008, il cui fallimento ha significatoanche il fallimento definitivo del bipolarismo fondato sulle ampie ed etero-genee coalizioni. Comunque sia, i due principali partiti – il Partito del Po-polo delle Libertà (formatosi elettoralmente tra Forza Italia e Alleanza Na-zionale per iniziativa improvvisa di Berlusconi nel novembre 2007) e ilPartito Democratico (frutto della fusione tra DS e Margherita) – in vistadella competizione del 2008 hanno puntato al rifiuto delle tradizionali coa-lizioni e all’ambizione di sostituire alle coalizioni il ruolo dei partiti mag-

gioritari e di puntare esplicitamente a un’evoluzione bipartitica del sistemapolitico italiano.

Le ragioni della scelta dei due maggiori partiti nascono dalla necessitàdi non ripetere gli errori interpretativi della prima lunga fase della transi-zione italiana – quella che va dal 1993-1994 al 2008 –, quando si è pensatodi costruire una democrazia maggioritaria sulla base di larghe ed eterogeneecoalizioni multipartitiche. Adatte a vincere le elezioni, ma non a garantire

23 O. Massari, “Un partito moderno: liquido o strutturato?”, Italianieuropei, 2, 2009, pp.103-110; O. Massari, “L’illusione maggioritaria”, il Mulino, 3, 2009, pp. 389-397.

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stabilità governativa. Errori che sono stati fatali, per esempio, a seguitodelle elezioni del 2006, quando a fronte di un risultato di sostanziale pareg-gio e in presenza al Senato di una ristrettissima maggioranza, gli stati mag-giori del centro-sinistra hanno pensato di proseguire come se niente fossealla costituzione del governo Prodi, inevitabilmente votato al fallimento. Èqui, crediamo, l’origine della portata enorme della sconfitta del PD e dellasinistra tutta (che è stata cancellata), in una misura che non ha eguali (senon risalendo al 1948) che si è verificata nelle elezioni del 2008. L’asim-metria tra i due schieramenti è diventata distanza quasi incolmabile.

In nessuna altra elezione dal 1994 in poi il divario tra le due coalizioni, intermini di votanti, è stato così elevato. Si può spiegare questa asimmetriacome conseguenza della profonda frattura creatasi con il governo Prodi traelettorato e capacità di governo del centro-sinistra. In due anni la reputazione– il capitale di credibilità – del centro-sinistra si è radicalmente dissolta.

Si fosse assunta nel 2006 la consapevolezza dell’inagibilità della coali-zione guidata da Prodi, probabilmente l’evoluzione futura del sistema poli-tico-istituzionale italiano sarebbe stata diversa da quella che oggi si pro-spetta. Errore, dunque, strategico quello del 2006, condiviso da tutti gli statimaggiori del centro-sinistra, così come quello di non riuscire a valutarepienamente l’impopolarità, a torto o ragione, diffusa del governo Prodi.

Ma errori di significativa portata sono stati compiuti anche nella ge-stione della crisi finale del governo Prodi: con l’incredibile appello ripetutocome un mantra al ricorso alle elezioni in caso di crisi da parte di tutti i lea-der del centro-sinistra (dimenticando che il sistema è ancora parlamentare),e con il ricorso al voto di fiducia da parte di Prodi anche al Senato(“parlamentarizzazione della crisi”, ma il concetto andrebbe discusso criti-camente24) anche quando era chiaro che questo non ci sarebbe stato in senso

24 La “parlamentarizzazione” della crisi di governo, operata da Romano Prodi, ha igno-rato il fatto che un partito della coalizione al governo (l’UDEUR di Mastella) aveva abban-donato la maggioranza parlamentare. Si tratta, peraltro, di un partito con cui il centro-sinistrasi era presentato unito davanti agli elettori, e i cui voti erano stati determinanti per il rag-giungimento del premio nazionale alla Camera e di diversi premi regionali al Senato. Coe-renza democratica avrebbe comportato, perciò, che il presidente del Consiglio ne avesse pre-so atto, rassegnando le dimissioni, così come avevano fatto in precedenza, lungo tutta la sto-ria repubblicana, i presidenti del Consiglio cui era venuto meno l’appoggio di un partitodella coalizione, piccolo o grande che fosse. Da questo punto di vista, le cosiddette “crisiextraparlamentari”, lungi dall’essere scorrette sul piano del diritto costituzionale, erano es-senzialmente in linea con la realtà di regimi democratici fondati sulle coalizioni di partiti equindi corrette anche sul piano costituzionale, non quello formale e astratto ma vivente eoperante. Del resto, in Gran Bretagna, quando si cambia un primo ministro (come nel casoBlair-Brown), mica c’è un voto formale del parlamento! C’è invece una decisione interna alpartito di governo, di cui il parlamento prende semplicemente atto.

