la sardegna sabauda e le insurrezioni di fine settecento

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Il Regno di Sardegna Le origini Il Regnum Sardiniae venne istituito nel 1297 dal Papa Bonifacio VIII, che lo assegnò a Giacomo II d’Aragona. L’effettiva presa di possesso dell’isola da parte degli aragonesi venne iniziata nel 1323 con la spedizione dell’infante Alfonso, che – fra le altre cose – vi istituì il feudalesimo. In quel momento gli Aragonesi accettarono di dividere il territorio dell’isola con i Giudici di Arborea, loro temporanei alleati, ma alla fine del XIV secolo l’alleanza si ruppe ed esplose lo scontro fra l’istituzione autoctona ed il regno iberico. Nel 1409, con la sconfitta degli Arborea nella battaglia di Sanluri, il controllo aragonese si estese a tutta la Sardegna. La Sardegna, associata alla Corona di Aragona, con l’unificazione dei regni iberici (ossia al matrimonio fra Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona, del 1469), entrò a far parte della Corona di Spagna. Il Viceré e il Parlamento Il “Regno di Sardegna” mantenne, comunque, una sua identità istituzionale. Il sovrano era rappresentato da un Viceré residente a Cagliari “che occupava il regno in sua assenza, assumendo la piena potestà regia e la facoltà di convocare e presiedere i Parlamenti”. Un’istituzione importante era il Parlamento. Scrive Francesco C. Casula: “Anche il Regno di Sardegna, come quasi tutti gli stati basso-medioevali […], ebbe i propri Parlamenti: periodiche assemblee rappresentative dei tre ordini sociali o stamenti, costituiti dai feudatari, dagli La Sardegna sabauda e le insurrezioni di fine Settecento § 1. La Sardegna nella prima fase del dominio dei Savoia (dal 1720 al 1750 c/a) I primi trent’anni del dominio sabaudo sull’isola sono una fase di immobilismo, i pochi interventi significativi non vanno oltre la repressione dei fenomeni di banditismo. Sul piano istituzionale i Savoia conservano le forme del vecchio Regno di Sardegna, ma cessano di convocare il Parlamento, che viene “di fatto” abrogato, pur conservando un’esistenza nominale. Col trattato di Utrecht del 1713, che concludeva la guerra di successione spagnola, il Duca di Savoia Vittorio Amedeo II otteneva l’assegnazione della Sicilia, mentre tutti gli altri possedimenti italiani della corona di Spagna, e anche la Sardegna, passavano agli Asburgo d’Austria. Dopo pochi anni, però, dovette cedere la Sicilia all’Austria, in cambio della Sardegna; era il 1720 (trattato di Londra). Lo scambio era nettamente svantaggioso: la Sardegna era una regione povera e marginale. Il primo problema che il governo sabaudo dovette affrontare fu quello della conservazione del possesso dell’isola; possesso che – d’altro canto – non era considerato, dalla corte sabauda, definitivo. Ancora per lungo tempo i Savoia pensarono di poter fare dell’isola un oggetto di scambio per acquisizioni territoriali più interessanti e più adatte alla loro tradizione ed alla collocazione geografica dei loro domini. L’altro problema era quello di guadagnare il consenso dell’aristocrazia locale, di cui ampi settori erano ancora legati ai vecchi dominatori spagnoli, superandone ostilità e diffidenze. I Savoia nei primi trent’anni del loro dominio cercarono di non modificare la situazione isolana, anche perché era vietato dagli accordi internazionali. Assunsero il titolo di “re di Sardegna”, e conservarono, nell’isola la presenza di un 1

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Page 1: La Sardegna Sabauda e le insurrezioni di fine Settecento

Il Regno di Sardegna

Le origini Il Regnum Sardiniae venne istituito nel 1297 dal Papa Bonifacio VIII, che lo assegnò a Giacomo II d’Aragona. L’effettiva presa di possesso dell’isola da parte degli aragonesi venne iniziata nel 1323 con la spedizione dell’infante Alfonso, che – fra le altre cose – vi istituì il feudalesimo. In quel momento gli Aragonesi accettarono di dividere il territorio dell’isola con i Giudici di Arborea, loro temporanei alleati, ma alla fine del XIV secolo l’alleanza si ruppe ed esplose lo scontro fra l’istituzione autoctona ed il regno iberico. Nel 1409, con la sconfitta degli Arborea nella battaglia di Sanluri, il controllo aragonese si estese a tutta la Sardegna. La Sardegna, associata alla Corona di Aragona, con l’unificazione dei regni iberici (ossia al matrimonio fra Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona, del 1469), entrò a far parte della Corona di Spagna.

Il Viceré e il Parlamento Il “Regno di Sardegna” mantenne, comunque, una sua identità istituzionale. Il sovrano era rappresentato da un Viceré residente a Cagliari “che occupava il regno in sua assenza, assumendo la piena potestà regia e la facoltà di convocare e presiedere i Parlamenti”. Un’istituzione importante era il Parlamento. Scrive Francesco C. Casula: “Anche il Regno di Sardegna, come quasi tutti gli stati basso-medioevali […], ebbe i propri Parlamenti: periodiche assemblee rappresentative dei tre ordini sociali o stamenti, costituiti dai feudatari, dagli ecclesiastici e dai cittadini delle città regie [=non infeudate] che – pur senza potere deliberativo, ma solo proponente – cooperavano con il Monarca al governo dello stato e all’attività legislativa, dandogli consigli, assensi ed aiuti finanziari tramite un sussidio chiamato donativo”.Il primo parlamento del Regno di Sardegna venne convocato a Cagliari nel 1355 dal re Pietro IV d’Aragona. Abbiamo documentazione, fra il 1481 ed il 1698, di 22 convocazioni.

Il Parlamento era, come si vede, una tipica istituzione di ancien régime, affine agli Stati Generali francesi, esprimente una società per ceti. Come detto nel testo a fianco, durante l’età sabauda – pur senza essere abolito – cessò di venir convocato. Vedremo che, alla fine del Settecento, ci fu un consistente tentativo di ravvivare questa antica istituzione, ma senza successo. Cesserà di esistere, anche formalmente, con la “fusione perfetta” col Piemonte (1847).

La Sardegna sabauda e le insurrezioni di fine Settecento

§ 1. La Sardegna nella prima fase del dominio dei Savoia (dal 1720 al 1750 c/a)

I primi trent’anni del dominio sabaudo sull’isola sono una fase di immobilismo, i pochi interventi significativi non vanno oltre la repressione dei fenomeni di banditismo. Sul piano istituzionale i Savoia conservano le forme del vecchio Regno di Sardegna, ma cessano di convocare il Parlamento, che viene “di fatto” abrogato, pur conservando un’esistenza nominale.

Col trattato di Utrecht del 1713, che concludeva la guerra di successione spagnola, il Duca di Savoia Vittorio Amedeo II otteneva l’assegnazione della Sicilia, mentre tutti gli altri possedimenti italiani della corona di Spagna, e anche la Sardegna, passavano agli Asburgo d’Austria. Dopo pochi anni, però, dovette cedere la Sicilia all’Austria, in cambio della Sardegna; era il 1720 (trattato di Londra). Lo scambio era nettamente svantaggioso: la Sardegna era una regione povera e marginale.

