“la scuola degli idioti” di marco onofrio

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Èchos28

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Ogni riferimento a fatti e persone reali è da ritenersi puramente casuale.

© 2013 Edizioni Ensemble, RomaI edizione novembre 2013ISBN 978-88-6881-001-6

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Edizioni Ensemble

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Marco Onofrio

La scuola degli idioti

Edizioni Ensemble

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Prefazione

Marco Onofrio, appena quarantenne, ha alle spalle una pro-duzione incredibilmente folta. Poesia, critica, narrativa: c’è tut-to, ed è il risultato di una energia creativa non comune. Onofrionon si risparmia, lavorando anche nel campo editoriale, ma so-prattutto vive il suo essere scrittore con una consapevolezza raraper la sua generazione e per quelle successive. Libro dopo libro,insegue quello che nella sua mente è un preciso disegno di ope-ra, un’architettura in cui un tassello non vale l’altro, ma è lì – inquel momento, in quel punto – per una ragione precisa, di dia-lettica con il passato (anche il suo, passato), di chiarificazione,di esperimento. Ma tutto è legato anche dove non sembra. Etuttavia è difficile mettere a fuoco l’«animale da tavolino» Ono-frio: anche di persona, la sua bonarietà – pure corretta da qual-che risentimento; da un nervosismo che, nel senso dell’etimo,compete anche ai muscoli, al corpo che si agita – la sua bonarie-tà, dicevo, non lascia subito intuire le visioni e i demoni da cuiè affollata la sua mente. È un’immaginazione capace, dall’estre-ma, celeste e geometrica purezza, di precipitare in un istante nel-la zona limacciosa della vita, di affogare nella visceralità, di sen-

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tire – con un misto di euforia e disperazione – che la partitadell’esistenza si gioca anche (o soprattutto) nell’organico, nelsordido, nell’oscenità non solo fisica ma anche intellettuale.Onofrio riesce – in un poemetto come Emporium (2008), peresempio, quanto in questi nuovi racconti – a essere insieme iper-realista e visionario. Come fa? Il maiale in agonia del primo rac-conto, che ansima sofferente sull’asfalto, è crudamente realisti-co. Ma che ci fa lì? «Come ci è venuto? Chi ce l’ha portato?». Èuna visione – qualcosa di più che una metafora, perché Onofrionon la schiaccia su una pista di possibili significati. Ci mostra ilmaiale in agonia, lo descrive con accuratezza e all’improvviso faspuntare, tra la folla, una bambina – «che si avvicina al maiale elo accarezza sulla testa, l’orecchiuto setoloso capoccione». Cosìla tenerezza esplode proprio laddove tutto le è ostile: e Onofriola cerca sempre, la spia, convinto che nella disfatta, nella goffag-gine, nella miseria essa a modo suo resista, come un piccolo ba-gliore, l’irrinunciabile pietà verso le creature – l’innocenza, nellospecifico, del «povero suino». «Mi chiama la coscienza a interve-nire!» si legge alla fine del racconto, e il punto forse è questo: inOnofrio c’è sempre un trasalimento di natura morale, un’ondadi indignazione, qualcosa che – nervosamente – lo spinge, nellospazio dei versi o del racconto, a umiliare chi umilia, a inchio-dare chi strafà, chi spadroneggia («Sono uno schiavo, ecco: unoschiavo in un mondo di padroni associati»), chi si conforma, ainfilzare gli ambigui, i viscidi, i corrotti, gli indifferenti, gli egoi-sti, gli opportunisti, i buffoni, dopo avere esplorato a fondoquello stato o strato dell’esistere. Detesta, insomma, chi troppo«sta al gioco»: chi nella vita «ha deciso di starci, di assecondar lo