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positivo. Entrambi, appello al voto e ricorso al voto di fiducia, hanno ta-gliato tutti i ponti di una diversa soluzione, offrendo su un vassoiod’argento il Paese a Berlusconi, come era prevedibilissimo.

Comunque sia, il fallimento del governo Prodi ha certamente signifi-cato la pietra tombale del bipolarismo di coalizioni/ammucchiate. E ciò èun bene, o comunque un dato di realtà. Da questo punto di vista, nessunanostalgia, come si dice, per questo passato. La costruzione dei partiti mag-gioritari si poneva perciò come una necessità sistemica.

Tutto risolto dunque con questo doloroso passaggio dalle coalizio-ni/ammucchiate ai partiti maggioritari? Sì e no. Sì, perché questa via è unavia necessitata. No, per i modi con cui sono stati costruiti i partiti maggio-ritari e no per la cultura politica che ne stava alla base. La cultura politicaprevalente che ha ispirato molte fasi e passaggi della transizione italiana èstata una cultura basata sulla torsione del concetto di democrazia maggio-ritaria in democrazia immediata e/o diretta, dimenticando che anche la de-mocrazia maggioritaria è una democrazia pur sempre parlamentare (questadimenticanza è stato il cavallo di battaglia di Berlusconi per tutti gli anniNovanta) e che il governo maggioritario non è solo il governo del premier,ma è anche il governo di partito (cioè a struttura collegiale, e questa distor-sione è presente in maniera trasversale ai due schieramenti). Detto in altritermini, la presidenzializzazione dei sistemi parlamentari è una lettura di-scutibile dei processi di trasformazione in atto nelle maggiori democrazie.

Ora il guaio è che questa stessa cultura politica del “presidenziali-smo”si è travasata nel modo di pensare e costruire i partiti maggioritari,naturale nel PDL di Berlusconi (il cui potere quasi assoluto si scontrerà benpresto con la dissidenza del co-fondatore Fini), ma evidente soprattutto nelcaso del PD di Veltroni. Il partito democratico, infatti, è stato pensato e co-struito, nella fase veltroniana, come un “partito presidenziale” e a democra-zia diretta. Bisogna ricordare che durante la discussione sullo statuto,l’ispirazione dei consiglieri di Veltroni era quella di un partito senza iscritti

e senza congresso (“il congresso sono le primarie”, affermò Vassallo, presi-dente della Commissione Statuto), sostituito quest’ultimo dalle primarie perl’elezione del leader. Per fortuna, molte delle proposte iniziali sono statepoi corrette. Ma restano ancora nello statuto i segni di un’impostazione“direttista” o da democrazia immediata e di presidenzialismo (che è poi iltravaso nel modello di partito del modello del premierato elettivo), comenella norma che prescrive che il segretario può essere sì sfiduciato, ma inquesto caso si scioglie anche l’Assemblea Nazionale e si va a primarie(simmetrica all’idea che se un primo ministro viene sfiduciato si scioglieanche il parlamento). È una norma e una pratica che non esistono in nessun

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partito democratico/socialdemocratico al mondo, prefigurando un ruolo delleader inconsueto secondo gli standard in uso nei partiti politici. Consona aquesta filosofia, sono state anche alcune modalità decisionali all’interno delpartito, come quelle della nomina dall’alto, sostanzialmente dal leader e daicapi-corrente, degli organismi dirigenti, senza una legittimazione dal bassoe comunque di organismi rappresentativi.