Il primo problema che il governo sabaudo dovette affrontare fu quello della conservazione del possesso dell’isola; possesso che – d’altro canto – non era considerato, dalla corte sabauda, definitivo. Ancora per lungo tempo i Savoia pensarono di poter fare dell’isola un oggetto di scambio per acquisizioni territoriali più interessanti e più adatte alla loro tradizione ed alla collocazione geografica dei loro domini. L’altro problema era quello di guadagnare il consenso dell’aristocrazia locale, di cui ampi settori erano ancora legati ai vecchi dominatori spagnoli, superandone ostilità e diffidenze. I Savoia nei primi trent’anni del loro dominio cercarono di non modificare la situazione isolana, anche perché era vietato dagli accordi internazionali. Assunsero il titolo di “re di Sardegna”, e conservarono, nell’isola la presenza di un Viceré, i cui poteri, però, diminuirono rispetto all’epoca spagnola divenendo solo un intermediario di ordini che provenivano da Torino. Conservarono anche la struttura burocratica e finanziaria dell’amministrazione dell’Isola.

Il primo mutamento fu il silenzio imposto al Parlamento (vedi scheda a fianco) che non fu più convocato. Poiché il Parlamento aveva la prerogativa di decidere il donativo da versare al sovrano, i Savoia rinunciarono ad ogni aumento di tale introito e fissarono la cifra di 60.000 scudi, confermata ogni dieci anni con un atto formale sanzionato dalle sole “prime voci” (rappresentanti dei tre ordini) senza che il Parlamento si riunisse.

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Un paese “miserabile e spopolato”

Il primo Viceré sabaudo, marchese di Saint-Remy (1720/23 e 1726/27), scriveva a Vittorio Amedeo II: « Tout le plus grand mal, Sire, que je vois dans ce pays, c’est que la Noblesse est pauvre, le pays misérable et depeuplé, les gens paresseux et sans aucun commerce, et l’air est bien mauvais sans q’on puisse remédier ».In un colloquio a Torino con Montesquieu, Saint-Remy disse che “se il Re avesse voluto donargli la Sardegna non l’avrebbe mai accettata, giacché vi era stato quasi sempre ammalato”.“Non c’è né aria né acqua. L’acqua è tutta salmastra e salata”. Il Saint-Remy mandava a prendere a Pisa l’acqua potabile. “Per cinque mesi all’anno non si può uscire dalle città a causa dell’intemperie [=malaria]. Si possono percorrere spesso più di venti miglia senza trovare né una casa né un albero. Cagliari è una città vilaine”. (cit. da A. Mattone La storia della Sardegna. Una chiave di lettura).

I dati demografici del Settecento, pur confermando il cronico sottopopolamento dell’isola, mostrano che partecipò dell’andamento di crescita proprio dell’epoca:

Anno Abitanti1728 310.0001751 360.0001782 430.000

I monti frumentari

Il problema che andava affrontato per primo era quello della precarietà dei raccolti, soprattutto di cereali. La coltivazione dei campi era realizzata da una classe contadina posta alla mercé dell’usura esercitata dai “prinzipales” locali (esponenti delle classi abbienti), che approfittavano della cronica difficoltà del contadino a conservare le scorte di frumento necessarie alla semina. Soprattutto nelle annate cattive, lo scarso raccolto del contadino povero veniva consumato tutto per la sussistenza: per la semina doveva chiedere l’anticipazione della semente al possidente locale, in cambio di esorbitanti quote di raccolto. L’istituzione dei “monti frumentari” interveniva ad ovviare questo problema. Istituiti in ogni villaggio e gestiti dal clero furono regolamentati con precise disposizioni. Al monte frumentario veniva assegnata una quota di terreno demaniale esente da tributi sulla quale i contadini erano obbligati a lavorare (roadia). Il raccolto formava una scorta di sementi, che i singoli coltivatori potevano ottenere a tassi molto accessibili, liberandosi così dal ricatto dell’usura.

Il governo sabaudo mirò a tenere sotto controllo l’ordine dell’isola e ad intraprendere la lotta contro il banditismo, fenomeno esteso in tutta la regione, con delinquenti che agivano spesso indisturbati. Si trattava spesso di contadini costretti a darsi alla macchia nel corso di vendette familiari, altre volte di vittime di abusi feudali. Spesse volte, però, dietro questi gesti si intravedeva anche la presenza attiva del mondo feudale che sfidava i poteri dello Stato con l’intento di conquistare nuovi spazi di autonomia. Il fenomeno assunse intensità negli ultimi anni del ‘600 e nei primi del ‘700. Il problema del banditismo venne affrontato con decisione dal Viceré marchese di Rivarolo (che tenne la carica nel triennio 1735-8 e fu il primo Viceré a compiere un viaggio attraverso l’isola e un’accurata visita a molti villaggi) tramite una sistematica repressione militare.Durante il suo viceregno vennero mandate sul patibolo 432 persone ed alla galera o al confino oltre 3000. L’azione ebbe comunque effetti passeggeri, che non riuscirono a fermare un fenomeno radicato nelle strutture profonde della società rurale isolana.

§2. Il riformismo sabaudo

L’atteggiamento puramente conservativo del governo sabaudo cambia alla metà del secolo, quando si fa ormai chiaro che non ci sono possibilità di cedere l’isola in cambio di ampliamenti più appetibili. Sia pure in ritardo, la Sardegna conosce una fase di assolutismo illuminato.Tra i risultati positivi si possono riconoscere la riforma delle due Università di Cagliari e Sassari e l’istituzione dei “monti frumentari”, che miglioravano le condizioni della classe contadina, aumentando così la produzione agricola e la redditività delle terre.

Il periodo riformista corrisponde in gran parte all’ultima fase del regno di Carlo Emanuele III (regnavit 1730-73) ed all’attività del ministro Gian Lorenzo Bogino (1759-1773). Al Bogino fu affidata la gestione della politica interna del Piemonte. Per quel che riguarda la Sardegna, le iniziative del governo non erano più solamente indirizzate al controllo dell’isola, ma anche alla modificazione e ai miglioramenti delle condizioni sul piano legislativo, economico e sociale. Grande rilievo fu dato alla riorganizzazione del credito agrario attraverso i “monti frumentari” (1767, vedi scheda), già esistenti in età spagnola, ma da lungo tempo caduti in disuso.Nel 1780 vennero istituiti anche i “monti nummari”: una sorta di banca, che limitava anch’essa il prestito usuraio, concedendo prestiti in denaro a tassi modesti, soprattutto per l’acquisto di strumenti di lavoro. Queste iniziative si diffusero soprattutto grazie all’azione dell’economista Giuseppe Cossu, il migliore tra i funzionari sardi che collaborarono con le autorità sabaude, che detenne per lungo tempo la carica di supervisore del funzionamento di queste istituzioni di credito.

