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1 La relazione tra genitori e figli. Genitorialità, sviluppo affettivo e le problematiche del legame affettivo Significato del termine “genitorialità” Genitorialità è il lungo e continuo apprendistato per imparare l’arte di essere genitori. È il processo dinamico attraverso il quale si impara a diventare genitori capaci di prendersi cura e di rispondere in modo sufficientemente adeguato ai bisogni dei figli, bisogni che sono estremamente diversi a seconda della fase evolutiva. Il genitore adeguato o “Genitore Efficace” pone attenzione alle modalità relazionali di ascolto e di comunicazione, e individua i compiti evolutivi delle diverse fasi, sia in riferimento ai bisogni dei bambini sia tenendo presenti i bisogni dei genitori. Concetto di base (Levin), è che la crescita umana è fatta di stadi che si ripetono continuamente nel corso della vita e che le diverse fasi evolutive dei figli riattivano bisogni ed angosce che fanno parte della propria storia evolutiva. Una concezione più psicologica vede invece la genitorialità come parte fondante della personalità di ogni persona. E’ uno spazio psicodinamico che inizia a formarsi nell’infanzia quando a poco a poco interiorizziamo i comportamenti, i messaggi verbali e non-verbali, le aspettative, i desideri, le fantasie dei nostri genitori. Riprendendo il termine di uno dei precursori di questo concetto (E. Berne) abbiamo un “Genitore Interno” che è formato da tutte le interazioni reali e/o fantasmatiche con le figure adulte significative che si sono occupate di noi. Da questo “Genitore Interno” dipendono in gran parte i nostri giudizi su noi stessi e i modelli relazionali che usiamo per rapportarci con gli altri. Si potrebbe anche parlare di genitorialità come di uno stadio evolutivo (Erikson) nei termini con cui li definisce Erikson: “La forza acquisita a ciascun stadio si rivela nell’esigenza di trascenderlo e di rischiare nel successivo quelli che nel precedente costituivano gli elementi più vulnerabili e preziosi”. Per Erikson lo stadio da lui definito come GENERATIVITA’ è l’aspetto evolutivo più importante poiché implica tutti quegli sviluppi che hanno fatto dell’uomo un essere che si “occupa di”. La generatività, per questo Autore, è quindi il culmine dello sviluppo psicosessuale e psicosociale. La mancanza di questo stadio rinchiude la persona in un bisogno ossessivo di intimità che porta ad un senso di stagnazione. In queste parole sembra esserci tutta l’attuale ricerca sulle dinamiche di coppia e sulla famiglia. Come la coppia infatti risolve al suo interno l’equilibrio tra separatezza-confini-segreti-spazi individuali e intreccio-spazi vissuti insieme-pensieri ed emozioni verbalizzati e condivisi-, è appunto questo equilibrio tra solitudine ed intimità che è il presupposto dinamico dove prende sviluppo la generatività. Quindi è proprio il legame di coppia che rappresenta lo snodo del passaggio da oggetto di cura a caregiver. E’ il trasferimento del legame di attaccamento dalle figure genitoriali verso il partner e il passaggio da una modalità unidirezionale (essere oggetto di cura) ad una modalità reciproca (“mi prendo cura di te come tu ti prendi cura di me”) che rappresenta il ponte verso la generatività cioè la capacità di dare origine ad un’altra vita , ad un nuovo essere di cui mi prendo cura in modo unidirezionale (“io mi prederò sempre cura di te, qualsiasi persona tu sarai”). In questo senso la genitorialità, questa “funzione autonoma e processuale dell’essere umano” rappresenta il momento evolutivo più maturo della dinamica affettiva in cui convergono tutte le esperienze, le rappresentazioni, i ricordi, le convinzioni, i modelli comportamentali e relazionali, le fantasie, le angosce, i desideri della propria storia affettiva. E come ogni compito evolutivo, come ogni stadio è una fase della propria crescita psicologica e relazionale contrassegnata da ambivalenze, difficoltà, contraddizioni, ricerche, crisi, integrazioni, frammenti... Il termine genitorialità quindi non coinvolge l’essere genitori reali ma è uno spazio psicodinamico autonomo che fa parte dello sviluppo di ogni persona. Ovviamente, l’evento reale della nascita di un figlio, attiva in un modo particolare e molto intenso questo spazio mentale e relazionale, rimettendo in circolo tutta una serie di pensieri e fantasie legati in particolare al proprio essere stati figli, alle modalità relazionali ritenute più idonee, ai modelli comportamentali da avere. Un modo per capire la complessità e la vastità di ciò che definiamo genitorialità è analizzare le sue funzioni o meglio i suoi modi di esprimersi. Possiamo così in modo semplicistico e sintetico suddividere una funzione

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La relazione tra genitori e figli. Genitorialità, sviluppo affettivo e le problematiche del legame affettivo

Significato del termine “genitorialità” Genitorialità è il lungo e continuo apprendistato per imparare l’arte di essere genitori. È il processo dinamico attraverso il quale si impara a diventare genitori capaci di prendersi cura e di rispondere in modo sufficientemente adeguato ai bisogni dei figli, bisogni che sono estremamente diversi a seconda della fase evolutiva. Il genitore adeguato o “Genitore Efficace” pone attenzione alle modalità relazionali di ascolto e di comunicazione, e individua i compiti evolutivi delle diverse fasi, sia in riferimento ai bisogni dei bambini sia tenendo presenti i bisogni dei genitori. Concetto di base (Levin), è che la crescita umana è fatta di stadi che si ripetono continuamente nel corso della vita e che le diverse fasi evolutive dei figli riattivano bisogni ed angosce che fanno parte della propria storia evolutiva. Una concezione più psicologica vede invece la genitorialità come parte fondante della personalità di ogni persona. E’ uno spazio psicodinamico che inizia a formarsi nell’infanzia quando a poco a poco interiorizziamo i comportamenti, i messaggi verbali e non-verbali, le aspettative, i desideri, le fantasie dei nostri genitori. Riprendendo il termine di uno dei precursori di questo concetto (E. Berne) abbiamo un “Genitore Interno” che è formato da tutte le interazioni reali e/o fantasmatiche con le figure adulte significative che si sono occupate di noi. Da questo “Genitore Interno” dipendono in gran parte i nostri giudizi su noi stessi e i modelli relazionali che usiamo per rapportarci con gli altri. Si potrebbe anche parlare di genitorialità come di uno stadio evolutivo (Erikson) nei termini con cui li definisce Erikson: “La forza acquisita a ciascun stadio si rivela nell’esigenza di trascenderlo e di rischiare nel successivo quelli che nel precedente costituivano gli elementi più vulnerabili e preziosi”. Per Erikson lo stadio da lui definito come GENERATIVITA’ è l’aspetto evolutivo più importante poiché implica tutti quegli sviluppi che hanno fatto dell’uomo un essere che si “occupa di”. La generatività, per questo Autore, è quindi il culmine dello sviluppo psicosessuale e psicosociale. La mancanza di questo stadio rinchiude la persona in un bisogno ossessivo di intimità che porta ad un senso di stagnazione. In queste parole sembra esserci tutta l’attuale ricerca sulle dinamiche di coppia e sulla famiglia. Come la coppia infatti risolve al suo interno l’equilibrio tra separatezza-confini-segreti-spazi individuali e intreccio-spazi vissuti insieme-pensieri ed emozioni verbalizzati e condivisi-, è appunto questo equilibrio tra solitudine ed intimità che è il presupposto dinamico dove prende sviluppo la generatività. Quindi è proprio il legame di coppia che rappresenta lo snodo del passaggio da oggetto di cura a caregiver. E’ il trasferimento del legame di attaccamento dalle figure genitoriali verso il partner e il passaggio da una modalità unidirezionale (essere oggetto di cura) ad una modalità reciproca (“mi prendo cura di te come tu ti prendi cura di me”) che rappresenta il ponte verso la generatività cioè la capacità di dare origine ad un’altra vita , ad un nuovo essere di cui mi prendo cura in modo unidirezionale (“io mi prederò sempre cura di te, qualsiasi persona tu sarai”). In questo senso la genitorialità, questa “funzione autonoma e processuale dell’essere umano” rappresenta il momento evolutivo più maturo della dinamica affettiva in cui convergono tutte le esperienze, le rappresentazioni, i ricordi, le convinzioni, i modelli comportamentali e relazionali, le fantasie, le angosce, i desideri della propria storia affettiva. E come ogni compito evolutivo, come ogni stadio è una fase della propria crescita psicologica e relazionale contrassegnata da ambivalenze, difficoltà, contraddizioni, ricerche, crisi, integrazioni, frammenti... Il termine genitorialità quindi non coinvolge l’essere genitori reali ma è uno spazio psicodinamico autonomo che fa parte dello sviluppo di ogni persona. Ovviamente, l’evento reale della nascita di un figlio, attiva in un modo particolare e molto intenso questo spazio mentale e relazionale, rimettendo in circolo tutta una serie di pensieri e fantasie legati in particolare al proprio essere stati figli, alle modalità relazionali ritenute più idonee, ai modelli comportamentali da avere. Un modo per capire la complessità e la vastità di ciò che definiamo genitorialità è analizzare le sue funzioni o meglio i suoi modi di esprimersi. Possiamo così in modo semplicistico e sintetico suddividere una funzione

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protettiva, affettiva, regolativa, normativa, predittiva, rappresentativa, significante, fantasmatica, proiettiva, differenziale, triadica, transgenerazionale.

• Funzione PROTETTIVA: è la funzione tipica del caregiver che consiste nell’offrire cure adeguate ai bisogni del bambino. Con Brazelton e Greenspan possiamo dire che le figure dei caregiver rispondono soprattutto al bisogno di sviluppare costanti relazioni di accudimento e al bisogno di protezione fisica e di sicurezza. Relazione di accudimento in quattro modalità:

1. presenza dentro lo stessa casa; 2. presenza che il bambino osservi e veda; 3. presenza che faciliti l’interazione con l’ambiente; 4. presenza che interagisce con il bambino;

E’ evidente il crescere dell’ intensità della “presenza” dal 1° al 4° punto che secondo gli autori devono essere comunque tutti presenti per uno sviluppo sano del bambino Le modalità di protezione fisica e sicurezza sono influenzate molto dalla cultura di una determinata comunità sociale e quindi per questi autori è importante che una società definisca al suo interno le condizioni sane dello sviluppo umano e che consideri questo come una priorità sociale. Come a dire che le modalità protettive sono coltivate da una società attenta al benessere di ogni persona. La funzione protettiva più di tutte determina il legame di attaccamento. Lo scopo dell’attaccamento è infatti “la vicinanza della figura materna” e “il mantenimento di una relazione di attaccamento è vissuto come fonte di sicurezza mentre una minaccia di perdita origina ansietà e spesso collera e, una perdita effettiva, quel tumulto di sensazioni che è il dolore”. E’ evidente come la funzione protettiva determini quell’esperienza fondamentale che Bowlby ha chiamato “base sicura”: “la personalità sana non si rivela assolutamente indipendente. Gli elementi essenziali sono dati da una capacità di far fiduciosamente conto sugli altri quando l’occasione lo richieda e sapere su chi è giusto fare conto“;

• funzione AFFETTIVA: è soprattutto Daniel Stern che ha introdotto nelle sue ricerche sull’ interazione madre-bambino i colori e le tonalità di questo rapporto. Alcuni termini da lui usati fanno parte ora del linguaggio psicologico “comune”. Come ad esempio la “sintonizzazione affettiva“, che oggi ha assunto un significato più generalizzato di capacità di entrare in risonanza affettiva con l’altro senza esserne inglobato. Altro termine è “affetti vitali” il quale cerca di rappresentare il “colore” legato ad alcuni gesti, ad alcune routines, a frasi, parole che contengono al loro interno un dimensione relazionale affettiva e un sentimento che si traduce nel far sentire qualcosa di emotivo al bambino Così il “mondo degli affetti” che definisce la qualità emotiva-affettiva dentro la quale il bambino è inserito. In questo senso sono stimolanti le ricerche sulle EMOZIONI POSITIVE come il dato centrale della spinta evolutiva del bambino. Non si parla più, quindi, di pulsioni come motore dello sviluppo ma questo è rappresentato dalla ricerca di vivere e rivivere emozioni positive insieme ad un altro. L’interazione con il mondo degli adulti è guidata in modo principale dalla ricerca di emozioni positive da con-dividere. Il desiderio, in questo senso, “implica un’insieme di aspettative e uno scenario immaginario all’interno del quale vi sono gli obiettivi e le azioni degli altri in relazione a sé stesso e, spesso, gli esiti piacevoli e positivi di tali relazioni” . Questa frase riferita al bambino potrebbe essere nel contempo riferita ai genitori e al loro desiderio di vivere emozioni positive con il proprio figlio;

