la rosa castana di patrizia pellegrini · 2020-01-27 · la rosa castana di patrizia pellegrini -...
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LA ROSA CASTANA
di Patrizia Pellegrini
- Te la ricordi la prima volta che ci siamo parlate?- chiede da dietro la sua tazzina di caffè.
- Bevi il tuo caffè ed andiamo Rosa, mi hai chiesto un saluto e questo è – commento io, poi porto la
tazzina alle labbra.
Penso.
“Certo che me la ricordo la prima volta che ci siamo parlate, era arrivata una telefonata seria e
preoccupata, raccontava di te come di un numero di ospedale, un codice… un codice dal colore rosa,
non più un’adolescente, un codice… Eppure si trattava di una persona, la stessa che mi siede di fronte
adesso. Sei rimasta la stessa, uno scricciolo sotto un caschetto castano e sotto ancora due occhioni, due
pozze nere e profonde nel viso ossuto… Me lo ricordo eccome, ma non te lo dirò Rosa, oggi è il giorno
del saluto, siamo qui solo per questo, salutarci, per lasciarti al mondo, a 21 anni”.
- A me piace ricordare invece – insiste sorridente con il suo sguardo leggermente strabico – Mi piace
ricordare… come lo chiami tu? Colloquio, il primo colloquio…
Come mi piace ricordare anche i nostri “viaggetti”, ne abbiamo fatti sette, sai.
- Lo so Rosa – sorrido – Sette viaggi con la “nostra carrozza bianca” con quella scritta sugli sportelli.
Ridacchia, poi seria aggiunge:- Me li ricordo tutti e sette i nostri viaggi… dall’ospedale, alla comunità, a
casa a recuperare i vestiti, al funerale di nonno, in casa famiglia, dopo che la famiglia affidataria mi ha
scaricata. Sette viaggi, ma quello che mi è rimasto più impresso è il ricordo di quando sei venuta a
parlarmi in ospedale. Non lo ricordi allora?
- Senti, facciamo una cosa, se ti va, perché non mi racconti tu la nostra prima chiacchierata? Vediamo
se la ricordi davvero.
Lei sorride, so di averla stuzzicata e di averle offerto proprio quello che vuole: raccontare come ci
siamo conosciute, del resto ci ha scritto su persino una storia, tipo lettera, a scuola.
- Allora vediamo – sorride nel mentre prende il fiato per raccontare, è sempre stata una chiacchierona,
almeno con me – Ah, sì! Sei entrata dalla porta della mia camera di ospedale, in pediatria, insieme alla
collega vecchia.
- Rosa!- la sgrido bonariamente – Giovanna era l’assistente sociale di tua mamma, la conoscevi da anni,
veniva a casa, l’avevi vista altre volte, non è carino che tu la chiami “la vecchia”. Vi ha aiutato tanto.
- Sì, va bene, ma io ero incuriosita dal sapere chi eri tu. Hai detto: “Ciao, sono l’assistente sociale P.
P. e sono venuta a parlare un pochino con te, posso sedermi?” Ti sei seduta sul bordo del letto senza
smettere di guardarmi, con un mezzo sorriso ed hai chiesto: “Come stai, Rosa?”. Era strano che tu
sapessi già il mio nome, ma non so perché, eppure mi sono sentita tranquilla e sicura di poter parlare
con te. Mi sei piaciuta subito, sentivo che davvero ti interessava sapere di me, una ragazzina sconosciuta
in una stanza di ospedale.
Non posso rivelartelo Rosa, ma ho sorriso dentro di me, mentre hai detto questo. Ho pensato a quanto
ti insegnano dalle cattedre universitarie!
Il setting.
Il setting è importante, va curato, preparato diligentemente, blà, blà, blà.
Il nostro primo incontro, improvviso, non programmato; la nostra prima “chiacchierata” è avvenuta
proprio così: entrambe sedute su un letto di ospedale nel reparto di pediatria, non dietro una scrivania.
Ma semmai: io seduta, tu più comodamente semisdraiata, appoggiata ai cuscini, con il tuo babbo
nervoso, in piedi, dietro di te che non spiccicava una parola.
Niente.
Nemmeno quando l’ho informato e ti ho informato che ti avremmo portato in comunità, perché dopo
che avevi verbalizzato ai carabinieri della tua mamma, non potevi tornare a casa, ma ora non voglio
ricordartelo.
- E poi Rosa? Com’è andata?- le chiedo.
- Semplice, è stato semplice raccontarti come era andata, cosa era successo a casa, perché tu ascoltavi,
ascoltavi e basta. Non ti sei impressionata quando ti ho detto che quella notte la mamma mi aveva
sbattuto contro il muro, facendomi colpire la testa nella parete di casa e, mentre cadevo in terra, anche
il ginocchio. Era arrabbiata perché non voleva che chiamassi l’ambulanza, che chiedessi aiuto, perché
stava male. Da giorni non aveva preso le pasticche, erano tutte buttate nel cestino del bagno. Hai
ascoltato quando ti parlavo di medici e di carabinieri che volevano portarla via per, come lo chiamate
voi?
Tso.
Mentre lei urlava che era colpa mia. No, non ti sei impressionata, quando ti ho detto che i carabinieri mi
hanno portato con la macchina da zio e zia, hanno detto che potevo restare con loro, ma qualche ora
dopo lei è venuta urlando a riprendermi, dicendo che non dovevo stare con loro, ma con lei, che aveva
firmato per uscire dall’ospedale. Non hai battuto ciglio, quando ti ho detto che non era la prima volta
che la mamma mi picchiava o che mi chiudeva in casa, al terzo piano, per non farmi uscire con gli
amichetti, per paura che qualcuno mi potesse far male in strada. O quando ti ho detto che la carne in
casa c’era solo se la comprava lo zio Stefano, perché il frigo era spesso vuoto. Non ti sei impressionata
quando ti ho detto che di notte mi capitava di svegliarmi di soprassalto e di trovare la mamma china su
di me, con il suo viso vicino al mio, come una pazza. O
quando veniva a scuola a cercarmi urlando nei corridoi, perché non mi trovava e non sapeva dove fossi.
O che raccontavo a tutti che la mia mamma era Sandra, la mia catechista, perché non volevo una
mamma così, che picchiava il mio babbo, gli urlava e gettava oggetti contro anche nella ditta dove
lavorava e lui era costretto a dormire in una roulotte con i vetri rotti. Giovanna allora ha detto:” Perché
non hai detto nulla, prima?” Non lo so perché sai, forse ho dovuto aspettare quattordici anni e
incontrare qualcuno di cui fidarmi per trovare la forza di parlare.
- Ah, ecco! Ci mancava tu facessi riferimento al tuo “massimo sole”.- scherzo.
“ Lo so Rosa che è stata dura, anni di psicoterapia, ma se sei quella che sei adesso…”
- E dai! Che c’entra ora la dottoressa P.? Io parlavo di te.
Sorrido alla giovane donna che ho di fronte e che continua a raccontare quella prima volta, quella prima
chiacchierata e la rimprovero di nuovo, non troppo, perché seppure ventunenne è ancora
un’adolescente con un duro lavoro su se stessa da fare, ma che a poco a poco sta facendo pace con una
famiglia un po’ così.
- Rosa io non ho fatto niente, ho ascoltato le tue parole ed il bisogno di metterti in un luogo sicuro,
dove avresti potuto essere vista. Ti ricordo che poi, con il tempo, alla dottoressa P. hai raccontato altro
di quello che succedeva con babbo e mamma ed è con la dottoressa P. che hai capito e cominciato a
mettere i tuoi cassettini a posto, almeno alcuni. E’ con lei e con il tuo duro lavoro che sei cresciuta in
questi sette anni.
- Sì! Ma la dottoressa me l’hai presentata tu! Lei mi avrà anche insegnato a gestire gli attacchi di panico,
la paura ed il terrore di essere come lei o come lui…
- Rosa!- la interrompo di nuovo – Vedi che avevo ragione? Parliamo di ora Rosa, dell’oggi, del tuo
corso di infermiera, della tua stanza al convitto degli studenti e degli amici. Dimmi di adesso. Tu sei
sempre stata Rosa, non sei né il tuo babbo, né la tua mamma, sei Rosa, una giovane donna che ha in
mano la sua vita e la sta costruendo mattone dopo mattone.
- Ok! Mi piace il corso di studi, non vedo l’ora di iniziare il tirocinio, così avrò le giornate molto
impegnate… Domani vado da mamma. Ha bisogno di aiuto per fare l’ISEE, sai non ci capisce niente.
Sorrido e le dico semplicemente:- Brava Rosa!
Sono contenta, Rosa ha un futuro, se lo sta costruendo da sola, lo sa che mi piace che abbia scelto di
fare l’infermiera, mi piace perché sta facendo pace con la mamma e con quella cosa che tanto la
spaventava di sua mamma, una parola difficile da pronunciare: bipolarismo.
Sono contenta perché dietro a questo caffè ci sta il nostro saluto, a ventun’anni per i servizi ed il
tribunale si è grandi a sufficienza per andare nel mondo, nonostante un fardello così importante da
portare. Ciao Rosa!
LA STORIA DI DUCCIO
di Rachele Landini
Sono le nove del mattino. Non manca molto ormai, tra poco saranno qui, nella mia stanza. Sono
nervosa, nonostante la mia lunga esperienza, non so bene come comportarmi: ho svolto spesso colloqui
in cui avrei dovuto comunicare ad una coppia la possibilità di prendere in affido un bambino, ma questa
volta è diverso. Batto nervosamente il mio dito sul tavolo sperando che mi aiuti a concentrarmi. Prendo
in mano la penna e scrivo a grandi lettere su un foglio: Anna e Duccio, Duccio e Anna. Strappo il
foglio: non serve a niente, non riesco trovare le parole giuste. Bussano alla porta, guardo l’orologio:
nove e quindici, è troppo presto non possono essere già loro. Mi alzo, vado ad aprire: sono loro,
proprio loro, già loro. Li faccio accomodare in sala d’attesa. Rientro nella mia stanza, bevo un bicchiere
d’acqua: mi devo calmare. Mettono in ordine la scrivania, mi alzo e li faccio entrare. La voce nella mia
testa continua a ripetere i soliti nomi: Anna e Duccio, Duccio ed Anna; finché, ad un certo punto,
penso: Anna è Duccio.
Mi accorgo di essermi per un momento persa tra i meandri della mente, ma loro, i due futuri genitori,
sono di fronte a me e no, non sono loro a chiamarsi Anna e Duccio. Loro sono Nora e Giosuè una
giovane coppia spensierata, ma che sa farsi seria nel momento del bisogno. Proprio quello di cui ha
bisogno An…Du, sì AnDu: la mia testa ha coniato questo nuovo nome, e in effetti si addice molto alla
situazione. Devo però nuovamente tornare alla realtà e no, non posso presentare ai futuri genitori
AnDu, a loro dovrò raccontare tutta la storia. Una storia complessa e io di storie complesse ne ho viste
tante, eppure ancora mi stupisco di come questa, quella di AnDu, sia una storia a cui mancano le parole
per essere raccontata. Io però oggi queste parole ho il dovere di trovarle.
Inizio da lontano: “Come state? Siete stati in vacanza?”. Mi rispondono: stanno bene, sono stati
quindici giorni all’isola d’Elba nella casa della nonna di Giosuè. Mi accorgo che vorrebbero che parlassi
subito del possibile affido, e in effetti non posso continuare il colloquio cercando di aggirare la
questione. Mi faccio forza: “Vi ho convocati perché, come penso avrete intuito, abbiamo individuato
voi come la coppia adatta per un affido”. Faccio una pausa, li guardo: si guardano tra loro, complici
nella loro felicità del momento. Non so come reagiranno quando parlerò nello specifico. Continuo: “È
una situazione complessa, ma sapete già che gli affidi di per sé sono complessi”. Con lo sguardo mi
esortano a continuare e poi anche con la voce: “Certo, lo sappiamo, ma ci dica di più: come si chiama il
bambino? Quanti anni ha?”. Penso: Nora ha detto bambino, adesso cosa faccio? Bambino o bambina,
Anna o Duccio. Mi decido: rispetto il bambino.
Continuo: “Il bambino si chiama Duccio ed ha quattordici anni”. Giosuè si volta verso Nora: “Ma che
bel nome Duccio!”. E ancora non sanno che è stato il bambino stesso a scegliere il proprio nome, o
meglio a cambiarlo.
Proseguo: “Lo abbiamo dovuto allontanare dalla famiglia perché ci sono pervenute diverse segnalazioni
dai loro vicini di casa. Spesso i genitori hanno fatto dormire il ragazzo fuori all’abitazione: la mamma
lasciava aperta la macchina così Duccio poteva in qualche modo ripararsi. Duccio è un ragazzino
sveglio, intelligente e riflessivo. In questo momento ha bisogno di ritrovare fiducia negli adulti, di essere
amato per come è e per come si sente di essere e per questo io e i miei colleghi del centro affidi
abbiamo pensato che voi sareste la coppia adatta a lui e alle sue esigenze”. “Povero piccolo” si affretta a
dire Nora e poi mi domanda: “Ma come mai lo trattavano così? I genitori hanno problemi con alcool o
droga?”. No, vorrei rispondere, sono soltanto ignoranti; ma non si può: mi impongo di essere più
formale, anche se il concetto resta quello.
Rispondo: “Non hanno problemi di alcool o droga, ed è qui che la situazione si fa complessa, come vi
avevo anticipato. Duccio è un ragazzo dotato di una rara capacità introspettiva, che gli ha permesso di
iniziare un percorso faticoso e, mi immagino, doloroso verso una sempre maggiore conoscenza di se
stesso. Da solo si è recato ad un consultorio per chiedere aiuto e lì è stato accolto dagli psicologi che lo
hanno accompagnato in un percorso durato sette mesi. Tutto questo Duccio lo ha fatto allo scuro dei
suoi genitori”. Mi interrompono: “Un consultorio? Di che tipo? Come mai non stava bene?”.
Sento che il momento più difficile sta arrivando e quindi: “Adesso vi prego di ascoltarmi attentamente,
vi spiegherò tutto e potrete farmi qualsiasi domanda, ma adesso per favore ascoltatemi soltanto”.
Credo di averli impauriti, non volevo, ma d’altronde anche io lo sono; mi sforzo di sorridere e loro con
me.
Continuo: “Duccio non stava bene, si sentiva a disagio con il proprio corpo ed in generale soffriva
molto quando doveva relazionarsi con gli altri. Per questo, di sua spontanea volontà, ha deciso di chiede
aiuto. Si è recato in questo consultorio, un consultorio transgenere…”. Faccio una pausa e maledico il
momento in cui li ho esortati al silenzio, devo continuare e continuo: “Sì, un consultorio che si occupa
di problematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Duccio, infatti, per noi è
Duccio, ma per lo Stato e per l’anagrafe è Anna…”. Faccio un’altra pausa e penso: questo silenzio non
è il rispetto della mia richiesta, ma un silenzio che è un vuoto di parole.
Devo ancora continuare: “Dopo sette mesi, Duccio si è deciso a coinvolgere i suoi genitori. Li ha
portati al consultorio dove sperava di poter mostrare loro una parte di sé, quella più nascosta, ma
allo stesso tempo più autentica. L’incontro però non è andato bene, i genitori del ragazzo non sono stati
disponibili a capire la situazione e da lì hanno iniziato a trattare male Duccio fino a che, appunto, siamo
dovuti intervenire”. Terza pausa, sento che questo è quella definitiva: adesso tocca a loro.
Giosuè si schiarisce la gola, stringe la mano di Nora e parla: “Oddio, ero preparato al peggio, ma questa
storia mi ha stupito e ancora non so dire se in modo positivo o negativo”. La sua voce trema, i suoi
occhi iniziano a riempirsi di lacrime, e le guance si fanno rosse. Nora, accortasi del momento di fragilità
del marito, continua: “Mi sento impotente di fronte a questa situazione: ho paura di non essere in grado
di capire ad aiutare Du…An…insomma questo bambino, o bambina”. Provo a sdrammatizzare:
“Anche per me non è semplice, è la prima volta che mi capita e nella confusione mi ho coniato un
nuovo nome: Andu”. Sorrido e mi accorgo che anche loro sorridono alla mia stentata battuta.
“Comunque per rispetto del bambino è bene chiamarlo Duccio”. Giosuè si ricompone e parla: “Ma
come possiamo noi aiutare questo ragazzo? Io non so se sono in grado, non so cosa voglia dire sentirsi
in un corpo sbagliato”. Mi affretto a rispondere: “Certo Giosuè, ha ragione a dire così, ma ci pensi un
attimo: avrebbe saputo come sarebbe stato avere due genitori alcolizzati?”. “In effetti no” risponde; ma
Nora continua: “Ma come si dovrà fare con gli altri, con la società, con la scuola, con i nostri parenti?”.
Cerco di rispondere senza avere una risposta: “Dovrete essere forti, forti insieme e mettere tutto il
vostro amore a disposizione di questo ragazzo, che non ha niente in meno degli altri, anzi ha qualcosa
di speciale. Basterà poi essere sinceri, parlare chiaramente con le persone cercando, come sto facendo
io, di far capire la situazione, perché, come sapete, spesso la discriminazione sorge laddove c’è
ignoranza, intesa proprio come mancanza di conoscenza”. Guardo Giosuè e vedo che gli si illuminano
gli occhi: “Nora, è proprio vero: pensaci, quante volte ci siamo detti che è assurdo negare il diritto alle
coppie omosessuali di avere dei bambini soltanto perché la società ancora non è pronta. Il meccanismo
è esattamente lo stesso anche se in questo caso non si tratta di orientamento sessuale ma di identità di
genere. La società siamo noi e noi possiamo cambiarla. Fin tanto che le cose non si fanno tutto resta
come prima”. Nora lo ascolta in silenzio, con aria dubbiosa: “Sì, ma poi quando crescerà…”. Subito la
interrompo: “Ovviamente in questo percorso sareste supportati da noi e dagli psicologi che già seguono
Duccio: non sarete soli”.
Il tempo passa ed è già trascorsa un’ora, sta arrivando il momento di salutarci. Non so cosa pensare,
non so cosa decideranno. Una cosa soltanto so: esco da questo colloquio con la consapevolezza di aver
imparato qualcosa in fatto di umanità e quindi mi sento di dover dire grazie, grazie piccolo grande
Duccio, per te spero il meglio: che il futuro sappia darti tutto ciò che meriti. Io sono con te.
Consapevole di aver imparato qualcosa umanità.
UN FUTURO MIGLIORE
di Roberta Beccari
“Ti ho conosciuto 33 anni fa, sei una persona bravissima e hai un cuore grande come una casa, sei
dottoressa e direttrice della Asl (…), sei una persona dolce e semplice e non ti dai arie. Nei momenti
più duri e difficili della mia vita tu mi hai sempre detto tante parole di incoraggiamento e così da te ho
preso la forza per andare avanti. (….) ti ammiro per la tua franchezza e sincerità. Ti ringrazio di cuore
per quello che hai fatto per me e la mia famiglia ….. Grazie a te e a Francesco sto prendendo la licenza
della 3 media, ci vado tanto volentieri i professori sono bravi e grazie a loro ho imparato tante cose, tra
un mese e mezzo finisce la scuola e mi dispiace tanto perché lì alle 150 ore ti eri formato una fratellanza
siamo 15 persone fra i quali ci sono 4 di colore ma sono persone molto brave e 4 ragazzine di 15 anni e
il consiglio che li ho dato come mamma è di continuare per un futuro migliore. Ti voglio bene“
Parto da qui, da questa lettera con nomi di fantasia. Stavo sfogliando una delle mie vecchie agende e
improvvisamente è caduto un foglio, lo raccolgo… lo apro.
È una lettera che mi scrisse una persona che avevo aiutato per lungo tempo in vari momenti difficili della
sua vita.
Lina me la scrisse per ringraziarmi in un momento di grande gioia, a coronamento di un percorso per
il conseguimento della scuola dell’obbligo con le ex 150 ore .
L’avevo conosciuta molti anni prima, quando venne a chiedermi un semplice consiglio, perché il
Servizio Sociale potesse aiutare la sua famiglia di origine: madre, fratelli, sorelle, nipoti. Iniziai così il
primo colloquio particolare con Lina. Mi raccontò che si era trasferita in questa città dal suo paese di
origine verso la fine degli anni ’70 a seguito del suo matrimonio.
Il marito aveva un buon lavoro di operaio, lei ugualmente in quanto addetta alla mensa in una ditta di
ristorazione. Pensò così di far venire tutta la famiglia di origine, padre pensionato Enel, madre
casalinga, due fratelli e tre sorelle. Purtroppo non vi fu un adattamento da parte dei componenti la
famiglia per cui i servizi sociali iniziarono ad occuparsi di tutta la famiglia. Il padre-patriarca, unica fonte
di sostentamento economico, morì molto presto e quasi tutti i componenti la famiglia si trovarono
travolti da molteplici problemi. Alcolismo (una sorella deceduta per tale motivo), disoccupazione,
bambini piccoli dati in affidamento e due persino in adozione con interventi ripetuti da parte del
Tribunale dei Minorenni, problemi di salute mentale manifestatisi strada facendo da parte dei fratelli
che non sono mai riusciti a trovare una strada e sono tuttora
seguiti dal Servizio Psichiatrico.
Lina si è sempre sentita impegnata per stare vicina alla sua famiglia di origine, nonostante non le
siano mancati i problemi anche nella sua.
Povera Lina, si è pentita mille volte di aver fatto trasferire tutta la famiglia nella sua nuova città! Così vi
furono altri colloqui e io li definisco tutti particolari perché tra noi iniziò una collaborazione inconscia:
la fiducia alla base del nostro rapporto assistente sociale/persona che presenta un bisogno ha fatto sì
che nel corso degli anni questo legame si sia consolidato, senza peraltro togliere a me la professionalità
e a lei la consapevolezza che comunque doveva essere lei stessa artefice delle proprie scelte in ogni
campo della sua vita, lavorativa, sociale, familiare.
Spesso quando c’era qualche problema emergente per la famiglia, lei si rivolgeva a me che poi
provvedevo a reindirizzarla verso le colleghe che si occupavano delle varie problematiche.
Avevo sempre accolto ed ascoltato Lina nelle sue molteplici difficoltà ed ogni volta, dopo averla
ascoltata, la indirizzavo alla collega del servizio competente, consapevole che il colloquio è lo strumento
migliore per instaurare una relazione di fiducia con le persone per poter poi conoscere le situazioni
disagiate che sta vivendo, aiutarla a prendere consapevolezza e capire quali risorse attivare per aiutarla.
Lina mostrò la sua fiducia rivolgendosi a me ogniqualvolta negli anni si presentava un problema. Fu
particolare il colloquio in cui venne a chiedermi consiglio in quanto sul posto di lavoro, dopo tanti anni
aveva iniziato a stare male perché la sua responsabile la obbligava a svolgere lavori pesanti che lei, a
seguito del tumore che le era venuto, sempre con terapie di sostegno ma per fortuna abbastanza sotto
controllo, non era in grado di sopportare. Così riprese fiducia però lasciò il lavoro e ottenne l’assegno di
invalidità da lavoro.
Un altro colloquio particolare che ricordo fu quando la figlia finì la Scuola Media Superiore e
desiderava andare all’Università. In quel momento la famiglia era in grosse difficoltà economiche
dato che il marito era andato in mobilità per aiutare la moglie durante la malattia.
Lina non vedeva soluzione per aiutare Anna però facemmo varie ipotesi e alla fine trovammo insieme
una soluzione straordinaria!
Anna frequentava un’associazione di volontariato per cui io parlai con il responsabile ed insieme
decidemmo di aiutarla economicamente per affrontare le prime spese universitarie: una parte venne
“offerta” dall’associazione e una parte, sotto forma di contributo economico una tantum, dal Servizio
di Assistenza Sociale. Dopo tale aiuto iniziale si rese autonoma data la sua ferma volontà di effettuare
quel percorso, sia con borse di studio che con lavori occasionali (baby sitter, cameriera e quant’altro
possibile pur di non gravare sulla famiglia).
Anna si è brillantemente laureata in Scienze dell’Educazione, ha trovato subito un lavoro, si è
sposata ed ha avuto uno splendido bambino.
Lina tutt’oggi mi tiene aggiornata sull’andamento delle sue vicissitudini familiari, è molto più
serena, deve sottoporsi a continue cure mediche sempre per il problema pregresso, però è
abbastanza tranquilla e felice ora che la figlia l’ha anche resa nonna.
Un altro colloquio particolare lo abbiamo avuto dopo che aveva lasciato il lavoro e si sentiva
depressa, senza un impegno e desiderava cercarne un altro più adatto alla sua situazione di salute. Fu
così che le suggerì di iniziare un percorso scolastico per il conseguimento della terza media e anche
l’iscrizione alla L. 68/99 in quanto invalida civile con la possibilità di trovare un posto di lavoro a lei
più adeguato.
Questi due percorsi, insieme ad un suo impegno in una associazione di volontariato, hanno fatto sì
che Lina abbia ritrovato un motivo per non sentirsi più depressa a causa dei problemi della sua
famiglia di origine e quelli a lei derivati dalla malattia.
L’ultima parte della lettera che mi ha scritto quando afferma di aver dato un consiglio alle ragazze che
frequentavano il suo corso per la scuola dell’obbligo mi ha commosso e fatto riflettere - “il consiglio
che li ho dato come mamma è di continuare per un futuro migliore.”- : tanta è stata la sua capacità di
empowerment che ha dato loro un semplice ma ottimo consiglio!
Per questo motivo credo che nel lavoro sociale il colloquio sia fondamentale.
L’autorevole Prof.ssa Maria Dal Pra Ponticelli così lo definisce: «il colloquio è una forma di
comunicazione interpersonale guidata dall’assistente sociale verso uno scopo o una molteplicità di
scopi al fine di instaurare con la persona una relazione che favorisca la comprensione reciproca della
situazione in esame, permetta di intravedere soluzioni possibili e motivi gli interessati a impegnarsi
nella realizzazione dei compiti connessi con le soluzioni prospettate» (M. Dal Pra Ponticelli,
Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio Ubaldini, 1987).
Nel corso della mia vita professionale ho sempre amato questa modalità di considerare il colloquio:
strumento fondamentale del Servizio Sociale utile e necessario al fine di instaurare con la persona una
relazione che favorisca la comprensione reciproca.
L’assistente sociale deve essere “empatica”, infondere fiducia, sicurezza all’altro che le sta davanti,
potenzialmente in posizione di inferiorità, a causa del diverso ruolo che si ricopre.
In tanti anni di servizio ho fatto qualche migliaio di colloqui, con le persone più diverse. E mi
riferisco solo ai cosiddetti “utenti”, termine che non mi è mai piaciuto, così come non ho mai
accettato la definizione di “cliente”, “assistito”…ho sempre chiamato l’altro/a persona.