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La gestione comune delle terre

Nella Sardegna del Settecento solo poche terre (vigneti, oliveti) erano recintate ed adibite ad un unico tipo di coltura. La gran parte veniva gestita con un sistema di “campi aperti” (simile, per es., a quello in uso in Inghilterra prima delle “enclosures”- cfr. GSV 2,1, pag. 104), connesso a forme rudimentali di rotazione, gestito in modo comunitario, secondo regole che troviamo codificate anche nella “carta de logu” arborense. Riportiamo la sintetica descrizione data dalla storica L. Scaraffia:“Ogni comunità si garantiva la sopravvivenza destinando una parte del territorio (per lo più del demanio comunale…) al seminativo (“vidazzone”), mentre l’altra veniva lasciata al pascolo (“paberile”). Il seminativo era ogni anno ripartito in sorte fra quelli che intendevano coltivarlo. Gli abitanti del villaggio avevano quindi diritto di uso comune per la parte a pascolo, d’uso individuale (fino al raccolto) per la parte coltivata [dopo il raccolto, però, anche questa veniva aperta al pascolo comune]”. In genere ogni parte del terreno disponibile veniva per due anni destinata a vidazzone e per altri due a paberile. Trarre dalle usanze comunitarie di gestione della terra una visione idilliaca (nel senso dell’egualitarismo) sarebbe errato, e non spiegherebbe i problemi di cui abbiamo detto alla scheda precedente (precarietà della condizione del contadino povero, usura ecc.). Pur caratterizzata dalle usanze comunitarie, la società del villaggio, non era egualitaria: “più che di proprietà comunitaria – scrive la Scaraffia – si può parlare di diritti sulla terra esercitati da parte di individui intesi come rappresentanti della loro famiglia, nell’ambito del villaggio”. Il controllo delle risorse era legato “alle relazioni di status all’interno della comunità”, che comprendeva pastori e contadini (in diversa proporzione a seconda delle zone), ma anche clero e piccola nobiltà. “Fra i vassalli (agricoltori e pastori) esistevano delle differenze di status […] Una parte dei produttori che pure disponeva del diritto di semina sulle terre del villaggio, non aveva i mezzi per seminarle e doveva ricorrere ad un contratto con coloro – i cosiddetti “prinzipales” – che avevano disponibilità di risorse produttive e monetarie”. Per concludere queste notizie, si può precisare che, pur difettoso ed immobilistico, tale sistema corrispondeva ad un equilibrio fra le componente contadina e pastorale della società sarda; equilibrio che ne aveva lungo i secoli plasmato il funzionamento. Questo aspetto non venne tenuto in considerazione dai legislatori che lo affronteranno nell’Ottocento. Essi credevano, non senza ragioni, che la componente pastorale fosse quella più arretrata e meno suscettibile di progresso. Volevano ampliare lo spazio agricolo a scapito di quello pastorale; quest’ultimo, però, finirà per mostrarsi difficilmente comprimibile.Per questo e per altri problemi, la creazione della “proprietà perfetta” in Sardegna tramite le “chiudende” produrrà esisti molto meno positivi di quelli auspicati dai suoi primi sostenitori.

La riforma dei “monti frumentari” diede i suoi frutti col miglioramento della produzione. Ma era solo un primo passo: rimanevano due problemi assai più difficili: la questione della proprietà della terra e quella dei diritti feudali. Già il Cossu, accanto alla presenza dell’usura ed all’arretratezza delle tecniche, aveva indicato come causa principale del malessere contadino e della poca produzione, i tributi feudali. Secondo i suoi calcoli, l’insieme dei tributi (decima ecclesiastica, donativo regio, tributi feudali e altro) si aggirava attorno al 35% del prodotto lordo delle attività agricole. Un'altra difficoltà ineludibile era indicata (per esempio dal professore gesuita Francesco Gemelli, dell’università di Cagliari) nell’assetto arcaico della gestione delle terre, basato su usi comunitari, che non permetteva la formazione della “proprietà perfetta”, ossia non permetteva che un appezzamento di terreno rimanesse in modo permanente sotto il controllo di un unico proprietario, divenendo – in tal modo – suscettibile di migliorie. Entrambi i problemi erano, però, complessi e saranno affrontati solo nell’Ottocento, sotto il regno di Carlo Felice (1820/23: editto delle “chiudende”) e di Carlo Alberto (1835: abolizione dei feudi). Nell’immediato, al breve periodo riformistico seguì la fase delle insurrezioni (anni Novanta del Settecento), segnata dal riflesso delle Rivoluzione Francese, che si concretizzo nella rivolta antipiemontese del 1794 e nei moti antifeudali. Il forzato soggiorno della corte sabauda in Sardegna, dovuto alla conquista napoleonica del Piemonte (1799-1814) imporrà un ravvicinamento dei sovrani (Vittorio Emanuele I e soprattutto Carlo Felice) alla realtà isolana, che – nel bene o nel male – li spingerà all’intervento legislativo. In sintesi: il riformismo sabaudo ha i meriti ed i limiti di un’iniziativa dell’alto1, secondo i canoni dell’assolutismo illuminato (un “razionalizzare per meglio comandare”). Tentò di incidere sulle disuguaglianze sociali e di abolire privilegi di clero, nobiltà e classi dominanti, di migliorare la produttività, ma fu un’esperienza breve e non operò con convinzione nel coinvolgimento della società locale, che sovrani e funzionari piemontesi guadavano sempre con diffidenza.

1 Una sintesi dell’età delle riforme dovrebbe ricordare il riordino delle due università sarde (1764), che fu addirittura una rifondazione, dato che le attività di insegnamento erano all’epoca pressoché cessate in entrambe. Altri tentativi, nel campo economico, riguardarono la gestione diretta da parte dello Stato delle miniere del Sulcis, male amministrate dai concessionari (ma fu una “falsa partenza”: il progetto commissionato dal Bogino risultò antieconomico). Migliori esiti ebbe l’introduzione di nuove coltivazioni (gelso, tabacco, cotone) ed il potenziamento di saline e tonnare. Un altro ambito fu la repressione degli abusi e dei privilegi del clero sardo, ipertrofico (2% della popolazione) e poco motivato, sul cui malcostume si era pronunciato anche il Papa Benedetto XIII. (L. Scaraffia: “La carriera ecclesiastica – nel clima immobilistico della vita economico-sociale della Sardegna di allora – era quasi la sola via possibile di ascesa sociale per una nobiltà povera e sdegnosa, all’uso spagnolo, di ogni attività industriale e commerciale”).