Ma segno di un’impostazione culturale sbagliata sono state anche alcu-ne scelte nella campagna elettorale, come quelle sulle candidature (ma piùin generale il tema riguarda il reclutamento di una nuova classe dirigente),all’insegna di un “nuovismo” mediatico o a effetto, senza alcun rispetto deirapporti territoriali e delle competenze. Le dimissioni di Veltroni del feb-braio 2009 rappresentano se non ancora il fallimento del PD, certamente ilfallimento di quello che possiamo definire “veltronismo”.

Ma l’elezione a segretario con le primarie di Bersani, dopo l’interregnodi Franceschini, non ha portato a un cambiamento di rotta significativo, an-che se si è teso a correggere i guasti più evidenti del veltronismo25. Ma al dilà della leadership personale, il PD non sembra nel periodo 2008-2010 ingrado di costituire un’alternativa credibile di governo. E non solo e tantoper una questione di numeri, quanto per una questione di afasia politica. Ilsuo ruolo di principale partito di opposizione sembra – e comunque tale ap-pare all’opinione pubblica – insignificante. I suoi consensi non crescono,fatto singolare in un periodo di crisi economica internazionale e in contestosegnato dal susseguirsi d continui scandali che colpiscono il presidente delconsiglio e i suoi ministri. Il fatto è che il PD continua a non avere un’iden-tità ben definita (socialdemocratica? liberal? o che cosa?), un programmacredibile (quale riflessione sulla globalizzazione neo-liberista?), frutto diuna vera elaborazione, una posizione comune sui mille problemi del-l’agenda politica. Esso non può avere un profilo unitario in termini di iden-tità, programma, comportamenti semplicemente perché è diviso tra le suecomponenti costitutive, e qualsiasi scelta sarebbe una scelta lacerante. Ilpartito, perciò, per rimanere unito è costretto all’immobilismo e alla parali-si. Né sul piano organizzativo o su quello dei criteri del reclutamento e delrinnovo della sua classe dirigente la leadership di Bersani ha segnato unanovità. Semmai dal movimentismo novista veltroniano si è passati a unastanca gestione burocratica dell’esistente e all’accettazione di uno statusquo dominato dai vari notabili e da un ceto politico logoro, sfiancato e so-prattutto privo oramai di freschezza, di energia e di capacità di suscitare

25 G. Pasquino (a cura di), Il partito democratico. Elezione del segretario, organizzazio-

ne e potere, Bononia University Press, Bologna, 2009.

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forti sentimenti di speranza per il futuro. Di fronte a questo quadro – se èvero –, l’unica innovazione introdotta dal PD, e cioè le primarie, sembraben lontana dal risolverne i problemi. Il punto è che per innovare organiz-zativamente i partiti, soprattutto quelli di sinistra, non esistono trovate mi-racolose (come appunto erano state presentate le primarie), ma solo un lun-go e tenace lavoro quotidiano, intessuto di analisi, di elaborazione, di largo,esteso, diffuso coinvolgimento collettivo, di impegno a rappresentare (manon è neppure chiaro chi il PD voglia rappresentare, oscillando tra duri at-tacchi al suo bacino elettorale tradizionale e i velleitari propositi di rappre-sentare chi è già ben rappresentato) ecc. L’impressione è che il PD vedaerosi i consensi del suo mondo di riferimento elettorale tradizionale, manon riesca a conquistare un solo voto da altre aree sociali. E questo perl’assenza di una strategia elettorale, assenza che rimanda a sua volta al-l’assenza di una strategia politica tout-court, che non sia l’attesa del-l’esaurirsi della leadership di Berlusconi. Il PD, insomma, aspetta Godot(che, come è noto, non comparirà mai).

Sia pure in termini diversi – perché ha pur vinto le elezioni del 2008 eperché finora Berlusconi e il governo hanno sostanzialmente retto alla pro-va della governabilità fino al momento in cui scriviamo – il discorso ri-guarda il PDL come effettivo partito maggioritario.