Nonostante io abbia avuto nel corso degli anni, incarichi di responsabilità a vari livelli, non ho mai
negato l’ascolto a qualcuno. Ho rimandato spesso perché magari non era il momento giusto, ma poi ho
sempre ascoltato e successivamente, ovviamente, agito di conseguenza, indirizzato ad altri per il
supporto necessario oppure intervento diretto se del caso: ne avevo facoltà!
E questa lettera, che ho lasciato esattamente come è stata scritta a mano nell’originale, è
sicuramente uno dei tanti motivi per cui mi ritengo soddisfatta della mia scelta professionale,
operata a suo tempo e che è e sarà sempre parte integrante della mia vita.
FRAMMENTI
di Silvia Dragoni
Questa deve essere una bella giornata, sento il tuo cuore che accellera spesso lanciando un eco da togliere
il fiato. Lo sento assordante, quanto quel rumore di alcuni giorni fa, un ritmo che mi aveva stancato
perchè offuscava la melodia del tuo battito, unico suono per me importante. Lo spazio intorno a me sta
diminuendo, mi rannicchio dentro di te e trovo la mia posizione, quella che mi fa stare bene.
Ho assistito con meraviglia a questa lenta e incessante traformazione che ancora fatico a capire. All'inizio
ero piccolo come un fagiolino e non mi mancava l'acqua per crescere ora, invece, vedo tutto cambiare ed
ho un pò paura. Prima di tutto ho due cose lunghe, anzi quattro, le posso muovere e far scalcettare per
accostarmi a te e sentire meglio la tua pelle, ad ogni mio movimento sento la tua voce ed amo sentirti
parlare. Qualsiasi cosa tu dica gioisco perchè non esiste suono più bello, ad esclusione del battito
naturalmente. Quando mi muovo sento anche qualcosa che reagisce al di là del mio piccolo mondo che
cose strane accadono.
In questo mio piccolo mondo, ora strimizzito, trovo tante situazioni che mi soprendono: colori
trasparenti, cibi buoni, calore che mi permette di farmi delle belle dormite, e, tra gli agi, ricordo la storia
che mi racconti alla sera, quella che narra della savana e del sole cocente, della terra rossa che macchia la
pelle e dell'erba arsa tra cui si nasconde un leoncino che aspetta il ritorno della mamma dopo essersi
perso, beh, sbadato lui, mica come me che sono furbo! Io non me ne andrei mai in giro da solo nel
deserto per cercare cibo, piuttosto muoio di fame!
Oggi, lo so, sta succedendo qualcosa di strano, l'odore è diverso come i rumori, cambia anche la
posizione. Credo che tu stia seduta e rannicchiata con le gambe perchè mi sento come schiacciato, forse è
solo una mia sensazione, però percepisco che è iniziata un'avventura, mamma, che forza che sei!
Hai deciso di stare seduta tutto il tempo perchè c'è un drago, lo hai catturato, lo stai osservando per
vedere come si trasforma. Questo drago non si faceva acchiappare perchè ti ha fatto camminare tanto, e
sudare, ma ora anche io sono pronto, ho già una spada ed uno scudo, mi manca solo un cavallo. Mi pare
di vederlo quel drago, deve essere verde e rosso, con alcune macchie nere sparse nel corpo che incutono
un certo timore, una coda lunga e piena di pugnali, gli ho dato un nome, Stregobolus, ti piace?
Ecco che ti muovi!!!
Afferro la spada, Pam! Pum!
Difendimi mamma perchè qualche volta, quando sento il battito che accellera troppo, provo inquietudine,
sono pur sempre un bambino io, anche se cavaliere!
Torniamo al drago invece, che mi sembra molto più interessante, sputa fuoco a volontà perchè sento
che ti bruciano le gambe dalle caviglie fino al ginocchio e forse anche alla coscia. Dove abitavamo c'era
poca acqua, come vorrei averne un secchio pieno per poterti aiutare con quel cattivo! Mi sento però
tranquillo perchè ascolto ovattato un rumore forte di acqua che sbatte, perciò questo drago non potrà farti
alcun male, ti sei proprio organizzata bene mamma.
E poi con te c'è certamente una grande flotta o un esercito di soldati, uomini e donne, perchè sento voci
che urlano canti, più o meno intonati, che mi piacciono per il ritmo e mi acquietano, deve essere difficile
addormentare questo dragaccio! Chissà perchè la sua mamma non ci pensa a cantare una bella ninna
nanna in "draghese"!
Ogni tanto Stregobolus muove una zampa e ci fa sobbalzare, quando si arrabbia si agita e cerca di colpirvi
con la coda per questo ti sento saltare e urlare! Che mascalzone! Mi sento temerario ma sono pur sempre
un piccolino e quando percepisco quegli occhi di drago, fari di un giallo troppo acceso, mi fermo e ascolto
le vostre voci che iniziano a cantare per farlo dormire e fargli socchiudere le palpebre, infatti riesco a
vedere queste luci solo quando è buio.
Ecco! La tua mano che accarezza la pancia, aspettavo da un pò queste coccole mentre con la cordicina
che ho nel mio ombelico provo a fare dei fuochi per te e a rompere le bollicine intorno a me. Ti sento
stanca e lo capisco dai piedi che si stanno gonfiando, forse perchè hai le scarpe che di solito non metti mai
quando cammini, perchè ami sentire la terra.
Mamma non mi voglio addormentare, vorrei seguire il tuo istinto perchè anche tu da tempo non dormi
profondamente, osservi il drago e aspetti che muti le sembianze, riuscirà a farlo senza la sua mamma?
Penso che sia un pò arrabbiato perchè, proprio come il leone della favola, si sente solo e non sa dove si
trova la mamma...questa draghessa deve essere molto sbadata perchè nessuna mamma può lasciare il suo
bambino a cuor leggero, neppure una mamma – drago, credo che stia volando nel cielo ad ali spalancate
per ritrovare Stregobolus, senza sosta alcuna.
Certo io posso aiutarti perchè, anche se drago, Stregobolus è un cucciolo come me e parliamo la stessa
lingua; drago, bambino, così diversi nella forma ma uguali nella sostanza, abbiamo le stesse paure,
abbiamo due occhi, lui sputa fuoco ed io schiaccio le bolle, lui sbatte la coda ed io le gambette, io ho la
mia mamma e lui no, ecco perchè lui è arrabbiato ed io, se pur impaurito, mi sento bene.
E' importate che io parli con Stregobulus ma prima devo procurarmi un cavallo perchè se le cose si
mettono male (ed i draghi si sa, sono imprevedibili), me la posso svignare a gran velocità...
No dai, di che devo avere paura! E' solo un cucciolo! Aspetto che si calmi un pò e poi nasco, cosi lo aiuto
a cercare la sua mamma.
Sono partita in una mattina di sole, i colori si mischiavano a macchia, ho messo nella sacca qualcosa per i
capelli, un cambio, qualche foto ed un cellulare per poter parlare con la mia famiglia,
il necessario per me. Sento un'emozione che non riesco a descrivere, io che lascio questa terra desertica in
cui ho camminato e corso senza sosta, di cui conosco il cambio repentino del cielo, di cui riconosco i
segni e gli odori.
Sono nata e cresciuta tra la terra rossa divisa in granelli sottili che macchiano pelle e veste e che divengono
roccia al sole e fanghiglia quando piove, ho usato la stessa terra per giocare e per pitturarmi il viso.
Quando ero bambina sono stata a scuola vestita con il solito abitino a fiori: partendo presto salutavo la
mamma e la nonna e mi aggrappavo alle manine degli altri bambini, camminavo tra il cielo e le piante che
pungevano spesso caviglie e polpacci.
Quando ho deciso di partire ho pianto.
Sono partita da Benin, ho atraversato il Niger, Agadez, il deserto, la Libia fino a Tripoli ed ora sono in
mare. Il mio vestito, sempre a fiori, svolazza al vento incessante e sibilante, non ho potuto tenere nulla se
non il telefono e la fascia per tenere il mio bambino quando nascerà. Sento molto freddo ed il mio corpo
è come intorpidito ma sono certa che aspetterò a morire perchè ho un bambino in grembo. Non c'è nulla
di più impensabile del mare che sbatte con forza, le onde le vedo dal basso, in una prospettiva diversa, ci
spingono in alto e poi ci fanno precipitare con un tonfo sordo, i rumori sono come ruggiti e allora
cantiamo per non pensare al tempo trascorso e a quanto ancora ne resta. Non sappiamo dove siamo nè
dove stiamo andando, la notte si accendono due fari e siamo fortunati, ci dicono, perchè alcune navi
restano nel buio torvo. Non credevo che fosse così.
Sono certa che arriverò a destinazione, qualsisi essa sia, perchè prima di partire ho fatto dei riti particolari
ed anche la mia famiglia continua a fare rituali per me e per il mio bambino. Lo sento scalciare ogni tanto
e vedo nella pancia formarsi onde che cerco di raccogliere con la mia mano senza spesso riuscirci, deduco
che lo spazio inizi a scarseggiare. Non so ancora se il mio bambino sarà maschio o femmina, ma il suo
nome sarà "Gift" perchè la sua nascita rappresenta un nuovo inizio. Le membra sono dolenti, i piedi
gonfi, devo sollevare il morale, ti racconto una storia.
Sto pianificando le tanto agognate ferie al caldo del mio ufficio soffocante quando entra la collega che, nel
suo accento napoletano, mi chiede perentoriamente aiuto; una signora incinta in accoglienza, non si
capisce proprio cosa voglia fare, sarà mica una futura "mamma segreta"? Ecco qua, ferie rovinate, mai una
gioia e beghe all'orizzonte. Come sempre mi capita quando si trattano questi argomenti balzo dalla sedia
per la fretta di conoscere la situazione per placare l'ansia. Entro nella stanza del servizio accoglienza dove
regna il caos: telefoni che squillano, la fila di persone fuori che borbottano irritate, una operatrice un pò
hippy con una tinta decisamente fuori moda che ripete incessantemente "Don't Worry!!!"....ma come don't
worry! Mi irrito quasi, è troppo facile a dirsi. Incontro delle treccine colorate raccolte in una bella
pettinatura, vestito all'italiana con pantaloni leggeri e maglia bianca senza eccessi. La donna tiene lo
sguardo, il ventre prominente non
si nasconde, ci guardiamo e mi studia apparentemente senza troppo interesse mentre io ho una certa
premura di capire. Mi piacerebbe fare domande ma dalle cicatrici sul suo viso capisco subito che il
naufragar è stato tutt'altro che dolce in questo mare. Finalmente inizia un racconto, breve ed essenziale,
con l'aiuto del mediatore, in cui dice di avere paura per la salute del suo bambino che nel suo utero è
diviso in tanti piccoli pezzi, non sta bene. La donna tiene il viso immobile come il mio, che però rimbalza
nell'incomprensione...sarà mica la mediatrice che traduce male?
Poi mi racconti il rito, la promessa che hai fatto ma non hai mantenuto, hai rotto un patto e per questo,
allo stesso modo, il tuo bambino si è spezzato come il tuo giuramento, ora sento la tua paura sulla pelle, il
panico bloccato che non fai uscire nè con le parole nè con i gesti.
Da quel giorno ti ho pensato tanto e ti ho rivista col tuo bambino stretto sulla schiena in un telo colorato,
ancora aspetto il momento e l'occasione in cui finalmente sarai libera di narrare quel che resta nel tuo
animo, per ora, indicibile.
ANITA E VILLA IULIS
di Silvia Parri
Le colline, questa era la zona che mi fu assegnata una volta di ruolo in qualità di assistente sociale e anche
se sono nata nella città vicina, per me era un territorio sconosciuto, lontano dal centro e da tutti i servizi.
Un susseguirsi di morbide alture sfumate con tutte le gradazioni di verde, il mio colore preferito.
La maggior parte della gente era semplice e si presentava in ufficio con umiltà e gentilezza. Tra questi
paesi collinari ce ne era uno che subito attirò la mia attenzione: Gaureta. Percorrendo la strada
provinciale, potevamo scorgerla dislocarsi sopra un poggio, il campanile della
Chiesa che dominava in alto e le case che la circondavano.
Ciò che fin dall’inizio mi stupì fu un enorme villa abbandonata, Villa Iulis con molti ettari di terreno
attorno, composti da parco e bosco. Ben presto venni a conoscenza che il Comune l’aveva acquistata dagli
eredi del Conte Iulis, in condizioni strutturali decadenti, centottanta stanze abbandonate a se stesse.
Una mattina di primavera stavo percorrendo il paese a piedi per recarmi a fare una visita domiciliare e
improvvisamente il mio sguardo fu attratto da una donna anziana che incedeva alta e fiera, con i capelli
bianchi lunghissimi attorcigliati in una treccia raccolta in uno chignon. Era vestita in modo eccentrico,
abito lungo e soprabito confezionato con stoffe da tappezzeria. Sembrava uscita da uno dei quadri di villa
Iulis. Mi impressionò per l’energia vitale che emanava.
Dopo qualche giorno ricevetti la telefonata da parte di un’ anziana, che caduta mentre saliva le scale di
casa chiedeva di avere un colloquio con me.
E fu così che conobbi Anita Salvi, la donna che avevo notato qualche giorno prima.
Viveva da sola, vedova da poco tempo, le era rimasto il ricordo d’un amore indissolubile, quello per il suo
Antonio. Con lui aveva costruito qualcosa di saldo, la loro casa. Mi raccontò di aver collaborato come
manovale con suo marito per edificare mattone dopo mattone, l’umile casetta.
In realtà lei era sarta. Amava confezionare abiti per se stessa che la facessero apparire unica e li indossava
in armonia col suo stato d’animo.
Durante la prima visita al suo domicilio, notai incuriosita che sul piano della macchina da cucire c’erano
molti fogli e quaderni. Ben presto mi rivelò che scriveva poesie, anche in vernacolo, e
racconti per bambini, sottolineando che aveva fatto solo la quinta elementare, ma che Dio le aveva donato
questa capacità di esprimersi scrivendo.
Fu così che in autonomia dalla propria famiglia presentò una richiesta, con tutta la documentazione
necessaria, affinché potesse essere aiutata da una assistente domiciliare per alcune ore settimanali.
Arrivò il giorno del suo ottantunesimo compleanno. Questa volta mi telefonò chiedendo un colloquio nel
mio ufficio. Ciò mi meravigliò perché ero solita recarmi sempre io al suo domicilio, ma anche perché la
signora Anita fu molto concisa chiedendo solo una data e un orario.
Era una mattina d’autunno, non riuscivo ad immaginare il motivo di questo incontro, e come si sarebbe
organizzata per raggiungere il mio ufficio, dislocato a qualche chilometro di distanza dal suo paese.
Sentii bussare alla porta e vidi Anita insieme ad un'altra donna poco più giovane di lei. “Buongiorno
Dottoressa le presento mia figlia”.
Sapevo dell’esistenza di quella che definiva “la loro figlia”, Margherita, che avevano avuto poco più che
adolescenti.
Margherita appariva molto timida e in modo delicato mi disse che aveva accompagnato la madre, ma che
avrebbe aspettato fuori come da lei richiesto.
Mormorò a mezza voce: “dopo verrò a salutarla”.
L’anziana esitò a sedersi. Guardava attorno con la curiosità di chi cerca qualche particolare; poi
nell'accomodarsi mi comunicò che questo sarebbe stato il nostro ultimo colloquio.
Disse: “ho deciso di trasferirmi a Libonia, da mia figlia, scelgo di lasciare definitivamente la mia dimora.
Ho bisogno di una presenza giorno e notte e i miei sogni non bastano più”.
Rimasi meravigliata da questa notizia anche perché sapevo bene quanto la signora Anita fosse legata alla
sua casa e al suo paese.
Poi aggiunse che era molto affranta per il trasferimento del giovane parroco a Faulenzia.
Mi rivelò che dopo Antonio non aveva più avuto uomini e che per Don Andrea aveva scritto molte
poesie essendone attratta.
“A ottantuno anni il mio cuore si è aperto di nuovo”, confessò un po’ titubante, timorosa di non essere
compresa.
Appariva per la prima volta intimidita di fronte a me.
“Sentivo di averlo sempre conosciuto e di averlo ritrovato dopo tanto tempo”, raccontò .
Io la rassicurai e le dissi: “Stia serena e tenga stretto questo incontro, l’Amore non ha età”.
La signora Anita prontamente mi confidò che il primo incontro con Don Andrea era stato durante una
benedizione all’interno di Villa Iulis. “Era come se lo conoscessi da sempre, anzi l’ho riconosciuto”.
Ciò mi indusse in seguito ad effettuare ricerche sulla Villa. Risultava infatti che i Conti Iulis si fossero
trasferiti in altra epoca a Faulenzia e avessero legami con i Gerondi, coloro che fecero catturare e
rinchiudere nella torre della Midria un famoso personaggio storico, conducendolo così alla morte.
Mi domandò se era bene che lei chiamasse Don Andrea per leggere l’ultima poesia a lui dedicata.
Sembrava una bambina.
Io le risposi “Signora Anita, lei è la prima ad insegnare che bisogna seguire il proprio cuore.
Se sente che questo le darà gioia, lo faccia che è la miglior medicina!”.
Le chiesi se aveva valutato bene il suo trasferimento dalla figlia e lei asserì: “Ho concluso il mio percorso
qui a Gaureta. Lei sa dottoressa … io amavo la mia solitudine, ma adesso mi lascerò circondare dalla
gioventù e farò la bisnonna”.
I suoi occhi sorrisero e il suo corpo riprese la postura fiera e decorosa di sempre.
Inaspettatamente appoggiò un foglio di quaderno sulla scrivania e con voce fievole mi disse: “Legga!”.
Aprii la paginetta piegata in quattro e lessi: “Dedicato alla mia assistente sociale. Chi fa del bene al
prossimo, con gioia e dedizione, avrà rispetto dai suoi simili, da Dio benedizione! - Gaureta 1997”.
La salutai, consapevole che non l'avrei più vista.
Esattamente un anno dopo sentì bussare alla porta, era la signora Margherita.
Esordì dicendo: “Mi manda mia madre … pochi giorni fa è volata in cielo serenamente”.
Con gratitudine, le risposi che la decisione presa dalla signora Anita era stata frutto di un percorso tra i più
auspicabili per una persona anziana ormai non autosufficiente, ossia quella di rimanere con la propria
famiglia estesa. Aggiunsi che sua madre era stata ammirabile per come aveva maturato le sue scelte di vita.
Le rivelai che Anita Salvi avrebbe lasciato in me un ricordo indelebile.
E così è stato.
NATALE
di Simonetta Micheli
Era vestita di bianco. Due occhi grandi, scuri. Asciutti. Che avevano già visto tutto. Ti ci potevi sperdere,
e disperare, in quell'abisso di dolore.
Labbra sottili, tirate. Che forse da tempo avevano smesso di sorridere. Una piega, scolpita da troppi
dolori, indelebili, raccontava una vita. La sua.
E forse, anche la mia. Senza sapere, istintivamente unite in qualcosa di grande. Troppo grande per essere
descritto.
Ci sono voluti lunghi mesi. Fatti di sorrisi e poche parole. I silenzi spaventano, no? Ma ogni silenzio
portava un battito di ciglia, appena appena più marcato.
Suggerivo una frase, un indizio di pensiero. E le ciglia sbattevano più velocemente. Le labbra, sempre
serrate. Mozziconi di frasi. Domande infinite, ma inespresse.
Ci siamo capite così. Come riconoscersi, nel non essersi conosciute mai.
Infinite volte mi sono chiesta come fare per aiutarla. Infinite volte mi sono risposta, va bene così. Aspetta,
non forzare, la perderesti. Difficile, faticoso, dato anche il mio carattere e la mia professione di operatore
“d'aiuto”. Ma non impossibile.
Poco a poco, in un tempo infinito, ci siamo riuscite. Riuscite, perché ogni storia viene riscritta insieme a
chi l'ha vissuta. Ed in qualche modo l'ha affidata nelle tue mani..
Arrivò una mattina, si sedette in punta di sedia, le braccia incrociate a stringere un corpo esile, un fuscello.
Piantò quegli occhi grandi nei miei e “ho solo bisogno di aiuto per pagare alcune bollette. Solo questo.
Non ho bisogno di altro”.
Una sfida. Un muro. Oltre il quale, non era permesso andare. E dietro quel muro, un mondo inviolabile.
Mi sono limitata ad un “certo”. In maniera altrettanto seria, senza un sorriso di troppo. E in quello
sguardo fermo e determinato, ho visto un bagliore di sorpresa, un dubbio.
Ma un dubbio, è già un buon inizio.
Così, di bolletta in bolletta, tra una richiesta di esonero pagamento al gestore acqua ed una
documentazione I.S.E.E. che, per fortuna, tardava ad arrivare, sono proseguiti i nostri incontri.
Da quello spiraglio di stupore sono scaturite brevi fasi, accennate, interrotte. Cui mi sono attaccata,
seppur con estrema cautela.
Mesi così. Nel frattempo, il pericolo del distacco acqua, superato. E così per tassa rifiuti, gas... Finché una
mattina si presentò in ufficio, all'improvviso, senza appuntamento. Con un accenno di sorriso così triste
da farmi sciogliere.
Il tempo di farla accomodare e di uno sguardo interrogativo, il mio, e... “Perché, sa, anche un padre è un
uomo...”.
Non ci sono parole, e sicuramente sarebbero superflue, per esprimere la valanga di emozioni che mi
piombò addosso.
Quel varco, tanto atteso, era arrivato con una forza dirompente.
Ho scavalcato quel muro, lei me lo ha permesso. E fiumi di parole, tra un singhiozzo strozzato ed uno
scatto di rabbia improvviso, rivolto ad un mondo che le era stato ostile fin da sempre, hanno costruito
una storia. Antica.
Ultima di tre figlie, la madre se ne era andata quando lei aveva poco meno di nove anni. E sua sorella più
grande appena quattordici. Non dette spiegazioni, se non un biglietto. “Non mi cercate, devo andare via
da qui, se resto ancora potrei morire. Vi voglio bene. Un giorno tornerò a prendervi.” Ed una
raccomandazione per la più grande, di occuparsi delle sorelline.
Non è più tornata. In casa solo loro, il padre e la nonna, che ogni notte ancora sognava il marito
scomparso in guerra ed ogni giorno raccontava loro la stessa storia su come se ne era andato via.
Una storia che si è poi arricchita di dettagli, quando anche la figlia l'ha lasciata sola, con tre bambine da
accudire ed un genero che trovavi con più facilità al bar che in casa o al lavoro.
No, due abbandoni erano troppi anche per lei, che pure aveva fatto la guerra. Non aveva più le forze per
reagire, non aveva più le forze per occuparsi di se stessa, figuriamoci di tre creature. E piano piano si
spense. Perduta in quei sogni senza fine, che non le hanno mai restituito il marito, e nei quali sprofondò
piano piano sino a chiudere gli occhi per sempre.
Il muro cedeva lentamente, ma da quel varco era ancora difficile intravedere cosa fosse successo dopo la
morte della nonna.
Ricordo ancora con quanto timore cercavo di insinuarmi in quel piccolo pertugio che mi lasciava intuire
scenari indicibili. E la paura mi ha fatto procedere con forse più cautela del dovuto. Accettare quella
terribile verità non era impossibile. Ma sarei stata capace di pormi in maniera professionalmente corretta?
Sarei stata brava?
Mille dubbi, in cui mi sono persa per un po'. Salvo capire infine che essere brave, in assoluto, significa
poco o niente, se emozioni, cuore e teoria non trovano un magico accordo.
Ero io che dovevo avere la forza, il carattere, l'umiltà per sostenere lei.
Fu lei, che in modo semplice ed istintivo, mi prese per mano e mi condusse alla sua verità. Lei era pronta.
Ed io capii che era giunto il momento.
Come in un puzzle buttato in aria e piano piano ricomposto, abbiamo messo l'ultimo tassello. Oggi Teresa
è una donna.
Non più solo due occhi tristi.
Le sue labbra sottili lasciano uscire quel mondo per tanto, troppo tempo celato dietro un muro. Forse non
è propriamente, tecnicamente, felice. E tanta strada ha ancora da fare. Ma non più con me. Il suo
cammino prosegue con chi più di me ha gli strumenti per accogliere il suo dolore, e
trasformarlo in esperienza. Dolorosa, inimmaginabilmente dolorosa. Ma rivolta ad un futuro che arriverà.
Sono passati gli anni, ma ancora oggi, ad ogni Natale, Teresa mi manda un bigliettino d'auguri.
E sempre le stesse parole. “Perché, sa, gli angeli esistono. Ed io non la dimenticherò mai. Grazie”.
Grazie, Teresa. Ti ho voluto chiamare così, in ricordo di un libro letto tanti anni fa, e per me meraviglioso
e significativo: “Teresa Batista, stanca di guerra”.
1
LA RINGRAZIO LEA
di Alessandra Lombardo
“La ringrazio Lea per essere qui, con così poco preavviso, e in una giornata tanto calda” . La voce del
giudice era calma, le parole scorrevano lente in quell’aula di tribunale, l’aria condizionata che sibilava
creava un freddo innaturale in quella giornata infuocata.
Non sapevo perché il giudice ci avesse convocati con tale urgenza, del resto erano trascorsi diversi mesi di
silenzio da parte del tribunale, ero nervosa e indispettita, accaldata e affamata.
“Lea, è passato ormai un po’di tempo dalla sua richiesta di conoscere le origini” riprese con voce morbida,
ma senza emozione apparente il giudice. “E’ stato necessario del tempo anche per noi, per capire”. La sua
è stata una domanda coraggiosa, ad oggi nessuno aveva intrapreso la strada per cercare i fratelli, dopo
l’adozione. Il tribunale, nella persona del presidente che oggi rappresento, è felice di accompagnarla. E’
stata esaminata la sua richiesta e abbiamo letto quello che ci ha scritto la sua Assistente Sociale, adesso
vorremmo ripercorrerlo insieme. Vuole iniziare a raccontarmi? Se avrò bisogno le farò anche delle
domande”
“Il giorno del colloquio ero emozionata, me lo ricordo bene, era il 7 novembre, è il compleanno della mia
mamma … la mia mamma vera intendo, eh. La mia mamma vera è la Mariella, quella che mi ha adottato.
Lo sa che quando mi ha chiamato l’Assistente Sociale io mi sono spaventata a morte? Ho pensato subito:
cosa è successo a Chiara? Chiara è la mia bambina, che ha 3 anni, vedesse come è carina, mi ci è voluto
tanto per averla e pensare che la donna che mi ha partorito ha avuto tre figli in 5 anni, la vita a volte è
ingiusta..
Mi sono spaventata perché le Assistenti Sociali lavorano con i bambini, quando serve, come nel mio caso,
li tolgono e io mi sono spaventata, non capivo e non collegavo alla mia richiesta. Poi, la Dottoressa mi ha
rassicurata e mi ha spiegato che ci dovevamo incontrare per la ricerca delle origini. Voleva parlare di me,
da bambina.
Ero molto emozionata, lo sono anche adesso, ma al primo colloquio di più, anche se ora sono in
tribunale, non ho paura, sono contenta; la porta sul mio passato si è aperta.