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Rivolte antifeudali dal 1780 al 1793

Nel 1780 ci fu una rivolta a Sassari, causata dall’aumento del prezzo del pane. Fu domata con facilità. Alla base c’era stata una carestia che aveva messo in crisi il sistema produttivo. Fatti più significativi si svolsero, tra il 1789 ed il 1791, nei villaggi di campagna. Nel 1789 i contadini di alcuni villaggi (Solanas, Donigala, Thiesi) si rifiutarono di pagare i tributi feudali, insorgendo e costringendo le autorità ad inviare le truppe per sedare la rivolta. Questo rifiuto dei contadini trovò alleati i consigli comunitativi (espressione degli strati benestanti locali) ed il basso clero contro i diritti del feudatario, che per la prima volta furono messi in discussione.Nel 1791 gli abitanti di 31 villaggi del Medio Campidano ricorsero al Viceré contro le pretese del feudatario. Nel 1793 insorsero i consigli comunitativi di Ittiri, Uri e Ossi; a Sennori gli abitanti fecero ricorso alle armi per impedire che venissero compilati gli elenchi di quanti dovevano pagare i tributi feudali; a Sorso furono saccheggiati i magazzini baronali; la protesta si estese a tutto il sassarese.

§ 3. Le insurrezioni degli anni ’90 / 1793-95: Il tentativo di invasione francese e la rivolta antipiemontese

Gli anni ‘90 furono ricchi di vicende che segnarono mutamenti nei comportamenti sia della popolazione, sia delle classi dirigenti. I segni premonitori di una ribellione diffusa si ebbero nel 1789 quando i contadini di alcuni villaggi si rifiutarono di pagare i tributi feudali. I focolai insurrezionali erano alimentati dal malessere contadino, dalla povertà, ma anche dalla situazione internazionale.Come in tutta Europa, anche in Sardegna si faceva sentire il riflesso delle vicende rivoluzionarie francesi, dei loro sviluppi ideologici e politici. Nell’immediato, ciò che fece scoppiare la rivolta furono le conseguenze dell’attacco francese al Piemonte, le sconfitte subite da Vittorio Amedeo III e il tentativo francese di invadere la Sardegna. I momenti salienti sono due: a. Il primo (1793/4) si apre con il tentativo respinto di invasione francese dell’isola e si conclude con la temporanea

cacciata dall’isola dei Piemontesi. È in primo piano la richiesta di autonomia politica ed amministrativa dell’élite sarda, che chiede il ripristino del Parlamento ed un ruolo attivo nella direzione degli affari locali.

b. Il secondo (1795/6) è il tentativo di insurrezione antifeudale capeggiato da Giovanni Maria Angioy, nel quale gli echi del grande moto rivoluzionario proveniente dalla Francia si innestano sulla precedente mobilitazione antifeudale delle classi popolari.

Nel gennaio del 1793 una flotta francese, dopo aver occupato l’isola di San Pietro e Sant’Antioco, si presentò nel golfo di Cagliari nel tentativo di invadere la Sardegna, nel contesto della ben nota “guerra rivoluzionaria” che la Francia combatteva contro gli Stati circonvicini2.L’iniziativa della Repubblica Francese era stata incoraggiata da notizie provenienti dalla Sardegna, secondo le quali la popolazione locale manifestava “un estremo malcontento … contro il governo piemontese”. Inoltre i Francesi erano interessati alla funzione strategica dell’isola nel Mediterraneo.I militari a disposizione del Viceré (all’epoca Vincenzo Balbiano) erano pochi per un’adeguata resistenza3; il Viceré stesso pareva indeciso ed incapace di affrontare la situazione.

Le cose non andarono secondo gli auspici dei Francesi e i Sardi respinsero l’invasione. Dopo il cannoneggiamento di Cagliari (27 Gennaio) ed un tentativo di sbarco di 4000 di uomini presso il Margine Rosso (Quartu S. Elena, 14 Febbraio) respinto da miliziani sardi, la flotta francese riprese di nuovo il largo il 24 Febbraio4.

2 La guerra all’Austria era stata dichiarata, come sappiamo, nell’Aprile 1792 dal governo girondino durante l’ultima fase della Monarchia. In quello stesso anno il Regno di Sardegna entrò a far parte della prima coalizione antifrancese alleandosi con Austria e Prussia, alle quali l’anno successivo si sarebbero associate Gran Bretagna, Spagna, Olanda ecc. 3 Erano disponibili meno di 3000 soldati in tutta l’isola. D’altra parte il Re Vittorio Amedeo III aveva già avuto seri problemi nel difendere i propri territori continentali dall’attacco dei Francesi, che si erano appena appropriati della Savoia e di Nizza (Settembre 1792)4 Alcuni giorni dopo (25 Febbraio) veniva respinto anche un altro – minore – tentativo di invasione francese (vi partecipava anche il giovane Napoleone Bonaparte) che, partendo dalla Corsica, aveva attaccato l’isola della Maddalena. L’unico successo, i Francesi lo ottennero nell’Isola di San Pietro, la prima porzione di territorio sardo occupata (6 Gennaio) e l’unica – assieme a Sant’Antioco – in cui poterono lasciare una guarnigione. I Carlofortini accolsero favorevolmente la spedizione. L’isola venne ribattezzata Isola della Libertà. La spedizione (sbarcata il 6 gennaio) era capeggiata dal noto esponente giacobino Filippo Buonarroti, che proclamò la repubblica e dettò la costituzione dell’isola, abbatté la statua di Carlo Emanuele III, che si trovava nella pubblica piazza, e la sostituì con l’albero della Libertà. L’esperimento durò qualche mese, fino a quando la flotta spagnola non fece sloggiare i Francesi (25 Maggio).

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Cagliari: palazzo viceregio

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Una precisazione importante

Lo Stamento Militare era rappresentativo della Nobiltà del Regno. Come già detto sopra, il Parlamento sardo era una tipica istituzione di ancien régime, e raggruppava la rappresentanza secondo i criteri di una società per ceti. Gli altri due Stamenti erano quello Ecclesiastico e quello Regio. Quest’ultimo era formato dai rappresentanti delle sette Città Regie “non infeudate” dell’isola (Cagliari, Sassari, Alghero, Bosa, Iglesias, Castelsardo e Oristano) che non potevano considerarsi rappresentate dai feudatari. Tutto ciò suona arcaico, e in effetti lo è. Occorre però ricordare che la Nobiltà rappresentata nello Stamento Militare non era più solo la nobiltà feudale, ma una parte importante di essa proveniva da famiglie di origine borghese, che avevano di recente acquisito il titolo e le cui fortune si erano formate nel campo dei commerci e delle professioni (soprattutto avvocati). Perciò gli Stamenti vanno visti non solo nella loro caratteristica (conservatrice) di rappresentanza della società per ceti, ma – almeno in parte – come espressione delle élites di una società che (all’epoca del “riformismo sabaudo”) aveva sperimentato una modernizzazione e sotto le vecchie forme presentava anche esigenze nuove.

Abbiamo detto che “i Sardi” respinsero l’invasione. Spieghiamoci meglio.

Bisogna, infatti, precisare che la maggior parte degli sforzi nella difesa dell’isola contro il tentativo francese erano stati organizzati e realizzati proprio da elementi autoctoni, mentre l’inerzia del Viceré destava preoccupazione e scandalo. In previsione dello scontro con i francesi, i nobili sardi richiesero la convocazione straordinaria degli Stamenti per attuare le necessarie misure difensive, ma il Viceré negò l’autorizzazione5. Lo Stamento militare (che rappresentava la nobiltà) si riunì ugualmente.In particolare clero e nobiltà locali assoldarono delle milizie ausiliarie a proprie spese. La difesa contro un eventuale sbarco francese nel Sulcis venne organizzata dal Vescovo di Iglesias. Lo Stamento militare finanziò ed organizzò una milizia ausiliaria di circa 4000 uomini. Dal punto di vista di clero e nobiltà, il timore nei confronti della Francia rivoluzionaria era piuttosto ovvio6, ma riuscirono anche a coinvolgere la popolazione.