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scritto nel copione, di interpretare il ruolo, il personaggio, lebattute, senza il coraggio di frapporsi a sindacare». Lui, l’autore,invece ha da sindacare, e molto; e sfida, affonda, grida, s’incazza.Con questa prosa che non si accontenta dell’italiano standard,ma investe sul vocabolario per intero, anche quando è contro-tempo: Gadda, Manganelli, certo, ma sul pedale di un grottescoche è tutto personale e mescola maliziosamente ricercatezze sin-tattiche e lessicali a sbrachi da eterna commedia all’italiana, ailazzi e ai peti di un cine-panettone più vero della vita. Poi, al-l’improvviso, di nuovo la tenerezza (celestiale, perfino, nel rac-conto «Icaro») e dopo un attimo ancora un «Giallo gabinetto» –il segno di un Decameron tutto suo, di Onofrio, dove i furbi, glismargiassi, gli stronzi convivono con i puri, e la melma non ècosì distante dal cielo. In fondo mi viene da pensare a Onofrio,più che come a un nostro contemporaneo, a un romano del pri-mo secolo dopo Cristo: c’è nei suoi racconti la bile di un epi-grammista, di un autore di satire; c’è la bile e lo sprezzo di Mar-ziale, l’improvviso struggimento di Giovenale. Quando, nellepagine di «Giallo gabinetto», se la prende con un odierno, scin-tillante e cretino autore di best-seller, lo descrive intento a strin-gere mani, «sibilando moccoloni in mezzo ai denti, sfanculandoa più non posso, senza mai sciogliere la “posa”, la cera da falsone,o spegnere il sorriso plasticato». Gli esplode così fra le maniun’intemerata contro i «gonfi d’albagia, superciliosi di suppo-nenza, tronfi di saccenteria». Ancora una volta, Onofrio scrutadal margine un mondo umano che lo indispone, punta il dito,estremizza per toccare il vero («Mammoni, la carriera si fa ba-ciando il culo»), indossa la toga del moralista, per poi – qualche

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pagina dopo – riprecipitare nella tenerezza che anche l’indigestopuò suscitare. È il caso, nel racconto che dà il titolo alla raccolta,di quelle eterne «pizzette» che si vendono nelle scuole a ricrea-zione: «quel grumo di pasta stantia, alta, molliccia, bagnata;quel coagulo di lievito guasto, leccato per caso di sugo rosa, incroste ammuffite di rimasugli e bucce di pelato, cosparso di cac-cole, di moccio e di cispa; quel ricettacolo di scatarri e capelli,asperso di schiuma detersiva, intriso di liquame e sciacquatu-ra… una di quelle, sì». Una madeleine del tutto anti-proustiana,respingente e tuttavia – come ogni pagina di Onofrio – calda divita. Nervosa, risentita e proprio per questo innamorata.

Paolo Di Paolo

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Non conosciamo mai la nostra altezza

finché non ci chiedono di alzarci

e allora se fedeli al progetto

la nostra statura tocca i cieli –

L’Eroismo che recitiamo

sarebbe una cosa normale

se non falciassimo i cubiti

per paura di essere un Re.

Emily Dickinson

La mente è come un paracadute.

Funziona solo se si apre.

Albert Einstein

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Maiale d’asfalto

All’angolo di una strada di città: un crocchio di persone. Lamia attenzione attratta si protende, in cerca di motivi e spiega-zioni. La gente che parlotta in capannello. Che è successo, chenon è successo? Mi faccio così largo, con permesso, e finalmentevedo il polo, la questione. Compare proprio vero e inaspettato,fra i piedi degli astanti più vicini. Si tratta, incredibile a dirsi,di… un maiale sdraiato sul marciapiede. Vivo, ancora, ma forsein agonia. Ansima lievemente. Un involto ciccioso di pelo: ro-seo, lindo, ben curato… come bestia che faceva compagnia, co-me un vispo cagnolino o un dolce gatto, scaricato non da moltoper la via. Ogni tanto dal grifo fuoriesce una bolla lattiginosa,che s’ingrossa piano piano e, prima di scoppiare, cresce e poi de-cresce al suo respiro. L’occhio del fianco esposto è semichiuso,folto d’irsuti crini: una fessura. Lo apre, talvolta: traspare unapupilla spenta e scura, velata da membrana, in cataratta. La codariccioluta che freme, replicando a brividi, a sussulti. Stupore ad-dolorato fra i presenti. Come è possibile? Un maiale fra i palazzie le strade clacsonanti di città… Che ci sta a fare? Come ci è ve-nuto? Chi ce l’ha portato?

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È inaccettabile e irreducibile a ragione: palese incongruenzadi paese. Provano ad alzarlo, ma qualcosa s’intromette a resi-stenza (la povera bestia guaisce pietosamente, da strappar le ve-ne dentro al cuore). Ci si accorge dunque (ulteriore sorpresa)che il maiale ha gran parte del fianco nascosto (coscia compre-sa) letteralmente saldato, sepolto, imprigionato nell’asfalto!