Non ero preparata al colloquio con la Dottoressa e non immaginavo quello che mi avrebbe chiesto. Sa, si
è in ansia per quello che non si conosce. Che poi, giudice, le dico la verità, ero agitata anche perché uno
non è mai preparato a raccontare la propria storia e la mia è tanto dolorosa, ma solo all’inizio. Poi ero
agitata anche perché mio marito era in ospedale con la polmonite e non guariva da quindici giorni e io
non avrei voluto iniziare senza di lui. Adesso però sta bene. Non avevo fatto in tempo a concentrarmi,
avevo altri pensieri: mio marito malato, la bimba che non poteva andare a trovarlo in ospedale. Ma forse è
stato meglio così, sono stata più spontanea.
2
Per fortuna la Dottoressa mi ha accolto bene quel giorno, eravamo in una bella stanza, e mi ha offerto il
tè, mi ha fatto sentire a mio agio. Poi mi ha fatto le domande giuste e insieme abbiamo ricostruito il
puzzle della mia vita.
Io non voglio conoscere i miei genitori, non li voglio cercare, e spero che anche mia sorella e mio fratello
non lo abbiano fatto, ma non so, loro erano piccoli e non avranno ricordi, io sì.
Ecco, io ricordo un uomo anziano, molto più della donna. Una donna bellissima, con i capelli lunghi, ma
io la ricordo solo di spalle. Loro non facevano mai da mangiare. E poi ricordo una’aia grande e una
bambola abbandonata in quell’aia, non altri giochi. E poi la mia sorellina Serena. Aveva i capelli lunghi e
io glieli pettinavo sempre come a una bambola, passavamo il tempo così, non mi ricordo come passavamo
il tempo. L’uomo e la donna non lavoravano. C’era sempre silenzio, lui fumava e mi spengeva le sigarette
addosso. A mia sorella mai, perché io mi mettevo al suo posto, tanto lui neanche se ne accorgeva. Poi lui
era buono quando ci faceva dormire nel lettone. Quello era l’unico posto caldo; la casa era fredda e non
c’era la luce. Poi alla donna venne il pancione, ma non sapevo che dentro c’era un bambino, pensavo che
fosse malata o che io le avessi fatto male.
E poi arrivò quel giorno, e non c’era più silenzio, lei urlava forte e a casa c’erano tante persone, anche i
Carabinieri che io non avevo mai visto. Io non avevo mai visto nessuno, non ero mai uscita oltre l’aia
della casa.
E poi a certo punto, è arrivata una signora con in braccio un bimbo e mi ha detto che quello era il mio
fratellino, si chiamava Franco. Che poi, Franco, vuol dire libero. Allora io ho chiamato dalle scale la mia
sorella Serena e le ho detto di scendere dal suo lettino e venire a vederlo. E poi siamo salite io e la Serena
sulla macchina dei Carabinieri e Franco sull’ambulanza e ci hanno portato in ospedale. Noi bimbi
eravamo liberi, finalmente. Lì siamo rimasti un bel po’, eravamo denutrite. Io mangiavo con la cannuccia e
basta, poi ho imparato dopo a masticare pasta e carne, a usare le posate. L’uomo è venuto a salutarmi e mi
ha detto che quella era l’ultima volta che ci vedevamo. Me lo ricordo bene quel momento. Ho pensato che
ero triste, ma ero anche felice perché io gli ho promesso che davvero non ci saremmo mai più rivisti
neanche quando fossi diventata grande. E io mantengo le promesse, quella era la promessa giusta.
Qualche tempo dopo ci hanno portato in orfanotrofio, Serena e Franco sono stati adottati subito. Dopo
un po’ di attesa è arrivata la famiglia pure per me, io ci sono stata un po’ e poi sono voluta tornare in
orfanotrofio, anche se sapevo che lì i miei fratelli non c’erano più. Nella famiglia erano buoni, ma avevano
altri due bambini. E io, se non potevo stare con la Serena e Franco, allora volevo essere figlia unica. E
infatti quelli dell’orfanotrofio mi hanno accontentata.
3
I miei genitori sono speciali; gliene ho fatte passare di tutti i colori, poveracci, ma sono stati bravi perché
ora io so di aver avuto una bella famiglia che mi ha dato tanto affetto e io sono riuscita a costruirmene, da
sola, una proprio bella. Sa giudice, se non sei stata amata da piccola, poi non costruisci niente nella vita. E
i miei genitori sono stati bravissimi, hanno recuperato tutto il tempo che io avevo perso prima, e oggi ho
un marito, una figlia, la casa bella, proprio come la volevo e il lavoro. Ed è per questo che vorrei
conoscere la Serena e Franco. Per sapere se stanno bene prima di tutto e se sono stati fortunati come me.
E poi se hanno bisogno li potrei anche aiutare. Anche se sono passati tanti anni, ora sarei pronta ad
aiutarli, se lo volessero. Mi basta sapere che stanno bene, devo chiedere questo a loro, prima di tutto”.
“Non ho altre domande da farle Lea, mi ha raccontato così bene la sua storia e le sue motivazioni. Oggi
sono qui non solo per ascoltarla, ma anche per dirle che la sua richiesta ha avuto un esito positivo.
Abbiamo già conosciuto e incontrato i suoi tre fratelli”.
I suoi tre fratelli. Abbiamo conosciuto e incontrato i suoi tre fratelli. Un’eco ha continuato a far
rimbombare questa ultima frase.
I suoi tre fratelli, Lea. Abbiamo conosciuto e incontrato i suoi tre fratelli.
Quella stanza così fredda si è riempita di un calore emozionante e la voce, quasi da bambina di Lea, è stata
una vampata di fuoco.
“Io ho due fratelli, Serena e Franco. Di loro mi ricordo bene”
“Lea, lei ha un’altra sorella minore, Vera, nata dopo il vostro allontanamento e data subito in adozione.
Abbiamo contattato anche lei e adesso desidera conoscerla. Suo fratello per ora, ci ha chiesto di non
incontrarla. Ha espresso commozione e affetto, si sta facendo aiutare e la famiglia lo sostiene, ma per ora
non se la sente di incontrarla”
“Stanno bene i miei fratelli? Sta bene la Vera? è cresciuta felice? Sono cresciuti felici come me? Se stanno
bene, io sono già contenta così”
“I suoi fratelli, Lea, stanno bene, tutti hanno avuto adozioni fortunate, ma, a parte lei, non sanno l’uno
l’esistenza degli altri. Sarà lei, se vorrà, a dirglielo”.
La parole del giudice erano ben scandite, formali, ma tradivano un’emozione che a fatica riusciva a
nascondere. Il suo ruolo imponeva un’etichetta che avrebbe voluto strapparsi di dosso, ma i suoi sorrisi
erano calorosi, le parole erano quelle di un uomo della giustizia, ma i gesti e gli sguardi erano l’abbraccio
che avrebbe voluto darle, a dispetto della sua posizione.
“Presto Lea, la aiuteremo a conoscere le sue sorelle, ne conoscerà una per volta, il tribunale
l’accompagnerà e la guideremo, poi finalmente la strada sarà tutta vostra”.
4
Erano i primi giorni di novembre, e come al solito il riscaldamento in ufficio funzionava a singhiozzo;
avevo freddo nonostante ancora non mi fossi tolta giacca e sciarpa e avessi già preso un caffè. Volevo
custodire un po’ del calore che mi ero portata da casa.
Levarsi la giacca e iniziare a lavorare, il lunedì è sempre un’impresa piuttosto faticosa, soprattutto se quel
lunedì hai scelto di inserire i colloqui con le persone. E poi finisce sempre che il lunedì mattina non ti
ricordi con chi dovrai parlare e questo ti mette un po’ di agitazione perché, il lunedì, tutti vorremmo
rifugiarci in un’attività che non richiede concentrazione. Apro, incerta e poco convinta l’agenda, e scorgo
quel che non avrei voluto vedere.
Come avevo fatto a dare, alle 8,30 di mattina, di un freddo lunedì per giunta, un appuntamento per un
colloquio che prevedeva qualcosa che non avevo mai fatto in sedici anni di carriera?
Avevo convocato una giovane donna, alle 8,30, per sondare se la richiesta che aveva fatto al tribunale
poteva essere accolta o meno.
Quella giovane donna aveva chiesto al tribunale di avere accesso alla conoscenza delle sue origini: era stata
adottata all’età di 5 anni e adesso voleva conoscere i suoi fratelli, non i suoi genitori biologici. Una
richiesta unica.
Ora, già è difficile raccontare la propria vita, così, a uno sconosciuto, ma poi alle 8,30 di mattina è
un’impresa da supereroi non assonnati. Casomai uno per parlare della sua vita deve essere invitato all’ora
del tè in un ambiente caldo e accogliente, fatto sedere su una poltrona comoda, con accanto una finestra
con tende drappeggiate, mica in un ufficio con mobili recuperati e senza neanche la finestra.
C’erano troppi elementi stonati quella mattina, dovevo rimandare l’appuntamento.
“Beatrice, il tuo appuntamento delle 8,30 è arrivato. E’ in anticipo, faccio accomodare la signora in sala
d’aspetto”. Anna, la segretaria non mi aveva lasciato scampo.
Ecco, erano solo le 8,10, la donna era già arrivata e non avevo via di uscita. Il colloquio avrei dovuto farlo.
Poi avrei rimproverato me stessa per quell’appuntamento dato così, senza pensarci, senza riguardo per la
mia scarsa motivazione del lunedì e senza nessun rispetto per una persona che alle 8,30 deve raccogliere
forza e lucidità per raccontarsi.
Quello sarebbe stato un colloquio complesso, anche solo per il fatto che non avevo mai fatto un colloquio
con quella finalità. Cosa dovevo chiedere, dove dovevo andare a parare? Sul passato, sul presente.. ? Ecco
no, non ero neanche preparata io, altro che ambiente accogliente; qui mancavano le fondamenta e stavo
per accogliere una donna che in quella richiesta aveva sicuramente investito anni di pensieri, interrogativi e
sofferenza. Chissà quanto si era preparata da tutta la vita a quel momento.
5
Non mi potevo permettere di essere impreparata, dovevo ingegnarmi per recuperare e avevo solo 20
minuti.
Ci voleva un altro caffè. O forse … due tè?
Quella mattina la dirigente non c’era, la sua stanza era libera: un armadio antico, un bel tavolo, quel
quadro, e soprattutto, due poltroncine rosse. Mancavano le tende drappeggiate, ma sì, ora sentivo che ce
la potevo fare. Forse stavo riguadagnando terreno.
“Anna, scaldi l’acqua nel bollitore, prepari due tazze e le tisane?” Adesso avevo anche la bevanda calda.
Tutto iniziava a prendere la piega giusta. Avevo altri 15 minuti, li avrei sfruttati tutti.
Google mi avrebbe aiutato: “La ricerca delle origini nell’adozione”: che sciocca a non averci pensato
prima. Risultati: La ricerca delle origini edizione A/B, La ricerca delle origini presso il Tribunale
dell’Emilia Romagna, La ricerca delle origine con le modifiche alla legge 184/84. No, no, io dovevo fare il
colloquio tra 10 minuti e non potevo scaricare materiale. Ci voleva qualcosa di più immediato.
“Bea, sono arrivati i curriculum stampati, devi firmare il tuo per favore e poi lo spedisco” Anna, arriva
sempre quando ho fretta e mi deconcentra, ma del resto è la segretaria e fa il suo dovere.
Lo scorro velocemente, la penna in mano, scarsa attenzione, ma gli occhi si posano sulla riga giusta. “Corso
per operatori sociali e psicologi in ambito di ricerca delle origini” 16 crediti formativi.
Sì, sono formata eccome, e solo 4 mesi fa ... le slides, l’Istituto Innocenti, la simulata, i racconti. Sono
pronta, ora ricordo tutto, sono preparata proprio bene.
“Grazie Anna, oggi hai salvato due vite” “Ma cos..?”
“Non importa, non importa, te lo spiego dopo. Hai messo il bollitore e le tazze nella stanza? Ho fretta,
vado a chiamare la persona. A proposito come si chiama?”
“Buongiorno Lea, si accomodi. Sono la Dottoressa Beatrice Bianchi e sono una Assistente Sociale. Come
le avevo anticipato al telefono, l’ho chiamata perché insieme dovremo capire come affrontare la richiesta
che ha presentato al tribunale. Lo so che è lunedì ed è molto presto, ma noi, oggi, abbiamo bisogno di
molto tempo.
Ho fatto preparare un tè, ci serve qualcosa di caldo per iniziare a parlare. Il nostro sarà sicuramente un
colloquio particolare”
UN COLLOQUIO PARTICOLARE (1)
di Annarosa Fanucchi
Settembre 2018
Sono le sette e Silvia si alza. Sono un paio di anni che è in pensione e ora gusta la lentezza del ritmo
quotidiano.
Quella mattina, mentre prende il caffè, ripensa al motivo per cui fin da piccola alla domanda che i grandi
le facevano “cosa ti piacerebbe fare da grande” aveva sempre risposto “l’assistente sociale”, mandando in
confusione l’adulto che immediatamente rivolgeva lo sguardo ai suoi genitori che alzavano le spalle come
a dire ma lasciate perdere, è piccina, chissà quante volte cambierà idea!
E invece non ha cambiato idea, anzi ha perseguito con caparbietà questo obbiettivo, senza per altro avere
coscienza di cosa avrebbe comportato.
Stamani si vedrà con Diana, con cui ha condiviso una storia molto importante. Febbraio 2007
Come ogni mattina Silvia sia alza e si veste in fretta, nel contempo chiama la figlia che frequenta l’ultimo
anno delle superiori e, mentre ricompone alla meglio il letto, pensa a come faceva, solo alcuni anni prima,
ad occuparsi anche degli altri due figli e si dà la spiegazione che sì, sta proprio invecchiando. Nel
frattempo ha bevuto il caffè, controllato che la figlia sia pronta a partire con lo scooter e così anche lei
avvia l’auto.
Arriva e dopo un breve saluto alle colleghe comincia a dedicarsi al computer, risponde a qualche
telefonata, verso le 11.30 prende il consueto cappuccino; la giornata sta svolgendo al termine, ora sono già
le 12.45 e fra circa un’oretta uscirà.
Bene, dice fra sé, dopo aver letto alcune email che prevedono problemi in vista, intanto questa settimana è
passata, lunedì vedremo.
Nel contempo sente bussare alla porta, apre e si trova davanti Diana, un medico con cui aveva collaborato
per alcune situazioni e che conosceva (o credeva di conoscere) assai bene.
La saluta e la fa accomodare.
Si accorge subito che è molto preoccupata e tesa: seduta in pizzico sulla sedia, giacca a vento abbottonata,
mani in tasca e gambe che non smettono di muoversi.
Silvia, che negli anni ha imparato a rispettare gli stati d’animo, si siede, le mette una mano sulla spalla e la
guarda negli occhi.
Dopo alcuni secondi di silenzio, Diana inizia a parlare come un fiume in piena che finalmente ha rotto gli
argini e si rovescia fuori sulla terra, fra i monti, le valli, le case e le persone.
Silvia ascolta la sua storia come in trance, eppure credeva di conoscerla, di sapere tutto o comunque tutto
ciò che c’era di importante.
Ed ora questo colloquio stava scuotendo Diana che aveva esordito dicendo “è la prima volta che ne parlo.
La realtà aveva superato la fantasia.
Ora Silvia si spiegava tante cose, come la capiva ora! Ma come aveva fatto a non sospettare niente, a non
capire ed interpretare quegli improvvisi sguardi tristi, quei giorni in cui la vedeva depressa con lo sguardo
perso nel vuoto
Questi suoi atteggiamenti, ora depressi, ora esaltati con cambi di umore repentini provocavano a Silvia un
non so che di insoddisfazione che non le piaceva, come un istinto che le diceva che c’era altro e poi però
pensava: lascia perdere via, sei sempre la solita pignola e così lasciava perdere.
Quel giorno ascoltò il racconto di Diana senza mai interromperla ed alla fine, quando finalmente la fine
arrivò e le porse la busta con dentro la comunicazione che aveva ri-sconvolto la sua vita le chiese solo
“perché l’hai detto a me?”
E lei, alzando il viso e guardandola negli occhi le disse “perché sei stata l’unica persona da cui non mi sono mai
sentita giudicata”.
“E’ da due giorni, da quando ho trovato questa busta nella cassetta delle lettere che non mangio, non dormo, non sono
andata nemmeno al lavoro. Ho solo un pensiero fisso.
Quello che ho fatto ventisette anni fa.
Il passato ritorna ed è giusto così, perché ho fatto la cosa più tremenda che una donna può fare. Tu che ha figli mi puoi
capire.
Ho abbandonato mia figlia.
L’ho partorita di nascosto a tutti e poi l’ho lasciata in Ospedale. Sicuramente ricordi, ti ho detto che un periodo sono andata
all’estero per lavoro.
Non è vero.
Ero in una casa famiglia al nord e lì è nata mia figlia.
Quando mi sono accorta di essere incinta mi sono arrabbiata, disperata, mi sono strappata i capelli, graffiata le braccia; il
padre è subito scomparso, volato in America dopo pochi incontri in cui mi giurava amore eterno. Ed io giovanissima, piena
di vita, con la certezza di sbaragliare il mondo, da un giorno all’altro mi sono trovata dentro ad un baratro.
Una certezza, però, ce l’avevo.
Non volevo abortire, mio figlio aveva il diritto di nascere anche se non l’avrei cresciuto io.
Mi dicevo che non potevo, dovevo studiare; la mia famiglia, contadini che vivevano di niente, si levavano il pane di bocca per
farmi studiare. Io, unica figlia.
Non potevo.
Appena è nata, dopo un parto che mi aveva stremato, l’ostetrica, che sapeva della mia volontà, mi ha chiesto se volevo
prenderla in braccio. Ed io l’ho presa ed in quel momento ho pensato che era solo mia e che nessuno avrebbe potuto
togliermela. Chiamatela Margherita, così ho detto al personale dell’Ospedale.
E’ stato l’unico desiderio che ho espresso. Poi l’ho lasciata andare.
Ho avuto paura ad affrontare la mia famiglia ed il mondo con quell’ esserino che, invece, sarebbe stata la mia forza, il mio
orgoglio, la mia rivincita per quello che ero riuscita a fare, generare la vita.
E chissà, forse per punirmi, ho scelto di fare la ginecologa.
Ed ogni volta che ho preso in braccio un neonato ho rivisto mia figlia, ed ho rinnovato quel terribile dolore, ogni volta.
Immagina cosa può essere stata la mia vita. Le mie colleghe che sempre mi hanno detto tu che non hai mai provato i dolori
del parto, non puoi capire. Ed io zitta, a piangere e disperarmi di nascosto a tutti, tutti.
Ed i miei genitori che se ne sono andati con quel muto interrogativo ma cos’è la vita senza figli. E non me l’hanno mai detto,
ma glielo leggevo negli occhi ogni volta.
Ed ora Margherita vuole conoscermi. Ha 27 anni.
Chissà forse vorrà insultarmi, ma sicuramente vorrà sapere perché, perché l’ho abbandonata. Ed io che farò, che dirò..
Ed a questo punto Diana, continuando a torcersi le mani disperatamente, piangeva singhiozzando. Nel
frattempo Silvia, che non l’aveva mai interrotta, era rimasta come stordita, fulminata da questo racconto
ed è lì che ha capito quanto non conosciamo coloro che ci stanno davanti, che, in fondo, ci raccontano
ciò che vogliono, evitando argomenti spinosi o tristi.
Certamente le era già successo di parlare con persone che, più o meno palesemente, celavano, per vari
motivi, alcuni momenti della vita, come è umano e giusto. Del resto ognuno di noi ha aspetti che non tutti
o nessuno conosce, è la propria sfera interna, celata, a volte, anche a noi stessi.
Ma ancora non le era capitato un fatto così dirompente, significativo, che traccia un solco nella vita con
un prima e con un dopo, quei solchi che il passare del tempo scava e scava finchè diventano fossati che
non si saltano più.
“Diana, tranquillizzati, sono sicura che ce la farai, sei tanto forte che ce la farai, vedrai, Margherita capirà, non incolparti,
non serve, tua figlia capirà. Adesso guardiamo la lettera e vediamo cosa c’è da fare..
Le disse poche e semplici parole mentre l’abbracciava forte sussurrandole nell’orecchio “ce la farai, anzi, ce
la faremo”.
La strada è stata lunga e difficile con incontri al Tribunale dei Minorenni, incontri con la psicologa,
riunioni di equipe, poi, per ultimo l’incontro con Margherita.
In questo lungo periodo Silvia l’ha sempre accompagnata, sostenuta, incoraggiata. Ma, all’ultimo
appuntamento ha detto “vai, sei pronta, ne sono sicura, vai!”
Non è stato facile, ma è andata bene!
Certamente quella che ha imparato di più da questa donna, che pur soffrendo tantissimo, è riuscita a
riemergere e ricostruirsi la vita dopo questa a dir poco traumatica esperienza è stata Silvia, che spesso, con
i suoi piccoli fagottini è inciampata, cascata, e chissà se poi si è ripresa.
Fare un lavoro che ti fa entrare nelle vite altrui con storie di povertà, sofferenza, precarietà non è semplice
e continuamente ti pone interrogativi su quello che tu sei in relazione all’altro. Quanto entra il tuo essere, i
tuoi pregiudizi, la tua morale nell’approcciarti con la persona di là dalla scrivania che ti chiede e, nel
contempo, ti dà, a sua volta, aiuto.
In realtà è e un dare e un avere.
E chissà, forse è vero il famoso detto “assisto gli altri per assistere me stesso”.
“TUTTO SU MIA MADRE”
di Elisabetta Benucci
Un lunedì come tanti, fa freddo. Oggi vado presto al lavoro ho tante cose da fare: ufficio poi casa, spesa,
come farò a far tutto non so..
E’ presto il portone dell’ufficio è chiuso mi sa che ancora non è arrivato nessuno. Mi avvicino e vedo lei,
la sig.ra S., stretta nel suo cappotto di lana grigio, infreddolita. Mi guarda smarrita e io penso d’impulso:
“Ma a quest’ora che vorrà? “. Ha uno sguardo triste e come se leggesse nei miei pensieri dice:
Sig.ra S: “ Buongiorno dott.ssa scusi tanto ho bisogno di parlare con lei, è davvero urgente non ce la
faccio più” (Singhiozza ).
Io non ho ancora timbrato l’ingresso al lavoro, il portone è sempre chiuso prendo le chiavi: sono già
dentro alla sua storia.
A.S. : “Si Accomodi pure”. Tiro su l’avvolgibile della mia stanza che ogni giorno mi appare sempre più
piccola e caotica e penso che devo mettere a posto tutti quei provvedimenti che sono lì in disordine sopra
la scrivania già da troppi giorni.
Sig.ra S: ”Scusi davvero le rubo solo 5 minuti “.
Cerco la cartella, la guardo e so già che non saranno 5 minuti, lei è stanca, forse un po' arrabbiata.
Anche oggi farò tardi per scrivere quella relazione al Tribunale, andare a vedere quel caso urgente e salterò
anche la lezione di Pilates.
A.S : “ Cosa è successo?”.
Sig.ra S: “ Mia madre ( piange, cambia atteggiamento ) non è più possibile tenerla a casa come mi ha detto lei.
Non mi importa di quel maledetto Regolamento, non mi importa che mi dica che i vecchi stanno meglio a
casa…allora la porti a casa sua! Mia madre deve andare in una struttura oggi, domani quando vuole ma
deve portarmela via altrimenti me ne vado io!” .
A.S. :“ Sig.ra lo capisco, abbiamo attivato dei servizi di supporto proprio per…”
Sig.ra S: “ Stanotte non abbiamo dormito mai! Ha sporcato in cucina e poi diventa aggressiva …io non ce
la faccio ma quali servizi sociali! Quale aiuto mi date? ( Il tono della voce si alza, piange ).
Arrivano dei colleghi, si affacciano alla porta del mio ufficio:“ Buongiorno, tutto bene ? “.
Certo, tutto bene: sono le 8.15 di lunedì, la sig.ra che strilla… con tutte le aggressioni agli Assistenti Sociali
successe negli ultimi tempi…ma non ci pensiamo, a me per ora non è mai accaduto. Istintivamente
allontano il fermacarte posto nell’angolo del tavolo: non si sa mai.
A.S.:” Sig.ra lo capisco. Allora vediamo di rivalutare la situazione sia sanitaria che sociale. Intanto
parli con il neurologo segnalando questo peggioramento magari lui può rivedere la terapia e in settimana
verrò a casa con il geriatra del distretto. Magari possiamo fare un ricovero temporaneo in RSA per la
mamma per far fronte a questo momento di difficoltà”.
Sig.ra S:” Con il neurologo ci ho già parlato qualche giorno fa ma anche lui non fa nulla. Quel cerotto non
serve a un cavolo! Scusi il termine ma sono infuriata mi state prendendo tutti in giro!“. Il tono della sua
voce è alto, mi dà fastidio.
Mi irrigidisco un po'.
Abbiamo lavorato tanto per questa famiglia ma a lei non basta mai. Certo non la sto giudicando,
l’assistente sociale non lo fa, l’assistente sociale ascolta, l’assistente sociale ha un atteggiamento empatico
anche quando viene offesa, l’assistente sociale agisce con competenza professionale sul bisogno
dell’utente anche quando egli ci prova a disconoscerne il ruolo istituzionale e l’identità professionale. Lo
so.
Sig.ra S: “ Allora hanno ragione in televisione ho visto quel programma dove gli Assistenti Sociali sono
stati denunciati…”
Rabbrividisco. Ascolto.
Il mio atteggiamento non verbale rimane accogliente, mi sento sicura nel mio essere Assistente Sociale
però mi viene da pensare : “ Se solo abbassasse il tono della voce….” .
Guardo la cartella sociale alla fine è stato tutto condiviso. L’assistente sociale deve scrivere, deve anche
tutelarsi il mio supervisore me lo ha insegnato bene.
Lei continua a parlare, sto per interromperla quando all’improvviso la sua rabbia esplode nella
disperazione di un lunedì ghiacciato. Mi fermo, ascolto quelle parole, ascolto con attenzione.
Sig.ra S: “ ….tanto mia madre non mi riconosce più ( piange ), non sa più chi sono, non mi vuole, non
vuole che la tocchi, che la lavi che l’abbracci…eppure io faccio tutto per lei “.
La lascio piangere, adesso non devo dire nulla, per un attimo posso allontanare la cartella sociale. Non
devo difendermi da lei. Devo solo ascoltare quelle parole con empatia e semplicemente il suo dolore e la
sua rabbia palesano una chiave di lettura diversa. Quella fragilità era sfuggita, lei sempre presente con la
madre, lei sempre sorridente con gli operatori del Centro Diurno.
Lei così stanca.
Mi accorgo che sto ascoltando il dolore di una donna che si sente orfana di una madre in vita, di quella
madre che l’ha nutrita, curata, amata, quella madre che era lì il primo giorno di scuola, che era lì quando
era malata, che era nella sua vita sempre e che ora invece le dice rabbiosamente:
“ Ma tu chi sei? “.