Il successo nella difesa dell’isola suscitò grande entusiasmo sia nel popolo che nelle classi dirigenti. Ci si aspettava la riconoscenza del Re: l’élite locale pensava che fosse, perciò, giunto il momento di chiedere più autonomia, posti nella pubblica amministrazione, il ripristino delle vecchie libertà del “Regnum Sardiniae”, compreso il ruolo attivo del Parlamento. L’atteggiamento di Vittorio Amedeo III, della corte e del Viceré li deluderà ed esaspererà i contrasti tra Sardi e Piemontesi.

“Paradossalmente – scrive lo storico Piero Sanna – il movimento patriottico che avrebbe guidato la prima fase della “sarda rivoluzione” maturò nel clima di un’accesa propaganda antirivoluzionaria e di una generale mobilitazione contro l’armata ‘liberatrice’ della giovane repubblica francese”. Accadde così che, nella difesa dell’isola dall’attacco francese, si segnalarono alcuni dei personaggi che sarebbero in seguito stati sospettati come “giacobini” o che si sarebbero resi protagonisti delle insurrezioni antipiemontese ed antifeudale.

Nell’immediato, nonostante l’ostilità del Viceré ad ogni iniziativa dei Sardi, i tre Stamenti si riunivano e discutevano delle richieste dal fare al Sovrano. Il 13 Maggio si accordarono su un documento contenente un insieme organico di richieste da presentare a Torino. Note come “cinque domande” si esprimevano nei seguenti punti:1. Convocazione ufficiale del Parlamento Sardo da parte del Re e ripristino della convocazione decennale;2. rispetto dei privilegi e delle leggi fondamentali del regno;3. assegnazione esclusiva ai sardi degli impieghi e degli incarichi nell’amministrazione civile, militare ed ecclesiastica

dell’isola, con la sola eccezione della carica di Viceré;4. istituzione, a Cagliari, di un Consiglio di Stato che affiancasse il Viceré;5. istituzione, a Torino, di un ministero speciale per gli affari sardi.

5 Balbiano appare preoccupato soprattutto del rischio che le difficoltà militari della Monarchia sabauda potessero indurre nei sudditi isolani delle aspirazioni di autonomia, e tutto il suo comportamento appare accentuare (data la drammaticità delle circostanze) quella diffidenza nei confronti dei Sardi che appare quasi una costante della storia dell’amministrazione sabauda. Una mossa “forte” come quella dell’autoconvocazione degli Stamenti (che non venivano più riuniti dal 1698) mostra che era comunque reale – nell’élite sarda – la volontà di rilancio di un proprio ruolo politico e che i suoi timori non erano infondati. 6 Un cronista coevo dei fatti, il padre Tommaso Napoli, scrive: “La nobiltà ed il clero, cui premeva sommamente difendersi dai Francesi, che allora l’avevano contro quei due ceti, e gli spogliavano di tutto e anche massacravano, si radunarono in tutta fretta, in forma di stamento, che equivale a parlamento, e presero le più forti misure per scuotere l’indolenza del governo”.

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Sei rappresentanti (due per ciascuno dei tre Stamenti) vennero incaricati di recarsi a Torino per presentare le “cinque domande” direttamente al Re. La delegazione partì alla fine di Agosto e raggiunse la capitale piemontese il 4 Settembre. Il sovrano li riceverà solo tre mesi dopo il loro arrivo, e si limiterà a promesse molto generiche. Diveniva sempre più chiaro che non c’era alcuna volontà di accettare le richieste. A Cagliari si diffondeva il malcontento. La situazione venne fatta precipitare dal comportamento del Viceré, che fece arrestare (28 Aprile 1794) due avvocati cagliaritani (Pintor e Cabras) molto amati dalla cittadinanza, sotto l’accusa di cospirazione, illudendosi di stroncare con la paura le velleità di autogoverno dei Sardi. La notizia dell’arresto fece immediatamente (il giorno stesso) insorgere la città. La folla assaltò il palazzo viceregio. In breve tempo tutti i piemontesi presenti a Cagliari (erano circa 500, tra funzionari e loro familiari) vennero costretti alla resa ed imbarcati forzatamente per il continente7; lo stesso accadde – pochi giorni dopo – nelle altre località sarde. I poteri del Viceré vennero assunti dalla Reale Udienza. I Sardi, pur confermando la lealtà al sovrano sabaudo, si autogovernavano8.

Nella nuova situazione emergevano, però, i contrasti fra i diversi orientamenti dell’élite sarda, che era inevitabilmente disomogenea, socialmente e ideologicamente. Si evidenziavano diverse tendenze: legittimisti (conservatori filosabaudi), il cui maggiore esponente era il Marchese della Planargia Gavino Paliaccio; a questi si andava ravvicinando anche un gruppo di moderati, che aveva il proprio esponente più prestigioso in

Gerolamo Pitzolo9; democratici (sospetti di “giacobinismo”), propensi ad appoggiarsi sulla mobilitazione popolare e perfino ad una

rottura con il Piemonte. Inizialmente apparvero come un fronte unitario. Ne facevano parte, tra gli altri, gli avvocati Cabras e Pintor, il comandante della milizia popolare Vincenzo Sulis e il giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy.In seguito alla radicalizzazione della lotta antifeudale (vedi pagine seguenti) quest’ultimo schieramento si dividerà: l’Angioy si attesterà su posizioni rivoluzionarie, sulle quali pochi erano disposti a seguirlo.

Quando il Re scelse di sostituire con dei sardi in alcune delle più importanti cariche i piemontesi espulsi, le sue preferenze andarono – come era prevedibile – ad esponenti del “partito” lealista (tra gli altri i già menzionati Pitzolo e Planargia), suscitando il malcontento dei più convinti democratici ed esasperando il conflitto fra le parti. Nonostante la mediazione del Viceré Vivalda, a Cagliari le tensioni si accrebbero, fino a che due successive agitazioni (Marzo e Luglio ’95), fomentate dai democratici, culminarono nell’uccisione del Marchese della Planargia e del Pitzolo.

Nell’immagine: una veduta settecentesca di Cagliari.

7 Si fece eccezione solo per l’Arcivescovo di Cagliari, Mons. Melano, che godeva della stima della popolazione. 8 Vittorio Amedeo III nominò subito un nuovo Viceré, nella persona di Filippo Vivalda, assai più abile diplomatico di quanto fosse stato il Balbiano. Vivalda non ritenne opportuno raggiungere l’isola prima di Settembre ed esercitò le proprie funzioni in modo prudente, tenendo conto degli equilibri politici sardi. 9 Il Pitzolo si era distinto nelle giornate della lotta antifrancese come comandante della cavalleria, conquistando una vasta popolarità. Aveva poi fatto parte della delegazione mandata a Torino per presentare le “cinque domande”.