È bene ricordare che il Partito del Popolo della Libertà è stato decisosenza congressi costitutivi (il primo congresso costitutivo si terrà nel marzo2009), ma con una proclamazione il 18 novembre 2007 dal predellino diun’auto (il commento di Fini, allora, fu “siamo alle comiche finali”), è ancoraproprietà sostanziale del leader/proprietario, e ha messo in opera una qualcheparvenza di democrazia interna di partito, convocandone gli organi nazionali,soltanto in seguito alla clamorosa dissidenza di Fini. La genialità di Berlu-sconi indubbia nella rapidità della decisione non deve nascondere il deficitstrutturale di democrazia ancora presente nella sua figura (il conflitto di inte-ressi non è stato risolto) e nelle sue creature, prima FI e ora il PDL. In defini-tiva, la contestazione di Fini riguarda la natura “cesaristica” del potere al-l’interno del partito, che è un potere esclusivamente personale. E il rifiuto diBerlusconi delle correnti e il richiamo incessante alla volontà degli elettorinon è altro che la riproposizione di un modello di partito plebiscitario in cuinon c’è spazio per le minoranze interne e per un normale funzionamentodella democrazia interna. E comunque vada a finire lo scontro interno tra Finie Berlusconi, difficilmente ricucibile, il PDL è destinato a non durare nellasua forma attuale. Del resto, anche al di là della vicenda Fini e dei numeri chequesti rappresenta o può rappresentare, il partito appare, sotto l’apparenza delcomando indiscusso berlusconiano, un vulcano pronto all’eruzione, se solo si

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guarda al proliferare di correnti mascherate da Fondazioni culturali e ai gio-chi sotterranei di posizionamento/riposizionamento in vista dell’inevitabile,prima o poi, dopo Berlusconi. La personalità di Berlusconi è la fonte di legit-timità del partito, ma proprio questa circostanza può rivelarsi la sua fatale de-bolezza. I partiti personali o riescono a istituzionalizzarsi (come accadde alpartito gollista) oppure sono destinati a implodere o a scomparire quandoviene meno il leader fondatore. Ed è difficile immaginare l’istituzionaliz-zazione di un partito che finora non ha dato prova di avere, al di là degli slo-gan e della retorica, una visione condivisa della missione per l’Italia. Il suc-cesso di Berlusconi del 2008 e la sua permanenza in positivo dei sondaggi,sono più dovuti alla catastrofe del governo Prodi e al vuoto permanente dialternativa che a una forza propria del partito del presidente. Alla prova veradella governabilità, Berlusconi, al di là dell’iniziale attivismo sui rifiuti diNapoli e sul terremoto dell’Aquila e al di là del decisionismo sulle sue que-stioni giudiziarie, si sta dimostrando un premier tutt’altro che decisionista. Ilsuo enorme potere personale convive con l’impotenza decisionale che eglistesso dichiara quando lamenta che nell’attuale quadro costituzionale non hapoteri e invoca una riforma presidenzialista. La verità è che riemerge la sin-drome già verificatasi nel 2001-2006, ossia il fatto che Berlusconi è costrettoa governare in un governo di coalizione, di cui la Lega è il principale partner,e un partner assai esigente e scomodo. Finora Berlusconi ha assecondato laLega, ma ha perso la sua capacità di iniziativa autonoma. Ha subito una ma-novra (quella del maggio 2010) sostanzialmente leghista (che colpisce solo ilmondo di riferimento della sinistra, come il pubblico impiego e il potere lo-cale), costretto a confrontarsi con un altro centro decisionale costituito dalministro del Tesoro Tremonti. Insomma, anche l’estesa maggioranza di go-verno berlusconiana non sembra fare altro che galleggiare e vivere alla gior-nata, incapace di avere una visione di lungo periodo e di vasto respiro perl’Italia (l’unica visione che emerge è quella leghista del federalismo fiscale edella critica dello stato nazionale, con ciò entrando in conflitto con il bacinoelettorale meridionale del PDL).

Per vari e diversi motivi, i due partiti maggioritari sembrano essere deigiganti con i piedi di argilla. È azzardato prevedere che prima o poi i duegiocattoli si romperanno?