La sig.ra S. piange eppure lo sa che sua madre è malata, lo sa che i servizi ci sono, lo sa che il neurologo è
il migliore sulla piazza lo sa ma adesso chi è che ha bisogno di aiuto?
Non esiste mai certezza nel processo di aiuto, nemmeno quando si pensa di aver trovato la soluzione più
idonea.
E’ sempre tutto costantemente in divenire in un vortice di variabili umane che si incrociano faticosamente
con i servizi.
Il colloquio adesso ha un altro obiettivo; non serve a nulla in questo momento parlare del PAP, del
Centro Diurno e di quanto, in realtà, il servizio pubblico funzioni.
A.S. “ Senta non me lo ha mai detto ma cosa faceva sua madre da giovane?”.
Lei si soffia il naso, appare una dolcezza mista a nostalgia e racconta, con tono più pacato, di quanto la
mamma fosse brava a cucinare, di quei pranzi di Natale, della sua passione per il burraco, della sua
presenza con i nipotini. Poi un giorno si è dimenticata una cosa, poi un’altra e un’altra ancora.
Sig.ra S : “… e questo è tutto quello che posso dirle su mia madre. Lei era così e adesso….mi scusi tanto
ma io non so più cosa fare. Mi dispiace se ho alzato la voce, non ho domito questa notte e poi mio figlio
piccolo non sta bene, mio marito è fuori per lavoro, torna domani”.
L’aggressività lascia il posto all’impotenza.
Sento un sentimento leggero dentro di me, lo fermo subito: non ci deve essere coinvolgimento e poi il
colloquio ha un tempo e il suo sta per finire ma lei non smette di piangere.
Fisso l’appuntamento per la valutazione con il geriatra, dobbiamo vedere nuovamente l’anziana.
Nel mondo delle emozioni divento autorevole.
Lei è attenta, si tranquillizza un po'; forse i servizi sociali non fanno così schifo.
A.S. :” Io credo che lei stia davvero facendo il massimo per aiutare sua madre ma è un percorso difficile,
l’assistenza è davvero pesante e noi continueremo a garantire dei servizi per la mamma ma forse anche lei
ha bisogno di avere un suo spazio. Qui da noi è presente una Associazioni che fornisce dei supporti ai
familiari delle persone che hanno questa malattia. Si riuniscono il giovedì….. ”
Lei ascolta in silenzio.
Mentre dico questo nella mia mente ho già costruito una rete nuova che abbracci madre e figlia in un
nuovo percorso assistenziale per l’una e di supporto per l’altra. Ci sono altre figlie/i che vivono questa
realtà, che conoscono bene cosa significhi aprire la porta di casa e sentire quella voce tanto amata che
grida: “ Ma tu chi sei? “.
La sig.ra S. alla fine se ne va con un appuntamento nel borsello e un nuovo numero di telefono, forse è un
po' più sollevata: la madre adesso è al Centro Diurno, i bambini sono a scuola, magari dormirà un po'.
Aggiorno il diario del caso, metto via la documentazione, chiamo l’associazione ( per fortuna loro son sempre
tanto disponibili), fisso l’appuntamento per la valutazione geriatrica. Giovedì andremo a fare una nuova
visita al domicilio della sig.ra S.
Rifletto un po'.
Chissà come sarebbe andato il colloquio se mi fossi irrigidita nella certezza del mio ruolo istituzionale e
non avessi attribuito la centralità a quel bisogno di aiuto schermato dalla rabbia.
Tridimensionalità dell’intervento: risorse personali, risorse istituzionali, risorse comunitarie, sapere, saper
fare, saper essere, ascolto, empatia…tutto prima delle 8.00 di un freddo lunedì mattina.
Adesso però sono in ritardo, metto in un angolo le mie riflessioni, ora mi aspetta una lunga relazione da
scrivere su quel minore.
Chiudo lo schedario con un diario del caso aggiornato su quel pezzo di vita mentre io sono già dentro ad
un’altra storia.
Quanta flessibilità!
Sono le 15.00, timbro l’uscita dal lavoro è finita questa giornata, niente lezione di Pilates nemmeno oggi.
Piove.
Credo che passerò a salutare mia madre.
FACCIA A FACCIA
di Francesca Montagnani
In una separazione i figli non risultano mai illesi: comunque tu sia, qualsiasi professione tu svolga, pur con
tutto l’amore, tuo figlio ne soffrirà comunque. Potrebbe essere una triste verità ma è quello che sto
riscontrando nelle situazioni che mi hanno coinvolto e, per certi versi, travolto.
Quel giorno avevo convocato due ragazzi, fratelli, figli di due genitori separati per i quali la Procura del
Tribunale per i Minorenni ci chiedeva un’indagine socio familiare. Una separazione recente la cui ferita
bruciava ancora: diciotto anni di matrimonio finiti in accuse reciproche, prevaricazioni, offese e minacce.
Una separazione la cui ferita bruciava ancora. Aspettavo impaziente e curiosità quel colloquio, desiderosa
di capire meglio la situazione e sicura che il loro punto di vista mi avrebbe aperto davvero gli occhi. Fino a
quel momento i genitori, per la propria parte, con fermezza e convinzione, avevano dato ciascuno la
propria ‘versione dei fatti’ preoccupati più di portarmi dalla sua parte e far valere le proprie ragioni,
piuttosto che tutto il resto. E ancora una volta i figli rimangono ai margini, messi da parte.
Ammetto di essere stata indecisa per settimane su un loro coinvolgimento diretto nella situazione.
Essendo una preliminare indagine, ha senso coinvolgerli? Dare loro una preoccupazione in più? Alla fine
mi convinsi che sarebbe stato davvero utile e importante il loro parere, sarebbe stato prezioso e avrei dato
a tutta ‘la faccenda’ una luce diversa. Anche un altro aspetto mi aveva attratto della situazione; guardando
le date di nascita mi saltò subito all’occhio che tra i due fratelli vi era una differenza di età di 15 mesi e
questo mi colpì molto perché mi face inevitabilmente pensare ai miei figli. Ed è inevitabile che la nostra
vita privata , il nostro vissuto, il nostro essere influenzi la nostra professione, il nostro saper essere
quotidiano.
Li accolgo al colloquio con il mio consueto sorriso di benvenuto, in una calorosa stretta di mano, li faccio
entrare nella mia stanza e mi siedo accanto a loro sperando di trasmettere fiducia.
Lei 15 anni, lui 16. Non ci sono scrivanie, siamo solo noi tre.
Passano solo pochi secondi, è sufficiente una mia domanda per farlo crollare. Con le sue lacrime , crolla
anche tutta la mia scaletta mentale pensata fino a quel momento. E’ un fiume in piena così come le sue
lacrime e i suoi singhiozzi. “sono degli supidi!!!” esclama, “non si accorgono di quanto ci fanno stare male”. Resto in
silenzio, ascolto. Ecco la sua rabbia, la sua voglia di gridare al mondo! E si racconta senza limiti, con
parole vere e sincere. “noi non ce la facciamo più”. La sorella mantiene uno sguardo attento e complice. Parla
di una battaglia continua con il padre,
incapace di vedere i propri errori. Uno scontro continuo su cui lui si butta ogni volta tentando, talvolta
con provocazione, che lui possa un giorno davvero cambiare. Un amore apparentemente non ricambiato,
continue delusioni. Sono parole sincere mature vere: è stupefacente.
Inevitabile rimando alla mia vita e al mio futuro, un vortice di emozioni e pensieri. E se anche io non fossi
in grado di proteggerli ? Se anche io un giorno fossi cieca della loro sofferenza, presa dalla routine, dai
nostri interessi e dai nostri ‘guai’?
Nessuno è immune a questo rischio.
Mi allineo al suo racconto...Interviene la sorella con un fare dolce ed accogliente; una sofferenza più
discreta, meno evidente, meno tangibile. “Lui non ci capisce” afferma lei. “ Dobbiamo accettarlo cosi com’è, non
cambierà mai” dice rassegnata.
E’ uno scontro ininterrotto tra due generazioni, una battaglia contro adulti ciechi. E la madre? Anche per
lei c’è rabbia e rancore, la protezione e il benessere tanto dichiarato ai colloqui oggi stride: alla fine anche
lei ha ceduto alla sua sete di giustizia, più preoccupata di controllare lui, tenere le redini di una separazione
difficile.
Non ci sono risposte giuste a tutto questo e mi sento anche impotente nel non avere qualche ‘soluzione’ o
suggerimento sul ‘da farsi’.
E dentro di me penso: quanto spesso ci scordiamo di loro, ho pensato, concentrati sugli adulti nelle nostre
situazioni, li teniamo in un angolo come quasi per proteggerli. Evitiamo per quanto possibile di chiamarli
ai nostri colloqui. Probabilmente ci fanno paura gli scenari che potrebbero derivare, il loro punto di vista
ci fa PAURA questa è la verità: dalle loro bocche può uscire una verità mai emersa prima d’ora. Ci
sentiamo deboli e nudi davanti a loro e allo stesso tempo ci coinvolgono nel nostro intimo, ci travolgono.
Non si tratta di leggi e moduli, qui si parla di sentimenti, emozioni, vissuto, intimità.
Ne escono quasi sollevati dal colloquio, sono soddisfatta. Li voglio rivedere, loro accettano.
LA SEDIA VUOTA
di Giorgia Rosselli
Sono emozionata. Il mio primo giorno di lavoro da assistente sociale. La mattina mi sveglio decisamente
prima del suono della sveglia, avevo sistemato il vestiario da indossare la sera prima. Volevo essere
“Perfetta” per quel giorno che avevo aspettato da anni. Mi sveglio, mi vesto ripensando a quando andavo
all’Università e a quante volte mi sono ripetuta che alla fine ci sarei riuscita, alla fine sapevo, o per lo meno
speravo, sarebbe arrivato il giorno del mio primo colloquio. Ho immaginato tante volte come potesse
essere, pensato alla prima persona che busserà a quella porta, una donna? Un uomo? Idealizzare la sua
faccia, il suo atteggiamento non verbale e poi: “sarò in grado di rispecchiare tutti i principi del nostro
codice deontologico? sarò empatica abbastanza? riuscirò a capire senza essere troppo entrante ? e se poi
mi viene un giramento di testa mentre parla e svengo?”. Mille erano le domande che mi frullavano in
mente come una trottola, quella sensazione di ansia che ti porta a pensare: “Ho aspettato tanto questo
momento e ora, ho così timore che stavo meglio prima”. “Prima”, ho sempre Sperato di trovare subito IL
lavoro, per “IL”lavoro intendo il “Mio”, quello per cui una persona ha studiato. Ho sempre avuto questa
idea: l’idea che una persona studia per arrivare a fare il “SUO” lavoro, alla fine si decide che strada
percorrere, si studia perché ci vogliamo specializzare in una professione. Ognuno di noi è nato con una
certa predisposizione lavorativa e personale, a ognuno il suo, soprattutto quando si lavora con le persone.
Il nostro mestiere lo definirei una sorta di missione, la missione dell’aiuto, la missione di vedere realtà
scomode, non semplici ma soprattutto relazionarsi con problemi, disagio e sofferenza. “Il Mio”,
immaginavo non fosse un lavoro semplice. Il primo colloquio da Assistente sociale. Ero molto agitata, mi
chiedevo se fossi davvero stata in grado di fare quella professione, se fossi capace di rispecchiare i valori
cardine che la caratterizzano. Essere assistente sociale non è come viene descritto nei libri: è facile citare
parole come: ”empatia” ”atteggiamento non giudicante” ”autodeterminazione” ma nella realtà riuscire ad
essere quello che viene richiesto non è affatto semplice e siamo persone anche noi, certe realtà,
soprattutto all’inizio della carriera, non sono semplici da affrontare. Non è facile gestire le proprie
emozioni davanti a certe storie di vita e questo si impara lavorando, la famosa e preziosa esperienza di cui
avevo tanto sentito parlare. Non c’è un manuale per imparare a essere una buona assistente sociale che
trova istantaneamente la giusta dimensione con se stessa e l’altro. Immaginavo che la mattina mi sarei
seduta alla mia scrivania, avrei acceso il mio PC, avrei preso il mio bloc notes per prendere appunti sulle
informazioni raccolte durante il colloquio, sarei stata pronta ad accogliere con professionalità la prima
persona che si sarebbe rivolta a me per chiedere aiuto. Sentire bussare e vedere entrare un uomo sulla
cinquantina che presentatosi al servizio sociale spontaneamente si affacciava alla mia porta:
<<Permesso Dottoressa?-posso?>> rispondevo: <<Buongiorno, venga si accomodi>>. Avrei iniziato il
colloquio, seguendo passo per passo quando letto di ripasso la sera prima, avrei lasciato parlare la persona
ascoltando con attenzione che cosa aveva da dirmi, domandando qualora ci fosse stato qualcosa di poco
chiaro, cercando di capire la situazione generale al fine di delineare il problema principale, quello che lo
aveva spinto a presentarsi da me. Iniziare a conoscere la persona, la sua storia, la sua vita gli eventi
importanti che lo avevano portato fino alla mia porta. Mi sono stampata, per essere più sicura, uno
schema da tenere sulla scrivania, mi sarebbe servito da promemoria, elencava delle “tappe” da seguire,
avrebbe facilitato l’inizio del mio lavoro e avrebbe permesso uno scorrimento fluido del colloquio.
Immaginavo la mia ansia svanire al momento del “Toc Toc”, lasciare il posto alla professionalità con cui
ero stata istruita all’università e all’accortezza nell’accogliere la persona, facendola sentire a proprio agio.
Parlare, mi ripetevo, è una cosa naturale, impariamo da piccoli ed è importantissimo perché ci permette di
capire, confrontarci e di esprimerci. Verrà naturale parlare, sia da parte mia sia da parte dell’altro. Il
colloquio (Il termine deriva dal latino “colloqui” composto da “cum” e “loqui” che letteralmente si traduce in
“parlare con”) era il mio strumento, uno dei principali, al fine di poter parlare con la persona che avevo
davanti, il mezzo per uno scambio comunicativo, interazione verbale, espressione di parole alla quale vi è
attribuito un significato. In poche parole, era il mezzo che avevo a disposizione per capire la situazione.
La mattina del mio primo “scambio comunicativo” da assistente sociale arriva presto, la notte è trascorsa
velocemente, indosso i vestiti preparati la sera prima, quelli appunto per essere “perfetta”, prendo un caffè
veloce e mi avvio verso il Comune. Mi ricordo di aver avuto lo stomaco chiuso, una sensazione di ansia
da prestazione ma anche la curiosità di conoscere e vedere la persona del mio primo colloquio. Quella che
ti ricorderai per tutta la tua carriera lavorativa, quella che speri abbia la comprensione di capire che sei
all’inizio e che non hai tutta quella capacità che forse si aspetterebbe da te. Dall’assistente sociale.
Domandarsi che cosa si aspetta una persona che viene da te, perché ha bisogno di te, magari ha delle
aspettative dal tuo ruolo, si aspetta delle domande precise che si trasmetta quella sicurezza che non posso
dare completamente, almeno per ora. Avrei voluto affrontare il mio primo colloquio con la fermezza e la
professionalità dei “Guru” del servizio sociale, i colleghi che lavorano da anni e che hai sempre ammirato,
quelli che cercherai di imitare, lo spunto che utilizzerai per creare il tuo essere assistente sociale. La loro
preparazione, la loro capacità, il loro condurre colloqui sul filo perfetto di empatia, sicurezza e
trasparenza. Quel colloquio senza “Intoppi”, quello limpido e mirato che scivola perfettamente al punto
delle cose. Dovevo ancora fare il mio primo colloquio e già speravo di essere una professionista come
poche, dovevo rimanere con i piedi per terra. Mentre sistemavo le mie cose sulla scrivania, mi ripetevo
che dovevo affrontare quella giornata come la prima possibilità di
vedermi in veste di professionista, vedere come me la sarei cavata, di guardare “a Fatti” la mia partenza.
Dovevo cercare quella modalità operativa che mi ero immaginata leggendo i manuali per la preparazione
dell’esame di abilitazione, rintracciare quei principi saldi e chiari manifestando un atteggiamento di mera
professionalità. Non era affatto semplice. Ero curiosa e spaventata di vedermi nella veste di assistente
sociale, la mia persona in un’ottica diversa, guardare quella prospettiva di me stessa mai vista prima.
Volevo mettermi alla prova, consapevole che avrei commesso degli errori, che mi sarei scordata di
chiedere delle informazioni rilevanti ma che al primo colloquio della tua vita non ti viene automatico
chiedere. Ero consapevole che avrei “sbagliato”qualcosa ma nonostante questo mi sentivo pronta ad
accogliere la persona che si sarebbe presentata al servizio. Ci insegnano la difficoltà che può presentarsi
nella prima fase del colloquio, nel mettere a proprio agio la persona ma nessuno affronta il nostro punto
di vista, il nostro primo colloquio. Siamo professionisti, indubbio questo, ci hanno insegnato come agire.
Nella teoria. Immaginavo lo sguardo dell’altra persona, la sua postura durante il dialogo, l’espressione della
sua faccia mentre racconta la sua storia. Immaginavo il suo tono di voce, ci cambia a tutti quando
raccontiamo qualcosa che fa male, qualcosa che non è facile esprimere, qualcosa che è difficile da
chiedere. Il nostro primo scambio di sguardi, speravo di avere gli occhi di chi ispira fiducia, di chi ti fa
sentire rassicurato e che ti facilita nel parlare, lo sguardo di una persona che trasmette sicurezza. Avrei
voluto essere prossima alla pensione in quel momento, se così fosse stato, avrei già condotto mille
colloqui e avrei già visto che cosa è il mio lavoro. Sarei stata capace di affrontare ogni tipo di contesto,
persona, situazione o bisogno. Non avrei bisogno dello schema che ho davanti per ricordarmi le cose da
chiedere, sarebbe tutto così naturale, l’esperienza e il tempo avrebbero contribuito a farmi essere la
“Buona assistente sociale”che speravo di diventare, sarei pronta.
Ero sicura che in qualche modo le cose sarebbero andate bene, mi conosco ripetevo, ho una buona
parlantina, non sarà difficile condurre un colloquio.
“Toc Toc”…
Mi sono sentita per la prima volta Assistente sociale.
Chi è stata la persona del mio primo colloquio? indubbiamente me stessa.
NON TI DÀ FASTIDIO IL RUMORE DEI TRENI QUANDO PASSANO?
Di Giuditta Padano
Era un assolato pomeriggio di ottobre e Selva, 11 anni, arrivò nell’ufficio di Giulia con la mamma, la
sorella minore e un’amica. Giulia si affacciò nel corridoio, fece accomodare nella sua stanza Selva e la
mamma e poi chiamò la volontaria del servizio civile, chiedendole di trattenersi con le altre bambine nella
sala dei giochi.
Selva conosceva già il nome di Giulia, anche se era la prima volta che la incontrava. Le chiese se, come
una sua compagna di scuola, sarebbe dovuta tornare a parlare con lei altre volte. Giulia le sorrise, e le
rispose che non lo sapeva. Poi domandò: «Selva, sai perché sei qui? La mamma ti ha detto qualcosa?»
Selva rivolse la testa in aria. «Ora non mi ricordo bene e non so di preciso quando è successo, ma un
giorno sono andata in un posto, era quest’estate.»
«In quale posto sei andata?»
Selva chiuse gli occhi e si tappò le orecchie. «Non voglio ricordare cosa è successo, mi sono fatta male,
ero tutta sanguinante!» Chiese un foglio con una penna, che Giulia le porse. Scrisse qualcosa coprendosi
bene con la mano e glielo restituì dicendole: «Per favore, non leggerlo a voce alta».
Giulia lesse il foglio e domandò: «Come ci sei arrivata?» Selva lo riprese e scrisse: col treno.
Giulia pensò che la presenza della mamma potesse intimidirla e le chiese se preferiva che la aspettasse
fuori.
Selva rispose di no. Poi ci pensò un po', sorrise e guardando la mamma disse «Sì, forse è meglio». Giulia
riprese la conversazione. «Allora Selva, ti va di raccontarmi che cosa è successo?»
«Ero con una mia amica, Virginia, non so se la conosci. Io non ci volevo andare.»
«Perché sei andata?»
«Perché avevo paura che lei mettesse su Instagram delle cose brutte.»
«Di che tipo?»
«Non lo so.»
«Che genere di cose avrebbe potuto mettere secondo te?»
Selva rispose con tono concitato: «Quello che è successo ad Anna. Poi tutti lo leggono e mi fanno
domande».
Giulia sapeva che Anna, la sorella minore, aveva subito un adescamento, e che pochi mesi prima era stato
disposto un allontanamento da casa durato pochi giorni.
«Che cosa c’è in quel posto?»
«Una nostra amica.»
«Prima mi hai detto che ti sei fatta male…»
«Sì, mi sono fatta male, sono caduta ed ero tutta sanguinante.»
«Come è successo?»
«Pioveva, e io sono inciampata nell’ombrello di Virginia.»
«Poi come siete tornate indietro?»
«Perché me lo stai chiedendo?» Chiese con tono sospettoso Selva.
«Perché è un posto lontano, non credo che siate tornate a piedi.»
«Sono salita nella macchina di una signora… Virginia non voleva venire ma poi l'ho convinta, avevo un
telefono con me.»
«Conoscevi quella signora?»
«Conosco bene la figlia.»
Guardandola, Giulia provò a chiederle: «Come mai non hai chiamato la mamma?»
«Uff, ora mi brontoli…»
Giulia spiegò a Selva che non era lì per brontolarle, ma solo per capire cosa fosse successo e come stava.
«Io sto bene», disse Selva tagliando corto. «Ora dimmi perché mi hai chiamato qui.» Sì, aveva risposto ad
alcune domande, ma certo non le era sfuggito che Giulia non le aveva ancora spiegato cosa volesse da lei.
Giulia si sentiva messa a dura prova. Sapeva che Selva la stava studiando per capire se poteva fidarsi. Quel
colloquio le pareva una partita di scacchi e aveva terribilmente paura di sbagliare. «Hai presente il posto
dove ti ha portato la signora?»
Selva si adombrò, raggomitolandosi e volgendo lo sguardo di lato. «Non voglio parlare. Quel posto non
mi piace. Dovevo stare seduta, con le mie mani ferme. I Carabinieri non mi piacciono.»
«Beh, vedi, i Carabinieri si sono molto preoccupati…»
Selva chiese con fervore: «Perché si sono preoccupati se io stavo bene ed ero sana e salva?»
«Non eri tanto sana, ti eri fatta male, e poi eri da sola con la tua amica… secondo te i Carabinieri hanno
fatto bene o male a preoccuparsi?»
«Hanno fatto bene.»
«Sai, i Carabinieri hanno scritto al Giudice, ed anche lui si è molto preoccupato, e quindi mi ha scritto:
assistente sociale, cerca un po’ di capire che è successo e come sta Selva».
«Ecco, allora io non parlo più! Non è per te, ma se c’è il Giudice di mezzo io non parlo più, non voglio
raccontare più niente.»
Giulia la guardava in silenzio.
Selva aveva un po' paura ma alla fine prevalse la curiosità: «Davvero il Giudice ti ha scritto una lettera?»
«Non proprio, ma è una cosa simile.»
«E cosa ti ha scritto?»
«Mi ha scritto di capire quello che è successo e come stai…»
«Io sto bene, ti piace il tuo lavoro?»
«Sì, molto. Perché me lo chiedi?»
Selva le rispose che a lei non piaceva per niente.
Per Giulia questa era quasi una sfida, voleva capirci qualcosa di più e le chiese: «Secondo te cosa fa
l’assistente sociale?»
«Non lo so. Non fa cose belle. La mia amica Marzia è vissuta tre anni in comunità per colpa dell’assistente
sociale, a volte gli assistenti sociali portano via i bambini.»
Giulia sapeva che con i bambini se menti sei fregato. E poi c'erano le storie di Anna e di Marzia. Per un
istante pensò che questo pasticcio se l'era cercato, poteva forse sorvolare su questo aspetto e rilanciare
con un'altra domanda no? Però ora non c'era tempo nemmeno per mordersi la lingua e occorreva dire
qualcosa di sensato e di autentico. Tuttavia, era una questione tremendamente difficile da spiegare.
«Vedi Selva, non accade sempre, però a volte può capitare che l’assistente sociale debba portare un
bambino in comunità, per proteggerlo, e anche per cercare di aiutare i suoi genitori, è una cosa difficile.»
«E tu sei contenta quando li porti in comunità?»
«No, sono molto dispiaciuta, perché so che anche loro sono tristi e dispiaciuti, però a volte può capitare di
doverlo fare.»
Selva scattò sulla sedia, «E poi quei bambini che cosa rispondono alle persone che chiedono dove sono i
loro genitori? Se poi qualcuno ti vede passare per strada e dice ad un altro: “io lo so cos’è successo a suo
padre…”»
La famiglia di Selva aveva attraversato diverse difficoltà, e il padre aveva avuto alcuni problemi con la
Giustizia. Giulia sapeva che nel piccolo paese tutti sanno, parlano e guardano, che certe cose ti restano
addosso come un marchio infuocato.
«Il tuo lavoro proprio non mi piace.»
«Posso provare a spiegarti che cosa fa l’assistente sociale?»
«Sì.»
«L’assistente sociale cerca di aiutare le persone che hanno dei problemi, ci sono quelle che si occupano
degli adulti e degli anziani che per esempio sono poveri, oppure malati e non possono muoversi. E poi
quelle come me che si occupano dei bambini e dei ragazzi che non hanno ancora diciotto anni e delle loro
famiglie…»
Selva guardò improvvisamente il soffitto e la interruppe chiedendo: «Ma qui dentro ci sono le
telecamere?»
Giulia restò spiazzata da quella domanda. «No. Vedi da qualche parte le telecamere?»
«Che ne so, potrebbero essere incastrate nei muri», rispose prontamente Selva.
«No. Qui dentro non ci sono telecamere. Ti fidi?»
«Di chi?»
«Del fatto che non ci sono telecamere.»
Selva prese il foglio e scrisse: non tanto. Poi disse: «Posso farti una domanda che non c’entra niente?»
«Sì.»
«Non ti dà fastidio il rumore dei treni quando passano?»
Giulia era quasi divertita da quella domanda. In effetti, il colloquio l'aveva talmente assorbita che non si
era accorta del treno in transito. «No, oramai ci sono abituata.»
Selva riprese in mano il foglio. Lo scrutava come fosse un oggetto mai visto. Giulia le chiese allora se le
piacesse disegnare.
«No, sono proprio negata.» Però disegnò una stella incrociata e poi chiese a Giulia: «Tu sai disegnare una
stella senza queste croci nel mezzo?»
«Sì.»
«Me la fai vedere?»
Giulia la disegnò e Selva rimase affascinata. Mentre le sorrideva riprovò a farne una e ci riuscì. Forse di
Giulia si poteva fidare, ma aveva bisogno di un po' di tempo. La guardò intensamente negli occhi: «Ma io
posso tornare qui a parlare con te?»