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Ultimi tentativi insurrezionali

Fra gli strascichi della rivoluzione antifeudale va ricordata la ribellione di Thiesi (1800), che venne repressa dall’esercito (18 morti).Lo stesso anno si rivoltò anche Santulussurgiu. Nel 1802 alcuni seguaci dell’Angioy tentarono un colpo di mano in Gallura: il sacerdote teologo Francesco Sanna-Corda morì nel combattimento con le truppe regie, il Cilocco, fatto prigioniero e torturato, fu condannato a morte.

§ 4. Le insurrezioni degli anni ’90 / 1795-96: L’insurrezione antifeudale

Finora abbiamo parlato quasi esclusivamente di eventi cagliaritani, ma sappiamo che nell’isola la situazione era complicata da una crescente insofferenza delle popolazioni rurali nei confronti dei tributi feudali. Le ribellioni dei contadini si intensificavano, con diversi epicentri: ancora una volta soprattutto il sassarese, ma anche Quartu e i villaggi del cagliaritano, il Campidano di Oristano ecc.Il movimento che coinvolgeva il mondo contadino era dettato – come al solito – dal disagio economico, a cui si aggiunsero gli effetti di due annate di cattivi raccolti. Un fattore nuovo era, però, la propaganda antifeudale che nasceva dalle esperienze insurrezionali della città.

Diamo ora un breve sommario dei fatti che avvennero tra il Luglio del 1795 ed il Giugno del 1796. Mentre a Cagliari, in seguito ai fatti di Marzo-Luglio 1795 sembravano prevalere le tendenze democratiche, a Sassari l’aristocrazia locale e l’alto clero, allarmati dagli eventi del capoluogo e dalle agitazioni antifeudali dei contadini decisero di proclamare la propria autonomia rispetto a Cagliari e diedero voce ad un atteggiamento di reazione contro gli Stamenti cagliaritani ed il movimento “patriottico”.

Giomaria Angioy

Quando intraprese la propria svolta rivoluzionaria, Angioy era tutt’altro che uno scono-sciuto e poteva considerarsi a pieno titolo un uomo di successo. Nato a Bono (SS) nel 1751, proveniva da una famiglia della piccola nobiltà. Fece studi di legge presso l’Università di Cagliari, presso la quale ottenne, in giovanissima età, la docenza. Alla carriera accademica preferì, però, quella nella magistratura, nella quale giunse alla prestigiosa carica di Giudice della Reale Udienza. Fu anche un abile imprenditore; col capitale portatogli in dote dalla moglie (che proveniva da una ricca famiglia di commercianti cagliaritani) impiantò un laboratorio tessile e coltivazioni di cotone e di indaco.Dopo gli eventi rivoluzionari (vedi testo principale) fuggì dalla Sardegna (16 Giugno 1796).Stabilitosi in Francia, cercò di persuadere le autorità francesi ad organizzare una spedizione in Sardegna. I suoi ultimi anni furono segnati anche dalla rottura con la famiglia. Dopo la sua morte, avvenuta a Parigi nel 1808, le figlie chiesero di cambiare nome.

Angioy e i democratici cagliaritani inviarono a Sassari due esponenti del loro movimento, entrambi originari di quella città: Francesco Cilocco e Gioachino Mundula. Essi svolsero opera di propaganda antifeudale, aiutati anche da alcuni esponenti del basso clero. Sotto la loro guida, il 28 Dicembre ’95, Sassari veniva assalita da migliaia di contadini in rivolta.È da questo momento che il movimento democratico cagliaritano mostra chiare le proprie divergenze interne. La gran parte dei suoi esponenti non voleva giungere ad una rottura così radicale con l’ordine sociale esistente. L’Angioy si trovava isolato nel suo radicalismo. Gli Stamenti decisero, così di inviarlo a Sassari, ufficialmente con l’incarico di mettere ordine nella convulsa situazione, ma in realtà con lo scopo di allontanare dal capoluogo una presenza che stava diventando ingombrante.

Angioy, però, trasformò il suo viaggio verso Sassari in una vera e propria campagna antifeudale, che gli suscitò numerosissimi consensi. Accolto trionfalmente dai Sassaresi (28 Febbraio ‘96), ritenne giunto il momento di organizzare una vera e propria “marcia” verso Cagliari (2 Giugno), con obiettivi apertamente rivoluzionari: abolire il feudalesimo, distaccare la Sardegna dal Piemonte e proclamare la repubblica. Probabilmente sperava in un aiuto francese. Gli Stamenti reagirono dichiarandolo fuorilegge. Dopo alcuni scontri di minore entità, il 10 Giugno le truppe rivoluzionarie di Angioy furono sconfitte e sbandate ad Oristano dalle milizie inviate da Cagliari. Angioy fuggì verso Sassari e si imbarcò per la Francia.

La sconfitta dell’Angioy segnò la fine della fase più acuta del movimento eversivo contadino e anche l’inizio della restaurazione dell’autorità piemontese. Quest’ultimo processo non fu immediato e per alcuni anni il governo fu costretto a sedare delle rivolte. Assieme al movimento antifeudale, però, si andava esaurendo anche il movimento antisabaudo. Il movimento rivoluzionario sardo fallì proprio nel momento in cui si creavano nel continente (con la “campagna d’Italia” di Napoleone Bonaparte) le condizioni per fondamentali cambiamenti sociali e politici. § 5. L’editto delle chiudende e l’abolizione dei feudi