• Funzione REGOLATIVA: sempre di più nella psicologia dell’infanzia e in psicopatologia dell’età evolutiva si fa riferimento al concetto di regolazione. La regolazione va intesa come la capacità che il bambino possiede fin dalla nascita di “regolare” appunto i propri stati emotivi e organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali adeguate che ne conseguono . Ma le strategie per la “regolazione di stato” sono inizialmente fornite dal caregiver. La difficoltà del caregiver a questo livello porta a disturbi della regolazione (difficoltà nel regolare il comportamento, i processi sensoriali, fisiologici, attentivi, motori o affettivi, nell’organizzare uno stato di calma, di vigilanza, o uno stato affettivo positivo). La funzione regolativa genitoriale può avere un funzionamento iper

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(con risposte intrusive che non danno tempo al bambino di segnalare i suoi bisogni o i suoi stati emotivi), ipo (quando vi è una mancanza d risposte), inappropriata (quando i tempi non sono in sincronia con il bambino). Sulle difficoltà regolative del caregiver tuttavia non esistono per ora studi in grado di correlare queste difficoltà a particolari aspetti dello sviluppo relazionale del caregiver stesso. In ogni caso sempre di più ci si sta accorgendo come la capacità di regolazione sia la base per poter decodificare le proprie esperienze e non sentirsi sopraffatti da queste. “Il processo fondamentale sottostante alle esperienze di guardare, ascoltare, prestare attenzione, parlare, modulare l’affetto e il comportamento, sentirsi calmi...è la capacità di regolazione”. Tanto che in psicoterapia “il primo obiettivo terapeutico è aiutare la persona a sentirsi calma, regolata, interessata al mondo che la circonda”. Il terapeuta quindi esercita in primis una funzione regolativa;

• Funzione NORMATIVA: conseguente all’evolversi della funzione regolativa o forse come funzione a sé stante, sta la funzione normativa che consiste nella capacità di dare dei limiti, una struttura di riferimento, una cornice e corrisponde a quel bisogno fondamentale del bambino che è il bisogno di avere dei limiti, di vivere dentro una struttura di comportamenti coerenti. Al centro della capacità di dare delle regole stanno come scrivono Brazelton e Greeenspan le aspettative e la consapevolezza dei compiti evolutivi di quella determinata età. La funzione normativa riflette l’atteggiamento genitoriale di fronte alle norme, alle istituzioni, alle regole sociali. E’ il “principio della legge e dell’ordine che dà ad ognuno la sua parte di privilegi e di limitazioni, di doveri e di diritti”. E’ forse questa una delle funzioni genitoriali che mette più a contatto la storia normativa personale e la cultura dell’epoca nella quale si vive (genitore sociale);

• Funzione PREDITTIVA: è la capacità del genitore di prevedere il raggiungimento della tappa evolutiva imminente. I genitori adeguati sanno percepire in modo realistico l’attuale stadio evolutivo del bambino e sanno però nel contempo intuire quei comportamenti che promuovono e sviluppano il nuovo comportamento. Come scrivono in modo poetico e psicologicamente profondo Trad e Kernberg “una diade è un’unità al cui interno la crescita e il cambiamento di uno dei membri implica la crescita e il cambiamento anche dell’altro”. Una difficoltà a questo livello può comportare una serie di disturbi evolutivi sul piano somatico, cognitivo e motivazionale. La funzione predittiva non è solo la capacità di intuire e facilitare lo sviluppo del bambino ma soprattutto la capacità di cambiare modalità relazionali con il crescere del bambino e con l’espandersi del suo mondo e delle sue competenze;

• Funzione RAPPRESENTATIVA: è ciò che ben ha descritto Stern e che possiamo definire lo “schema di essere con” e che presuppone un insieme di interazioni reali con il bambino. Lo “schema di essere con” infatti si basa sull’esperienza interattiva di essere con una persona particolare in un modo specifico oltre ad essere una rete di molti “schemi di essere con” collegati da un tema comune ( ad esempio <fare il bagnetto>). Oltre a queste rappresentazioni situazionali esistono poi rappresentazioni dello “schema di essere con” più generalizzate e che corrispondono ad esempio a “schemi della madre relativi alla propria madre”. Queste rappresentazioni generalizzate diventano attive nel momento in cui entrano nell’interazione specifica con il bambino. La funzione rappresentativa è poi continuamente arricchita da nuove rappresentazioni di “essere con” che allargano il mondo interattivo del bambino e dei suoi genitori. Per funzione rappresentativa va intesa proprio questa capacità di modificare continuamente le proprie rappresentazioni in base alla crescita del bambino e dell’evolvere delle sue interazioni, facendo nuove proposte o sapendo cogliere dal bambino i suoi nuovi segnali evolutivi. Infatti “finché le rappresentazioni del bambino non vengono modificate, il bambino, per quanto gli è ancora possibile, agirà come faceva prima dei cambiamenti avvenuti nei suoi genitori” . Lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino, sembra dire Stern, è conseguente ai cambiamenti delle rappresentazioni genitoriali;

• Funzione SIGNIFICANTE: Bion parla di “funzione alfa” della madre come capacità di dare un contenuto pensabile e/o sognabile, in definitiva utilizzabile dall’apparato psichico, alle percezioni, alle sensazioni del neonato che sono ancora prive di spessore psichico. La madre costituisce attraverso la reverie un contenitore dentro il quale il bambino inizia a pensare poiché adattandosi

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ai bisogni del bambino aiuta il bambino stesso a com-prendere il suo bisogno. Questo postula un complesso intreccio di proiezioni e identificazioni tra madre e bambino. Riprendendo uno dei modelli cognitivi oggi utilizzati anche in ambito filosofico possiamo dire che la madre crea una cornice che dà senso all’azione del bambino. Questo dare senso, ai suoi bisogni, ai suoi gesti all’inizio casuali, ai suoi movimenti, alle sue espressioni, inserisce il bambino in un mondo di senso. Il quale è diverso dal “semplice” senso legato alle singole rappresentazioni le quali, naturalmente, hanno e forniscono una loro cornice. Ma questa funzione genitoriale sembra implicare un processo ulteriore quasi un “pensare le rappresentazioni”, un inserirle in una cornice più ampia che è data dal significato che ha per me la relazione con il bambino in questo particolare momento della mia vita e delle mie relazioni. E in una cornice ancora più grande che è il senso della vita per me e del pensare la mia vita, il senso delle relazioni che vivo e il pensare queste relazioni;

• Funzione FANTASMATICA: “nella stanza di ogni bambino ci sono dei fantasmi. Sono i visitatori del passato non ricordato dai genitori. Gli ospiti inattesi al battesimo.” “Il genitore sembra essere condannato a rappresentare nuovamente la tragedia della sua infanzia con il proprio bambino” . Se la Fraiberg parla di fantasmi come di ricordi non elaborati possiamo però allargare il termine fantasma a tutte le fantasie. Le fantasie servono non solo per conoscere la realtà (nel confronto tra mondo fantasmatico e mondo reale che ci porta a dire “non è così”) ma le fantasie hanno soprattutto la funzione di “fondare l’essere e costituirne l’identità“. Il bambino che nasce si inserisce all’interno dei fantasmi familiari dei genitori. Ogni individuo ha un proprio romanzo familiare costruito attorno alle proprie fantasie infantili, un mondo immaginario fatto di fantasmi consci e preconsci. La nascita di un bambino implica un passaggio dei genitori ad uno stato nuovo. Vi è un gioco di specchi tra quello che i genitori sono stati come bambini, quello che avrebbero voluto essere, quello che i loro genitori sono stati, quello che vorrebbero che fossero stati, quello che è il bambino reale, quello che è il bambino desiderato e fantasticato. E’ questa un’area che si sta esplorando molto intricata ma anche molto intrigante. Un genitore sano vive questa ricca vita fantasmatica. Infatti solo questa può favorire la nascita di una nuova identità che è appunto il connubio tra fantasia e realtà;

• Funzione PROIETTIVA: vi è una mutualità psichica tra genitori e bambino all’interno della quale occupa un posto fondamentale la proiezione. Riprendendo un’immagine utilizzata da Manzano, Palacio Espansa e Zilkha “l’ombra dei genitori è caduta sul figlio” sia, come spiegano gli autori, direttamente (ad esempio proiettando sul figlio l’immagine ideale del figlio che avrebbe voluto essere) sia attraverso l’ombra degli oggetti interni (intendendo con questi parti di sé). Tali modalità sono quindi narcisistiche nel senso che ciò che viene visto, amato, sognato, desiderato non è l’oggetto esterno (che è sempre diverso da sé) ma parti di sé o immagini di sé. E’ ciò che gli autori chiamano “scenari narcisistici della genitorialità”. Tali scenari possono dar luogo a psicopatologie nel momento in cui tali proiezioni siano molto invasive e disturbanti della relazione reale con il bambino. Ma esse fanno parte anche di una sana genitorialità il cui aspetto narcisistico è parte del quadro relazionale. Questa funzione rientra nella più ampia funzione fantasmatica ma la si è definita a parte per l’importanza che il narcisismo genitoriale ha nelle dinamiche proiettive. Il narcisismo, sia materno che paterno, ha uno spazio fondamentale nel costruire l’immagine del bambino e nel collocarla appunto dentro un particolare scenario di sviluppo. La relazione con il bambino è sempre una relazione oggettuale come essere diverso da sé ma è sempre anche una relazione narcisistica con parti di sé viste nel bambino. E’ la dinamica tra queste due relazioni co-presenti a costituire il confine tra normalità e psicopatologia. Si veda ad esempio l’interessante ricerca svolta da Carbonetto e Filingeri in cui risulta che già durante la gravidanza vi siano diverse modalità fantasmatiche. Una che vede il feto come proiezione narcisistica, come parte di sé; una che lo percepisce come essere a sé stante e lo considera come altro da sé, definendo da subito un rapporto a due. Già durante la gravidanza quindi vediamo in azione il prevalere di una relazione narcisistica o di una relazione oggettuale; del figlio come rappresentante di parti di sé o del figlio come altro, con propri desideri, aspettative, con una sua vita affettiva e sociale. Va sottolineato

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inoltre come all’interno di questa funzione proiettiva si collochi la capacità di tollerare la separazione, l’indipendenza, l’autonomia del figlio. Di considerarlo quindi come oggetto a sé stante e non come oggetto narcisistico. Potremmo dire quindi che la funzione proiettiva va continuamente rielaborata dal genitore per poter sempre di più dare spazio alla relazione oggettuale, alla relazione con il figlio-altro-da-sé. Poiché solo quest’ultimo può vivere positivamente la propria autonomia, il proprio unico modo di essere;

• Funzione TRIADICA: nei termini della scuola di Losanna potremmo definire la funione triadica come la capacità dei genitori di avere tra loro un’alleanza cooperativa fatta di sostegno reciproco, capacità di lasciare spazio all’altro o di entrare in una relazione empatica con il partner e con il bambino. E’ un “gioco di squadra”. Questo presuppone la capacità del genitore di vedere il bambino dentro una relazione dove esiste un terzo. La presenza del terzo, che può essere anche solo percepita, dà al bambino un orizzonte molto più aperto dove collocarsi, e offre al bambino possibilità di adattamento e di interazione molto maggiori. Esiste a livello di affetti un contatto reciproco tra la coppia genitoriale e il bambino che mantiene viva e dinamica la relazione;

• Funzione DIFFERENZIALE: al suo interno la genitorialità ha due modalità di esprimersi attraverso la modalità materna (maternalità) e attraverso la modalità paterna (paternalità). Non è semplice nella fase attuale generalizzare attribuendo esclusivamente alla donna la funzione materna e all’uomo la funzione paterna in quanto tali modalità entrambe presenti nel genitore interno, sia del padre che della madre, possono esprimersi con accentuazioni e percentuali molto diverse. Va tuttavia riconosciuto che all’interno di una coppia genitoriale entrambe le funzioni devono essere presenti per permettere un gioco relazionale sano. In modo semplicistico possiamo dire che, nelle prime fasi evolutive, la funzione materna si ancora in una modalità relazionale duale mentre la funzione paterna ha da una parte il compito di proteggere la diade da interferenze esterne e dall’altra di aprirla e riportarla in un ambito triadico. Ma in tutte le fasi evolutive del bambino il gioco tra le diverse modalità genitoriali diventa essenziale per uno sviluppo psichico sano;

• Funzione TRANSGENERAZIONALE: potremmo definire questa funzione come l’immissione del figlio dentro una STORIA, una narrazione, che appare reale e anche un po’ sognata. E’ la storia della propria famiglia, è il continuum generazionale dove si inserisce la nascita. Nel Vangelo un’intera pagina è dedicata alla genealogia di Gesù quasi a dire che nessuna nascita nemmeno la più inconcepibile può avvenire se non è inserita in una storia generazionale. Questa funzione rimanda ovviamente ai rapporti tra generazioni. Come si collocano i genitori dentro le rispettive storie familiari e come si colloca la nascita dentro quel particolare momento della storia generazionale. E quali sono gli intrecci tra le due storie familiari del padre e della madre, le relazioni tra le due famiglie d’origine… E’ anche questa un’altra complessità che determina lo spazio storico in cui è collocato il neonato e la sua immagine relazionale come essere che avrà un insieme di relazioni o come essere in cui esiste un veto rispetto ad un ramo familiare o ad una particolare persona. Muratori riporta una frase del Talmud che dice “ci vogliono tre generazioni per fare un figlio” intendendo appunto la storia che sta dietro alla nascita di ogni bambino e che lo inserisce in un “prima” e quindi, appunto perché c’è un prima con la possibilità che vi sia anche un “dopo”.