«Certo.»
Selva riprese il foglio e appuntò: per Giulia da Selva, con un cuore accanto.
«Grazie mille Selva. Facciamo entrare la mamma?»
Selva aprì la porta, insieme alla mamma entrarono la sorella e la sua amica, che chiesero di prendere delle
caramelle dalla scatola sulla scrivania di Giulia. Rivolgendosi alla mamma Selva disse: «Io vorrei venire qui
tutti i lunedì».
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UN’INSTANCABILE SILENZIOSA GUERRIERA
di Giulia Giannoni
Come ogni giorno di buon ora mi avvio in ufficio dopo il consueto caffè con i colleghi. Tanti gli
appuntamenti della mattina che, con mia sorpresa scorre velocemente; sono al terzo appuntamento quasi
senza rendermene conto. Bene, adesso è il turno di Paolo Ghilberti. Mentre attendo, mi avvisano che
l’utente avrebbe ritardato di qualche minuto, ne approfitto per recuperare alcuni documenti appena
stampati dalla fotocopiatrice nello stanzino accanto. Rientrando in ufficio trovo seduta davanti alla mia
scrivania una distinta signora, sulla cinquantina, che non appena mi sente arrivare si alza velocemente.
-Scusi, ehm mi scusi se mi sono accomodata, sono Luce Ghilberti ho un appuntamento con lei-.
Il cognome non mi è nuovo, penso, ma io avevo appuntamento con un uomo. Le dico di non
preoccuparsi e di accomodarsi mentre riprendo la mia postazione per controllare in agenda. Paolo
Ghilberti, ho appuntamento con Paolo.
-Si ho appuntamento con Paolo Ghilberti, lei è forse la moglie?-
A questa domanda la donna mi risponde con fare titubante e con un filo di voce, quasi non parlasse da
giorni, tossendo nervosamente tra una parola e l’altra.
-Si sono io Paolo Ghilberti, si cioè, sono nata come Paolo, in seguito… si insomma, ho fatto un percorso
di transizione e adesso sono Luce -.
Rimango di sasso, proprio non mi aspettavo questa risposta. Ho davanti a me una bella signora, piuttosto
alta, in un taielleur blu notte non troppo elegante; viso curato, trucco appena accennato, ma impeccabile.
Ci metto qualche minuto a rimettere insieme le idee e infine con imbarazzo palpabile mi scuso:
-Oddio, mi perdoni, davvero, sinceramente mi aspettavo un uomo non pensavo che…-
Mi interrompe appoggiando la sua mano delicatamente sulla mia, che era intenta a scarabocchiare
qualcosa nervosamente sul quaderno. Ha delle mani molto soffici e un tocco leggerissimo, penso.
-Non si preoccupi dottoressa, non è la prima volta né sarà l’ultima che vengo presentata con il nome di
nascita, non si senta in dovere di scusarsi-.
Mi sorride candidamente, come se il mio disagio fosse la cosa più normale del mondo. Il suo viso, adesso
più rilassato dopo i necessari chiarimenti, mi è quasi di conforto. Ma io mi sento smarrita. Non mi è mai
capitato nulla di simile in tutta la mia carriera e provo uno strano mix di imbarazzo e
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agitazione. Sono davvero mortificata. Cerco di celare quanto più riesco le mie emozioni e di continuare il
colloquio con la massima disinvoltura e professionalità possibili.
-Bene, Signora Ghilberti, cosa la porta qui da me?-, chiedo goffamente cercando di non far trasparire il
mio stato d’animo.
-Si, ecco, sono qui perché ho un piccolo problema attualmente. Vede, recentemente ho dovuto lasciare la
casa in cui abitavo in affitto perché è stata messa in vendita dal proprietario e ora, beh, non so come
spiegarmi, sto cercando una casa, ma non riesco a trovare nessuno disposto ad affittarmela. Ho visitato
circa una decina di appartamenti più o meno, alcuni direttamente con i proprietari, altre con agenti
immobiliari…un disastro…La maggior parte dei proprietari vedendomi arrivare non mi fa quasi parlare e
mi congedano senza tante spiegazioni. Altri ridono oppure fanno battute offensive, altri ancora mi urlano
dietro imprecazioni o mi augurano le più svariate punizioni divine; uno di loro addirittura mi disse di non
volere l’inferno in casa propria. Diversi agenti immobiliari invece, nonostante le mie referenze, mettono le
mani avanti dicendomi che difficilmente i proprietari sono inclini ad accettare persone “nella mia
condizione”. Sono arrivata al punto di pensare che quest’ultimi nemmeno accennino le mie proposte di
affitto ai proprietari!-
dice sconfortata guardandosi le mani e a tratti spostando lo sguardo verso un imprecisato punto al di là
della finestra.
-Capisco- rispondo pensierosa. In realtà, era la prima volta che mi veniva esposto un caso del genere ed
ero sconcertata e allo stesso tempo interessata a questa donna che avevo davanti. Pensavo che niente in lei
mi dava l’impressione, a primo impatto, di trovarmi davanti a quello che prima era un uomo. Quindi mi
sforzavo di capire da cosa la gente potesse subito dedurlo. In effetti, così a sedere, non c’erano nel suo
fisico, né nei suoi modi e movenze, tratti specificatamente mascolini.
Mi concentrai ad osservarla meglio, mentre parlava. I lineamenti molto morbidi, il viso perfettamente
liscio e curato, le unghie lunghe e smaltate. Anche le movenze erano delicate, come se avessi davanti a me
una distinta donna di un’altra epoca. Parlava lentamente, scandendo bene ogni parola, si spostava di lato
ogni tanto la frangia con due dita, spostando leggermente il capo, con un movimento fluido e sicuro,
come se le appartenesse da una vita. Gli unici segni evidenti, potevano essere il pomo d’adamo
leggermente accennato, che ogni tanto emergeva da un morbido foulard azzurro accuratamente annodato,
come a voler nascondere coscientemente quel fastidioso “difetto”.
- Ha un lavoro Signora Ghilberti? Di cosa si occupa?-
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-Si certo, sono infermiera in una casa di cura per anziani, lavoro li da circa 15 anni ormai. Amo questo
lavoro-. Prosegue illuminando il viso con un sorriso nostalgico. Si dice particolarmente grata perché gli
anziani sono gli unici a non negarle quell’amore e calore umano che ha tanto ricercato nella sua vita e, a
suo dire, non si curano dei dettagli, vanno dritti all’essenza delle cose. Così, ormai esanimi da un viaggio
lunghissimo e ricco di eventi che è la loro vita, proiettati con la mente, e il corpo anch’esso, direttamente
all’ultima meta, vedono questa donna per quello che è, semplicemente Luce. Proseguo il colloquio
chiedendole della sua vita, mi racconta di essere rimasta sola, allontanata dalla famiglia e buona parte degli
amici, in seguito alla sua decisione di intraprendere il percorso di transizione per diventare donna. Mi
racconta delle sofferenze che provava ad essere Paolo, del fatto che non riusciva a rassegnarsi a
proseguire la sua vita in un corpo che non le appartenesse. Questa decisione le era costata parecchio, ma
soprattutto l’aveva condannata ad una vita piena di discriminazioni e pregiudizi. In diverse occasioni, era
stata presa di mira da qualche combriccola di quartiere, ragazzotti in preda agli ormoni che si divertivano
ad umiliarla, vessarla e in diverse occasioni a spintonarla e minacciarla, in vicoli bui del centro storico
pieni di occhi e di orecchie, ma certamente non di cuore.
-Luce, adesso che non ha un’abitazione dove vive?- Mi accorsi solo in quel momento che accanto a lei
c’era un piccolo trolley un po’ malandato.
- Momentaneamente passo le notti in un b&b vicino alla stazione. I prezzi sono modici ma non potrò
proseguire così a lungo. Benchè il mio stipendio sia sufficientemente dignitoso, rischierei di aggravare
molto la mia situazione finanziaria. In tal proposito le volevo chiedere se potrei usufruire di qualche
dormitorio, non so, finchè io non venga a capo di questa brutta situazione…-
- Cert…- mi blocco subito. Stavo per risponderle che potevo attivarmi per trovarle una sistemazione in
qualche dormitorio del territorio. Ma dove collocarla? In un dormitorio maschile? In uno
femminile? Divago un po’ provando a farle ulteriori domande, cerco di prendere tempo ma mi è
impossibile ragionare sul da farsi cosi su due piedi.
- Luce, ascolti, posso attivarmi per cercarle un dormitorio ma ho bisogno di un po’ di tempo, qualche
giorno per organizzare il tutto. La contatterò non appena avrò qualche notizia.-
Luce, si alza , mi viene incontro prendendomi entrambe le mani tra le sue e mi ringrazia vigorosamente.
Mi alzo anche io e ricambio quella calorosa stretta di mano che dice più di mille parole. La guardo uscire,
con il suo trolley al seguito. Mi rendo conto che, nel congedarla, sto indossando un sorriso dei più
malinconici. Come faccio ad aiutare questa donna? Prendo finalmente lucida coscienza di non avere gli
strumenti professionali adatti a questo caso. Una richiesta
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apparentemente semplice ma che contiene tutte le incognite del mondo. Trovare un dormitorio
momentaneo ad una donna, una donna transessuale, impossibilitata a trovare una casa da affittare
nonostante un lavoro stabile e dignitoso, e dotata di una gentilezza e purezza d’animo disarmante. Mi
sento impotente e avvilita e mi rendo conto che del gap tra le richieste di Luce e le risposte che i servizi
sociali, ad oggi, sono in grado di fornirle. Guardo fuori dalla finestra scoraggiata e vedo Luce uscire
dall’edificio e camminare velocemente rasentando il muro del palazzo, accompagnata dal suo chiassoso e
malandato trolley. Tiene lo sguardo basso, sembra concentrata a non concedere la sua attenzione al
mondo esterno. Sposto lo sguardo dall’altra parte della strada e vedo degli uomini fischiare e inveirle
contro. E lei, indossando tutta l’eleganza del mondo, prosegue diligentemente il suo cammino, a passo
svelto di un’instancabile, silenziosa, guerriera.
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TROVARE…. IL SENSO
di Irene Pignotti
Ogni mattina arrivo in anticipo alla stazione, quei dieci minuti che mi permettono di cominciare la giornata
senza inutili affanni.
Lavoro come assistente sociale comunale ormai da quasi dieci anni, in un piccolo Comune del Sud Italia, e a
volte penso con rammarico a quanto le mie aspettative non corrispondano ad oggi alla realtà.
Durante i viaggi in treno mi sono trovata a riflettere sul senso del mio lavoro quotidiano e la domanda che mi
pongo costantemente è: “attraverso gli interventi che posso proporre con le risorse assegnate, rispondo
veramente a delle necessità e a delle fragilità? Metto al centro l’unicità della persona e della famiglia oppure
sono ormai diventata una semplice burocrate?”
Gli adulti indigenti rappresentano per me un'area di intervento molto complessa, una sfida quotidiana.
Oggi, accanto alle persone che tra colleghi definiamo gli "utenti storici" - ovvero le famiglie in carico ai servizi
ormai da generazioni, in cui lo svantaggio economico e sociale ed il contesto di provenienza riproducono quasi
inevitabilmente la vulnerabilità in una sorta di circolo vizioso - si affacciano timidamente quelle persone colpite
dalla recessione economica, dalla perdita di lavoro, dalle separazioni altamente conflittuali, da una improvvisa
malattia o da una sopraggiunta inabilità al lavoro: i nuovi poveri.
I bisogni dell'adulto indigente sono tali per cui anche solo pensare una progettualità nell'intervento proposto
diventa impossibile: quale progettualità in un territorio con un tasso di disoccupazione più alto della media
nazionale, dove si assiste quotidianamente alla chiusura di attività commerciali storiche, dove il mercato
immobiliare impone dei prezzi di affitto che in pochi possono permettersi - e solo con grande sacrificio - e
dove manca una stabile e consolidata rete di collaborazione e di lavoro con il terzo settore?
Di fronte alla mancanza o carenza di una rete familiare, molte persone sono destinate a rimanere ai margini
della società o a scivolarci velocemente; l'assenza di un reddito minimo mensile e di una sistemazione abitativa
dignitosa rende di fatto irrilevante ogni intervento economico che l'amministrazione proponga.
Quel martedì mattina ero particolarmente sovraccarica di lavoro.
Oltre alla normale attività quotidiana, era giorno dedicato al segretariato sociale; le persone in attesa erano
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sempre molte e le richieste delle più disparate.
Se c’è una cosa che ho imparato è che “non sai mai cosa entrerà da quella porta!” e così fu anche quella
mattina: mi fece molto sorridere un anziano signore che mi chiese se, vista l’esigua pensione ricevuta, poteva
recintare il giardino e mettere “due animali” - come li chiamò lui –
Pensai a cani e gatti e non capii il nesso con l’esigua pensione, fin quando l’uomo mi specificò che stava
pensando a polli, galline e anche una capretta!
Lo indirizzai all’ufficio competente e lui mi salutò molto soddisfatto. Per me fu un momento di leggerezza.
Era ormai finito l’orario di ricevimento e mi stavo organizzando per l’uscita della pausa pranzo e per le
riunioni previste nel pomeriggio, quando sentii bussare in modo incerto alla porta; mi alzai e mi diressi verso
l’entrata, già sapendo che non poteva che trattarsi di un ritardatario.
Mi prepari mentalmente a congedarlo, chiedendogli di tornare, nell’orario indicato, il martedì successivo.
Mi si palesò una coppia di adulti, mezza età, con in mano una cartellina che mi chiede dell’assistente sociale
“Sono io” rispondo.
“Ci hanno detto di venire qua…..per il nostro problema, è urgente”
Avevano l’aria spaesata e l’espressione interrogativa di chi non è abituato a rivolgersi ai Servizi, di chi si sente
in imbarazzo.
Non me la sento di rimandarli indietro e li faccio accomodare, anche se ciò significa mangiare un panino
mentre vado in riunione.
“Dottoressa, abbiamo proprio bisogno, abbiamo provato a fare da soli, ci creda, per noi è umiliante essere
qua”
Confermata la mia impressione iniziale, cercai di rimandare un messaggio di accoglienza e metterli a proprio
agio “Sono sicura che se siete qua avete bisogno di aiuto, non dovete giustificarvi, tutti noi nella vita passiamo
momenti in cui si ha necessità di un sostegno e non c’è nulla di cui sentirsi umiliati, spiegatemi quale è il
problema”
La coppia iniziò ancora titubante a raccontare le loro vicende familiari; marito e moglie si alternavano, la
signora era più disinvolta, pesava meno in lei la “vergogna” per quel colloquio, mentre il marito faticava molto
ad ammettere la propria incapacità a trovare in autonomia una soluzione per la sua famiglia.
“Abbiamo uno sfratto esecutivo tra un mese; l’ufficiale giudiziario questa volta verrà con il fabbro a cambiare
la serratura e noi non abbiamo un posto dove poter andare.”
Domando ai signori a chi si sono rivolti prima di arrivare al Servizio e così l’uomo mi mostra la cartellina.
Mi dice che pochi mesi prima i proprietari di casa li avevano invitati ad una mediazione, ma non sanno
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spiegarmi perché, poi aggiungono di essersi rivolti ad un sindacato, senza esiti, ed infine di essere stati ricevuti
qualche tempo prima dall’assessore comunale, ma anche in questo caso le informazioni sono confuse e non
riesco a capire quale tipo di indicazione abbiano ricevuto.
Chiedo quindi di poter visionare la cartellina con i documenti.
Emerge che la coppia per anni ha pagato l’affitto senza un regolare contratto, ma, in sede di mediazione, ha
sottoscritto tutt’altro: da otto anni beneficiano a titolo gratuito(!!)
dell’appartamento, i proprietari chiedono di tornarne in possesso per sopraggiunte necessità e loro si
impegnano a lasciarlo libero entro tre mesi, pena l’avvio dello sfratto con l’ufficiale giudiziario. “Perché avete
firmato questo accordo? Non è vero che avete beneficiato dell’appartamento a titolo gratuito” dissi loro.
“Ma a noi hanno consigliato così… non lo abbiamo neanche letto, c’era l’avvocato…” “Ma l’avvocato di chi
scusi, il vostro o il loro?” “Il loro avvocato…poi al piano di sopra c’era un altro avvocato e hanno chiesto se
poteva scendere…era per noi, sa, noi non lo abbiamo l’avvocato”
“Ma perché non avete letto? Non si firma senza leggere…guardi qua cosa c’è scritto” e leggo loro il passaggio
dove dichiarano di aver vissuto nell’appartamento a titolo completamente gratuito per anni.
Sono persone molto semplici e la grafia tremolante delle firme apposte sul contratto di mediazione
evidenziano che il loro grado di scolarizzazione è molto basso, forse appena alfabetizzati.
“E il sindacato cosa vi ha detto?” chiedo “Che non c’è niente da fare…”
“E l’assessore?”
“Che qualcosa usciva... di fare la domanda per la casa popolare..”
“Il bando per le case popolari uscirà a breve, ma per voi serve una soluzione subito e quella della casa popolare
al momento non la rappresenta”
Inizio a sfogliare le carte ed a leggere i vari avvisi di sfratto inviati prima dall’avvocato e poi dall’ufficiale
giudiziario, poi trovo alcune note del sindacato e vari altri documenti inerenti la casa. Per alcuni minuti mi
“assento”, leggo con attenzione il contratto di mediazione e mi sale un totale disprezzo per chi delle proprie
conoscenze ne fa un uso così spregevole, raggirando chi, per mancanza di quelle stesse conoscenze, si fida e si
ritrova a non sapere in breve tempo dove andare a vivere.
Mentre sto finendo di leggere l’ultimo documento l’uomo improvvisamente mi interrompe e mi dice “Lei legge
le carte…”
Un po’ stupita gli rispondo che se non leggo non capisco e se non capisco non so come poterli aiutare.
Lui mi guarda e sorride “E’ la prima che le legge le carte…siamo stati da tante persone in questi mesi ma non
le ha mai lette nessuno… le sfogliano… e poi dicono che non c’è niente da fare, vero Sandra?”
Rimango spiazzata, senza parole.
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Una azione tanto naturale - e se vogliamo scontata - quale quella di leggere dei documenti con attenzione, con
la volontà di capire e dare delle risposte pertinenti, rappresentava per quell’uomo un elemento nuovo.
Se lo aveva notato, tanto da esternarlo - un po’ stupito e un po’ compiaciuto di quell’interessamento
- mi domandavo quanta indifferenza avesse ricevuto fino a quel momento.
Quella domanda che da un po’ mi ponevo “Quale è il senso del mio lavoro oggi? Mi sono ridotta ad essere una
burocrate a causa della mancanza cronica di risorse?” aveva trovato risposta in quella semplice frase “lei legge
le carte”.
La mancanza di risorse ed il limitato ventaglio di opzioni concrete da poter proporre alle persone ed alle
famiglie fragili ed in difficoltà non mi avrebbero reso una burocrate fin tanto che al centro avessi continuato a
porre la persona.
RICORDI DI TANTI ANNI FA…
di Lucia Francini
Ero una giovanissima Assistente Sociale, avevo appena finito gli studi e mi ero ritrovata a lavorare direttamente
a contatto con l'utenza, che fino a quel momento avevo letto solo nei libri, nei testi universitari, e visto al
cinema o in televisione, soprattutto in quelle fiction di produzione italiana, dove i poveri, i malati ed i
protagonisti sono sempre buoni e comprensivi e c'è sempre un lieto fine ma la realtà dei servizi mi sorprese.
Erano gli anni novanta e non avevo mai pensato, pur con i miei studi e le mie sensibilità, alla realtà e alle vite
delle persone marginali e nascoste. Venire a contatto con la parte più fragile e povera della società fu davvero
un'esperienza importante e significativa per una giovane donna, quale ero io in quegli anni.
Avevo fatto una tesi sulla povertà e nell'onnipotenza dei miei ventanni, pensavo di sapere tutto, invece non
sapevo proprio un bel niente!
Una mattina si presentò al Servizio una persona che viveva una situazione di grave sofferenza personale e
sociale, abitava in una baracca, proprio una baracca, ma non di un paese lontano ed estraneo, ma di un ricco
borgo della mia Toscana. Già vivere in una baracca era per me abbastanza inusuale, questa vità, così fuori dalla
normalità, mi spiazzò, rimasi molto colpita. Questo giovane uomo mi mise in difficoltà, da subito, iniziò a
chiedermi cosa fare e quale procedura amministrativa intraprendere per attivare alcuni servizi, come la mensa,
la lavanderia e per ottenere degli aiuti economici. Mi fece sentire molto inadeguata e devo ammettere anche un
po' burocratica. Questo signore ne sapeva molto più di me, era informato su tutto il sistema dei servizi socio-
assistenziali che esisteva e che aveva appreso di poter utilizzare per la sua condizione di senza fissa dimora. Per
cercare di conoscere la sua situazione e per approfondire la sua storia personale (avevo interiorizzato quello
che ci ripeteva a lezione la Professoressa Ponticelli: l’importanza di seguire un metodo, di dare scientificità al
lavoro sociale, di seguire il processo di aiuto), pertanto gli chiesi della sua famiglia, della sua condizione
lavorativa, ma le sue risposte mi delusero, diventò aggressivo ed evasivo, mi fece sentire come responsabile
della sua vita caratterizzata da solitudine ed esclusione sociale.
Parlare della sua situazione lo esasperava, gli toccava qualcosa di profondo che probabilmente neanche lui
capiva, forse era piu’ facile e meno doloroso proiettare sugli altri il suo fallimento, o meglio, il suo sentirsi
spezzato e fallito. Capii così l’importanza delle molte scienze e discipline che costituiscono il lavoro di
Assistente Sociale, già per quella determinata situazione si doveva avere conoscenza di diritto amministrativo,
di organizzazione dei servizi sociali e sanitari, di psicologia, di psichiatria e, infine, avere una conoscenza molto
approfondita dei metodi e delle tecniche del Servizio sociale. Ero ancora molto inesperta per delle riflessioni
più profonde, ma ebbi la
sensazione di una complessità della marginalità, di una sua circolarità: cause di problematiche relazionali e di
disagi intrapsichici, ma anche marginalità come risultato di disturbi psichiatrici, problemi relazionali e di
adattamento sociale.
Marginalità
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Disagi psicologici e disturbi psicopatologici, problematiche relazionali e di adattamento sociale
E’ la circolarità che mi colpì, causa-effetto; effetto-causa, fino il disagio psichico è la causa di marginalità?
Oppure è l’effetto di tale marginalità. O semplicemente è sia causa che effetto?
Rimasi colpita dalle difficoltà insite nel lavoro sociale: ascoltavo, parlavo, facevo colloqui con persone con
problemi cognitivi, più o meno gravi, che soffrivano di disturbi psicopatologici, aggravati spesso da contesti
familiari privi di risorse economiche, con problematiche legate all’abitazione (sfratti, aste giudiziarie, alloggi
fatiscenti e privi di servizi e confort) al lavoro, alla scarsa istruzione, alle inesistenti opportunità di
socializzazione e di attività culturali.
Fu veramente un’esperienza importante e formativa, maturai molto in quei mesi, guardai alla mia vita, alla mia
realtà quotidiana con un pizzico di saggezza in più, mi posi delle domande che probabilmente se non avessi
svolto questa professione non mi sarei fatta. Mi domandai se avessi una preparazione adeguata e una
personalità adatta al ruolo che stavo ricoprendo, ebbi dubbi, perplessità, ma a distanza di più di venti anni mi
ricordo ancora molto bene le sensazioni ed emozioni avute in quel colloquio. Vorrà pur dire qualcosa?
O no?
TESORO NASCOSTO
di Margherita Salines
In quei giorni sembrava che una maledizione si fosse abbattuta sulla città. la pioggia non ne voleva sapere di
interrompere il suo impetuoso scrosciare.
Avevo rimandato per la seconda volta il colloquio ed ora, che era ricoverata in ospedale, non potevo
esonerarmi da tale impegno. Più mi avvicinavo al reparto e più mi sentivo invasa da una strana sensazione ,
come se mi venisse a mancare l'aria. Gerarda si confondeva con il candore delle lenzuola che le coprivano
parte del volto. Le palpebre, lasciavano un piccolo spiraglio, quasi per rispondere ad un senso del dovere nei
confronti del mondo esterno, quasi per far intendere al personale medico che ancora non era giunto il
momento del trapasso.
Ora che sono vicina la osservo con attenzione: le dita divenute minute e sottili non si vergognano nel mostrare
i rigagnoli viola sul dorso delle mani. Le labbra, asciutte, si muovono in modo impercettibile a ripetere
antiche litanie per aggraziarsi il Padreterno affidandogli l'unica cosa che ogni essere vivente al termine della
vita può concedere: la propria essenza. E’ proprio questo dubbio esistenziale, che ti assale nel momento in
rimetti i conti, ti spinge a far pace con te stesso e con un' Entità Astratta verso la quale abbandonarsi.
Com'è assurda la vita! una nullità , una minuzia nell'arco temporale. Solo in questo momento mi sono resa
conto come la persona che tanto temevo, nel momento in cui arrivava al servizio inasprita e riottosa, sia ora
in balia degli altri come un sacco vuoto al vento.
Sono questi sprazzi temporali dove l'individuo acquisisce tutta la sua preziosità; e tu che ancora sei nel mondo
reale confidi nella sua saggezza ultima perché maturata nell'Essere nuda davanti alla Morte.
La conoscenza con Gerarda risale a molti anni prima. Nel momento del passaggio, a causa di un ennesimo
sfratto per morosità, la collega sentenziò la categoria dove si collocava il nucleo ed alla quale potevo
riferirmi nel qual caso fossero emersi ulteriori dettagli compromettenti a scapito della professionalità: nucleo
multiproblematico.
Gerarda: Un matrimonio e due convivenze fallite alle spalle. Tre figli di cui due nati dalla prima relazione. La
vita si era presa beffa di me, mi faceva rispolverare il Codice Civile con l'intreccio dei parenti , fratelli uterini
che si intessano a fratelli consanguinei per poi rapportarsi con fratelli germani. Si alternavano nell'albero
genealogico come la catena del DNA, rispecchiandosi nella vita originaria di Gerarda per poi riproporsi in
modo identico in quella dei figli. Si ripeteva l'evoluzione dei percorsi come in un gioco di scambi. Donne perse
per lo stesso uomo, donne che coalizzavano e si azzuffavano, donne vittime e predatrici.
Il primogenito, Federico, lasciava presagire, in seguito ad un'esperienza di lunga durata di affidamento etero
familiare, una vita pressoché regolare ed equilibrata. Con le orecchie "appizzate" desiderava che il fratellino
fosse allontanato dalla madre perché incapace di coccolarselo e di curarlo. In grado di trasmettergli unicamente
sensazioni gelide, le stesse sensazioni che lui provava quando piccolino trascorreva le lunghe giornate invernali
con una copertina addosso per sostituire la stufa mal funzionante.