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Il 3 Marzo 1799 giungeva a Cagliari il re Carlo Emanuele IV (1796-1802), costretto ad abbandonare il Piemonte dopo la conquista francese (Dicembre 1798). La corte si stabilì nel Palazzo Viceregio, e vi rimase fino alla caduta di Napoleone ed alla Restaurazione (1815). Il successivo sovrano, Vittorio Emanuele I, risedette per poco tempo a Cagliari, lasciando la gestione del Regno al fratello, e futuro Re, Carlo Felice. La Sardegna era – comunque – tutto ciò che dei loro domini rimaneva ai Savoia. La permanenza della corte sabauda coincise, per l’isola con una lunga crisi economica, che si tradusse in diminuita produzione agricola, flessione demografica, aumento delle tasse e delle spese. Rimanevano irrisolti il problema dell’assetto feudale e della proprietà terriera. La Corte doveva prestare una più stretta attenzione a questi problemi.L’intervento si orientò su una logica produttivistica. Si mirava a instaurare nuovi sistemi di conduzione agricola fondati sulla tutela della proprietà privata, sugli investimenti di capitali, sulle bonifiche, sull’utilizzo di nuove tecniche di sfruttamento della terra. Nel 1804 per iniziativa di Carlo Felice fu creata “la reale società agraria ed economica”, con il compito di incoraggiare il dibattito sull'agricoltura sarda e diffondere la conoscenza delle nuove tecniche. Le tesi che emersero nel dibattito erano indirizzate verso un triplice obiettivo: favorire la chiusura dei terreni agricoli favorire la pastorizia impedire ai feudatari di porre limiti al processo di formazione della proprietà perfetta (individuale).È nel 1820, durante il regno di Carlo Felice, che si arrivò a un “editto sopra le chiudende”, per il quale i privati erano autorizzati a recintare i terreni di proprietà, sottraendoli all’uso collettivo. Pur avendo fra i suoi obiettivi teorici anche quello di favorire e garantire la piccola proprietà contadina, in genere la privatizzazione delle terre favorì soprattutto i ceti già benestanti, che poterono avvalersi anche dei poteri che detenevano nelle amministrazioni, negli uffici e negli appalti pubblici, oltre che del loro predominio sociale, per accaparrarsi larga parte delle proprietà. Con differenze a seconda delle regioni dell’isola e della struttura sociale che le caratterizzava, l’attuazione del provvedimento suscitò conflitti e ribellioni, soprattutto nelle aree a prevalenza pastorale, per cui procedette – in parecchi casi – piuttosto a rilento. Sotto il regno di Carlo Alberto (1831-49) si portò a termine l’eliminazione del sistema feudale (1836). Vi era ormai la consapevolezza che il regime feudale impediva lo sviluppo economico dell’isola e la necessità di non presentarsi agli occhi dell’Europa come l’unico Stato ad avere conservato una simile struttura.Carlo Alberto scelse la via della contrattazione con i singoli feudatari e del riscatto dei loro diritti feudali, dietro pagamento da parte dello Stato di una somma equivalente al valore dei diritti stessi.Tale somma era addebitata ai comuni, che a loro volta la distribuivano a tutti gli abitanti. In sostanza tutto il peso economico ricadeva sulle popolazioni locali, costrette a pagare a caro prezzo la loro liberazione.

La “fusione perfetta” con il PiemonteCon tutti questi provvedimenti erano state poste le basi per una trasformazione delle strutture economiche. Un’altra svolta decisiva sì maturò negli anni 40 e si concluse nel 1848 con la fine del “regnum Sardiniae" e la perdita dell’autonomia.La maggioranza delle classi dirigenti sarde chiese la completa unione legislativa con i domini continentali del Re di Sardegna. Ciò implicava l’abolizione di tutta la legislazione autonoma del “Regnum Sardiniae”, e dei suoi organi amministrativi e rappresentativi (gli Stamenti, che – almeno sulla carta – esistevano ancora).

L’esigenza espressa in tale richiesta è comprensibile se pensiamo che negli anni ’40 la monarchia sabauda di Carlo Alberto si orientava in senso riformatore, attraverso una cauta liberalizzazione delle istituzioni e l’alleanza (anche dal punto di vista doganale) con lo Stato Pontificio di Pio IX ed il Granducato di Toscana. Il processo sarebbe culminato, nel 1848 (sia pure sotto la pressione del movimento insurrezionale liberale) nella concessione dello Statuto Albertino e nell’inizio dell’impegno “risorgimentale” della monarchia sabauda.

La “fusione” fu concessa nel 1847. All’indomani della fusione i suoi stessi fautori dovettero ricredersi sulle passate speranze di miglioramenti che l’isola avrebbe conseguito con la rinunzia alle strutture tradizionali. Ad esempio, l’estensione alla Sardegna della legislazione del Piemonte portò conseguenze infelici in campo fiscale. Di fronte a nuove manifestazioni di malessere la risposta del governo fu repressiva. La nomina del commissario Lamarmora segnò l’inizio di una linea di rigore. La Sardegna vedeva riconfermato il suo stato di inferiorità

© Daniela Daga (II Liceo Cl. sez. E) - The Murgian Archive Foundation

Riepilogo 8

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1. I Duchi di Savoia divennero Re di Sardegna nel 1720. Dopo il lungo periodo della dominazione iberica (secoli XIV-XVII), l’isola entrava di nuovo nell’orbita di uno stato italiano. La definizione della Sardegna come “pays miserable et depeuplé” data dal primo viceré sabaudo rispondeva, purtroppo, alla realtà. Infestata dalla malaria, l’isola aveva, a inizio Settecento, una popolazione di c/a trecentomila abitanti e scarse risorse economiche, basate sulla pastorizia e su un’agricoltura di sussistenza. I primi trent’anni del dominio sabaudo (1720-1750 c/a) furono una fase di immobilismo, i pochi interventi significativi non andarono oltre la repressione dei più gravi fenomeni di banditismo. Sul piano istituzionale i Savoia conservano le forme del vecchio Regno di Sardegna, ma cessano di convocare il Parlamento (un organismo rappresentativo dei ceti, affine a quelli di molti altri stati europei di ancien régime), che venne “di fatto” abrogato, pur conservando un’esistenza nominale.

2. Pur in una concezione strettamente assolutistica del governo, nell’ultimo periodo del regno di Carlo Emanuele III (1730-73), sotto il ministero del conte Gian Lorenzo Bogino (1759-73), venne avviata una fase di “riforme dall’alto”, secondo lo stile del “dispotismo illuminato”.Tra le altre cose venne riattivato un insegnamento di buon livello nelle due Università di Cagliari e Sassari (all’epoca gravemente decadute), che contribuì a migliorare il grado di istruzione e di competenza delle élites locali. Altri problemi riguardavano lo sviluppo economico. L’agricoltura sarda era condotta con metodi molto rudimentali. La possibilità di renderla più produttiva era compromessa da un sistema di proprietà basato sull’alternanza di coltivazione e pascolo, in un sistema di “campi aperti”, nel quale non esisteva la proprietà perfetta e ogni appezzamento di terreno coltivabile era soggetto, dopo il raccolto, all’uso da parte della comunità (in particolare al diritto di pascolo). Un altro problema era quello della cronica povertà della classe contadina, che la metteva in balia dello strozzinaggio dei “prinzipales” (benestanti) locali. Questi ultimi spesso richiedevano percentuali esorbitanti del raccolto in cambio dell’anticipazione di quelle scorte di grano per la semina che il contadino non riusciva a mettere da parte, stretto in condizioni di vita al limite della sussistenza. Su tutto questo gravavano, inoltre, i tributi feudali. Secondo i calcoli dell’economista Giuseppe Cossu, l’insieme dei tributi sui prodotti agricoli (decima ecclesiastica, donativo regio, tributi feudali) si aggirava attorno al 35% del prodotto lordo. Il problema della proprietà della terra e quello (strettamente connesso) dell’abolizione del feudalesimo erano però difficili da affrontare, perché troppo compromessi con gli interessi delle classi aristocratiche. Durante il ministero del Bogino, grazie soprattutto all’impegno del già citato Cossu, venne invece trovata una soluzione abbastanza efficace al problema dell’usura con l’istituzione dei “monti frumentari”, delle istituzioni comunitarie dalle quali i contadini potevano farsi anticipare le sementi a basso tasso di interesse.