Si sono viste alcune funzioni genitoriali per sottolineare la complessità e la dinamicità del costrutto di GENITORIALITA’. Come si è visto esso presuppone un insieme di funzioni dinamiche e relazionali che rappresentano gli aspetti evolutivi del percorso maturativo della persona. “Prendersi cura di” e quindi maturare il desiderio generativo è uno degli stadi della crescita umana. Esso non presuppone la nascita di un figlio reale ma è uno spazio mentale e soprattutto relazionale dentro il quale convergono la mia storia affettiva, il mio mondo degli affetti, i miei legami di attaccamento, il mio mondo fantasmatico, il mio narcisismo, il senso che ha per me la mia esistenza, il mio sentirmi parte di una storia, la mia differenziazione sessuale, la mia capacità di vivere relazioni pluri-dinamiche (e di non essere chiuso in una relazione duale), il mio rapporto con le regole e il sociale, la mia capacità di contenere e regolare i miei stati emotivi, la mia capacità di cambiare e di essere cambiato, il mio sentirmi unico e irripetibile, autonomo ed indipendente e nello stesso tempo bisognoso di “essere pensato da qualcuno”.

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Con le parole di Bertolini e Neri: “essere radicati in qualcuno per poter mettere radici in un altro con cui diventare coppia per poi poter offrire ancora ad un altro l’intreccio di queste radici”. La relazione madre-bambino Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo nell’instaurare una relazione: essi sono alla costante ricerca di interazione, in particolar modo nelle prime fasi di sviluppo. Tale interazione è molto importante, in quanto influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo e la personalità adulta dell’infante. Come ogni altro tipo di interazione, le distinte attività dei partecipanti devono coordinarsi tra di loro, ed è quindi necessario il contributo di entrambi per la buona realizzazione della stessa. Contrariamente a quanto si potrebbe comunemente pensare, anche il neonato fin dalla nascita non dipende completamente dalla madre, ma ha un ruolo attivo nell’intraprendere e mantenere la relazione madre-figlio. Recenti studi hanno infatti dimostrato la presenza di meccanismi fisiologici innati, biologicamente basati e reciproci che si attivano in maniera automatica nella madre, che risponde ai segnali del piccolo ma anche nel bambino che richiama la sua attenzione e vicinanza. In particolare, dopo una breve introduzione sul tema dell’attaccamento madre-bambino e le relative teorie si parlerà di allattamento, Transport Response e del pianto, in quanto essi mettono in evidenza il ruolo attivo di entrambe le parti della diade. Introduzione: l’attaccamento e le teorie dell’ attaccamento Uno dei principali oggetti di studio della psicologia dello sviluppo è la capacità di creare relazioni e, il focus principale riguarda il primo legame affettivo del bambino ossia quello con la propria madre. La relazione madre-figlio è essenziale dal punto di vista evolutivo in quanto salvaguarda la sopravvivenza del cucciolo e la conservazione della specie in generale per tutta la categoria dei mammiferi, ed è inoltre necessaria all’individuo umano, in quanto struttura un pattern di relazione sociale che potrà essere adattato nelle fasi successive dello sviluppo all’interazione con gli altri membri della stessa specie. L’autore che maggiormente si è occupato della relazione madre-figlio è stato J. Bowlby (1969,1973,1980) nonché il padre fondatore della teoria dell’attaccamento, il quale definì scientificamente con il termine di attaccamento il legame, emotivamente significativo per entrambe le parti della diade e di lunga durata, che si instaura tra un bambino e la propria madre sulla base di scambi interattivi reciproci, costituito da un insieme di comportamenti mirati a mantenere la prossimità verso una persona specifica che viene riconosciuta in grado di gestire adeguatamente la situazione in atto. L’attaccamento possiede la caratteristica di essere selettivo, implica la ricerca di vicinanza con l’oggetto di attaccamento, fornisce benessere e sicurezza come risultato della vicinanza con l’oggetto di attaccamento e quando il legame viene interrotto e la prossimità non può essere raggiunta, si produce uno stato di angoscia da separazione. Inoltre, fornisce una base sicura dalla quale il bambino può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno. Il termine attaccamento viene distinto da Bowlby (1988) da quello di comportamento di attaccamento: l’autore sosteneva che, l’avere un attaccamento significa essere fortemente portati a ricercare la vicinanza con qualcuno, soprattutto in situazioni specifiche e che tale disposizione è un attributo della persona, che cambia solo lentamente nel tempo e non è influenzato dalla situazione momentanea, mentre, con comportamento di attaccamento, si intendono tutte quelle forme di comportamento che una persona mette in atto per ottenere la prossimità che desidera. Il comportamento di attaccamento è mediato, in base all’età, da diversi apparati: percettivo (orientamento visivo) e di segnalazione (ad esempio il pianto). Malgrado la formazione psicoanalitica di Bowlby, la sua teoria si discosta dalla psicoanalisi, la quale offriva due diverse descrizioni della relazione madre-figlio, ovvero il modello pulsionale di Freud e la teoria di M. Klein. Brevemente, secondo la teoria di Freud chiamata teoria dell’amore interessato, di tipo pulsionale, la relazione madre-figlio è vista come libido o energia fisica: il bambino si “attacca” alla madre in quanto essa, avendo la funzione di nutrice, gratifica i suoi bisogni orali. Se essa è assente, la tensione del

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bambino incrementa in quanto la libido non viene scaricata e il bambino la percepisce come angoscia (Freud, 1938). Nella teoria Kleiniana, le pulsioni di cui Freud parlava, appaiono legate indissolubilmente a un oggetto: secondo l’autrice il primo oggetto con cui il bambino instaura una relazione è il seno materno, che il bambino può idealizzare attribuendo allo stesso piacere e amore (seno buono) oppure trasformarlo in un oggetto che porta dolore o angoscia (seno cattivo) in funzione del comportamento dell’oggetto verso il bambino. In base a quanto vengono soddisfatti i suoi bisogni, il bambino potrà stabilire buoni rapporti con la madre mentre, la presenza di frustrazioni orali farà percepire il rapporto come negativo (M. Klein, 1932). Ricerche successive hanno però dimostrato che il bambino ha un ruolo attivo nell’instaurare una relazione grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino, nonché un suo bisogno primario e non più una conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici (Lis et al., 1999). L’importanza di altre variabili quali la vicinanza e il contatto fisico con la madre, a scapito della soddisfazione dei bisogni primari come ad esempio la fame è stata proposta da Bowlby grazie agli studi di altri due importanti studiosi: l’etologo Konrad Lorenz e lo psicologo Harry Harlow. Lorenz (1935), con la scoperta del fenomeno dell’imprinting nei pulcini, ha dimostrato come i piccoli tendono a mantenere un contatto visivo e uditivo con il primo oggetto cospicuo con cui fanno esperienza subito dopo la schiusa dalle uova (solitamente la madre) a prescindere dal bisogno di nutrizione: ciò è dimostrato sia dal fatto che queste specie di animali sono in grado di cibarsi autonomamente sin dalla nascita sia perché il comportamento si manifesta indipendentemente anche da qualunque altro tipo di ricompensa convenzionale (Bowlby, 1989). Harlow (1958), grazie agli studi sulle scimmie Rhesus, ha dimostrato come i piccoli passassero più tempo in corrispondenza di una madre calda e morbida ma che non fornisce cibo, rispetto a una madre fredda e metallica che invece lo fornisce. Sia dagli esperimenti di Lorenz che da quelli di Harlow, emerge quindi che, altre due necessità, anch’esse geneticamente programmate così come lo è il bisogno di nutrimento, spingono il cucciolo a ricercare ininterrottamente la vicinanza e il contatto fisico con la figura di attaccamento primario: il bisogno di protezione dai predatori e dai pericoli esterni con lo scopo di garantire il benessere e la sopravvivenza della specie e la sicurezza, rispettivamente funzione biologica e psicologica dell’attaccamento. La relazione madre-figlio negli esseri umani Nella specie umana, i bambini nascono in uno stadio di sviluppo meno avanzato rispetto ad altri animali, pertanto nei primissimi mesi, sono le madri a contribuire notevolmente a far sì che i piccoli rimangano vicini: siccome appunto il piccolo non è in grado di aggrapparsi, esse lo sorreggono offrendo in questo modo un contatto fisico, che fornisce a sua volta calore e affetto. Numerosi studi hanno evidenziato che questo contatto fisico (carezze, abbracci ect.) contribuisce, sin dalla nascita, allo sviluppo di attività come la respirazione, la vigilanza, le difese immunitarie, la socievolezza e il senso di sicurezza essenziali per un regolare sviluppo sessuale oltre che per la salute mentale del piccolo (Anzieu, 1985). Altro effetto sul funzionamento corporeo della relazione madre-figlio, dovuto al contatto fisico, è l’aspetto di termoregolazione: una madre riesce a mantenere la temperatura corporea del suo piccolo al pari di apparecchi da riscaldamento altamente tecnologici, nel momento in cui il figlio nudo ed asciutto viene posizionato pelle a pelle sul suo petto (Christensson, 1992). Per quanto riguarda il bambino, seppur non abbia la capacità motoria di avvicinarsi alla madre o mantenersi presso di essa, viene al mondo dotato di numerosi strumenti che, fin dalla nascita, hanno la funzione di mostrare certi segnali differenziati che inducono in modo peculiare particolari tipi di risposta da parte di chi li cura: i più evidenti sono il pianto e il sorriso (Schaffer, 1998). Queste due forme di comportamento, che hanno l’effetto di far avvicinare la madre al bambino, vengono raggruppate da Bowlby, nella classe dei

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“comportamenti di segnalazione” in cui possiamo trovare anche altri comportamenti quali il richiamo e tutti i gesti classificabili come segnali sociali. Tutti questi comportamenti vengono emessi dal bambino in circostanze diverse: il pianto può essere suscitato da svariate condizioni, quali ad esempio la fame, il dolore e la separazione dalla madre. Il sorriso, come anche la lallazione, si manifesta invece in situazioni diverse, ossia quando il bambino è contento, non ha fame né prova dolore. Nonostante il sorriso non susciti nella madre l’azione del proteggere, nutrire o confortare, esso fa comunque sì che ella risponda, parlando al bambino accarezzandolo o prendendolo in braccio, garantendo dunque stabilità alla relazione madre-figlio. Il sorriso funge anche da rinforzo per la madre in quanto tende a far aumentare la probabilità che in futuro ella risponda ai segnali del proprio bambino in modo pronto e tale da favorire la sua sopravvivenza. L’altra classe di comportamenti individuata da Bowlby è quella dei ‘comportamenti di accostamento’, in cui rientrano l’aggrapparsi, il seguire e il raggiungere il genitore che hanno la funzione di avvicinare il bambino alla madre. Tali comportamenti tuttavia possono essere effettuati dal bambino solamente una volta che egli ha raggiunto un certo livello di sviluppo motorio. Come abbiamo appena potuto notare quindi, entrambe le parti della diade nella relazione madre-figlio svolgono ruoli attivi nell’ambito della loro relazione. Studi recenti, hanno dimostrato la presenza di determinati meccanismi fisiologici che permettono al bambino di richiamare, in maniera quasi automatica, l’attenzione della madre (o caregiver) che a sua volta ha meccanismi fisiologici per cui, sempre automaticamente, le consentono di rispondere ai richiami e ai segnali del bambino. È molto interessante notare, che oltre a basarsi su meccanismi fisiologici attivi sia nella madre che nel bambino l’evoluzione ci ha modellato in maniera che tali meccanismi si reciprochino a vicenda e, esempi di ciò sono: l’allattamento, il Transport Response e il pianto. Relazione madre-figlio nell’allattamento Il bisogno di nutrizione è un bisogno primario per tutti gli esseri viventi. L’evoluzione dei mammiferi ha dotato le madri, e solo queste, del meccanismo fisiologico che permette loro di produrre il latte (il quale si adatta perfettamente alle esigenze nutritive del piccolo) e fornire le risorse necessarie al proprio bambino (Mogi, 2010). Anche il bambino però viene al mondo dotato del meccanismo reciproco che gli consente di nutrirsi del latte materno, alimento specie-specifico (American Academy of Pediatrics, 2005) che soddisfa completamente i suoi bisogni nutrizionali nei primi sei mesi di vita, favorisce un corretto sviluppo delle strutture facciali e dei denti (Devis et al., 1991), lo protegge da infezioni e allergie (Garofalo, 1999) nutrendo, oltre al corpo, anche la psiche, facendo così nascere il bisogno di relazionarsi con la madre (Buchal, 2011) e permettendo l’instaurarsi di una profonda regolazione emotiva di soddisfazione tra madre e bambino (Casacchia, 2012). L’allattamento si basa principalmente su due riflessi: uno del bambino, la suzione, e uno della madre, quello di produrre il latte; questi due riflessi, apparentemente semplici, messi assieme fanno un comportamento altamente specifico, altamente complesso ma soprattutto altamente funzionale al bisogno del bambino e alla relazione madre-figlio. Il seno della madre si modella già a partire dalla gravidanza e la produzione di latte comincia a partire dal parto. Questo processo è regolato anche a livello ormonale: dopo il parto, c’è un’impennata dei livelli di prolattina (l’ormone che regola la produzione di latte), il cui rilascio, dalla parte anteriore dell’ipofisi è causato dalla suzione del bambino. L’emissione di latte è invece dovuta a un altro ormone, l’ossitocina, il cui rilascio, dalla parte posteriore dell’ipofisi (Mogi, 2011) può essere provocato sia dalla suzione del bambino che dalla semplice vista o pensiero del piccolo da parte della madre (Jerris, 1993). L’allattamento, offre molti vantaggi a entrambe le parti coinvolte: considerando solo quelli psicologici, possiamo notare che: riguardo al bambino, è stato dimostrato da studi recenti che esiste una correlazione positiva tra le variabili allattamento al seno e quoziente intellettivo (QI) del bambino mentre altri studi di tipo osservazionale, confermando tali risultati, mostrano come bambini allattati al seno rispetto bambini allattati artificialmente abbiano un miglior sviluppo neurocognitivo; riguardo alla madre il vantaggio è