La secondogenita, Valentina, “tarantata” per natura. Scattava ogni qualvolta le ricordavi che esistono regole
che normano la vita familiare e quella comunitaria. Niente da fare! Le stavano troppo strette, troppo
oppressive per una preadolescente abituata ad essere ripresa raramente o solo quando Gerarda si ricordava
che fra le tante funzioni di madre ci doveva essere anche quella educativa. Il nucleo affidatario di Valentina
aveva pensato bene di rispedirla al mittente, dopo un breve periodo quando aveva cominciato ad opporsi,
come solo lei sapeva fare. Cambiava le comunità quasi come le mutande e ritornava sempre al punto di
partenza : dalla madre, per non rischiare la deriva. Le poche volte che arrivavano al servizio insieme, Valentina
si faceva seria e assumeva un’aria di sfida , non si sarebbe fatta scalfire da nessuno.
Il terzogenito Marco, lo voleva tutto per sé.! Gerarda mostrava i denti come una leonessa che “protegge” il
suo cucciolo appena nato per poi lasciarlo in preda agli eventi appena più grandicello per imparare a cavarsela
da solo come Madre Natura impone. Peccato che non riuscisse a comprendere che il suo cucciolo d’uomo
non ha gli stessi tempi di autonomia di un cucciolo della specie felina.
Stranamente Gerarda , durante i colloqui, appariva quasi orgogliosa dei drammi del passato, li evidenziava
come cimeli, e per il futuro sperava in un’esistenza più interessante per potersi riscattare più come donna che
come madre.
Oggi, in ospedale, Gerarda non sembra più la stessa. I suoi occhi velati me li sentivo addosso. Ho accennato
un sorriso, rimanendo in silenzio quasi a riavvolgere la matassa con un filo invisibile che andasse a ritroso su
una relazione intessuta nel tempo. Con le poche forze rimaste , Gerarda, fa emergere quanto di più prezioso
aveva preservato nello scrigno dell’anima.
“ Ascoltami…………so bene di non aver condotto una vita regolare Di non aver dato ai figli
ciò di cui avevano bisogno. Solo Iddio sa, quanto rimpianto mi porto dietro! Solo ora mi chiedo perché non
li ho ascoltati, perché non li ho confortati………….Mi sento di averli traditi e con loro ho tradito anche la mia
vita. Ma Iddio sa quanto li ho amati …. A modo mio… Federico e Valentina, ormai sono grandi e possono
cavarsela da soli ma Marco no ! Marco è piccolo e possiamo fare ancora tanto. Marco mi preoccupa e tu devi
provvedere a lui!”
Ormai Gerarda , come un fiume in piena, continuava a parlare quasi avesse il timore di trascurare qualche
particolare e preoccupata che non potessi cogliere l’importanza delle sue parole ogni tanto, si sforzava di
stringere la mia mano quasi a richiamare l’attenzione.
“” Io lascio questo mondo, ma tu mi devi promettere che scriverai in Tribunale affinché Marco possa rimanere
da Giulia ( affidataria part-time) per tutta la vita. Le deve fare da mamma e offrirgli quello che io non sono
stata in grado di dargli………… Mi devi anche promettere che Marco continuerà a vedere i fratelli ed il padre,
ma non lo lasciare da lui…….. Aiutami, perché so’ che puoi farlo ”
Terminata la “ confessione” ha voluto sigillare il colloquio con un giuramento, come un bambino che deve
mantenere un segreto importante.
Ho raccolto queste confidenze come un “ testamento spirituale “ con l’orgoglio di essere stata la prescelta
rispetto anche ai parenti più cari. Io che ho sempre creduto di non rappresentare niente per lei se non un
riferimento istituzionale su cui scagliare rabbia e quanto di più immondo è presente nelle vite fragili e desolate.
Due giorni dopo, Federico mi ha chiamato annunciando il decesso della madre. E, solo dopo mesi, mi ha
confidato, con le lacrime agli occhi, di portarsi dietro un grande fardello : quello di non aver avuto il tempo
necessario di ricucire con la madre un legame come invece aveva sempre desiderato e sognato.
Questa storia, semplice e dolorosa, ha l’intento di far conoscere a Marco che aldilà di un’apparente fragilità e
superficialità si possa nascondere un grande coraggio di amore. Glielo devo.
UN COLLOQUIO PARTICOLARE (2)
di Maria Magherini
L’anno è il 2016 ed erano trascorsi esattamente 30 anni da quando una commissione di docenti universitari mi
aveva valutata e dichiarata idonea per svolgere la professione di assistente sociale.
Erano trascorsi anche 28 anni da quando avevo iniziato l’attività e nel corso di questi anni avevo assistito ai
cambiamenti che hanno fatto la storia del servizio sociale, così come si presenta oggi:
il passaggio da un approccio di tipo “riparativo” che avevamo appreso durante il corso di studi, ad una
modalità di lavoro “per progetti”; da operare sul territorio ricoprendo tutti gli ambiti di intervento, a lavorare
specializzandosi “per settori”; da una dimensione lavorativa chiusa ai confini del territorio comunale, ad un
allargamento dei confini operando in ambiti territoriali ampi come la società della salute, zona asl, ecc.
In questi 28 anni ho prestato servizio prevalentemente nello stesso comune, dietro ad una scrivania (o dentro
alle case della gente, o nelle strutture di ricovero, o in qualunque altro posto si trovassero) ad ascoltare i
problemi delle persone.
Lavoro in una zona periferica rispetto alla città e confinante con un’altra regione, insieme a colleghe dipendenti
a tempo indeterminato della asl o dei comuni come me, oltre a numerose colleghe prevalentemente giovani,
assunte tramite cooperativa o agenzia interinale, con contratti a tempo determinato.
Ogni anno centinaia di persone raccontano, a me e alle mie colleghe la loro vita, i loro problemi e le difficoltà,
la loro storia e quella delle loro famiglie e ad ogni colloquio ci sono occhi che ti guardano ed esprimono ciò
che hanno dentro (disagio? furbizia? rassegnazione? depressione? aggressività?), oppure che evitano di
incrociare il nostro sguardo; mani che non riescono a stare ferme, parole dette e taciute, espresse direttamente
o sottintese, a volume alto, altissimo da spaventarci o talmente piano che un’auto che passa per strada le copre.
Spesso ci sono tensioni, tante tensioni; con i genitori, con i figli, con i fratelli, con i vicini…
Le risposte da dare non sono molte: “…facciamo una richiesta di valutazione, poi vediamo cosa decide la
commissione…” oppure “…possiamo mettervi in lista per il servizio e appena tocca a voi, vi chiameremo…”.
I discorsi vengono ripetuti, da parte nostra e sono simili; in una mattinata di sportello o di appuntamenti anche
4 o 5 volte, sempre uguali. Non tutto è però uguale, c’è qualcosa che cambia ogni volta: la persona che ti sta di
fronte ad esempio, le sue caratteristiche, la sua storia, il desiderio di raccontarsi, quello di metterti a conoscenza
dei dettagli significativi della propria esistenza e poi la situazione in cui si trova, l’assenza di mezzi o il bisogno
assistenziale, la capacità
o meno di rappresentare una risorsa, di farsi carico, di essere care-giver o al contrario il volere che sia lo stato a
fornire l’assistenza al proprio familiare, pretenderla da noi servizi che sennò “cosa ci state a fare….”.
Ogni volta possiamo trovarci davanti persone dignitose, che hanno fatto tutto ciò che potevano per aiutare i
propri familiari/conoscenti/vicini ed altri che al contrario, non hanno più rapporti da anni ad esempio con i
propri genitori e che il più delle volte da noi non vengono ma dobbiamo cercarli noi e non sempre con
successo.
Talvolta però a cambiare è anche l’ambiente nel quale il colloquio si svolge, la stanza, la presenza o meno di
colleghe.
Da diversi anni lavoro in un ufficio che mi riempie di orgoglio e che si trova appena all’interno del palazzo
comunale; vi si accede per una mezza scala secondaria, ma proprio per questo è estremamente più tranquillo
degli altri: ampio, luminoso, era in precedenza la stanza degli assessori e gli arredi erano stati pensati per loro,
più che per le assistenti sociali; anche se a qualcuno sembrano austeri, per me hanno un valore quasi affettivo e
oramai ci sono abituata.
Condivido la stanza con una collega a tempo determinato da tantissimo tempo e nel 2016 avevo già visto
passare molte assistenti sociali che avevano trascorso in mia compagnia alcuni mesi o alcuni anni di
professione. E’ questa la stanza dello sportello sociale, dove le persone si rivolgono al servizio la prima volta
con accesso libero settimanale, oppure, se già in carico, con appuntamento fissato direttamente con ciascuna di
noi, siamo infatti complessivamente in 3, una per ogni settore d’intervento.
In questo ufficio rappresento l’elemento di continuità, ho una mia postazione che utilizzo in prevalenza io ed
ho potuto organizzarla a mio piacimento, così come lo schedario e gli armadi. Ritengo che la parte di stanza
dove trascorro la maggior parte del mio tempo lavorativo sia “il mio ambiente”, il posto dal quale mi sposto
volentieri per visite, riunioni o incontri con le colleghe, ma nel quale altrettanto volentieri faccio ritorno,
rappresenta la mia “base”.
L’alternarsi delle colleghe a tempo determinato nella scrivania a fianco, a volte, ha fatto vacillare questa mia
stabilità, perché ad ogni nuovo arrivo si doveva “ripartire da capo” e fornire tutte le indicazioni necessarie
affinché potessero orientarsi in una comunità per loro sconosciuta, che seguiva regolamenti e percorsi per loro
nuovi, ecc….Premetto che la cosa non mi disturbava, anzi, a volte le esperienze che le nove colleghe mi
riportavano erano uno stimolo per fare qualche passo in
avanti e apportare qualche modifica al mio modo di lavorare e addirittura per proporre modifiche di carattere
generale. Non sempre però con la nuova collega riuscivamo a capirci subito e poteva risultare faticoso dare
loro le informazioni necessarie e contemporaneamente portare avanti il mio lavoro, oltre ad organizzarci per
l’utilizzo dello spazio per i colloqui, per l’utilizzo dell’auto di servizio e per fornirci le eventuali rispettive
comunicazioni relative agli utenti che in assenza dell’una o dell’altra ci avevano contattato; tuttavia nel 2016
cioò non è stato affatto faticoso.
Quell’anno ho avuto la fortuna di condividere l’ufficio con una collega che mi ha restituito molto di più di
quanto io abbia dato a lei. Una collega giovane, ma molto motivata alla professione di assistente sociale, con
un po’ di esperienza, quanto bastava, sul sistema informativo e con forte desiderio di imparare.
Quando è arrivata nel “mio” ufficio, condividendo la stanza prevalentemente nei giorni di lunedì e martedì, ho
iniziato a darle le informazioni necessarie per lavorare e mi sono prestata volentieri in questa attività perché
sentivo che era una collega tranquilla, mi ascoltava sempre con attenzione e non poneva l’accento sulle mie
lacune (che pure ci sono nonostante i 28 anni di attività) ma al contrario, cercava insieme a me le risposte. Ci
siamo scambiate un minimo di informazioni sulle nostre rispettive storie e talvolta il lunedì ci soffermavamo a
raccontarci qualcosa su come avevamo trascorso il fine settimana.
Notai subito che era molto sveglia, brillante, sapeva ascoltare le persone oltre ad avere una forte personalità,
non perdeva tempo con discorsi inutili, arrivava diritta allo scopo.
Una mattina, lei si occupava dei minori del comune dove lavoro e del Punto Unico di Accesso alla ASL, rimasi
in ufficio mentre riceveva un utente per una dimissione ospedaliera. Abitualmente quando riceviamo persone
su appuntamento utilizziamo la stanza dei colloqui che si trova sullo stesso piano ma in un altro corridoio, ma
in quel periodo eravamo in ristrutturazione e la stanza suddetta non era disponibile. Rimasi pertanto in ufficio
anche io, non avendo a mia volta colloqui in corso. Dalla mia postazione, immersa nell’inserimento delle
pratiche per la commissione assistenza, la riuscivo ad osservare e mi tenevo pronta qualora avesse bisogno di
qualche informazione che ancora non le avessi fornita.
Aveva un modo di condurre i colloqui particolare, un atteggiamento che valutai subito “vincente” da un punto
di vista professionale: era la frazione di tempo (pochi secondi) che si prendeva prima di dare una risposta
all’utente. Aspettava che la persona finisse di esprimere il proprio problema o
dubbio sull’intervento da fare per migliorare la situazione del familiare ricoverato prossimo al rientro a
domicilio e poi non diceva subito cosa poteva fare, lei aspettava un attimo e anziché far spazientire
l’interlocutore e fargli dubitare se sapesse o no la risposta, in realtà dava una maggiore autorità a ciò che stava
per riferire, si faceva capire meglio perché con quel breve silenzio riusciva a guadagnare una maggiore
attenzione da parte dell’utente e la risposta che poi arrivava era il risultato di quella brevissima pausa di
riflessione. Notai che in questo differiva da me che, sentendomi forte degli anni nei quali ricopro questo ruolo,
rispondo d’impulso alle domande degli utenti, con risposte spesso standardizzate e non sempre riesco a farmi
capire.
Ho provato a copiare questo suo modo di condurre il colloquio, ma mentre a lei veniva naturale, per me era
una forzatura e in breve tempo l’ho abbandonata, pur mantenendone il ricordo.
Gli ultimi giorni che ci siamo viste mi diceva di essere molto stanca….Sento che con lei ho fatto un po’ di
strada, ma avrei voluto farne di più.
Le numerose colleghe a tempo determinato che si sono alternate sulla scrivania a fianco alla mia, prima e dopo
di lei, hanno tutte “spiccato il volo” e altre lo faranno prossimamente, d’altra parte è giusto che sia così,
ognuno deve trovare il posto giusto per il futuro che le attende: alcune si sono specializzate, hanno trovato
incarichi stabili o migliori, più vicini alle loro case, altre si sono sposate oppure hanno avuto figli o entrambe le
cose; c’è chi è tornato nella regione dalla quale proveniva e non ci siamo più riviste, manteniamo un flebile
contatto tramite i social, altre sono andate a lavorare in città, le riabbracciamo volentieri in occasione delle
riunioni sovra-zonali quando capita che ci ritroviamo e ci aggiorniamo su come stanno procedendo le nostre
vite, il nostro attuale lavoro…
Lei invece, è l’unica ad essere rimasta con noi, tutti i giorni, perché ha ancorato saldamente le sue radici nel
cuore di ciascuna di noi.
La mattina appena entro al lavoro apro il cassetto della scrivania dove ogni giorno colloco il cellulare di
servizio, l’agenda, le penne e in mezzo agli “strumenti di lavoro” trovo la tua foto, ti mando un pensiero e ti
affido la giornata lavorativa che mi appresto ad affrontare e sento che ci sei.
SENTIRSI POVERI
di Maria Teresa Asti
Stavo per chiudere la porta dell’ufficio, in un tardo pomeriggio invernale, quando una voce maschile irruppe
con un :”buona sera”. L’uomo era piuttosto avanti con gli anni, difficile dire esattamente quanti, ben vestito,
un’ eleganza sobria, indossava un cappotto color antracite, sciarpa, immagino di cachemire, annodata come
fosse un foulard maschile ed un cappello intonato al cappotto. La camminata tradiva una certa inclinazione
della schiena, ma da fermo assumeva una perfetta posizione eretta. Si tolse il cappello, mostrando una chioma
bianca, ancora folta, mi porse la mano in cenno di saluto dicendo:” buona sera sono Sergio Turini, mi scusi per
l’orario ma non riuscivamo a trovarla. Lei è Malvani, l’assistente sociale del quartiere centrale?”
L’accompagnavano due signori anch’essi piuttosto ben vestiti che, alla mia risposta positiva, liquidò dicendo: “
Grazie, voi aspettatemi fuori”.
Inutile mentire quel nome era piuttosto conosciuto in città, ma se fosse stato lui non era possibile immaginarlo
negli uffici del Servizio Sociale. Forse un caso di omonimia.
“Si accomodi, in cosa posso aiutarla?”
Lui si accomodò, appoggiò il cappello sulla scrivania, allentò alcuni bottoni del cappotto e mi disse:”io non ho
più nulla, mi hanno tolto anche la casa, ho una pensione ridicola, come vede un’età avanzata, sono vedovo e
non ho figli, ho dei nipoti, quelli che mi hanno accompagnato. Ho lavorato una vita, solo Dio sa quanto ho
lavorato ed adesso che ne ho più bisogno lo Stato mi ha tolto tutto. Quindi ora lo Stato deve provvedere a
me”.
“Ha uno sfratto?”
“No vivo a casa di mio nipote”. “Si è trasferito da lui?”
“No, è la casa dove ho sempre abitato solo che adesso è di mio nipote. Come le ho detto io non ho più nulla”.
“Ho capito, quindi vive da solo”.
“Si completamente solo. Come le ho detto sono solo e non ho più nulla sopravvivo grazie al buon cuore dei
miei nipoti e questo lei capirà io non posso permetterlo, almeno non più”.
“Quanti nipoti ha?”
“Due, sono quei due ragazzi che mi hanno accompagnato. Lei sa cosa mi è accaduto?” A quel punto ho
abbozzato un “ Non so, ma lei è Turini della Turini manufatti?” “Esatto vedo che mi conosce, quindi sa cosa
mi hanno fatto.”
“Beh per sommi capi, nella nostra zona le grandi fabbriche sono poche, quello che si è letto sui giornali, che
l’azienda è fallita, molti disoccupati”.
“Quindi saprà anche che mi hanno accusato di fraudolenza”. Scandì bene quella parola f r a u d o l e n z a.
“Lo sa cosa vuol dire? Vuol dire frode, vuol dire che hai fregato, che sei stato disonesto”.
Da quel momento il tono della sua voce si fece alterato e cominciò a raccontare …che dopo trent’anni di
onorata carriera nei quali aveva portato lustro e lavoro alla nostra terra … … e quanti ne aveva conosciuti di
sindaci, prefetti, vescovi, politici, direttori di banca …… e quanto aveva fatto per la città, per la casa di riposo,
persino per la squadra di calcio. Poi le cose si erano fatte difficili, ma tanto difficili, il mondo intorno era
cambiato alla velocità della luce, dove prima guadagnavi dieci non ti rimaneva due .Ogni azzardo, ogni sbaglio
poteva essere fatale, un errore e ti rimangiavi il guadagno di un anno.
Nel parlare si era seduto sul limitare della sedia e scandiva le parole con gesti della mano quasi a volerli toccare,
quei ricordi :”La notte non dormivo più e di giorno avrei voluto dormire per non vedere ciò che mi stava accadendo. In quei
momenti, non ti fidi più di quello che ti viene detto, devi fare delle scelte così difficili che ti passa persino la voglia di mangiare. Poi
di mezzo non c’è solo la tua di vite, c’è la responsabilità per le persone che lavorano per te, con te, da anni, alcuni da sempre,
dall’inizio. Alcuni sono i tuoi migliori amici. Sei padrino dei loro figli”.
Si calmò riportò le spalle allo schienale, le mani sulle gambe e continuò a parlare:” Certo degli errori li ho fatti. A
volte mi trovavo in situazioni in cui o facevo un errore o ne facevo un altro. Perché i conti non tornavano più. E continuavano a
non tornare qualunque cosa io facessi. Il mio telefono era sotto controllo,mi hanno assegnato un curatore fallimentare, una persona
sconosciuta a cui lo stato ha detto ora comandi tu, Turini non è più nessuno. La posta arrivava a casa in ritardo e con le buste
aperte: prima le leggeva lui, il curatore, poi tu. Gli amici mi voltavano le spalle, non arrivano più inviti, sparito il calcio, il Club,
puff. Ma se li incontravo per strada no, per strada erano tutti comprensivi, solidali e soprattutto terrorizzati che potesse accadere
anche a loro. Ipocriti, maledetti ipocriti. Lo sa che sono stato in carcere? Cinque giorni in un’altra città, neppure la nostra”.
Insomma lui era fallito ma i nipoti no, la sua casa era andata all’asta, ma i suoi nipoti l’avevano acquistata e la
sua ridicola pensione, al netto del pignoramento del quinto ammontava a 1.200 euro. In più aveva tre pronipoti
che rallegravano le sue vacanze di Natale e le estati nella casa al mare, sempre di proprietà dei nipoti. Godeva
di ottima salute e per essere un uomo sulla soglia degli ottant’anni la sua autonomia era pressoché completa ad
eccezione della guida dell’auto che gli era stata preclusa causa un difetto alla vista.
Volendo fare una sommaria valutazione del bisogno sociale, allo stato attuale di bisogni non ce n’erano. Avevo
di fronte un uomo che aveva affrontato un ‘esperienza difficile, per lui traumatica,
ma dal punto di vista sociale non necessitava di alcun intervento. Anzi era forse una delle situazioni più rosee
incontrate nella mia esperienza professionale. Il difficile sarebbe stato farglielo capire.
Spesso accade nel nostro lavoro che le persone che hai di fronte riescano ad evocarti, nel bene e nel male,
qualcosa o qualcuno di intimo, di vicino, seppure, ad una prima impressione non sapresti dire né chi, né che
cosa. Semplicemente attivano dei particolari recettori emotivi.
Forse per questo, in quel tardo pomeriggio invernale, anziché liquidare l’inopportuno richiedente, mi dilungai
in quell’improbabile colloquio.
Lo guardai negli occhi e nel modo più serio possibile gli dissi:” Senta lei è un uomo che ha vissuto, che
conosce il mondo e soprattutto la nostra realtà locale, ha presente quella costruzione in periferia che doveva
accogliere l’impianto termale?”
“Certo un buco nero per chi ci ha investito, c’è stato un momento in cui le terme sembravano cosa fatta. Ma
non è andata così” Mi rispose assumendo per un attimo un piglio imprenditoriale .
Bene quell’enorme struttura viene utilizzata dal nostro Comune per accogliere chi ha una sfratto o chi non
riesce ad avere un alloggio. Si chiama emergenza abitativa, si utilizza in attesa dell’assegnazione di un alloggio
definitivo da parte del Comune .
Mi guardò perplesso “se ben ricordo era un residence non adatto ad accogliere famiglie” “Proprio così , alla
famiglie vengono destinati i bilocali, ai singoli ed alle coppie i mono”. “Beh! Se è per poco tempo, sembrerà
loro di essere in vacanza” Replicò lui
“Certo vacanze che durano in media qualche anno, a volte per sempre”. “Per sempre? Non le credo lei mi
offende”.
La offendo? E i terremotati nei prefabbricati e nei container? Le risulta che dopo pochi mesi rientrino nelle
loro abitazioni? Mi creda qualche anno. Ma l’aspetto peggiore,al di la delle dimensioni dell’alloggio o della
durata, è la forzata convivenza fra persone e nuclei diversi per etnia e provenienza, accomunati da un’unica
caratteristica: il disagio. Disagio economico, familiare e spesso personale. Persone con dipendenze patologiche,
problemi psichiatrici, separazioni conflittuali, gran parte sono quelli che noi definiamo nuclei
multiproblematici. Mi creda vivere in un alloggio di questo tipo per lei non sarebbe una soluzione ma un
ulteriore trauma, ed una profonda umiliazione. Davvero vorrebbe infliggersela?”
“Via lei mi sta presentando il peggio, tutta la zona della 167 ha alloggi popolari e non è certo così degradata.”
Sorrisi, “mi permetta ma lei non è aggiornato, quelli erano alloggi popolari poi divenuti della tipologia “a
riscatto” che adesso non esiste più. Certo che la zona non è degradata sono stati tutti acquistati dagli inquilini o
dai loro eredi. Lei, signor Turini si riferisce ad una realtà che purtroppo
non esiste più, quelli erano i poveri di una società in pieno sviluppo economico, poveri che adesso
definiremmo relativi. Pensi invece ai nuclei che vivevano nelle “casette di via piccola”.
Mi rispose pronto:” Quella era una situazione anomala, se non ricordo male ci vivevano gli alluvionati”
“ verissimo, peccato che l’alluvione sia avvenuta nel 1967. Io ho iniziato a lavorare nel 92 e gran parte dei
nuclei alluvionati non ci vivevano più, ma le casette erano ancora affollate e via via occupate da persone o
nuclei disagiati”.
Non trovò argomenti per controbattere ed io proseguii:” Ora parliamo di soldi” “Bene” disse lui.
Per erogare contributi economici noi necessitiamo dell’ISEE A questa sigla mi guardò con aria interrogativa
Indicatore situazione economica, è un indice che stabilisce il suo livello economico, viene calcolato
gratuitamente dai patronati ed è obbligatorio per accedere a prestazioni sociali educative e socio sanitarie.
…Per intendersi dalla mensa scolastica ai contributi economici anche per le tasse universitarie. Ora
considerando che per l’accesso ad una prestazione economica è necessario un isee che non superi i 7.000 euro
annui.
Lui sgranò gli occhi: “Annui?”
“ha capito bene, all’anno, lei comprende che la sua pensione supera di gran lunga questa soglia e poi mi
permetta:” ma lo sa che il mio stipendio è di poco più alto della sua pensione? Questo è ciò che avrei voluto
dire, invece mi diressi verso lo schedario e gli mostrai la quantità di pratiche, che conteneva.
“Vede questi faldoni? Ognuno è una famiglia o una persona e mi creda, qua dentro sono pochi quelli che
possono contare su 1.200 euro mensili fissi. Alcuni hanno perso il lavoro e non hanno un’età pensionabile,
altri ancora hanno figli disabili e il marito disoccupato, unico reddito il lavoro della donna come badante a
nero. Donne straniere separate da uomini che maltrattavano loro ed i figli e che non provvedono agli alimenti.
Coppie di tossicodipendenti senza più nulla, neppure i denti, unico reddito due pensioni di invalidità ( seicento
euro in due). Ex prostitute ormai invecchiate male ma non ancora in età pensionabile. Rimanevo in piedi
accanto allo schedario tiravo fuori delle cartelle a caso e gli riassumevo brevemente la situazione. 55 anni AIDS
in fase conclamata, nessun familiare, una moglie rumena ed una figlia che non vede da anni in quanto dopo
l’esordio della malattia la donna è rientrata nel suo paese d’origine, unico reddito la pensione di invalidità 320
euro mensili. 46 anni ex carrozziere attività fallita ammalato di sclerosi multipla, separato, una figlia
disoccupata con un bambino affetto da sindrome di down, l’altro figlio lavora all’estero su una piattaforma
petrolifera ed aiuta come può sia il padre che la sorella. Ah! questo signore ha un bello
stipendio, è un dipendente di un ente pubblico, peccato sia stato “ammalato” per anni di gioco d’azzardo
giocandosi tutto ciò che aveva compreso la casa, il quinto dello stipendio e gran parte della quota residua deve
darlo alla moglie e ai figli quale indennizzo per la perdita dell’abitazione di famiglia. Eppure sono tutti poveri
relativi, perché hanno un tetto sulla testa e la possibilità di mangiare. Abbiamo poi i poveri assoluti quelli che si
nutrono grazie alla mensa della Caritas e che quando è freddo si rifugiano nei dormitori”
“E quando non fa freddo?” mi chiese.