Non si crede ai propri occhi. Cerchiamo, nonostante tutto,di trovare soluzioni. C’è uno che propone, ad esempio, di pic-conargli il marciapiede tutto intorno, fino a liberarlo. C’è an-cora chi propone di affidarsi alle autorità – già, ma chi chiama-re per un caso così unico e bislacco? La Polizia, i Vigili del Fuo-co, la Protezione Animali, la Guardia Forestale… Qualcuno,più deciso, comincia a sfoderare il cellulare, per digitare il nu-mero a soccorso…

Quand’ecco che nel crocchio s’intrufola in silenzio, compa-re all’improvviso una bambina. Si avvicina al maiale e lo acca-rezza sulla testa, l’orecchiuto setoloso capoccione. Al suino vi-bra la coda, come a un cane compiaciuto e coccolone. Qualcu-no si intenerisce. Ma qualcun altro nota che la bambina ha ilvolto punteggiato di cicatrici leggere, di macchie scure e pusto-le con la crosticina: probabilmente lo era anche prima, ma nes-suno è in grado di testimoniarlo, ché ora soltanto ci si è fattocaso. E subito traspare l’evidenza di un pensiero, di un sentircomune e condiviso: il maiale è infetto, sì: è portator di morbo,epidemia! Una donna, allora, si slancia a trascinar via la bambi-na, che comincia a piangere ed urlare. Io mi dico che non èpossibile: al morbo, per quanto virulento, occorrerebbe co-munque un minimo d’incubazione, e non potrebbe mai dare

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sintomi così istantanei. Macché, vaglielo a far capire! Hannofatto cerchio solidale: si tengono a distanza e urlano istericicontro il maiale, dicendo che bisogna eliminarlo. C’è chi sigratta e chi si tappa il naso, per scongiurar contagi; chi guardafisso il maiale, con aria schifata e accigliata, e intanto si fa il se-gno della croce; chi, più di modi spicci, ha già adocchiato unamacelleria, lì nei paraggi, per procurarsi un coltellaccio dabrandire; chi, infine, sta chiamando i Vigili Urbani e l’Ufficiod’Igiene…

A questo punto insomma vado via, poiché non so patir lasofferenza, e soprattutto la morte, di qualunque vita o chicches-sia – bestie comprese.

Tanto, ormai, m’è chiara inutilmente come il sole, di fatoche nessuno può evitare, la miseranda fine del maiale!

Mentre cammino lungo il marciapiede, raggiungo la bambi-na e afferro casualmente stralci, dal dialogo fra la madre di leie la donna che l’ha portata via (un’amica? La governante?): è lamadre che sta parlando delle pustole di sua figlia, conseguential morbo esantematico contratto fra i banchi di scuola, da cui– benché recentemente – può dirsi per fortuna ormai guarita.Ecco: come supponevo. Ho così la prova e la conferma, che ilsuino è un povero innocente.

Mi chiedo se è il caso, poi, di contrastare il fato col destino.Ma sono uomo, non posso tralasciare: mi chiama la coscienza aintervenire! Così, dopo qualche indugio, torno di corsa indie-tro, acciocché lo risparmino dal sacrifizio.

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Ma, arrivato sul posto… non c’è l’ombra di nessuno, non c’èun tizio. Il marciapiede è vuoto – neppure più il maiale: neppu-re il calco del suo corpo sul marciapiede!

Lo stupore mi divora ulteriormente.

E resto lì, fermo come un palo a meditare…

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Damnati

Sto passeggiando con una ragazza; ma non sono certo che siamia, cioè: per esserlo è… ma insieme al tempo stesso pure no…Come dire? Non so bene, in fondo, che persona sia. È una diquelle situazioni fatte a questo modo: un po’ strane, ibride, am-bigue…

Un rapporto nebuloso e complicato. Un’amicizia ai limiti delproprio annullamento, dai contorni troppo sfumati per esser ve-ri. Un amore che non trova parole per dirsi, che non segna lastrada nel tempo, che non trova il coraggio di essere e di andare,di percorrere il suo viaggio, di uscire allo scoperto e definirsi.

Ci siamo e non ci siamo: vicini e lontani, sciolti e implicati,complici e avversari.

Eppure partimmo insieme, un giorno: ricordo.E il fuoco? Si è spento per strada, lungo il cammino. Ardeva,

copioso e sfavillante, ma riscaldava poco. Un fuoco freddo già disuo, una fiamma fatua, mentale, di testa: non di pancia. È perquesto, insomma, che “non va”.

Una lingua fredda di cristallo, di pura complicata idealità.Velleitari. Teorici. Incoerenti. Maturati solo in apparenza. Attra-

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versammo il mondo, così: ci avventurammo aperti alle distanze,nel deserto immane delle cose, lì, per foreste profondissime esommerse, guadagnando varchi di pertugi, squarci occasionali,pei roveti immobili di luce, colmi dell’eterna primavera, suonidissonanti e arcobaleni, trilli palpitanti e musicali, stanze che re-spirano nel cielo, monumenti d’acqua e di stupore, labirinti ver-gini d’amore, sfingi di silenzio e di dolore, croci di rovelli e con-getture, santuari in simboli e confini, inespressi ponti sugli abis-si, potenziali luoghi differenti, intricati punti nelle forre… Noi,sì: mossi dall’istinto a far le guerre, torturarci a colpi di pensiero,tratti dal richiamo delle stelle, sublimando in mille modi le vi-sioni – come le pulsioni originali – ricercando il cuore dell’es-senza, la radice più profonda del mistero… o la sera dentro l’al-ba di domani (senza riuscire mai, peraltro, se non per radi ac-cenni ed illusioni).