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quello per cui l’allattamento le permette di aumentare l’ empowerment e la fiducia in sé stesse oltre ad essere l’antagonista della depressione port-partum (Bisceglia et al., 2010); vantaggio per entrambi è il rinforzarsi del loro legame e lo stabilire un vincolo affettivo importante per tutta la vita. Il Transport Response Il Transport Response (TR), studiato attraverso tecniche comparative tra specie diverse, riguarda la capacità del bambino (o cucciolo animale) di adattarsi al trasporto materno. Questo fenomeno è stato osservato inizialmente da Eibl-Eibesfeldt nel 1951, quando notò che prendendo un topino con un dito nella parte dorso-laterale del corpo esso assumeva una specifica postura, caratterizzata da estensione e adduzione di entrambe le zampe anteriori verso il corpo e una flessione delle zampe posteriori e della coda verso il corpo. Il topo, durante la presa, rimaneva inoltre fermo e passivo. Questa regolazione posturale venne studiata sperimentalmente in laboratorio con il nome di Transport Response da Brewster e Leon (1980). Questi autori confermarono che il topo assumeva la specifica posizione compatta sopra descritta e ne studiarono il valore ecologico. Il Transport Response si verifica in una precisa finestra temporale: finché il topino è piccolo, la madre lo può afferrare ovunque per spostarsi da un posto all’altro ed egli può permettersi di muoversi anche durante il trasporto. Tuttavia, dall’ottavo/nono giorno, il cucciolo inizia a divenire pesante e siccome ancora cieco, deve affidarsi completamente alla madre e facilitarla nel trasporto restando fermo. La sua risposta, automatica, è elicitata dalla madre, la quale lo afferra con i denti proprio nella zona dorso-laterale. Gli autori notarono infatti che, il gruppo di topini a cui era stata anestetizzata questa parte non erano in grado di esibire il Transport Response e ciò si rivelava pericoloso, in quanto se il cucciolo era abbastanza grande e pesante la madre si trovava in difficoltà, rallentando, inciampando spesso nel piccolo e rischiando di cadervici sopra o ferirlo. Il Transport Response, diminuisce gradualmente per estinguersi poi del tutto al diciottesimo giorno, quando il cucciolo è indipendente. Tale risposta è quindi messa in atto dal cucciolo nel periodo in cui è abbastanza pesante ma non ha la motricità sufficiente per muoversi autonomamente. Il significato funzionale di questo comportamento è quello di facilitare la madre nel trasporto e garantirsi una maggior probabilità di sopravvivenza. Anche nell’uomo è possibile trovare il Transport Response: allo stesso modo in cui il riflesso di suzione reciproca il riflesso della madre di produzione del latte nel corso dell’allattamento, nel Transport Response, il trasporto della madre (che può avvenire per esempio quando il bambino piange e la madre automaticamente lo prende in braccio e cammina), è reciprocato dalla risposta del bambino. Già a partire dalla presa in braccio, sia la madre che il bambino mettono appunto automaticamente una serie di aggiustamenti posturali che gli permettono maggiore confort: la madre solitamente poggia il bambino sull’anca, così che il peso di quest’ultimo viene distribuito su avambraccio e anca; il bambino a sua volta, quando viene sollevato flette e divarica le gambe (Kirkilionis,1992;1997). Tale posizione del piccolo sul fianco della madre è anche benefica per lo sviluppo dell’anca (Kirkilionis, 2001). Altra risposta del bambino, che si verifica una volta che egli si trova in braccio alla madre che cammina, è quella di smettere di piangere, almeno nella maggior parte dei casi, riuscendo addirittura ad addormentarsi. Gli effetti calmanti sul bambino dovuti all’essere preso in braccio sono una questione nota agli adulti di tutte le culture, ma attualmente ne sono stati studiati anche i meccanismi fisiologici e neuronali che stanno alla base del fenomeno: nell’esperimento di Esposito et al. (2013) è stato dimostrato come il battito cardiaco del bambino che piangeva diminuiva improvvisamente nel momento in cui la madre si alzava tenendolo in braccio per cominciare a camminare. Quando la madre tornava a sedersi, il battito cardiaco tornava a crescere nuovamente e ricomparivano inoltre i movimenti volontari e il pianto. Questo pattern di comportamento è visibile fino ai sei/sette mesi, in quanto dopo tale periodo il bambino non ha più bisogno di una stimolazione motoria e vestibolare per calmarsi bensì di una stimolazione sociale. Gli autori notarono inoltre che, nel caso il bambino in braccio durante il trasporto continuasse a piangere, il battito cardiaco diminuiva. Inoltre, analizzando le componenti acustiche del loro pianto si scoprì anche che la frequenza fondamentale del pianto diminuiva. La frequenza fondamentale è un indicatore che più è alto, più acuto e disagevole risulta essere il pianto. Questo studio è riuscito così a dimostrare, per la prima volta,

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che il tranquillizzarsi del bambino in risposta al trasporto materno è un set coordinato di regolazioni di tipo centrale, motorio e cardiaco ed è una componente che si è conservata nella relazione madre-figlio di tutti i mammiferi. Il significato funzionale di questa risposta cooperativa del piccolo umano (e non) è sempre quello di garantirsi maggior sopravvivenza. Altro comportamento, che si reciproca nella relazione madre-figlio, anch’esso importante evolutivamente parlando, come lo sono gli altri due di cui abbiamo discusso sopra, necessario, a garantire protezione e benessere al bambino, è il pianto. Relazione madre-figlio: il ruolo del pianto Il pianto del bambino è il primo canale comunicativo che il bambino ha a disposizione alla nascita, per segnalare i propri bisogni e comunicare con l’ambiente esterno (Esposito e Venuti, 2009). Esso è un comportamento sociale con un importante ruolo nello sviluppo del bambino, guidato da fattori geneticamente predeterminati in grado di elicitare reazioni fisiologiche negli adulti quali ad esempio un incremento del battito cardiaco (Huffman et al., 1998) e risposte endocrine (Fleming et. al., 2005). Un episodio di pianto è uno stimolo in grado di attivare il Sistema Nervoso Centrale sia del bambino che lo produce, sia dell’ascoltatore, creando uno stato di attenzione reciproca (Esposito e Venuti, 2009). Inoltre, rappresenta una ‘sirena biologica’ che, operando in larga misura come un rinforzo negativo (Barr et al.,2006; Soltis, 2004), riesce a modificare e attivare lo stato funzionale dei genitori, promuovendo prossimità e contatto con essi e in particolar modo con la madre, attivando il suo comportamento (Bell and Ainsworth, 1972) e motivandola a rispondere prontamente e in maniera adeguata nutrendo il piccolo, proteggendolo o confortandolo (Venuti e Esposito, 2007). Il pianto si è evoluto per comunicare ai genitori un bisogno imminente e, per garantire che sia esattamente quel bisogno ad essere soddisfatto, a seconda della causa il bambino modula, in maniera istintiva, l’emissione di differenti tipologie di pianto. Ciò che cambia tra un tipo di pianto e l’altro è la frequenza fondamentale (vibrazione percepita come picco del pianto), il ritmo e la sua evoluzione temporale all’interno dello stesso episodio di pianto. Alcuni esempi dei diversi tipi di pianto che sono stati individuati sono:

▪ Il pianto di fame, caratterizzato da una frequenza fondamentale non molto alta, inizio lento e tono sommesso e aritmico ma che col passare del tempo diviene più intenso e ritmato;

▪ Il pianto di dolore: caratterizzato da un andamento aritmico e da una forte intensità sin da subito; il bambino emette un vero e proprio grido iniziale improvviso, intenso e prolungato, che viene seguito da un periodo di silenzio dovuto all’apnea; successivamente a questa, brevi inspirazioni affannose, si alternano ad acuti singhiozzi espiratori;

▪ Il pianto di sonno: caratterizzato da un iniziale piagnucolio lamentoso, piuttosto che un vero e proprio pianto, che si protrae, sempre più insistentemente, intensificando il timbro;

▪ Il pianto di noia: caratterizzato da un piagnucolio iniziale intermittente che sembra non cessare. Appena nato, tuttavia, un bambino non ha la consapevolezza che quando piange la madre accorre a lui ma col passare del tempo egli apprende questa causa-effetto e, in particolar modo tra gli otto e dodici mesi, diverrà abile e scoprirà quali sono le condizioni che pongono fine ai suoi disagi e che lo fanno sentire sicuro: egli inizierà quindi ad apprezzare il valore comunicativo del pianto e a utilizzarlo intenzionalmente, facendolo quindi diventare un pianto consapevole. Si verrà quindi ad aggiungere, con l’età, un’altra causa oltre a quelle sopra citate, in grado di scatenare il pianto: l’allontanamento o la separazione dalla madre. In questo contesto l’intensità del pianto, o meglio della protesta, può essere influenzata da come la madre si muove: se in modo lento e tranquillo sarà più lieve rispetto a quando si allontana improvvisamente e/o rumorosamente. Importante, inoltre, il grado di familiarità dell’ambiente in cui il bambino viene lasciato: se l’ambiente non è famigliare il bambino molto più probabilmente piangerà e se ne è in grado cercherà di seguire la madre. Il pianto di un bambino è uno stimolo che solitamente non viene ben accolto dalle persone che lo odono; per tale ragione esse tendono a fare del loro meglio non solo per porvi fine, ma anche per diminuire la probabilità del suo manifestarsi.

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La presa in braccio, che è la risposta iniziale più frequente al pianto, indipendentemente dalla cultura e anche dallo stato parentale, offre oltre alla stimolazione vestibolare, anche contatto fisico e calore ed è la più efficace per porre termine al pianto. Uno studio longitudinale di Bell e Ainsworth (1972) ha dimostrato che la prontezza di risposta del caregiver promuovono un comportamento desiderabile nel bambino alla fine del primo anno, dove frequenza e durata del pianto saranno inferiori. Una madre sensibile sarebbe in grado di ridurre temporaneamente il pianto in termini di durata fornendo anche le condizioni che tendono a prevenire l’attivazione o riattivazione del pianto, non solo nei primi mesi ma anche successivamente. Le autrici affermano inoltre che la responsività materna promuove lo sviluppo della comunicazione: i bambini che piangono meno all’età di un anno, appunto grazie alla sensibilità delle loro madri, avevano maggiore probabilità di sviluppare altre strategie comunicative, quali ad esempio le espressioni facciali, gesti corporei e vocalizzazioni rispetto a quelli che piangevano di più. Anche altri autori, concordano con questo e aggiungono che la reattività di un caregiver, svolge un ruolo importante nello sviluppo della personalità, temperamento e capacità cognitive e linguistiche del bambino (Esposito e Venuti, 2009). E’ stato dimostrato che la risposta materna si attiva in maniera automatica e, per tale ragione, è inoltre possibile ipotizzare che l’evoluzione abbia permesso di sviluppare nelle donne, in particolare quelle in età fertile, particolari meccanismi fisiologici per percepire e rispondere appropriatamente al pianto. Oltre alle attivazioni cerebrali, il pianto risulta in grado di modificare il battito cardiaco come conferma ad esempio lo studio di Weisenfeld et al. (1981): l’ascolto del pianto del proprio bambino, registrato su un nastro, causa nelle madri una decelerazione cardiaca seguita da una rapida accelerazione: tale risposta è associata alla preparazione all’azione o ad intervenire. Infine, il pianto è in grado di elicitare anche risposte endocrine: uno studio di Fleming et al.(2005), ad esempio, condotto su persone di sesso maschile ha mostrato che padri, che ascoltavano gli stimoli di pianto, mostravano un incremento percentuale maggiore nel testosterone rispetto ai padri che non ascoltavano tali stimoli. Inoltre, i padri con esperienza, ascoltando i pianti, mostravano un incremento percentuale maggiore nei livelli di prolattina rispetto ai neo-padri o a qualsiasi gruppo di padri che ascoltavano stimoli di controllo. Osservando fenomeni quali l’allattamento, il Transport Response e il pianto, si è notato come la relazione madre-figlio è interdipendente e biologicamente basata: la madre possiede meccanismi fisiologici che vengono attivati solo con il contributo del suo piccolo che, grazie ai propri meccanismi fisiologici innati agisce in maniera tale da richiamare la sua attenzione, assicurarsene la vicinanza, nonché far in modo che gli venga data una risposta pronta e adeguata alle sue esigenze garantendogli la sopravvivenza e il benessere fisico e psicologico. Sviluppo affettivo Un sano sviluppo della personalità dipende sia dall'adeguato sviluppo della sfera cognitiva, affettiva e sociale, sia dalle interazioni che la persona stabilisce con l'ambiente esterno nel corso della sua evoluzione. L'analisi degli aspetti affettivi include esperienze psichiche relative alla soggettività, che si connotano secondo la polarità antitetica piacere-dispiacere, in base all'intensità, alle modalità di insorgenza, ed alla durata. In base agli elementi suddetti i fenomeni affettivi si dividono in: sentimenti, emozioni ed umore. I sentimenti sono i componenti basilari dell'affettività, sono persistenti ed esprimono la risonanza affettiva con la quale la persona vive la realtà corporea, la sua socialità ed i suoi processi psicologici. Le emozioni sono stati affettivi spesso intensi, ad insorgenza acuta e di rapido esaurimento; influenzano i processi psichici ed il comportamento e si esprimono sul versante corporeo e neurovegetativo. L'umore è la tonalità affettiva di base, va a costituire il temperamento abituale di una persona e lo stato affettivo temporaneo. Studiare lo sviluppo affettivo significa analizzare il tipo di rapporti che il soggetto instaura con l'ambiente e le caratteristiche individuali, evidenziando i fattori che influenzano l'evoluzione. Aspetti di ordine ambientale che condizionano la qualità delle relazioni affettive possono essere: - il comportamento dei genitori, in modo specifico quello della madre nei primi anni di vita; - l'atteggiamento di accettazione o di rifiuto dell'ambiente;