6. Conclusione: i partiti maggioritari nelle democrazie maggioritarie

In Europa la democrazia maggioritaria si dispiega tanto con sistemi bi-partitici (come in UK, e per certi versi la Spagna, ma dopo le elezioni del

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2010 anche nel Regno Unito il bipartitismo è momentaneamente e forse de-finitivamente finito), quanto in sistemi a pluralismo limitato e moderato(Germania, e Francia, sebbene in quest’ultima bisogna tenere conto dellavariante forma di governo). Per queste democrazie, i partiti maggioritarisono indispensabili, ma possono sopravvivere ed esprimere il loro ruolo diassi portanti della governabilità e della coerenza programmatica anche al-l’interno di un contesto di pluralismo moderato. Come accade oggi persinonella patria del bipartitismo. Il punto vero – ed è il punto dolente oggi inItalia – è di quali partiti maggioritari abbiamo bisogno. Pur con tutti i limiti,le debolezze, i trend negativi che caratterizzano tutti i grandi partiti europei(per esempio nel calo della membership), non c’è dubbio che comunquequesti continuano a essere realtà fortemente strutturate (come i partiti tede-schi, inglesi e spagnoli) o in cerca di strutturazione forte (come l’UMPfrancese, anche se “presidenzializzato”) e collegiali (in cui gli organismidella democrazia rappresentativa interna contano). Pur se tutti sono alla ri-cerca di innovazioni (un po’ tutti ricorrono alle primarie di iscritti), nessunodi loro tende a diventare esclusivamente “un partito del leader” (con l’ec-cezione francese, ma per via del presidenzialismo, e che comunque oggisembra in declino) o a sostituire la democrazia immediata a quella mediatadagli organismi interni, il plebiscito delle primarie degli elettori con la par-tecipazione degli iscritti e dei militanti/dirigenti ai vari livelli.

In generale, guardando all’esperienza delle democrazie competitive(che includono il caso USA, presidenziale), i partiti maggioritari, cioèquelli che aspirano al governo e che hanno effettive chances di raggiun-gerlo, sono strutture caratterizzate da: forte strutturazione interna; non sonocioè partiti “leggeri”; certamente c’è la centralità del leader: ma non è on-nipotente ed è intercambiabile; sono broad churches, grandi contenitori, macon forte identificazione partitica, per essere rappresentativi della largamaggioranza dell’elettorato; usano largamente la comunicazione politica eil marketing, ma per offrire proposte che sono state a lungo elaborate e di-scusse in organismi collegiali di politici, esperti, accademici. Cioè, nelcontenuto delle proposte sono “pesanti”, nella comunicazione “leggeri”. Leproposte non s’improvvisano. Si usa il software, ma dietro c’è l’hardwaredella struttura partitica; hanno strutture e processi decisionali democratici,certi, trasparenti. Anche quando si usano le primarie, queste non sostitui-scono la catena della democrazia interna di partito; le classi dirigenti dipartito sono veramente selezionate, non c’è né improvvisazione, né tanto-meno nomina dall’alto; hanno una fitta rete di radicamento territoriale (mi-litanti, attivisti, associazioni fiancheggiatrici, comitati, movimenti ecc.) chenon sostituisce la rete telematica, ma l’accompagna, proprio perché la com-

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petizione elettorale non si vince solo sui media ma anche nel territorio (co-me insegna la vicenda Obama negli USA, dove sono stati determinanti ledecine di migliaia di volontari sul territorio)26. Sono cioè strutture moder-nissime, che fanno ricorso a tutte le tecnologie, ma sono anche strutture checonservano la rete dei rapporti umani diretti.

Solo questi tipi di partito sono adatti a competere e a governare nelledemocrazie maggioritarie/competitive. Partiti populisti e/o patrimoniali,elettoralistici, leaderistici, leggeri o improvvisati o confusi o “liquidi”,non sono adatti a una democrazia ben funzionante. Prima o poi le distor-sioni si riversano nelle strutture e nel funzionamento della democrazia.E queste distorsioni possono essere fatali soprattutto per un partito dellasinistra riformista.

26 S. Fabbrini, R. La Raja, I democratici americani nell’epoca di Barack Obama, Italia-nieuropei, Roma, 2010; G. Pasquino, Sistemi politici comparati. Francia, Germania, Gran

Bretagna, Italia, Stati Uniti, Bononia University Press, Bologna, 2003.