“Di solito all’aperto in una tenda oppure nell’auto” “Beh scusi se uno può mantenersi un’auto!”
Sorrisi:”Certo un auto, ma non il bollo e l’assicurazione”.
“Dottoressa, ma lei mi parla dei clochard” mi disse con un tono quasi risentito.
“No signor Turini i clochard, che noi chiamiamo senza fissa dimora o povertà estrema, sono persone che
scelgono di vivere in quel modo, anche se ci fossero alloggi disponibili loro non ci vivrebbero, così come
rifiutano di andare in ospedale quando sono malati. Gli altri invece, quelli di cui le parlo, sono costretti ad
arrangiarsi perché nella scala dei bisogni sociali e data la limitatezza delle risorse di cui disponiamo non
rientrano, oppure sono in fondo alle liste per l’emergenza abitativa o per altri servizi.”
Il mio parlare di povertà assoluta, relativa, estrema, attivò evidentemente anche qualche suo recettore e
d’improvviso mi chiese:” Conosce, Il tesoro dei poveri, di Gabriele D’annunzio?” Rimasi sorpresa “Certo, è un
toccante racconto che mi veniva raccontato quand’ero bambina”.
Bene allora ricorderà le pagine in cui la coppia di anziani senza più né cibo né legna per scaldarsi intravede due
minuscoli bagliori nel camino,sono gli occhi del gatto accoccolatosi nella cenere, ma scambiandoli per braci
accese, i due, si addormentano nell’illusione di quel tepore. L’illusione è il tesoro dei poveri, disse loro il gatto!”
Eccome se mi ricordavo quel racconto. Era relegato in qualche angolo della mia memoria ma quella frase -
l’illusione è il tesoro dei poveri – lo riportò al presente scatenando una tempesta di emozioni e ricordi che
tenni a freno, ma non senza fatica.
La povertà è un’esperienza terribile che né io né lui avevamo sperimentato, seppure, in modi e momenti diversi
avevamo creduto di si.
Ma per non cedere alla retorica dei ricordi, gli citai Steinbeck e quelle pagine di Furore in cui la giovane donna,
anch’essa sfinita e denutrita, offre allo sconosciuto che li ha ospitati nella sua stalla, l’unico nutrimento
disponibile: il latte che ancora le usciva dal seno dopo che il suo bambino era nato morto.
L’uomo si portò le mani agli occhi e disse: “ un libro meraviglioso ma crudo, si, terribilmente crudo,
ambientato negli anni della grande depressione economica del ’29, nel Midwest, il granaio d’America.
Un’enorme siccità e tempeste di sabbia resero le terre incoltivabili, i contadini non riuscirono a pagare i mutui
contratti con le banche e queste li espropriavano delle loro fattorie, così, avendo perso tutto partivano a piedi o
sui carri cercando speranza in California. Allora li chiamavano i nuovi poveri quelli che fino a poco prima
vivevano dignitosamente dei proventi delle loro fattorie che gli appartenevano da generazioni, poi ”.
Fece silenzio guardò pensieroso il buio della sera che aveva invaso la finestra. Si alzò lentamente, mi porse la
mano e con un sorriso educato, che a me parve triste, mi disse:” è stato un piacere averla conosciuta, le auguro
ogni bene.”
Lo guardai andarsene silenzioso lungo il corridoio e pensai che nonostante i suoi ottanta anni, era riuscito a
comprendere la differenza, a volte abissale, che passa, tra l’impoverire e l’essere povero.
SINCRONICITA’
OVVERO IL COLLOQUIO PROFESSIONALE : D- ISTRUZIONI PER L’USO.
Di Marinella Cataldi
Il corridoio del reparto è lungo:a sinistra le camere, a destra gli ambulatori. In controluce, sagome di donne che
camminano a gambe larghe, dondolandosi.
Nel silenzio gravido di profumi dolci, improvvisa come un tuono, arriva la sua voce.
“Sono tre ore che suono, porca troia. A voi non ve ne frega un cazzo! La schiena mi fa male, punti della fica
tirano e le tette fra poco si schianteranno. Non lo voglio questo schifo, ve l’ho già detto. Mi cola addosso in
continuazione. Si schianteranno, vi dico, e schizzerò dappertutto.
Voglio proprio vedervi, voi e le vostre belle divisine profumate di neonato, a ripulire ogni ben di dio. Questo
non è latte”.
Non dovrei essere io. Non dovrei essere qui, penso. Vengo dal cimitero.
Di tutto quello che è stato mio padre sono rimaste soltanto le sue scarpe marroni e una domanda senza
risposta, sospesa nell’aria profumata di acacia e sambuco di questa mattina d’aprile.
Avrei dovuto andarmene a casa, dopo. Chiedere una sostituzione, invece sono qui. Un’urgenza. Un imprevisto,
ha detto la caposala al numero della reperibilità.
Avrei potuto andarmene a casa a piangere l’orfana che sono diventata una volta per tutte, invece sono qui,
ancora una volta, come ogni giorno, da tanti di quegli anni che non ho più neanche la voglia di contarli.
Fossi stata almeno badessa, mi dico mentre mi avvicino alla camera dove lei continua a sbraitare. Fossi stata
badessa non avrei avuto difficoltà.
Avrei preso il neonato, arrivato sulla ruota beato fra San Giuseppe e la Madonna alla fine del giro. Avrei
frugato nelle fasce alla ricerca del “segno” da conservare negli anni a venire, avrei trascritto in bella calligrafia la
data di arrivo sul registro, il suo nome uguale a quello del santo del giorno e via .
Ma quello scricciolo, quel cucciolo minuto d’uomo che ho visto tremare nella culla un nome ancora non ce
l’ha, né un futuro. E io non sono una badessa. E quella che devo celebrare è un’altra “liturgia”.
“Sono passati otto giorni, sembrava tutto a posto, lei lo andava a vedere nell’incubatrice. Ci chiedeva di
aspettare, ma sembrava davvero convinta. Poi oggi, quando glielo abbiamo portato per allattarlo, manca poco
lo getta a terra. Lui non si attaccava e lei, lei si è così arrabbiata che abbiamo dovuto levarglielo dalle mani. Ora
non lo vuole più”, mi dice la caposala.
Entro nella camera, lei mi guarda. All’improvviso tace e si nasconde sotto il lenzuolo.
C’è un incontro con la morte in questa stanza, lo sento. Si è liquefatto in migliaia di milioni di molecole
impregnando tutto lo spazio e tutto il tempo che è trascorso in questo imprevedibile concatenarsi e incrociarsi
di eventi che qualcuno chiama destino.
Perché è lei, ne sono certa.
E’quella che ho visto girovagare ubriaca e strafatta al concerto l’altra sera.
Quella che si teneva a malapena in piedi, ma riusciva a schizzare impazzita come una scheggia fra l’uno e l’altro
con la bottiglia di vino in mano elemosinando l’ultima tirata o l’ultimo bicchiere in compagnia.
Quella seminuda in canottiera, coperta solo di tatuaggi, capelli rasati, ciocca gialla al vento, che ho visto
vomitare in mezzo al prato, scansata da tutti.
“Sono tre ore che suono”, mi dice da sotto il lenzuolo. “Te chi cazzo sei?”.
Non dovrei essere io. Non dovrei essere qui. Proprio oggi.
L’impulso è quello di scappare. I “paramenti” dell’assistente sociale: ascolto, empatia, fiducia? Non ho avuto il
tempo di mettermeli addosso.
Come faccio a separare fine e inizio? Il respiro della vita che qua dentro vortica con quello della morte.
Invece mi metto a sedere sul letto e aspetto in silenzio. E’l’unica cosa che riesco a fare in questo momento.
Dopo un po’di tempo,da sotto il lenzuolo spunta una mano alla ricerca del campanello.
“Lo suono io”, le dico e le fermo la mano. Lei tenta di sottrarsi, ma io gliela stringo. Poi si gira nel letto. La sua
mano nella mia.
Ha dita lunghe, nervose. Belle. Unghie rosicchiate.
Intravedo la sua ciocca di capelli E’ ancora più gialla di quella che ricordavo.
Tutte le domande classiche, le domande di rito – se sa chi sono, perché sono qua, come si sente e bla, bla, bla-
mi sembrano inutili per iniziare. Lo sa benissimo chi sono, tanto che non chiede perché nessuno abbia risposto
alla chiamata.
Nel silenzio guardo la sua mano nella mia. O la mia nella sua, mi chiedo. E imprevista, improvvisa - odore di
acacia e sambuco- arriva la domanda, tanto che la voce mi sembra quella di un’altra e non la mia.
“Secondo te perché mio padre le scarpe marroni le chiamava gialle?”, chiedo a un lenzuolo che tace
ostinatamente. A me stessa? Non lo so più neanche io.
“Quando muoio mettetemi quelle gialle di scarpe, diceva sempre. Le scarpe gialle. Le ho prese oggi dalla
tomba. C’erano rimaste solo quelle. A me il giallo ricorda mio padre. A te?”
Eccolo. Un movimento, uno solo, impercettibile sotto il lenzuolo. L’ho incuriosita? Di nuovo non lo so e non
so neanche se voglio saperlo.
“Il giallo era il mio colore preferito da bambina. Mia madre racconta che coglievo solo fiori gialli. Il colore dei
tuoi capelli, per esempio?”, continuo.
“Fa schifo”, dice il lenzuolo, ma il suono della voce è come uno schiaffo. Un morso improvviso alla lingua.
Una storta a un piede. Prima pensavi ad altro e ora c’è questa cosa, questo schiaffo, questo morso improvviso
alla lingua, questa storta a un piede che ti fa pensare ad un’urgenza , a una cosa da fare qui e ora.
Immediatamente. E la cosa da fare è pensare a lei.
“Pensi che piacerebbero a tuo figlio i capelli gialli?”, le chiedo allora, senza giri di parole. “ Se gli piacevo si
attaccava”, dice ancora il lenzuolo.
“Non tutti i neonati lo fanno subito”, dico. E di nuovo , all’improvviso”Il mio non l’ha fatto, per esempio”.
Ed è inutile che mi chieda, ancora una volta, cosa cazzo sto facendo. Ormai sono un fiume in piena.
Troppo vicina alla vita. Troppo vicina alla morte.
“ Quando mio padre è morto ero incinta di tre mesi”, mi ritrovo a dire.
“Tutto è successo nello stesso istante. Mio padre entrava in coma e io vedevo per la prima volta mio figlio.
C’erano pochi metri fra il suo reparto e questo. Esco un attimo, solo un attimo,gli ho detto.
Lui mi ha sorriso. Per l’ultima volta. Ho partorito, ma non c’era più. Mi sono sentita sola come un cane “.
“Il mio è stato uno stronzo, invece”, dice ancora il lenzuolo, mentre la mano libera si alza lentamente per
spostarlo dal viso.
Io non mi giro. Non so se è tattica, sedimentata nell’inconscio collettivo della professione, o solo pudore
d’aver fatto e detto tutto quello che in un colloquio non si dovrebbe dire e fare.
Con una mano si aggiusta il ciuffo, con l’altra sento che stringe ancora più forte la mia. “Il mio è stato uno
stronzo”, continua.
“Mi sono mancate le sue minestre, la sua parmigiana, le sue verdure fritte nella pastella”, dico. “Ma poi tuo
figlio l’hai allattato?”, chiede lei”
“E’ sempre stato un mangione, come mio padre. Con quell’ecografia deve avergli lasciato il testimone”,
rispondo.
“Io ho poppato anche da grande ”, dice lei. Ora il lenzuolo ha una voce pulita .Si muove? O è solo la sua mano
sul viso?
“Come ti chiami?”, chiedo.
”Rebecca, come la prima moglie”, dice. “Lo conosci?”
“Lo leggeva sempre mia madre. Anche a voce alta, anche da grande quando poppavo. “ Hai poppato anche da
grande?Com’è?”
“ Ci consolava”, dice. “Da cosa?”
“Quando avevamo il marchese, per esempio. Lui non ci lasciava neanche i soldi per gli assorbenti. Noi ci
mettevamo a letto e aspettavamo che smettesse. La prima volta lei mi mise un asciugamano tra le gambe.
Piangevo, ma lei mi abbracciò e per calmarmi iniziai a ciucciare. Ma anche lei piangeva e anche lei si calmò
quando iniziai a ciucciare. E poi le volte che rientrava ubriaco e giù botte alla prima che si ritrovava a tiro. O i
piatti lanciarti per aria, le tirate di capelli. La televisione spenta all’improvviso quando capiva che una cosa ci
piaceva e…”
“Dov’è ora tua madre?” “E’ morta sei mesi fa”.
“Che stronzata. Quando partorisci sei madre e figlia nello stesso tempo, ma orfana…no”. “Stavamo bene con
mamma. Quell’altro, una macchina l’ha preso in pieno e via. Non abbiamo
neanche pianto Avevo iniziato anche a lavorare. Quello del bar, è stato lui. Un mucchio di discorsi e poi viene
fuori che è anche sposato. Ce lo teniamo lo stesso, m’ha detto lei”.
“E poi?”
“Hai capito dove le è venuto il cancro, sì? Lei non voleva neanche che la spogliassi. Ci guardavamo ed era
come se la colpa fosse nostra se le era venuto lì”.
“E la birra, la coca?Da quando?”
“Avevo fatto morire lei, potevo far crepare anche quest’altro”. “Invece niente”.
“Invece quello ti rimane attaccato come una sanguisuga e te sotto sotto ci speri, anche se ti strafai dalla paura.
Ci speri, ci speri tanto Poi te lo portano e lui non s’attacca. Faccio schifo anche a lui”. “Riprova. Hai ancora un
giorno” dico e esco dalla stanza. Non ce la faccio più, ma ho anche paura d’aver sbagliato tutto.
Invece a metà corridoio “Torni domani?, urla in piedi sulla porta. Io non mi volto.
Alzo la mano e inizio a piegare le dita. Una per volta.
Per il nostro conto alla rovescia.”
IL COLLOQUIO OSPEDALIERO
di Marisa Volpi
Premettendo che un colloquio è sempre “particolare” mi preme sottolineare quanto lo sia se svolto in
ospedale. L'ospedale, un luogo di cura ma anche di sofferenza. Talvolta sulla diagnosi di ingresso di alcuni
pazienti troviamo la dicitura “ricovero sociale”: coloro, che anche in assenza di stati acuti non sono
sufficientemente sostenuti per un rientro nel luogo di dimora (ammesso che ce l'abbiano) o non hanno una
rete protettiva adeguata, per cui l'unica scelta del medico del pronto soccorso è quella del trasferimento in un
letto di degenza. Spesso dopo lunghe ore di attesa al pronto soccorso, il paziente si ritrova in una stanza di un
reparto a condividere i suoi spazi e la sua sofferenza con altre tre/quattro persone, sconosciute, deboli come
lui o anche più. E' qui che il personale sanitario individua il paziente complesso, quel paziente che non
necessita di cure tali da giustificare la permanenza in un reparto, ma che avendo un alto livello di intensità
assistenziale per ragioni sanitarie e/o sociali, richiede un accompagnamento verso la collocazione residenziale
o domiciliare appropriata. Il reparto segnala all'Agenzia per la continuità ospedale territorio (di seguito
denominata ACOT).
L'Acot viene istituita in Toscana con la Delibera GRT 679 del 12/7/16 che prevede un progetto formativo ai
reparti per il biennio 2016/2017, la definizione e i compiti dell'agenzia e la modulistica per la valutazione
multidimensionale del paziente con dimissione complessa. Lo stesso provvedimento ha poi subito alcune
modifiche con delibera n. 995/2018. l'Acot è lo strumento operativo di governo dei percorsi ospedale
territorio e (facendo capo alla Zona Distretto) garantisce la gestione dell’interfaccia Ospedale-Territorio e la
continuità assistenziale del paziente nel percorso di dimissione attraverso una programmazione della stessa. Ha
una équipe multiprofessionale costituita dal Medico di comunità, Infermiere, Assistente Sociale, Fisioterapista.
Gli operatori ospedalieri (d'all'Acot formati) sono tenuti a segnalare quegli elementi che fanno pensare ad un
disagio sociale. Nello specifico: -Persona sola o che riceve visite sporadiche -Persona soccorsa al domicilio con
intervento della forza pubblica o dei Vigili del Fuoco -Persona con evidenti segni di trascuratezza igienica -
Difficoltà per la dimissione, segnalate dal paziente o dai familiari -Nei casi dubbi è opportuno consultare
l’assistente sociale.
Quando arriva la segnalazione, Acot diventa un po' “007”. Controlla sui vari format se il paziente è già in
carico ai servizi territoriali, se viene indicato come persona “sola” controlla se ha figli. Se non è già conosciuto
dai servizi territoriali, il primo passo è raccogliere quante più informazioni possibili dai sanitari del reparto e
per quanto possibile dal paziente stesso se in grado. Da qui nasce l'importanza del
confronto con tutte le figure professionali che ruotano attorno alla situazione. Il medico del reparto esplicita le
condizioni cliniche del paziente al momento dell'ingresso, le condizioni del momento e la prognosi. Una volta
informati circa il grado di lucidità del medesimo incontriamo il paziente. È indispensabile precisare che il
setting è inquadramento, cornice e bussola del lavoro professione, composto da tempi, ruolo, e adeguato
spazio, poiché senza la giusta tranquillità e riservatezza il colloquio diventa di difficile attuazione; caratteristiche
non presenti nel colloquio ospedaliero. È importante mantenere un atteggiamento calmo e entrare con cautela
soprattutto quando il paziente è coricato, avvicinarsi con garbo, dire chi siamo e perché stiamo parlando con
lui, chiarendo infine lo scopo della visita, mettiamo in atto una conversazione confidenziale finalizzata allo
scambio di informazioni. Il tempo è poco, non possiamo pensare al classico colloquio d'ufficio, nella camera
oltre ad altri pazienti che potrebbero ingerire, c'è il personale sanitario, addetti alle pulizie ecc. la malattia può
anche essere di ostacolo al dialogo. In primo luogo verifichiamo se il paziente ha l'occorrente per la degenza,
se igienicamente è trascurato o meno, intanto ascoltiamo attentamente cosa ha da dirci, se ha familiari e dove,
come vive e quale è il suo domicilio, per riuscire a capire la sua condizione, senza prevaricare tanto meno
eccedere nelle domande, sottolineando che siamo li solo per aiutarlo, informandolo sui servizi attivabili.
Successivamente si passa alla fase interattiva, durante la quale si cerca di definire i soggetti da coinvolgere nel
processo di aiuto, soprattutto nel contesto familiare. Se il numero di telefono è nella cartella, contattiamo i
parenti spiegando loro chi siamo e chiedendo un colloquio. Durante l'incontro il setting si adeguerà agli
interlocutori, saranno accolti in un ambiente dedicato e accogliente. È essenziale rimanere se stessi ma è
opportuno “osservare” sempre con occhio vigile, per capire la disponibilità dell'utente/familiare. Chi conduce
il colloquio deve mantenere un atteggiamento pacato e disponibile per dare all'altro la possibilità di aprirsi e
poter esprimere al meglio opinioni e dubbi.
L'analisi delle problematiche sarà seguita dalla fase in cui si fissano percorsi e obiettivi da raggiungere
attraverso la definizione dei compiti coinvolgendo l'insieme degli attori del sistema. Il coinvolgimento
dell'équipe è la vera e propria risorsa del lavoro sociale nei diversi servizi; è il metodo più efficace di operare
per favorire il raggiungimento degli obiettivi specialistici, oltre a tutelare l'operatore da eventuali rischi di
isolamento.
La definizione del percorso di continuità di uscita dall'ospedale potrà essere finalizzato all'ingresso di un
anziano in una R.S.A., all'attivazione di servizi di supporto per il rientro a domicilio di paziente a rischio
non autosufficienza, alla richiesta di disponibilità al servizio “dormitorio” per chi è senza fissa dimora, infine
all'ingresso per un periodo in cure intermedie per permettere ai parenti di organizzare l'assistenza. Durante
questo lavoro si possono conoscere le situazioni più disparate.
Incontriamo una signora che chiameremo Rita. Il personale infermieristico la descrive lucida e orientata anche
se “grande anziana” la quale ha riportato una frattura da trauma. Ci avviciniamo al letto, ignorandone sempre
la prima reazione. E' una bella signora con un viso solare e sereno, appena ci vede allunga un braccio e mi fa
una carezza sulla guancia. Le sorrido e lei con fare da nonna racconta che è caduta, senza incalzarla è lei che si
mette a parlare. E' una donna che nella vita ha cercato di risparmiare proprio per non trovarsi “impreparata”
quando la salute l'avrebbe abbandonata, non ha viaggiato ma ha una bella casa in un luogo noto. Descrivere
questa casa grande, racconta che non ha figli e che vive con il fratello di oltre 90 anni. Anche lui è un uomo
molto in gamba, guida ancora “quelle macchinette elettriche!”. Ha abbastanza risparmi e pensa che potrà
assumere una badante senza problemi. Vedendo che non ci sono numeri di telefono di familiari in cartella le
chiedo se ha un numero di un parente e lei d'istinto senza indugio spara 6 numeri corredati dal prefisso (quello
giusto, della città in cui siamo), “questo è il numero di mio fratello, sa siamo molto uniti, non posso darle il suo cellulare
perché non ce l'ha, lui non capisce molto di tecnologia”. Passa qualche giorno e decidiamo insieme alla signora un
passaggio in cure intermedie perché la paziente aveva terminato l'iter clinico in reparto. La incontriamo
nuovamente per un altro breve colloquio, lei è molto carina come al solito. Sono io a chiamare il numero di
telefono che mi ha dato la signora Rita. Mi risponde un signore con altro cognome. Dopo qualche giorno mi
appresto a tornare al letto della signora dicendole che probabilmente ho trascritto male il numero di telefono
che lei mi ha fornito. A quel punto mi spara altri sei numeri, totalmente diversi dai precedenti. Rimango
perplessa ma non le dico nulla, inizio a chiedermi il perché di questa risposta. Provo a farle altre domande a cui
risponde congruamente. Sto per uscire dalla stanza e all'improvviso mi viene in mente di farle un'ultima
domanda: “Signora Rita pensa che suo fratello se lo chiamo, possa venire nel nostro ufficio??” Lei mi guarda e la sua
risposta è: “non penso, lui lavora....” E' in questo momento che mi si apre un mondo, un mondo che potrebbe
essere veramente tutto diverso da quello raccontato da Rita. Tutte le informazioni che ho raccolto non sono
attendibili, abbiamo costruito un intervento su cosa? Inizia davvero una ricerca di dati e persone non
indifferente; il collegamento con l'anagrafe svela che il fratello di Rita è deceduto 6 mesi prima. Viene chiamato
il medico di famiglia, l'unico che può fornire qualche informazione. Apprendiamo che Rita ha due nipoti di cui
una con
problematiche importanti. Finalmente riusciamo a invitare a colloquio l'altra nipote che in una ventina di
giorni riuscirà ad organizzare un'assistenza idonea a domicilio, per quella zia che invece è stata una donna che
ha viaggiato molto e che ha vissuto con suo fratello per molti anni, quell'unico fratello ormai deceduto da
tempo. Ho riflettuto molto, gli anziani spesso, se cambiano ambiente in età avanzata possono incontrare
problematiche cognitive, lei, la bella signora Rita si è fermata a 6 mesi prima, ella era ancora convinta che suo
fratello l'aspettasse a casa. Ha confuso ricordi con fatti veri e si è creata una sua dimensione, quella che più la
faceva sentire bene e io sono rimasta a parlare con lei, ascoltandola ancora e lasciandola in quell'equilibrio di
serenità.
IO NON SO CHE TU NON SAI CHE IO NON SO
di Massimo Lo Giudice
Duemilatrecento. Pressappoco.
E mi sento sopraffatto. Ho fatto un conto mentre cercavo una storia da raccontare in mezzo a tutti
quegli archivi che sono un terzo della mia vita.
Se considero quelli visti più volte per motivi diversi e in fasi diverse delle loro vite. Se escludo quelli
di cui mi sono occupato senza averli mai visti in faccia. Se sottraggo quelli aperti e richiusi – i
fascicoli, intendo – senza avere mai incontrato le persone che corrispondevano a quelle scartoffie,
posso arrivare a duemila.
Duemila persone incontrate da quando faccio questo mestiere strambo dell’assistente sociale.
Persone di cui occuparsi, persone contro cui puntare il dito, persone da sostenere, vite da
sorreggere, facendo bene attenzione a non portarsele a casa.
Essere umano più, essere umano meno.
Dei duemila, Salvatore era si e no il decimo, forse neppure. Un pallido e maldestro incipit quando il
romanzo non era ancora stato scritto, quando forse mi trovavo giusto al prologo. E mi viene in
mente ora, scartabellando ossessivamente tra tutte quelle cartelle, quando sto per scrivere l’epilogo,
con la pensione dietro l’angolo, e tutto mi scivola addosso untuosamente, non mi rimane un briciolo
di ingenuità, non so più cosa sia il candore dello sguardo e riconosco il cattivo odore dei problemi
delle persone che stanno all’ultima corsia del supermercato, mentre io mi trovo alla prima.
Non ricordo come mai non lessi il fascicolo prima di entrare in carcere. Neppure un’occhiata
distratta, anche per puro caso. Piuttosto languidamente, mi lascio titillare ancora adesso dal pensiero
sciropposo che lo feci per rispetto di un principio
deontologico scopiazzato chissà dove, di sicuro non nella letteratura ufficiale, in base al quale si
rendeva non rimandabile la necessità di presentarsi davanti all’utente come una tabula rasa. Temo
invece che fosse semplice e brutale superficialità e inesperienza giovanile, ma ad ogni modo la mia
tabula era liscia come il sedere di un neonato, levigata e fragile come vetro veneziano.
Entrai all’Ucciardone per la mia terza volta. Da solo. Nessun supervisore. Nessun collega. E la terza
volta all’Ucciardone è come la prima. Quando ci entrai per la decima fu ancora come la prima,
perciò è inutile aggiungere altro su quel tipo di shock. Mi sentivo come un barboncino riccioluto e
immacolato dentro un container pieno di maiali grufolanti e questi maiali non stavano mai fermi.
Travestito tuttavia da mastino napoletano, benché si fosse a Palermo – ma non conoscevo razze di
cani autoctone che potessero soccorrermi allo scopo – entrai fingendo competenza, professionalità
e baldanza, perché fingendo tutte queste cose, metà del lavoro è fatto, mi dicevo.