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- la possibilità di sperimentare esperienze sociali positive. Particolarmente importante è la relazione madre-figlio, infatti la madre offre la prima relazione oggettuale del bambino, sull'esperienza della quale egli costruirà le successive relazioni interpersonali. Se questo rapporto manca o viene significativamente alterato precocemente, nel bambino si genereranno, dal punto di vista emozionale, stati carenziali che influenzeranno negativamente e spesso irreversibilmente, il suo sviluppo psicofisico. Per carenza affettiva si intendono diverse sindromi caratterizzate da una condizione prolungata di non soddisfazione dei bisogni primari del bambino nel rapporto diadico con la madre. I bambini che sperimentano una condizione di carenza affettiva sono quelli istituzionalizzati, ospedalizzati, o quelli che sono allontanati per lungo tempo dalla famiglia senza la possibilità di godere di un sostituto materno valido. Autori quali Spitz, Bowlby e la Bender hanno studiato approfonditamente molti casi clinici di bambini cresciuti in condizioni affettivamente deprivanti, hanno conseguentemente evidenziato come questo stato carenziali produca effetti diversi, sempre negativi, a seconda del tipo di separazione, dell'età del bambino, della presenza o assenza di un precedente rapporto con la madre. Fra questi effetti si trova: un progressivo rallentamento delle funzioni psicofisiche, difficoltà o impossibilità di stabilire adeguate relazioni interpersonali fino ai casi più gravi di deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive, gravi alterazioni della sfera affettiva. Spitz fece studi sulla carenza da insufficienza grazie ai quali osservò che bambini di sei/diciotto mesi che si trovavano in tale stato passavano attraverso tre stadi: piagnucolamenti, grida acute con perdita di peso ed arresto nello sviluppo, ritiro e rifiuto del contatto (depressione analitica). La teoria di Spitz fa capo alla psicoanalisi genetica e si colloca nel filone della psicologia dell'Io di Hartmann. Questa corrente distingue la crescita in due processi: i processi di maturazione, che riguardano il patrimonio ereditario e non dipendono dall'ambiente; i processi di sviluppo, che dipendono invece dall'ambiente e dalle relazioni oggettuali. Spitz, per formulare la sua teoria sull'evoluzione psicogenetica, ha osservato direttamente il bambino: nei primi anni di vita ci sono tre organizzatori dello psichismo che caratterizzano alcuni livelli essenziali dell'integrazione della personalità, in essi i processi di sviluppo e di maturazione si combinano. Lo stabilirsi di un organizzatore dipende dalla comparsa di indicatori, ossia nuovi schemi di comportamento di seguito illustrati. La comparsa del sorriso di fronte al volto umano si stabilisce intorno ai due/tre mesi, quando si ha la prima relazione preoggettuale indifferenziata e la comparsa della percezione esterna. La comparsa della reazione d'angoscia di fronte all'estraneo, intorno agli otto mesi, periodo in cui c'è la capacità di distinguere fra Io e non Io, c'è relazione con oggetti diversificati. La comparsa del No, al secondo anno di vita, in cui il bambino sa distinguere perfettamente fra sé ed oggetto materno e quindi ha relazioni sociali; qui compare anche la capacità di concettualizzare in modo astratto, simbolico. Anche Bowlby studiò le carenze affettive dal punto di vista quantitativo, focalizzando l'attenzione sulla carenza da discontinuità dei legami o separazione. I problemi maggiori insorgono in presenza di una carenza affettiva fra i cinque mesi ed i tre anni. Come Spitz, anche Bowlby individua tre fasi attraversate dal bambino privato delle cure materne: fase di protesta, al momento della separazione il bambino piange o si agita per due giorni; fase di disperazione, il bambino smette di mangiare, non si veste e pare depresso; fase del distacco, il bambino accetta le cure ma potrebbe non riconoscere la madre. E' stato costruito un percorso evolutivo caratteristico dei primi due, tre anni di vita, che comprende 4 momenti distinti: il bambino attraversa dapprima una fase di preattaccamento, in cui i suoi comportamenti puramente istintivi e riflessi avrebbero lo scopo di sollecitare risposte di protezione da parte della madre; successivamente, intorno al secondo-sesto mese si viene a determinare un interesse privilegiato del piccolo verso la madre che non comporterebbe però ancora ansia e paura nei confronti di questa. L'attaccamento vero e proprio si evidenzia a partire dall'ottavo mese e per tutto il secondo anno: il bambino oltre a manifestare in modo spiccato comportamenti caratteristici quali, per es. seguire la madre,

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aggrapparsi ad essa, toccarla, evidenzia una netta reazione di paura, di ansia se non addirittura angoscia, in presenza di individui estranei e durante la separazione dalla madre. Questa inoltre costituisce con la sua presenza in un luogo non conosciuto, una base sicura che permette l'esplorazione dell'ambiente. Nella fase successiva, durante il terzo anno il piccolo instaura una relazione reciproca con la mamma; il suo pensiero ormai è di tipo simbolico, gli consente di rappresentarsi mentalmente il suo ritorno o la sua presenza anche in sua assenza. Di particolare interesse i comportamenti innati specie specifico, importanti dal punto di vista evolutivo perché favoriscono la sopravvivenza del bambino permettendogli di essere in grado di badare a se stesso o di attirare l'attenzione dell'adulto con comportamenti quali piangere, succhiare, sorridere e afferrare. Molti riflessi, come quelli che controllano la respirazione, rispondono ad esigenze vitali. Altri riflessi essenziali rendono possibile la nutrizione: succhiare, inghiottire, ecc. Alcuni di questi riflessi rimangono tutta la vita, mentre altri svaniscono. I riflessi sono ereditari e di tipo adattivo, stereotipati nella loro forma; sono movimenti del corpo che orientano l'organismo verso un particolare stimolo, azioni a schema fisso. Nella prima infanzia lo sviluppo motorio è cefalo-caudale: i bambini riescono a controllare occhi e testa prima delle mani. Lo sviluppo è anche prossimo-distale: esso procede dal centro del capo alle estremità, dai muscoli più grandi ai più piccoli. La maggioranza di bambini normali attraversa la stessa successione fondamentale nell'acquisire le abilità motorie: sedere, procedere a carponi, stare in piedi (9-16 mesi) e camminare(9-17mesi). Lo sviluppo motorio dei bambini segue lo stesso percorso in tutti i membri della specie. La teoria di Bowlby appartiene alle teorie etologiche assieme a quelle di Harlow: queste teorie studiano il soggetto nel proprio ambiente naturale. Bowlby è stato il primo ad integrare gli studi dell'etologia con la psicologia dello sviluppo; egli infatti, studiando i neonati, si accorse che molti dei loro comportamenti innati si ritrovavano anche nei piccoli degli animali. Le sue osservazioni sui neonati lo portarono a sostenere che l'attaccamento sociale tra il piccolo e la madre era necessario per uno sviluppo normale. In questo ambito la teoria dell'attaccamento di Bowlby è la prospettiva teorica di riferimento. Attaccamento sociale: il 1° anno di vita è critico perché si formi un fondamentale senso di fiducia negli altri e di speranza nel futuro. Ed in ciò le esperienze che coinvolgono il padre e la madre sono le più importanti. Se che si prende cura del bambino risponde ai suoi bisogni in modo affidabile ed attento, il bambino sarà più felice e piangerà di meno rispetto a quelli ignorati (1° anno di vita). Bowlby ritiene che l'attaccamento si sviluppi fra i sei ed i nove mesi, questa particolarissima relazione, fra bambino e madre, si sviluppa in base ad alcuni principi da lui elencati: la tendenza innata a guardare le cose in movimento e certe forme a preferenza di altre; l'apprendimento per esposizione, grazie al quale il bambino riconosce le cose che gli sono familiari e la sua tendenza ad accostarglisi; il rinforzamento di alcuni risultati e l'indebolimento di altri. Verso i 7 mesi i bambini sviluppano un forte legame nei confronti della madre e di una o due persone con cui ha familiarità. I bambini che hanno sviluppato questo attaccamento, piangono quando la madre li lascia e si aggrappano a lei quando hanno paura o si fanno male. La forza dell'attaccamento può variare molto: alcuni formano relazioni sicure, altri meno fortunati, formano relazioni insicure. Poiché l'attaccamento sociale dipende dalle interazioni sociali, la qualità della relazione madre-figlio è cruciale. Sfortunatamente anche le madri meglio intenzionate non possono controllare pienamente le qualità delle loro interazioni con le altre persone, compresi i propri figli, così è inevitabile che certe relazioni di attaccamento madre-figlio siano meno sicure di altre. I bambini il cui legame con la madre è insicuro, possono sviluppare problemi emotivi e di comportamento. Negli ultimi anni, gli impegni lavorativi delle donne, hanno fatto emergere l'importanza della figura del padre nell'educazione quotidiana dei figli. Questo può provocare un legame verso i padri, non meno forte che verso le madri, specialmente se anche il padre nutre il bambino, lo lava, ecc. Fra i nove ed i diciotto mesi i primi comportamenti di attaccamento, soprattutto succhiare, seguire, piangere, aggrapparsi e sorridere, si fondono con comportamenti più complessi perché si ha un collegamento tra componenti innate ed apprese. Sempre secondo Bowlby l'individuo agisce spontaneamente per soddisfare le richieste dell'ambiente, non come sostengono Lorence e Freud perché spinto da impulsi biologici a cacciare cibo, a fuggire per salvarsi o per cercare un compagno.

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La critica di Bowlby alla teoria psicoanalitica si rivolge anche al principio secondo il quale lo stabilirsi della relazione con l'oggetto libidico avvenga per soddisfare il bisogno orale. Bowlby era in contrasto anche con la teoria dell'apprendimento centrata sul rinforzo, che vede la madre come rinforzo secondario; l'autore ritiene che l'attaccamento del bambino alla madre sia in funzione di comportamenti tipici della specie, innati; la prova di quanto dice si ritrova nell'osservazione di bambini nati ciechi o sordi che acquisiscono ugualmente il sorriso sociale all'età di sei settimane. Questi comportamenti hanno la funzione di mantenere il piccolo vicino alla madre e viceversa. Le descrizioni di Spitz e Bowlby del normale sviluppo evolutivo partendo dall'osservazione di situazioni di deprivazione sono state molto utili; attualmente l'attenzione è però rivolta all'ospitalismo intrafamiliare, ossia alla carenza affettiva che può instaurarsi in senso alla qualità della relazione, in seguito ad un alterato rapporto con la madre senza che avvenga una separazione fisica. Spesso la madre, in famiglie multiproblematiche, può essere inaffidabile ed imprevedibile, di conseguenza, il rapporto che instaura con il suo bambino è inadeguato o patogeno; ciò può determinare una condizione di fragilità dell'Io deteriorandone il successivo sviluppo della personalità. Una madre non accogliente, non contenitiva, che non sa offrire un adeguato maternale, sia per una sua condizione emotiva sia per difficoltà oggettive di vita, fa sì che il bambino non sperimenti un adeguato attaccamento. Il rapporto madre-bambino, base del processo di conoscenza Fin dalla nascita ogni individuo è coinvolto in una relazione che rimanda emozioni. L’evoluzione affettiva e cognitiva è legata ai rapporti con le persone incontrate nel corso della vita. all’inizio della sua storia il bambino s’incontra col mondo attraverso la figura della madre ed è proprio da questo primo rapporto, molto esclusivo, che il suo mondo esterno si arricchisce gradualmente fino a comprendere altre figure di riferimento. Lo stesso Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita (D. Winnicott, 1974). Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé. “Nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona” (H. Kohut, 1978). Il punto di partenza per connettere l’esperienza soggettiva del bambino con l’altro e il mondo, è il senso del Sé ed essendo tale esperienza in continua evoluzione, visto che si organizza in relazione all’Altro, è importante che l’ambiente sia facilitante e sintonico affinché divenga una forma di organizzazione stabile pur nella sua evoluzione. Nell’interazione con l’ambiente costituito quindi all’inizio sostanzialmente dalla madre, il bambino costruisce schemi di comportamento con l’altro che tenderà a riprodurre tutta la vita. La madre compie fin dal primo momento di relazione col bambino una serie di gesti e attività che costituiscono una cornice entro cui il piccolo si sviluppa e che lo portano progressivamente ad emergere da quell’apparente stato di passività per acquistare un ruolo più attivo e più determinante per il procedere della relazione. Molti autori sostengono che già alla nascita ogni individuo possiede una predisposizione sociale innata che lo prepara ad avere rapporti con altre persone anche se egli non è ancora capace di relazioni sociali reciproche e non possiede ancora il concetto di persona. È quindi evidente come le interazioni tra madre e bambino, nei primi anni di vita, sono possibili in quanto, immediatamente dopo la nascita, è già presente nel bambino una forma e una capacità di intersoggettività molto prima che il bambino sia capace di comunicazione verbale e di elaborazioni simboliche.