3. Alla fine del Settecento il malessere della classe contadina si espresse in una serie di rivolte antifeudali, nelle quali la popolazione di interi villaggi si rifiutava di versare i tributi (1789-93).Su questa situazione di disagio irruppero i riflessi della Rivoluzione Francese. Nel Gennaio 1793 una flotta francese tentò di occupare l’isola, bombardando Cagliari e tentando uno sbarco nella marina di Quartu. Anziché dall’inetto e diffidente viceré Balbiano, la difesa dell’isola venne condotta dalle forze assoldate e dirette dalla nobiltà locale, con grande coinvolgimento delle stesse classi popolari. I notabili Sardi sfidarono apertamente gli ordini del viceré, autoconvocandosi nella forma del vecchio Parlamento sardo (Stamenti). In seguito al successo nella difesa dell’isola, speravano nella gratitudine del Re Vittorio Amedeo III, al quale presentarono un organico piano di ripristino delle autonomie del Regno, che implicava la regolare convocazione del suo organo rappresentativo. Veniva richiesto, inoltre, il coinvolgimento attivo dell’élite locale nell’amministrazione e nel governo (Le “Cinque Domande”, 13 Maggio 1793). La risposta che ebbero fu deludente e creò malcontento. In occasione di un’azione repressiva voluta dal Viceré Balbiano, la popolazione di Cagliari insorse (28 Aprile 1794) ed espulse dall’isola tutti i funzionari piemontesi. Pur confermando la lealtà al sovrano sabaudo, i sardi passarono ad una fase di autogoverno, nella quale ebbero un ruolo preminente le rappresentanze riunite negli Stamenti. Nella nuova situazione emergevano, però, i contrasti fra i diversi orientamenti dell’élite sarda, che era inevitabilmente disomogenea, socialmente e ideologicamente. Si andava da conservatori filosabaudi, a moderati (che non volevano procedere oltre la rivendicazione di qualche spazio in più per l’élite sarda nell’apparato di governo), fino a gruppi aperti alle idee rivoluzionarie francesi, che volevano procedere verso mutamenti più profondi. Alcuni di questi ultimi pensavano che la “rivoluzione sarda” avrebbe dovuto far proprio quell’obiettivo antifeudale che tanto agitava le classi povere.

4. L’occasione per il radicalizzarsi della rivoluzione fu dato dalla recrudescenza delle rivolte contadine (1795), che avevano il proprio epicentro nel sassarese.

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Accadde, inoltre, che i notabili sassaresi, allarmati dal prevalere presso il governo di Cagliari delle tendenze democratiche e dall’accentuarsi delle ribellioni contadine, proclamassero una sorta di secessione dal capoluogo, cercando di fare della propria città il baluardo della tendenza controrivoluzionaria. Da Cagliari vennero inviati a Sassari due eminenti “patrioti” (Francesco Cilocco e Gioachino Mundula, entrambi di origine sassarese), appartenenti al circolo democratico (o “giacobino”, come si diceva allora) riunito attorno al Giudice della Reale Udienza Don Giomaria Angioy. Sotto la loro guida, il 28 Dicembre ’95, Sassari veniva assalita da migliaia di contadini in rivolta.Da questo momento, però, il movimento democratico cagliaritano iniziò a mostrare chiare le proprie divergenze interne. La gran parte dei suoi esponenti non voleva giungere ad una rottura così netta con l’ordine sociale esistente. Il “giacobino” Angioy si trovava isolato nel suo radicalismo. Gli Stamenti decisero di inviarlo a Sassari, ufficialmente con l’incarico di mettere ordine nella convulsa situazione, ma in realtà con lo scopo di allontanare dal capoluogo una presenza che stava diventando ingombrante.Angioy trasformò il suo viaggio verso Sassari in una vera e propria campagna antifeudale, che gli suscitò numerosissimi consensi. Accolto trionfalmente dai Sassaresi (28 Febbraio ‘96), ritenne giunto il momento di organizzare una vera e propria “marcia” verso Cagliari (2 Giugno), con obiettivi apertamente rivoluzionari: abolire il feudalesimo, distaccare la Sardegna dal Piemonte e proclamare la repubblica. Gli Stamenti reagirono dichiarandolo fuorilegge. Dopo alcuni scontri di minore entità, il 10 Giugno le truppe rivoluzionarie di Angioy furono sconfitte e sbandate ad Oristano dalle milizie inviate da Cagliari. Angioy fuggì verso Sassari e si imbarcò per la Francia. La sconfitta dell’Angioy segnò la fine del movimento eversivo contadino e anche l’inizio della restaurazione dell’autorità piemontese. Assieme al movimento antifeudale si andava esaurendo anche il movimento antisabaudo.

5. Il 3 Marzo 1799 giungeva a Cagliari il re Carlo Emanuele IV (1796-1802), costretto ad abbandonare il Piemonte dopo la conquista francese (Dicembre 1798). La corte si stabilì nel Palazzo Viceregio, e vi rimase fino alla caduta di Napoleone ed alla Restaurazione (1815). È nel periodo immediatamente successivo che vennero affrontati gli annosi problemi dell’assetto delle terre dell’isola.

È nel 1820, durante il regno di Carlo Felice, che si arrivò a un “editto sopra le chiudende”, per il quale i privati erano autorizzati a recintare i terreni di proprietà, sottraendoli all’uso collettivo. Pur avendo fra i suoi obiettivi teorici anche quello di favorire e garantire la piccola proprietà contadina, in genere la privatizzazione delle terre favorì soprattutto i ceti già benestanti, che poterono avvalersi anche dei poteri che detenevano nelle amministrazioni, negli uffici e negli appalti pubblici, oltre che del loro predominio sociale, per accaparrarsi larga parte delle proprietà. Sotto il regno di Carlo Alberto (1831-49) si portò a termine l’eliminazione del sistema feudale (1836). Vi era ormai la consapevolezza che il regime feudale impediva lo sviluppo economico dell’isola e la necessità di non presentarsi agli occhi dell’Europa come l’unico Stato ad avere conservato una simile struttura.Carlo Alberto scelse la via della contrattazione con i singoli feudatari e del riscatto dei loro diritti feudali, dietro pagamento da parte dello Stato di una somma equivalente al valore dei diritti stessi.Tale somma era addebitata ai comuni, che a loro volta la distribuivano a tutti gli abitanti. In sostanza tutto il peso economico ricadeva sulle popolazioni locali, costrette a pagare a caro prezzo la loro liberazione.

Un’altra svolta maturò negli anni 40 e si concluse nel 1848 con la fine del “regnum Sardiniae" e la perdita dell’autonomia.La maggioranza delle classi dirigenti sarde chiese la completa unione legislativa con i domini continentali del Re di Sardegna. Ciò implicava l’abolizione di tutta la legislazione autonoma del “Regnum Sardiniae”, e dei suoi organi amministrativi e rappresentativi (gli Stamenti, che – almeno sulla carta – esistevano ancora).Ispirata alla volontà di partecipare al processo di riforme che si andava profilando all’epoca nel Piemonte di Carlo Alberto, la “fusione perfetta” con il Piemonte non diede i risultati auspicati e lasciò un senso di profonda delusione in coloro che ne erano stati promotori.

Salvatore Murgia

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