Dapprima le mura incombenti e nere di smog, poi la prima porta, la seconda, la terza e finalmente la
stanza assegnata agli assistenti sociali. Ricordo un collega grande e grosso che una volta svenne tra la
prima e la seconda porta per un accesso claustrofobico. Ma io arrivai a destinazione anche allora
sorprendentemente incolume e cominciai a far chiamare i detenuti. Prima un tossicodipendente
sputacchiante, sieropositivo e mezzo matto (così mi era stato descritto con terminologia più tecnica,
ma inutile ai fini dell’evitamento degli sputacchi) il quale sosteneva di aver scritto lui, si, proprio lui,
la canzone Evìta (esattamente quella del musical, ma con l’accento sulla “e” e non sulla “i”…); poi
un tizio nordafricano dotato di scarsissima conoscenza della lingua italiana e con le labbra appena
scucite, nel senso letterale di appena liberate dal filo da rammendo che le aveva tenute ben strette
fino a poco prima, dunque praticamente muto (e io praticamente sordo); poi qualcun altro di cui
non ho il benché minimo ricordo; e poi Salvatore.
Inaccettabilmente giovane per quel posto, con i suoi occhi grigi, belloccio e alto fino ad essere
dinoccolato, ben pettinato, ben vestito, per quanto fosse possibile lì dentro, l’inflessione rivelava la
sua appartenenza sociale alla Palermo bene, quella dei borghesi arricchiti. Un’impeccabile
concordanza dei tempi verbali, sciorinata con quella profusione di vocali eccessivamente aperte, mi
impressionò sopra ogni altro particolare.
Non fu necessario spiegare chi ero, perché sembrava saperlo meglio di me, e lo sapeva perché,
anche se non conosceva me personalmente, aveva studiato le competenze del mio ufficio, chi faceva
che cosa, come lo faceva e perché lo faceva.
- E lei invece cosa fa in carcere, Salvatore?
- Sono iscritto a giurisprudenza, dottore.
- Ah bene. E lavora?
- Di tanto in tanto in cucina.
- E le piace?
- Mi serve per guadagnare qualcosa e mi ci impegno.
E cominciò a raccontarmi di quanto si sentiva ben inserito nelle attività del carcere e di quanto si
percepisse stimato dal suo educatore e ben voluto dai poliziotti penitenziari e di quanto gli
piacessero la scuola di musica e gli studi da ragioniere, che per lui erano una passeggiata, considerati
quelli ben più impegnativi dell’università.
Dopo i colloqui precedenti, mi sembrò di stare in un bosco fresco e ombroso di mezza montagna,
né troppo in basso, dove faceva ancora caldo, né troppo in alto, dove mi si alzava troppo la
pressione. Perché non sono tutti così? pensai, come un navigato assistente sociale stanco di tutto,
nonostante fossi appena all’inizio della mia carriera. Era quello il colloquio che mi ci voleva per non
essere costretto a sembrare un cagnaccio muscolare, senza tuttavia sentirmi un batuffolo lanuginoso
con quattro zampette secche sotto.
Perfettamente a mio agio chiesi:
- Da quanto è qui?
- Sono ormai tre anni, ma ancora è lunga - mi rispose.
- Immagino, sì, - feci io - mostrandomi amabilmente comprensivo e del tutto capace di
provare la stessa sensazione di ineluttabilità.
Ma non immaginavo proprio un bel niente, perché quel fascicolo, io, manco con il binocolo l’avevo
visto. E men che meno potevo avere anche solo il fantasma smunto di un’idea di come ci si sentisse
ad avere davanti quella prospettiva.
- E come vanno gli studi? - lo incalzai, col solo scopo di evitare spiacevoli questioni relative
alla dimensione temporale della sua permanenza in quel postaccio.
Fu come se gli avessi chiesto notizie sul suo migliore amico. E quanto era buono e bravo il suo
migliore amico, e quanto era disponibile e bello il suo migliore amico, e quanto era generoso e
allegro il suo migliore amico. Gli studi gli aprivano il mondo di fuori e il labirintico cosmo della
legge era per lui come una casa. E pura poesia.
- È raro incontrare un entusiasmo così contagioso per lo studio qua dentro - dissi come per
blandirlo, e consapevole di farlo con un certo compiacimento.
- Mi piace perché quando uscirò da qui voglio fare il magistrato. Non c’è altra cosa che
desideri: avere la possibilità di amministrare la giustizia con equità e responsabilità.
- Le fa onore - replicai, con un luccichio di piacere negli occhi, di cui si accorse, senza che
minimamente mi sorgessero dentro ulteriori domande sul senso di equità e di giustizia di
un detenuto ristretto lì dentro per una pena che avrebbe dovuto protrarsi ancora a lungo,
tanto a lungo, stando alla sua dichiarazione e non certo ai contenuti della sua sentenza di
condanna, di cui non conoscevo neppure il numero di pagine.
- Ma sa, dottore, non è solo quello, però. Come lei sa dalle sue carte, la mia vicenda
giudiziaria è così piena di intoppi e di questioni non ancora chiarite, che sono stato spinto
quasi naturalmente a studiare per capirci qualcosa di più.
- E anche questo è un punto a suo favore, perché indica un atteggiamento non remissivo -
risposi per glissare la questione della mia presunta approfondita conoscenza delle carte.
- Lei sta svolgendo un ottimo percorso rieducativo - continuai - mi pare di capire che la sua
partecipazione alle proposte del carcere risponde alle migliori aspettative che un operatore
può nutrire, ma non per questo è disposto ad accettare passivamente ogni aspetto del
procedimento giudiziario che lo ha portato qui. E studia per capire, senza subire.
- Si dottore, ci ha visto giusto. E quindi può comprendere il motivo che sta alla base della
mia ferma volontà di far rivedere il processo. Se non raggiungerò questo obiettivo, non
potrò più recuperare il rapporto con mio fratello.
- Suo fratello ha interrotto i rapporti con lei? - chiesi, evitando accuratamente la questione
della revisione del processo, presentendo un pericolo imminente, ma soggiogato dalla
curiosità.
- Si, dopo la vicenda per un po’ è venuto a trovarmi, ma poi ha fatto sapere alla collega che
mi ha seguito prima di lei che non voleva avere più niente a che fare con me.
- E che mi dice del resto della sua famiglia?
- Ma sa, vengo da un famiglia normale. Mio padre era un funzionario della pubblica
amministrazione e mia madre un insegnante al liceo. E mio fratello maggiore è sposato e
ha tre figli, di cui ora purtroppo non so granché.
- E i suoi genitori non vengono a trovarla?
- Dottore… io sarei stato accusato di avere ucciso i miei genitori…
Seguì un silenzio elastico e fangoso, lungo quanto il pleistocene. Anche se, a ripensarci oggi, forse è
durato solo un pugno di attimi.
Lo pregai, anzi no, lo implorai di scusarmi, senza aggiungere una sola parola, uscii dalla stanza,
chiesi che non venisse chiamato nessun altro, perché non avrei potuto sopportare un’altra simile
farsa, perché dovevo sparire riducendomi in un pulviscolo sottile come il gesso, smisi il
travestimento da cane feroce, indossai per penitenza quello di minuscolo cane da compagnia, e me
ne andai con l’inutile coda fra le gambe.
LA BACCHETTA MAGICA
di Maurizio Bigi
“Cazzo, no!”, disse la madre già esasperata dal fatto che aveva scoperto che con la carta del reddito di
cittadinanza non ci si poteva comprare le sigarette.
“Cazzo no!” disse la ragazzina, già esasperata dal fatto che al negozio dei cinesi non aveva trovato il
vetrino di protezione adatto per il suo telefonino.
“Se tu fossi andata a parlare con la Ballosi questo non sarebbe successo”. Disse la ragazza alla madre. “Se
tu fossi andata meglio a scuola questa rottura di palle della Ballosi non ci sarebbe stata” rispose la madre
La Ballosi era la prof. di italiano che, ormai inutilmente, fin dall'inizio dell' anno scolastico cercava di
convincere Noemi della necessità di frequentare regolarmente la scuola, di studiare “ perchè... un giorno
capirai perchè”, di impegnarsi a studiare anche matematica, sempre “perchè un giorno
capirai perchè”.
La tragedia che si stava prospettando loro era quella che avevano sempre temuto e che era stata minacciata
più volte dalla preside già a settembre (“C...o”, aveva pensato allora la mamma, “la scuola non è ancora
iniziata e già si comincia bene”. “C..o”, aveva non solo pensato ma anche detto la figlia di fronte alla
preside, “così non vale, mi dia un po' di fiducia”).
La preside aveva riferito loro di aver contattato gli assistenti sociali perché il rendimento insufficiente e la
frequenza molto irregolare della ragazza nei due anni precedenti ne avrebbero messo a rischio
l'ammissione all'esame di terza media. E, “ visti i precedenti fatti accaduti in
famiglia...” riteneva necessario che i servizi sociali intervenissero.
E' vero, pensò Noemi, il padre se ne era partito da qualche mese, alla fine di un lungo periodo di litigi e
scontri con la madre associati ad un uso sempre più abituale di alcolici (ultimamente) e droga
(praticamente da sempre).
Però a lei quel padre tutto sommato piaceva, si sentiva importante quando la sera, mentre sua madre era
fuori per lavoro, andava a cercarlo al bar del paese o lo vedeva seduto per terra e lo aiutava a rialzarsi e
insieme cercavano di arrivare a casa.
Era stata molto dispiaciuta quando il babbo si era allontanato da lei dicendo che sarebbe andato ad abitare
da un suo amico. Lei lo poteva vedere però ogni tanto, sapendo bene che le sue abitudini erano sempre
quelle : ore 12.00 passeggiata lungo il canale di scarico della città con salita al colle per vedere i vecchi
amici, ore 13.30 birra in piazza, ore 15 ritorno al colle per salutare nuovamente i vecchi amici.
Adesso però Noemi era ancora più arrabbiata perchè oltre a tutto quello che aveva già dovuto passare
sarebbero arrivati anche le assistenti sociali.
Qualcuna la aveva purtroppo già conosciuta, quando insieme alla madre andava a trovare il babbo nelle
varie comunità che lo ospitavano (“Troppe e mai nessuna che gli sia servita per guarire” pensava Noemi).
Il viaggio con l'assistente sociale e con la madre per andare a trovare il babbo era una delle cose più terribili
che ricordava.
Oltre ad auto puzzolenti, senza aria condizionata e sballonzolata per stradine o di montagna o di campagna
doveva far finta di essere interessata a quanto le chiedeva la signora, che invece di chiacchierare almeno si
fosse impegnata a guidare meglio, pensava Noemi.
Mai che una comunità si trovasse in città, pensava sempre Noemi, che tanto era la stessa cosa, (anche se
forse dalla montagna era più difficile scappare). La ragazzina ricordava sempre quella volta quando, appena
accompagnato il babbo in una di queste comunità, al rientro a casa, se lo erano ritrovato, chissà come, già
davanti alla porta dell'abitazione che le aspettava dicendo che non lo avevano voluto perchè si era
dimenticato nella tasca dei pantaloni un “ricordino” dei vecchi amici.
Ora, pensava Noemi, ci si metteva anche questa disgrazia delle assistenti sociali che invece sarebbero
venute per lei e per di più mandate dalla preside e dalla Ballosi ( un po' di ca...i loro no?) e da chissà quante
altre spie che, con la scusa di interessarsi a lei in realtà prendevano nota dei suoi comportamenti e delle sue
abitudini.
“Attenzione alle amicizie su facebook e più cautela nello scambio di informazioni”. Lo aveva detto
quell'esperto del “progetto Cyberbullismo” che ogni tanto veniva a scuola ad incontrare gli studenti.
Noemi si disse che da ora in poi avrebbe agito così, in modo da impedire che i fatti suoi fossero a
conoscenza di tutti,
Il giorno dopo la madre, rientrata dal lavoro, le aveva detto che gli assistenti sociali le avevano già
telefonato e che lunedi le aspettavano entrambe presso il loro ufficio. La madre aveva subito accettato di
andare senza neanche tentare di accampare qualsiasi tipo di scusa per rimandare, spostare o meglio
annullare l'appuntamento.
Mia madre, donna coraggiosa ma fino ad un certo punto, amorosa ma fino ad un certo punto, adulta ma
fino ad un certo punto, mamma ma fino ad un certo punto.
Pur di non andare al colloquio con le assistenti sociali Noemi aveva anche valutato la possibilità di
rientrare lunedi a scuola, come un sacrificio estremo, ma ormai in quell'ambiente si sentiva sempre più
osservata, giudicata ed emarginata, soprattutto dalle carissime compagne di classe che ancora a quell'età
facevano i disegnini nel diario e mandavano bigliettini a quello della terza B.
Che ne sapevano loro di quello che lei aveva dovuto passare e che stava ancora passando e di come lei fosse
già in grado di badare a sé stessa senza che la madre, depressa e angosciata dalla situazione, le dicesse sempre
cosa doveva fare e come vestirsi (o meglio come NON vestirsi) e come comportarsi ?
Dopo l'ennesima notte agitata ed insonne, madre e figlia si presentarono all'appuntamento.
Con sorpresa Noemi vide che in realtà l'assistente sociale era uno solo, era un uomo, anziano -“avrà avuto più
di cinquant'anni”-, pensò Noemi, ma comunque un uomo.
L'uomo disse che avrebbe parlato da solo con me e fece accomodare la mamma in sala d'attesa. Questa cosa
devo dire che mi fece piacere perché di solito ogni volta che c'era da parlare dei fatti nostri si parlava o sempre
tutti insieme o veniva chiamata solo la mamma con le assistenti sociali e gli operatori che seguivano il babbo.
Mi misi a sedere ed ero già pronta al solito patetico tentativo di convincimento a riprendere la scuola.
Avevo già capito come funzionava già dai numerosissimi colloqui che i miei genitori avevano fatto con le
assistenti sociali e che i miei avevano poi commentato a casa.
L'assistente sociale partiva sempre da un approccio bonario e amichevole e poi avrebbe virato verso una velata
minaccia di educatore a domicilio, gruppo adolescenti al consultorio, centro giovani, fino all' ultimo estremo
rimedio della comunità per minori.
Con mio padre le misure prospettate naturalmente non erano queste ma, in ordine crescente, il club degli
alcolisti anonimi, i farmaci o, nella peggiore delle ipotesi, appunto, la comunità.
Invece colui che avevo davanti mi chiese se avevo visto l'ultima puntata de “Il Collegio” in TV e quando io gli
dissi di si allora volle che lo aggiornassi sulle ultime novità dei collegiali poiché era rimasto indietro nella
visione. Rimasi un po' stupita della richiesta ma in effetti la serie mi piaceva abbastanza e mi prolungai nel
racconto condividendo con l'assistente sociale commenti e critiche verso i ragazzi protagonisti della serie. Non
bluffava perché dai suoi commenti si capiva che realmente aveva seguito la serie.
Dal collegio si passò al festival di Sanremo perchè lui mi chiese se mi piaceva di più il vincitore Mamhood
oppure Ultimo e anche in questo caso la discussione che facemmo mi prese abbastanza. Fece molti elogi a
Ultimo e anche io gli dissi che Ultimo era il mio cantante preferito
Il tempo passava, mia madre aspettava fuori, e quando lui disse che il colloquio era concluso quasi ci rimasi
male e un po' sorpresa perchè non aveva fatto neanche una parola sulla scuola e sul fatto che non ci stavo
andando.
Uscii un po' meravigliata e ancor di più rimase meravigliata mia madre quando le raccontai l'argomento del
colloquio. Lei si aspettava probabilmente dall'assistente sociale una terribile brontolata a sua figlia e magari
anche una minaccia di farla andare a prendere a casa dai Carabinieri. “Che tempi” disse mia madre. “Non ci si
può più fidare neanche degli assistenti sociali”.
Cari lettori, volete sapere se ho ripreso la scuola ? Si, e sono riuscita anche a terminare gli esami di terza media,
ma non certo per merito dell'assistente sociale. Che poi a me Ultimo mi fa sc
ONE WAY TRIP
di Ornella Pieracci
E’ una tiepida e pulita giornata di aprile, in ufficio la mattinata è trascorsa stranamente tranquilla e, giunta
al termine, mi affretto ad uscire e a raggiungere la stazione ferroviaria, pregustando l’incontro con Anna,
una cara amica con cui abbiamo deciso di concederci un rilassante pomeriggio di shopping e chiacchiere.
Un breve viaggio in treno, giusto il tempo per addentare un panino e smaltire i rimasugli della mattinata
lavorativa, e sarò a destinazione.
Sto già raggiungendo il binario, quando…
«Dottoressa!»
Trasalisco nel sentire alle spalle quella voce roca e strascicata che ben conosco, che tante volte si è alzata
prepotentemente sopra la mia, che tante altre mi ha rivolto contro accuse e pretese. Oggi suona più leggera
e squillante, direi anche gentile, ma non ho dubbi su chi ne sia il proprietario e che sia rivolta a me.
Mi volto giusto in tempo per vedere Gino correre nella mia direzione, con una espressione sorpresa, ma
anche divertita e incuriosita, per questo inaspettato incontro.
Un borsone sdrucito su una spalla, sull’altra una chitarra ammaccata ed evidentemente vissuta, un’andatura
un po’ traballante – ma comunque svelta – sotto il peso del bagaglio e forse anche delle vicissitudini.
«Parto, Dottoressa! Scendo a casa! Per un po’… anzi, forse ci resto!»
«Ah, bene! Mi sembri contento…»
«Dottoressa, ma che ci fa qui? Prende anche Lei il mio treno? Eccolo! Venga!»
E in effetti il treno sta proprio arrivando, sorprendendomi insieme a Gino e costringendomi –
inevitabilmente - a salire in carrozza con lui.
«Dottoressa, posso sedermi con Lei? Che bello! Così Le dico…»
Mi scuoto giusto in tempo per realizzare che dal fondo della carrozza sta incombendo il controllore, e che
Gino certamente non si è posto il minimo dubbio circa eventuali biglietti da acquistare ed esibire.
Anche Gino probabilmente avverte il pericolo e prontamente individua la mia presenza come la miglior
via di uscita: uno sguardo che aggancia il mio e automaticamente scattano una complicità e una intesa – di
cui Gino non ha minimamente dubitato - che spiazzano me e confermano lui.
«Sono con la Dottoressa!» lo sento proclamare con voce stentorea ed entusiasta al controllore,
mentre io ho già preso dalla borsa non uno ma due biglietti: «Sì, ecco qua…»
Eccoci qua…
Gino, con fare da vecchio amico, mi invita a sedermi nella poltrona ancora libera nello scomparto di
sedili a disposizione doppia nel quale si è appena sistemato.
Il mio imbarazzo di fronte alla sua euforia, la chitarra adagiata di fianco a Gino e protetta da una sua
mano, il borsone abbandonato malamente sulla poltroncina davanti, da dove deborda minaccioso
verso quello che dovrebbe essere il mio spazio di seduta.
Gino è ben consapevole della singolarità della situazione in cui ci troviamo e – non senza
eccitazione - sta valutando tatticamente il da farsi, forse combattuto tra il consueto stile tossico e
delinquenziale e un improvviso e imprevisto impulso di autenticità.
Io mi appresto ad un indesiderato “colloquio” privo di fase preparatoria, con regole tutte da definire
e dove niente sarà scontato: chi lo condurrà, cosa verrà esplorato, quali gli obiettivi, quale la posta in
gioco.
Sappiamo entrambi che le carte favorevoli le ha lui, concentratissimo a studiarmi e annusarmi, per
stanarmi dalla roccaforte del cortese distacco in cui sospetta mi sia rifugiata.
Gino decide per un’apertura da manuale, cercando di mettermi a mio agio e di creare un clima di
fiducia. Inizia così a raccontare di sé, nel ruolo che immagina io voglia che giochi: racconta che
torna dalla famiglia, in Campania, da quella madre che nei tanti racconti ha fatto fuggire, poi morire,
poi tornare in vita, forse nell’inconscia speranza che potesse rinascere, prima o poi, più adeguata e
più madre. Adesso è anziana e con un po’ di acciacchi, forse il bisogno e la solitudine potrebbero
indurla a farlo rimanere da lei.
Mentre Gino racconta, il mio sguardo cerca scampo fuori dal finestrino, dove sfila lentamente la
solita noiosa campagna; nella testa scorrono invece veloci i tanti spezzoni che, nostro malgrado, ci
hanno visti coprotagonisti.
Penso a quante volte mi ha insultato e minacciato, rivendicando presunti e indiscutibili diritti.
Penso a quegli interminabili 50 minuti d’inutile e umiliante mia attesa al cospetto dei colleghi del
Servizio Dipendenze, spazientiti per il tempo perso ma compiaciuti per l’esatta previsione del suo
sleale giochetto, mentre prego un qualche dio di farlo arrivare,
perché non è possibile, dopo tutti gli sforzi e i colloqui fatti…
Penso a quante volte mi ha risucchiato le energie, che gli sono bastate giusto per una manciata di
ore, per essere nuovamente il giorno successivo a reclamarne la dose giornaliera.
Penso a quante parole buttate in relazioni e riunioni, nel tentativo, sempre e comunque, di tutelarlo
e difenderlo.
Ben presto Gino, conscio dalla limitatezza del tempo a disposizione, cambia registro e tenta un
affondo camuffato da confidenza amichevole: «Però Dottoressa, io di Lei non so niente… ma dove
abita? E’ sposata? Non la vedo mai!»
«Gino…» e un’occhiata divertitamente contrariata sostituisce prontamente le parole mancanti e
sancisce la mia resa.
«Lo so, Dottoressa, Lei è molto riservata…» Mi scruta, poi:
«Le posso dedicare una canzone? Aspetti, mi faccia pensare… ecco! Per Lei questa…»
Gli occhi indugiano nei miei, le dita accarezzano le corde, tre accordi mi colpiscono allo stomaco e
un po’ di stordimento alla testa, mentre lo sento cantare:
“There's a lady who's sure All that glitters is gold
And she's buying a stairway to heaven…”
Gino, perché proprio questa? Cosa ne sai tu di me e di questa cara colonna sonora di anni lontani e
giovanili, leggeri e turbolenti? Cosa vuoi? E che diritto hai di piombare così nella mia intimità e
permetterti di far vibrare, insieme ai tuoi accordi, ricordi ed emozioni che credevo ben sopiti?
«Ma anche lei, Dottoressa, non sa niente di me, dico, delle cose belle! A voi interessano solo i
problemi! Ha sentito come so suonare e cantare?»
Poi, sarà il richiamo alle cose belle, sarà l’effetto della meraviglia appena cantata, ecco arrivare il
turno della resa di Gino.
«Ero il più piccolino, gracilino… la mamma mi proteggeva sempre… ecco, sì, più che volermi bene
mi proteggeva: “Chille è ziche, chille nun se sape refend’, chille s’ammala semp’!” Mi sentivo fragile
e sbagliato, un Calimero spennacchiato…»
«…»
Qualsiasi risposta, così come qualsiasi domanda, sarebbe insensata e fuori luogo. C’è solo da
ascoltare…
«Mio padre… padre si fa per dire… con me era un giudice spietato, sempre arrabbiato: “Giggì, fa
vede’ ca si’ n’omme, nun ce pensa’ a mamma e soreta!” Ero l’unico maschio di casa e dovevo essere
come lui e come mio cugino Vincenzo: aveva due anni più di me, era robusto, forte, picchiava tutti,
tutti i ragazzi del quartiere lo temevano e mio padre lo adorava. Vincenzo qui, Vincenzo là… Ho
capito fin da piccolo che invece di me si vergognava, e presto ha iniziato ad ignorarmi, quasi che
vedermi lo facesse soffrire…»
«…»
«Sa, Dottoressa, a me piaceva recitare, sognavo di diventare un attore e rinchiuso in bagno recitavo
allo specchio le poesie e le storie dei fotoromanzi che rubavo alla nonna. Quando mio padre lo ha
scoperto mi ha minacciato: “Giggì ma tu vuo’ pazzià? Che te si fatt’ femmena? Va fore a ghiuca’ u
pallone cumme l’ate, e si te raine mazzate tu ralle n’facce pure a lor’!»
«…»
«Venirmene via era la cosa che più sognavo, sì, più che poter recitare. Quando una zia – avevo sì e
no sedici anni - ha accettato di ospitarmi per un po’ in Toscana, per vedere se riuscivo a trovare
lavoro qua e magari mettere la testa a posto, sono partito senza pensarci due volte. Non sapevo cosa
avrei trovato, ma sapevo bene che non lasciavo niente e nessuno che per me fosse importante, e che
qualcuno avrebbe addirittura tirato un sospiro di sollievo.»
«…»
«Poi, qua…» Gino viene interrotto dall’annuncio dell’imminente prossima fermata, la nostra, che lo
induce a saltare dalla personale storia passata ad un passato molto prossimo che mi richiama in
causa.
«Sa, Dottoressa, gliele volevo dire queste cose perché deve sapere che non sono uno stronzo, sono
uno sfigato… Gliele ho dette anche perché questa volta mi ha dato la possibilità di farlo… sì, devo
dire che oggi che non poteva scribacchiare barricata dietro la scrivania, finalmente mi ha ascoltato.
Vede, senza tutte le domande, le accuse, i consigli – vi odio quando fate i saputelli! –, le insinuazioni,
le minchiate e i fogli che sempre tirate fuori! Ma mi spiega, Dottoressa, cosa cazzo scrivete dentro a
tutti i vostri fogli se poi rifate sempre le stesse domande? Lo sa che è umiliante dover ripetere
sempre le sciagure già dette e ridette?»
«…»
«Sa, Dottoressa, io non ce l’ho con Lei; forse a volte l’ho fatta un po’ arrabbiare, ma anche voi mi
avete fatto incazzare tanto! Ogni volta come con mio padre: sapevo già in partenza che mai lo avrei
accontentato, che mai sarei stato all’altezza, mai un briciolo di fiducia, solo sguardi giudicanti! E
richieste, richieste…»
In un attimo siamo in stazione, quel viaggio che mi ero immaginata interminabile è volato veloce,
annullando spazio e tempo in un presente autentico, in quel qui e ora che tanto teorizziamo, ma in
cui tanto poco indugiamo, nei tempi e spazi angusti dei colloqui professionali.
Il treno è ormai fermo, ci apprestiamo a scendere.
«Ah, senta, Dottoressa, Le volevo chiedere… insomma… siccome i soldi per il biglietto non ce li
ho…»
«Lo immagino… quindi?»
«Quindi… è un no, vero? Giusto… Mi scusi, Dottoressa.»
«Buona fortuna Gino». Buona fortuna Gino…
E’ una pungente e ventosa mattinata di autunno inoltrato, ancora assonnata sfoglio distrattamente il
giornale del bar, finchè, da un trafiletto che non ho la forza di leggere, due iniziali e una località
balzano ai miei occhi e si imprimono nella mia mente, svegliandomi completamente e riportandomi
a quel viaggio in treno.
Butto giù velocemente il caffè più amaro mai preso in quel solito bar, pago in fretta ed esco, guidata
da un impulso difensivo.
Non ho più rivisto Gino, non ho più avuto sue notizie e non ne voglio avere ora.
Voglio solo continuare a conservare gelosamente il ricordo di quell’ultimo particolare colloquio, o
forse, primo vero incontro.
Che tu abbia trovato una scala per il Paradiso. Che tu sia finalmente a casa,