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Si tratta di una forma di intersoggettività primaria, come Trevarthen la definisce, una competenza le cui basi sono geneticamente determinate, che si esprime nel bambino in molti modi ed è testimoniata dalla capacità di imitazione precoce che ha il neonato (C. Trevarthen, 1997). Allora il comportamento sociale del bambino sin dalle prime fasi è già organizzato e compito della madre è proprio quello di adattare il suo comportamento ad un’organizzazione comportamentale già esistente. Un esempio di questo lo si può ritrovare nella madre che tiene in braccio e culla il piccolo durante l’allattamento: qui l’abbraccio della madre fornisce un contesto sociale stabile ove il bambino può abbandonarsi e sentirsi sicuro nei vari cicli e sperimentare così con sicurezza i ritmi di attività e paura legati a tale momento. In tal caso la madre funge da cuscinetto che protegge e fornisce struttura per la psiche emergente del bambino. Alcuni aspetti del comportamento della madre come la voce, il sorriso, gli occhi sempre disponibili divengono, infatti, punti fermi per permettere al bambino di conoscere l’ambiente che lo circonda e renderlo sempre più capace di esercitare un controllo su cicli che fino a quel momento erano inflessibili (fame-sonno). Il comportamento materno col suo fluire continuo, col rispetto dei ritmi attività/pausa, con l’alternanza del turno nelle vocalizzazioni, fornisce al bambino la prima esperienza della struttura di base delle comunicazioni. È proprio attraverso questi dialoghi primari che il bambino imparerà le nozioni di reciprocità e di intenzionalità che stanno alla base del linguaggio e delle relazioni sociali vere e proprie. Lo stesso D. Stern afferma che l’esperienza di essere con l’altro e di interagire con lui può costituire una delle più importanti esperienze della vita sociale. Ancora di più se il senso di essere con l’altro è considerato una modalità attiva di integrazione di due unità distinte –il Sé e l’altro- ove il bambino è parte integrante di una matrice sociale e ove gran parte della sua esperienza consegue alle azioni degli altri. Pertanto Stern ha evidenziato che il bambino è attivo nella relazione fin dalla nascita, rivelandosi in grado di stimolare interazioni, di parteciparvi e di rispondere (D. Stern, 1984). In altre parole, il neonato nasce competente e con un’innata predisposizione a fare esperienze affettive. In tutto questo, l’altro (madre, caregiver) ha il delicato compito di fungere da Io ausiliario del bambino (D. Winnicott, 1987), di metà esterna del Sé (R. Spitz, 1973), di self-object (H. Kohut, 1982); è colui che deve aiutarlo ad ampliare e connettere le varie esperienze: da quelle sensoriali a quelle emozionali. Il caregiver deve, inoltre, fornire al bambino un ambiente di contenimento (holding environement) tale che, il bambino senta assicurata al propria continuità di essere e di esistere (D. Winnicott, 1970). Molto importante sarà, a tale scopo, lo sviluppo delle qualità emozionali ed umane, l’empatia e, soprattutto, la competenza di sintonizzazione affettiva e di vicinanza emozionale che forniscono in maniera autentica e spontanea una base sicura (J. Bowlby, 1989) e un oggetto costante (M. Mahler, 1970). Da quanto bene procede il primo anno di vita da un punto di vista affettivo, dipende l’evoluzione di tutta la vita psichica e relazionale futura. Se, infatti, la libera espressione del Sé e degli affetti incontra l’incomprensione, l’umiliazione, la disapprovazione o il rifiuto, il bambino imparerà molto presto a controllare le emozioni bloccando i muscoli espressivi dell’emozione negata (D. Stern, 1987). Solo con un Vero Sé l’individuo avrà un senso di unità e interezza rendendo spontanei i suoi gesti, aperto il suo cuore, libere e personali le sue idee. Il vero Sé è fonte di autenticità, vivacità fisica e psichica ed è l’assicurazione della continuità del progetto vitale innato in ogni essere umano. Il vero Sé, quando è fatto crescere in una relazione genitoriale stimolante, rispettosa e protettiva, rende la persona veramente socievole, costante nelle relazioni, in sintonia col mondo. Solo il vero Sé, dice Winnicott, può essere creativo e farci sentire reali. Infatti il vero Sé è il luogo della prima azione creativa del bambino che Winnicott chiama gesto spontaneo e può essere un sorriso, una vocalizzazione, un movimento del corpo: la cosa importante è che sorge dal bambino, dal suo nucleo emozionale. Egli non sta solo rispondendo o imitando il suo caregiver: sta, bensì, creando qualcosa di spontaneo e di assolutamente originale. Questo è l’inizio delle appercezioni creative e il compito del genitore è di guardare, gioire, incoraggiare ogni gesto spontaneo e creativo, guardandosi bene dal bloccarlo o dall’interferire col suo controllo o il suo giudizio o col modello di riferimento, visto che tutto dipende dalla qualità e quantità del suo sostegno affettivo.

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Questo significa anche che il bambino, libero dal dover strutturare e aderire ad un’immagine ideale si se stesso imposta dall’esterno, può vivere nel suo essere reale, spontaneo e creativo, facilitando così la possibilità di sviluppare la costanza dell’oggetto, dell’immagine reale del genitore il quale potrà a sua volta mostrarsi in tutti i suoi aspetti, senza essere idealizzato o accettato solo in parte dal bambino. In tal modo il bambino diverrà un adulto capace di vivere con creatività e spontaneità, amando la vita così come è stata affettivamente nutrita la sua vitalità e dando grande valore all’esistenza. Perché il vero Sé è la somma del Sé innato con le rappresentazioni dell’altro indotte dalle esperienze sensoriali vissute nella relazione con l’altro, con gli stati affettivi caldi ed empatici ad essa correlati. Stern ha proposto l’esistenza di una capacità di sintonizzazione affettiva che rende possibile una forma di imitazione trans-modale e selettiva e che, questa capacità di sintonizzazione degli affetti, renda possibile la condivisione degli stati affettivi interni, ma è qualcosa che ovviamente va al di là del comportamento osservabile (D. Stern, 1989). Tutti gli psicologi evolutivi sottolineano che esiste un sistema molto efficiente di scambi emozionali che è essenzialmente non verbale; un sistema che rimane attivo, poi, per il resto di tutta l’esistenza e che rende possibile le comunicazioni affettive sentite intuitivamente e che nascono, appunto, nell’ambito delle relazioni basate sull’intimità. L’evento chiave dell’infanzia sta proprio nello sviluppo di questa capacità di sperimentare, comunicare e regolare le emozioni le quali, all’inizio della vita, sono regolate dai partner adulti ma poi, nel corso dello sviluppo, diventano auto-regolate anche in rapporto allo sviluppo del sistema nervoso del bambino. Appare pertanto evidente quanto una buona relazione sia fondamentale per creare una condizione psichica, per quanto possibile, felice. La relazione mentale non è un’astrazione ma un’operazione che avviene fra due o più persone. Infatti, gli avvenimenti psichici, le azioni di ogni persona sono, per così dire, sempre incompleti: essi si completano solo nell’interazione e al cospetto dell’altro a partire dall’ambiente familiare, con particolare rilevanza data alla diade madre-bambino, fino ad arrivare alla considerazione dell’ambiente sociale (D. Stern, 1987). Fondamentale è, a tale scopo, la qualità dell’interazione al fine di poterne stabilire le variabili condizionanti e affrontare le determinanti inconsce della relazionalità degli esseri umani nel gioco dell’evoluzione psichica di ogni persona. Stern ritiene che, per una definizione qualitativa della relazione madre-bambino, si debba tener conto di diversi elementi: il primo di questi riguarda l’importanza del dare spazio in riferimento allo spazio interpersonale quale area definita dallo stesso autore di rispetto, che esiste attorno ad ogni essere umano, bambino o adulto che sia. Quest’area è, secondo Stern, predisposta geneticamente e gli strumenti affinché si realizzi sarebbero innati, ma dipenderebbe da un lavoro da svolgersi in comune. Molti studi hanno infatti evidenziato come, già i bambini piccoli, siano dotati di strumenti idonei a manifestare avversione nei confronti della violazione di questo spazio che la madre ha la possibilità di comprendere, anche se con le normali difficoltà della situazione, aiutata –peraltro- dal fatto che il bambino comunica con lei per mezzo di un codice che madre e bambino hanno in comune. È rilevante perciò, in una buona relazione, la capacità della madre di raffigurarsi il bambino come entità mentale autonoma. Kohut ha descritto in modo articolato come, per lo sviluppo del Sé, sia indispensabile l’esperienza vitalizzante e coesiva del rispecchiamento; inoltre il comprendere l’altro in termini di stato mentale, permette di dare senso e anticipare le azioni (H. Kohut, 1982). Psicoanalisti come Sandler, Emde, Stern, Fonagy e studiosi dell’attaccamento come Bowlby, hanno esplorato lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino e lo sviluppo delle sue capacità meta cognitive a partire dalla qualità della relazione madre-bambino in riferimento ai fattori che rendono possibile il costituirsi di un attaccamento sicuro. Essi hanno sottolineato che il rafforzamento progressivo della funzione meta cognitiva corrisponde all’aumento della coerenza della propria narrativa personale e che, per far ciò, sia di fondamentale importanza una buona capacità di sintonizzazione emotiva (attunement) e la capacità di rispondere in modo sensibile e accurato (sensitive responsiveness), da parte del genitore, ai bisogni di vicinanza, protezione e contatto del bambino. Attunement e sensitive responsiveness sono in correlazione con l’accuratezza della rappresentazione mentale del bambino, nella madre. A sua volta la madre riflette al bambino sia la sua comprensione del

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disagio sia la percezione corretta dello stato affettivo. Pertanto è necessario sottolineare l’importanza di un altro elemento al fine di una “buona relazione”: il compito della madre di dare contenimento. Il compito della reverie, come afferma Bion, è fondamentale per unificare gli elementi che circolano attorno al bambino: è quella funzione materna attraverso la quale le proiezioni mortali prodotte dalle parti psicotiche del piccolo, sono bonificate e trasformate (W. Bion, 1972). Le diverse identificazioni proiettive, le angosce primitive trovano, con tale funzione, uno spazio, una mente capace di accoglierle e trasformarle sì da poter essere restituite depurate. Ovviamente tutto questo segue alla relazione con l’Altro-disponibile che possiede la capacità di accogliere, lasciar soggiornare, metabolizzare e restituire il prodotto dell’elaborazione permettendo al bambino di introiettare la tollerabilità alla frustrazione, la capacità di lutto, del tempo, del limite (W. Bion, 1972). Tutto ciò passa attraverso il mentale che si attiva nella relazione col caregiver e, senza il quale, il processo di sviluppo della mente fallisce dando luogo a diverse patologie che non sono altro che vie di scarico e di evacuazione di angosce primitive non elaborate. La mente diviene così fonte di sofferenza che disturba il comportamento armonicamente funzionante della persona. Per contro, una mente che funziona è una mente che crea continuamente immagini (elementi alfa) dalle proto-emozioni e dalle proto-sensazioni: è una mente che metabolizza tutti gli apporti che riceve (W. Bion, 1972). Una mente che non ha modalità assuntive-trasformative-creative, inverte il proprio funzionamento e evacua all’esterno contenuti non pensabili e contenibili nella mente. Chiaramente per una buona relazione è fondamentale avere una buona comunicazione nel senso di avere un linguaggio condiviso da entrambi i partners e di dare spazio alle diverse possibilità comunicative. Tutto questo andrà a costituire quell’intersoggettività primaria nella quale la madre (ma anche il padre o il caregiver) si impegna tramite comunicazioni intuitive non consapevoli, fornendo una strutturazione della mente del bambino il quale, a sua volta, diviene consapevole di essere in grado, egli stesso, di intervenire nei proto-dialoghi con l’adulto che con il tempo, il corpo e le espressioni gestuali occupano un ruolo crescente nei loro rapporti. È un processo regolato reciprocamente durante il quale il bambino impara a mandare messaggi sociali specifici ai quali l’adulto deve rispondere. In tal modo si crea il legame di attaccamento che avviene precocemente tra il bambino e la madre. Grazie a questo legame il bambino può fare riferimento ad una sorta di base sicura per esplorare l’ambiente e un rifugio che funga da punto di ritorno. Da questo punto riceverà indicazioni per muoversi nel mondo sociale e tanto più il legame è forte e sicuro maggiore sarà la possibilità di autonomia. Ogni conoscenza, dunque, si origina da esperienze primitive di carattere emotivo; pertanto la relazione madre-bambino è la base del primo rapporto di comunicazione col mondo. Nell’infanzia succedono al bambino molte cose buone e cattive che sfuggono al suo controllo per il fatto che nella prima infanzia la capacità di far rientrare queste nel proprio mondo psichico e, quindi, nella sua onnipotenza, è ancora in via di formazione. Winnicott sostiene che in questo periodo il sostegno dato all’Io prematuro dalla madre e dalla sua assistenza, permette al piccolo di vivere e svilupparsi anche se non è ancora in grado d’essere responsabile di ciò che di buono o cattivo c’è nell’ambiente. Le cure materne date all’infante sono, per l’autore, fondamentali perché senza queste non può esserci infante. Di conseguenza la madre avrà la funzione di curare il bambino mediante l’empatia materna piuttosto che attraverso la comprensione di ciò che è o dovrebbe, essere appreso verbalmente. È il periodo dello sviluppo dell’Io il cui tratto principale è l’integrazione. Le cure materne si rivelano, allora, indispensabili anche per evitare che si sviluppi un Io malato, minimo o nel quale l’Id resta incompleto o quasi esterno all’Io, fino ad arrivare a forme di difesa psicotiche (D. Winnicott, 1970). Egli parla, così, di madre sufficientemente buona la quale si preoccupa non solo di fornire cibo ma anche di soddisfare i bisogni di relazione. È il genitore quasi perfetto di cui parla Bettelheim, il genitore che commette errori perché non è infallibile ed è in grado di imparare dagli errori, riflettere e riparare, sapendo che il suo lavoro è destinato a molteplici frustrazioni. Per Winnicott, infatti, l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

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L’ipersensibilità materna primaria, di cui riferisce Winnicott, è quella sorta di preoccupazione sana della madre che nutre lo sviluppo della mente del suo bambino. La good enough mother, come l’autore la definisce, è quella madre che sa concedersi di regredire, di diventare piccola, piccola come il suo bambino, per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni. È proprio tale sensibilità materna che andrebbe, secondo molti autori, a nutrire la mente dei bambini. Appare allora evidente, in tale contesto, che lo sviluppo di una mente che pensa, di una mente che è, perciò, capace di cogliere e sviluppare un apprendimento di tipo cognitivo, ha inevitabilmente bisogno di una mente emozionale capace di sentire le esperienze della vita intorno a sé e di godere del piacere di un ambiente a lei esterno. Nel bambino in età precoce, ma non solo, lo sviluppo di una mente emozionale è fondamentale per lo sviluppo di una mente capace di pensare. Da ciò si evince che molte forme di ritardo cognitivo o di difficoltà di apprendimento presenti nei bambini, potrebbero essere “curate” meglio se fosse presente -o di sviluppare qualora non fosse presente- la capacità materna di prendersi cura dei bisogni emozionali dei figli. Una madre in grado di godere delle gioie dell’allattamento, di comunicare con amore al suo bambino mentre si prende cura di lui, che lo guarda in modo particolare, è una madre che sta creando le basi affinché avvenga lo sviluppo della “mente emozionale” che garantisce lo sviluppo di una “mente cognitiva”. Winnicott, al pari di Bion, afferma che una madre sufficientemente buona permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate. Appare evidente, allora, che un bambino che ha avuto un attaccamento sicuro e che nutre fiducia nella disponibilità e nell’appoggio dell’adulto, esprime i propri sentimenti, positivi e negativi. Sarà, altresì, un bambino che saprà separarsi per un tempo sempre più lungo al fine di esplorare l’ambiente, accrescendo in tal modo le sue conoscenze e le sue sicurezze in una realtà oggettiva condivisa senza esserne traumatizzato ma permettendo l’espressione della sua originalità e della sua passione. BIBLIOGRAFIA: Bettelheim B., Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, 2002 Bion W., Apprendere dall’esperienza, A. Armando, 1972 Bowlby J., Una base sicura, R. Cortina, 1989 Bowlby J., Attaccamento e perdita, vol. 1°: L’attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino, 1972 Bowlby J., Attaccamento e perdita, Vol. 2°: La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino, 1975 Bowlby J., Attaccamento e perdita, vol. 3°: La perdita della madre, Boringhieri, Torino, 1983 Emde R.N., Sameroff A.J., Relationship disturbances in early childhood, Basic Book, New York, 1989 Fonagy P., Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, Cortina, 2002 Fonagy P., Psicopatologia evolutiva, Cortina, 2005 Fonagy P., Gergely G., Target M., Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del Sé, Cortina, 2005 Fonagy P., Target M., Attaccamento e funzione riflessiva, Cortina, 2001 Kohut H., Narcisismo e analisi del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1976 Kohut H., La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1982 Mahler M., La nascita psicologica del bambino, Bollati Boringhieri, 1970 Sandler J., L’analisi delle difese, Bollati Boringhieri, 1990 Stern D.N., Le prime relazioni sociali: il bambino e la madre, Sovera Multimedia, Roma, 1989 Stern D.N., Le interazioni madre-bambino, Cortina, 1998 Stern D.N., Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987 Treverthen C. Empatia e biologia, R. Cortina, 1997 Winnicott D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, A. Armando, Roma, 1968 Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, A. Armando, Roma, 1970

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Vincolo madre-figlio/a: l'amore che rende liberi Purtroppo capita spesso che la madre non riesca a separarsi mai realmente dal figlio/a. Questo impedisce la formazione della personalità del bambino/a, che diventerà una sorte di satellite della figura materna. Un rapporto sano infatti è di fatto liberatorio. L'amore vero se da un lato fornisce radici salde, dall'altro deve dare la possibilità di spiccare il volo, di essere liberi, altrimenti non è amore, è costrizione. Conseguenze di una rapporto tossico madre-figlio/a: la madre simbiotica Il bambino che cresce con una madre simbiotica diventerà un adulto privo di autonomia in tutti i sensi, dalle cose più futili a quelle più serie. Si potrebbe incorrere in:

• Scarsa autostima;

• Problemi relazionali e sessuali;

• Ansia;

• Frustrazione;

• Difficoltà nel prendere decisioni. Come riconoscere un rapporto tossico con la madre I rapporti madre-figlio/a tossici sono quelli nei quali la madre non riesce a riconoscere il figlio in quanto adulto. La madre dunque tende a comportarsi nei confronti del figlio/a considerandolo sempre come fosse un bambino. La madre infatti:

• Si rivolge continuamente al figlio con vezzeggiativi infantili, spesso anche dinnanzi ad altre persone;

• Esige che il figlio condivida la sua stessa visione delle cose con frasi tipo "Noi la pensiamo così!", "Non la pensiamo allo stesso modo vero?", "Siamo sempre stati d'accordo!";

• Ha un rapporto morboso, anche a livello fisico, coccola il figlio/a di continuo e se non riesce a farlo va su tutte le furie o si mostra estremamente dispiaciuta, utilizzando spesso le lacrime per farlo sentire in colpa;

• Ha una visione chiara del futuro del figlio, sa già cosa dovrà fare nella sua vita, anche se lui di fatto non si è espresso a riguardo. Questo atteggiamento si protrae per tutta la vita del figlio, anche da adulto ed è proprio lì che risiede il problema.

Rapporto tossico madre-figlio/a come superarlo? Non è semplice uscire da una situazione del genere, anche perché a causa del rapporto di dipendenza con la madre difficilmente il figlio sarà riuscito a sviluppare un livello di autocoscienza tale da permettergli di migliorare il rapporto. Tuttavia nel caso in cui si riesca a individuare dei campanelli d'allarme è importante correre subito ai ripari. Per evitare le disastrose conseguenze legate a un rapporto tossico con la madre è necessario risolvere la questione. Come? Tagliando il "cordone ombelicale", esigendo l'indipendenza affettiva. Inizialmente non sarà semplice, la madre probabilmente farà leva sui sentimenti facendo credere che le si sta recando un danno. Nulla di più falso. Come anticipato amare significa "lasciar liberi", liberi di esprimersi, liberi di fare le proprie scelte per riuscire a condurre una vita sana. Le problematiche nella relazione madre-figlio maschio (approfondimento) Dalla letteratura sul rapporto madre bambino, a cominciare da Bowlby, abbiamo appreso che la madre che sa creare una base sicura, una “madre sufficientemente buona”, per dirla con Winnicott, è la madre che sa emancipare il figlio, che costruisce i suoi modelli operativi interni (MOI) basati sulla fiducia, sulla presenza discreta, sulla capacità di fornire radici ma anche ali. Sulla scorta di tali MOI il bambino imparerà ad avere fiducia in sé stesso e anche nella madre, imparerà a comprendere che egli esiste come essere separato da lei ma che potrà comunque farvi affidamento nel momento del bisogno. La madre divorante, castrante, simbiotica, è invece tutto l’opposto della madre buona ed emancipante.

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Questue due figure sono due archetipi che ricorrono con frequenza nell’inconscio collettivo dei popoli, e le ritroviamo nei miti e nelle fiabe sottoforma di strega, mostro, drago, la donna-vampiro, l’arpia ecc. Ma, oltre a risiedere nell’inconscio collettivo, questa madre risiede anche nell’inconscio personale di tutti quei figli maschi dai quali essa non si è mai realmente voluta separare, fagocitandoli. Questa madre, infatti, non è la buona madre che dona libertà al figlio, essa prende da esso, succhia il sangue, ne ha bisogno in modo quasi ossessivo e viscerale: e così facendo fagocita il nascente sé del bambino. L’amore vero, difatti, è una relazione liberante: proprio per questo oggi assistiamo a tanti amori malati, perché l’amore, quello vero, è una relazione che dona radici ma anche ali, è liberante, dona respiro al sé. Gli amori di queste madri, così come i falsi amori di tante coppie di oggi, sono invece amori castranti, bloccanti: imprigionano dentro uno spazio angusto, costringono la persona “amata” a vedere solo quell’orizzonte che l’altro è disposto a dare, ma capiamo bene qui che questo è un donare falso, perché in realtà si tratta di un prendere: chi “dona” una visione parziale del mondo all’altro, si serve di lui per confermare sé stesso egoisticamente e narcisisticamente. Chi ama realmente invece mostra il mondo in tutta la sua ampiezza, anche a costo di perdere la persona amata, il figlio amato, che magari sceglie un altro orizzonte per sé stesso, invece che quello scelto da altri per lui. Mi viene a mente a tal proposito lo scempio di tanti figli che inseguono il sogno del genitore per la sua vita, piuttosto che il loro sogno personale. È così inevitabilmente aperta a queste menti la via della nevrosi, o prima o dopo, quando la vita mette di fronte a inevitabili crisi. Vediamo quindi come la relazione con la madre sia il corrispettivo delle altre relazioni affettive che saranno vissute in futuro: vivere bene la prima e fondamentale relazione sarà quindi basilare per far si che un figlio possa vivere realmente bene la sua relazione di coppia futura. Quali sono quindi le madri castranti? Esse sono le madri iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Quelle che vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, spesso riferendosi a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua. Stiamo qui fornendo un ritratto di madre castrante-tipo, genericamente parlando, ma è evidente che vi sono varie tipologie che potrebbero essere validamente esplorate. Così come, ovviamente, esistono diversi temperamenti del figlio che andranno ad interagire con la relativa tipologia di madre: gli esiti possono essere variegati, ma per citarne alcuni possiamo riferirci a: il figlio ribelle e disorientato; il figlio “castrato” incapace di vivere la sua sessualità con una donna e che potrebbe sfociare in impotenza o omosessualità; il figlio “simbiotico” ovvero colui che ricercherà la mamma e il suo livello di fusionalità in una futura relazione di coppia; il figlio “mentale” ovvero totalmente rivolto alla sfera della ratio, in cui non è avvenuta una integrazione tra la parte maschile e femminile, che Jung definisce rispettivamente “Animus” e “Anima”. Deriva da ciò una inevitabile distorsione dell’amore e del rapporto di coppia, che può andare da totale incapacità di viverlo, come nel caso degli impotenti/inibiti, alla disorganizzazione affettiva del figlio disorientato che rischia di ricercare in altre attività la sublimazione di un amore mai ricevuto; andando poi per la dipendenza del figlio simbiotico, che vedrà nelle relazioni sentimentali un qualcosa a cui aggrapparsi come al cordone ombelicale da cui ricevere nutrimento; per arrivare al distacco del figlio mentale, che vive i rapporti sentimentali in modo totalmente razionale, che ha una concezione del mondo razionale. Sono questi tutti stili di difesa derivanti dal rapporto malato con la madre castrante: in tutti i casi la corretta

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integrazione del sé non è avvenuta, mancano delle parti, non si è liberi di essere, perché si è imprigionati nella rete della madre invischiante. Di fatto essa ha ristretto gli orizzonti vitali del figlio, il quale non sarà mai veramente adulto in quanto ricerca ancora quell’appagamento materno “sano” che non ha mai avuto, quell’amore liberante che non ha mai sperimentato. Vediamo spesso degli eterni bambini in questi uomini non cresciuti, che hanno paura di assumersi responsabilità adulte, che rifuggono da una relazione seria perché ancora sono bambini disorientati alla ricerca dell’abbraccio liberante della madre. Perché i troppi baci della madre simbiotica non donano libertà, la tolgono. Essi identificheranno l’amore, a livello conscio, con quello che la loro madre gli ha donato: se gli ha donato una prigione vedranno nell’amore una prigione da cui fuggire, vedranno nella donna quella stessa madre-vampira, madre-carceriera, che ti butta dentro una gabbia e butta via la chiave. Nessuna relazione futura sarà per loro veramente liberante se non si esporranno al rischio di soffrire, riaprendo così la vecchia ferita di quell’amore non ricevuto. La ferita va richiusa, ma visto che indietro nel tempo è impossibile tornare, è necessario esporsi nel presente al rischio della delusione narcisistica: se questo non succede rimarrà divorato dalla madre e perennemente un figlio la cui capacità di rapporto è fissata all’incubo della dipendenza infantile. Quando supera le passate ferite del rapporto con una madre simbiotica e invadente, l'uomo è libero di sviluppare il lato femminile della sua natura, che Jung ha definito Anima. Essa mette l'uomo in contatto con i suoi lati più profondi. Solo così l'uomo potrà stabilire un rapporto maturo con una donna: fintantoché ciò non avverrà si avrà o una fuga dal mondo delle responsabilità adulte, ovvero un rifugiarsi nel mondo dei balocchi e della spensieratezza adolescenziale anche ad età in cui ciò è oramai fuori luogo, o, addirittura, nei casi più gravi, una totale incapacità di avere rapporti sani con le donne, vissute o come autentiche castratrici (come lo è stata la propria madre), o come esseri pericolosi sempre pronti a fare un tiro mancino, quindi da usare solo in senso narcisistico, di appagamento sessuale e del proprio ego. E' proprio così che alcuni uomini si sottraggono alla loro madre-drago (madre divorante): si costruiscono una specie di regno solo maschile, solo mentale, razionale, difeso e sicuro, dove le madri non possono seguirli. E rifiutano il lato femminile, intuitivo, romantico e un po' irrazionale, per la paura di essere sopraffatti dalla madre-drago...un drago che preferiranno continuare a combattere magari nei loro giochi, piuttosto che affrontare davvero il drago crescendo e reintegrando il lato femminile nel loro sé. Del resto, come il mito di Edipo ci dice, non è affatto sufficiente un atteggiamento intellettuale, tipicamente maschile, per sconfiggere il potere divorante dell’archetipo della madre castrante. La lotta deve essere condotta attraverso la vita, l’integrazione delle parti, maschile e femminile, razionalità e intuizione, sentimento e ragione. L’uomo che non ha sviluppato la sua parte femminile infatti, è generalmente narcisistico: è innamorato della sua idea di amore, delle sue fantasie, del suo eros, della sua capacità di dare piacere erotico, ma non sa amare nel senso adulto del termine, che invece implica la capacità di esporsi alla vulnerabilità del rischio e della ferita narcisistica. L’amore non è quello distorto ricevuto dalla relazione con la madre, ma deve divenire una relazione che dona radici e ali, dove non esistono ristretti orizzonti, non esistono gabbie, bensì un donare una visione autentica del mondo pur correndo il rischio di perdere la persona amata: nessuna madre, del resto, che non sappia concedersi il rischio di perdere il figlio, potrà mai affermare di averlo amato davvero. Problematiche nella relazione genitori figli (approfondimento) Nella nostra attuale società il ruolo genitoriale e l’equilibrio all’interno della famiglia dovrebbe strutturarsi in modo tale che la ‘dipendenza’ (figli vs i genitori) abbia un inizio ed una fine. Paradossalmente accade invece che spesso tale dipendenza avviene al contrario; cioè i genitori dipendono dai figli. Questo accade quando, ad esempio, l’investimento dei genitori risulta eccessivo rispetto ai bisogni dei figli. Questi ‘eccessi’ si hanno quando il genitore anticipa ipotetici bisogni e quando, ovviamente, altri bisogni non vengono soddisfatti. Un genitore troppo presente, quindi, gioca un ruolo ambivalente. Da un lato protegge, ma al lato opposto ne ostacola la crescita. Se il piccolo vede il genitore sempre e solo come figura da cui dipendere farà difficoltà a vedersi come un soggetto in grado di interagire.

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Quindi, missione principale del genitore è quello di non creare e sviluppare dipendenze affettive. Prendiamo ad esempio una coppia che decide di diventare tale convivendo oppure sposandosi. Entrambi vedono nell’altro un rifugio ove ripararsi, ricaricarsi, consolarsi etc. Quando tutto ciò non funziona, tensioni e conflitti entrano nella loro dinamica. Con l’arrivo dei figli la situazione si complica perché il peso di questa nuova situazione grava quasi sempre sulla donna e il padre, anche con le migliori intenzioni, si coinvolge meno generando, fortunatamente non sempre una minor fiducia sulla complicità di coppia e di conseguenza sulla loro stabilità. Anche se si diventa genitori dal momento della nascita, chissà perché l’uomo pensa che la donna sia più esperta (e delega volentieri) e la donna pensa che lei è la figura di attaccamento primario. Se il padre assume un ruolo attivo, può essere visto come una minaccia dalla madre; al contrario invece come un menefreghista, etc. Insomma le dinamiche possono essere infinite e non è il caso di elencarle tutte. Come risolvere questo aspetto importantissimo e spesso trascurato? E’ fondamentale essere soddisfatti di se e della propria vita, chiarirsi da subito, i proprio ruoli e le proprie responsabilità, invece di ignorarli e lasciare tutto alla singola buona volontà; immancabilmente tendiamo a dare ai nostri figli ciò che non abbiamo avuto dai nostri genitori – immancabilmente potremmo fare lo stesso errore: non dare ciò di cui hanno realmente bisogno. Cerchiamo di fare un salto ‘quantico’ nella relazione che abbiamo avuto con i nostri genitori, cerchiamo di capire cosa avrebbero dovuto fare, quando e perché non siamo stati compresi, etc. potrebbe essere un buon sistema per …. Fare meno errori. Il lavoro è indispensabile per mille cose che tralascio ma cerchiamo di trovare un punto di equilibrio. Se abbiamo deciso che la nostra vita si completa con la famiglia, dedichiamole tutto il tempo e la cura dei dettagli che impieghiamo altrove, ad esempio nel lavoro. Cerchiamo di essere sempre in sintonia con il nostro partner in merito alle cose da fare o da non fare per la sua educazione e per i suoi bisogni. Il rapporto di coppia deve funzionare, è la ‘conditio-sine-qua-non’ affinchè vada tutto il resto. Curiamolo, sempre e comunque. Evitiamo di far accumulare tensioni sperando che si risolvano da sole. Se vediamo il nostro partner rabbuiato, chiediamo e non accontentiamoci della classica risposta:’no, tutto bene tranquillo’. Se ci accontentiamo, pensando che veramente va tutto bene, quando il nostro intuito ci suggerisce altro, insistiamo. Parliamone fino allo sfinimento, fino alla risoluzione reale. Se tutto fila liscio, anche la cura della prole fila liscia. Tutto questo non risolve ma aiuta a fare meno errori. Proviamo a vedere le cose da un’altra prospettiva, non la nostra, non quella del vostro partner ma da quello di vostro figlio. Proviamo quindi a metterci dal suo punto di vista, capire chi è, cosa desidera, cosa fa e di che tipo di rinforzo può aver bisogno; mettendovi nei suoi panni, come apparite? Troppo severi oppure troppo permissivi? Non cercate di raggiungere tramite loro i vostri obbiettivi, ma fate tutto solo ed esclusivamente nel loro interesse anche se potrebbero esserci cose che ritenete inutili. Come ultima cosa mi sembra sia opportuno mettere in evidenza quanto importante è ascoltare, comprendere, discutere se serve ma non solo con la testa … anche con l’anima. Problemi tipici Una delle cause più frequenti dei litigi va attribuita ad una dipendenza, spesso reciproca. Questo, in ossequio al complesso edipico si verifica tra il bambino e il genitore dell’altro sesso. Se è vero che un genitore può pensare con il partner del proprio figlio/figlia sia indegno, la stessa cosa accade nei figli attaccati in modo patologico ad uno dei genitori. Va ricordato inoltre il problema dei conflitti tra madre e figle. Se poi i genitori si separano oppure la loro relazione è fragile, l’attaccamento verso i figli diviene più esclusivo. Ecco che quindi potremmo avere genitori che esigono un amore esclusivo (ottenendo spesso il contrario). Entrano in crisi quando il figlio se ne va da casa, sono gelosi quando si laureano (contrariamente a loro che

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non hanno raggiunto questo traguardo) o fanno frequenti viaggi all’estero. Tutti i sentimenti di gelosia e di richiesta di esclusività ottengono il risultato contrario, l’allontanamento del figlio.

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Indovina quanto bene ti voglio - Letture per i genitori

Cognome Nome Titolo

Complemento del

titolo Collana Città Editore Anno

Berge André Genitori sbagliati Firenze La Nuova Italia 1963

Giampino Sylviane

Le mamme che lavorano sono

colpevoli?

Vincere il senso di

colpa e godersi il bello

della vita con i propri

bambini Milano Salani 2001

Greenberg Martin Il mestiere di papà

Tutte le cose da

imparare Milano

Il

Castello

Honoré Carl …e vinse la tartaruga

Elogio della lentezza:

rallentare per vivere

meglio Milano BUR 2008

Northcote

Parkinson C. Come crescere con i nostri figli Milano La spiga

Piazza Marina Un po' di tempo per me

Ritrovare se stessi,

vivere meglio Psicologia Milano Oscar Mondadori 2006

Purves Libby

Come non essere una famiglia

perfetta

Guida confusa alla vita

familiare Trento Red edizioni 2005

Volta Alessandro Mi è nato un papà

Anche i padri

aspettano un figlio

Universale

economica

Feltrinelli/saggi Milano

Feltrinel

li

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Zanatta Anna Laura Le nuove famiglie

Felicità e rischi delle

nuove scelte di vita Farsi un'idea Bologna Il Mulino 2008

Woods Mark …anch'io sono incinto

Guida pratica per

futuri padri: cosa

sapere e cosa fare per

una gravidanza felice

assieme Firenze

Terra

nuova

edizioni

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Indovina quanto bene ti voglio - Albi illustrati per i bimbi

Cognome Nome Titolo Collana

Versione

italiana Illustratore Città Editore Anno

Bauer Jutta Urlo di mamma

Milano Nord-Sud

Edizioni

2012

Bently Peter Mamma e papà Ogilvie S. Milano Salani Editore 2014

Carle Eric L'ippocampo, un papà speciale Milano Mondadori 2011

Carle Eric Papà, mi prendi la luna, per favore?

Milano La Margherita

edizioni

2015

Cuvellier

Dutertre

Vincent

Charles La prima volta che sono nata

Balzarro P. Roma Sinnos 2013

D'Allancé Mireille Ci pensa il tuo papà Milano Babalibri 2014

Gliori Debi Ti voglio bene anche se… Carminati C. Milano Mondadori 2014

Jadoul Emile Le mani di papà Milano Babalibri 2013

Jadoul Emile Papà-isola Milano Babalibri 2014

Loew

Barroux

Frederique Papà aspetta un bimbo!

Cagli (PU) Settenove

edizioni

2013

McBratney Sam Guess how much I love you

Jeram A. Cambridge Candlewick

press

1996

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McGhee Alison Un giorno Reynolds P.H. Milano Salani 2014

Minhòs

Carvalho

Isabel

Bernardo P di Papà

Milano Topipittori 2011

Panzieri Lucia Una mamma albero Cerretti C. Roma Edizioni Lapis 2008

Steig William Pietro pizza Colombo A. Milano Salani 2009

Tullet Hervé Arrivo! Blanchaert J. Modena Panini 2014

Tullet Hervé Come papà ha incontrato la mamma Blanchaert J. Milano Salani 2004

Waber Bernard Chiedimi cosa mi piace Lee S. Milano Terre di mezzo 2016