Ed eccoci, dunque. Noi. Diversamente uguali. Sconosciutiall’altro e al proprio nome. Ignoto, ciascuno a se stesso. A cam-minarci addosso, a continuare. A prometterci un “ancora”, undopo che si parta dall’adesso. Questa assurda inesplicabile odis-sea. La strada indecidibile, infinita: dove porti, a quale meta,non ho idea…

Da un verso camminiamo ai nostri piedi, sì, producendoci inuno strambo passo claudicante o, per meglio dire, zampettante(come avessimo tre gambe, in vece di due, o comunque una ditroppo, ingombrante, inservibile all’uso). Incogniti, costanti,autodiretti: segnati dal prodursi dei conflitti, dal divenir deitempi all’intervallo.

Dall’altro mi sembra, invece, che cavalchiamo un “coso” alla

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disdossa, non meglio precisato, elicoidale: un testrupattolo amolle, un giriballo urfido a banane, un dispettoso loffio cigolan-te, un ospitello strascicato e cigolante, un musichiere cavallinocon la mossa, metà meccanico metà animale.

Cavalchiamo e camminiamo, e viceversa, tutt’insieme proce-dendo in un sol dire, col silenzio che nel cuore ci attraversa, dimoto uniforme (seppur non propriamente rettilineo), e concor-de, implicito, animato. È un implicato dare consanguineo, unveicolato porsi all’infinito, dove ogni luogo ne richiama il suc-cessivo, contenendo la misura che separa, oltre il prossimale.

C’è una macchia liquida e sfocata, al centro della mia visio-ne. Non vedo e non discerno: “sento”… come un animale, comeun cane cieco che, annusando il mondo col tartufo, cerca diportarlo a sensazione, di ridurlo a secrezione distintiva.

E non arriva mai, la spia finale, il traguardo che concludaquesto errare.

Percorriamo un sentiero ronzante di luce sporca, giallognola,sulfurea di riflesso opalescente, fumante e vanescente senza posa,come in mezzo ai fili d’erba una mucosa.

Arti penduli che s’intrecciano, lacci e slacci, sviticchiano eavviticchiano legami. Cartilagini, penosamente strascicate. Ne-buloso annaspio.

E intanto ci beiamo della nostra silenziosa conversazione,punteggiata di riprove attese al varco, e di prove superate o com-promesse, come amanti in un calesse, sprofondati negli istantidell’attesa, madornali o decisivi, apertura occlusa di conferma,punti nobili e sospesi di paura, e pentagrammi intorti d’emozio-ne, e mistiche avventure di passione, nelle introdotte chiavi dei

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forzieri, i disperati fondi dei bicchieri, i dissonanti blesi, i gancidi domanda al cuore appesi, su un muro di rimpianti e penti-menti, e l’infinita voce ai sentimenti, l’universale soglia della vi-ta: l’ombra della luce in fondo al tempo, il suono delle stelle incontrocanto, il mare dell’eterno dentro al vuoto, il muto movi-mento della luna, sottili e inesplicabili moventi, disposti cam-biamenti suscettivi, nel cuore che si chiama e non si dona… Co-me stampelle all’asta dell’armadio: oppure perticoni esclamativi,a chiudere, sì: a chiedere risposta.

Macché: siamo due domande ambulanti, due questioni in-questionabili, due complicate soglie di follia, che nessuna solu-zione può avallare. Soltanto l’aporia può contenerci.

Un nodo incavicchiato a triplo giro: la stringa e la serranda,così sia. La via, ci vuole bene. Allacciati al dubbio, a rodere neltarlo il chiavistello, in cerca di un possibile intervallo, un volonel profondo del gran cielo, o l’anima del mondo, l’infinito: ildito che ci spinge dentro l’occhio. Leggermente nervosi e bru-cianti anzichenò, per altro: dico laggiù, a quelle lande estreme,le ctonie dimensioni del budello, il gastrointestinale, in quantoche produce il suo daffare, e compie diligente il proprio uffizio,la pastinaca al burro e al pepe nero, che disinfetta e netta l’ori-fizio.

Ma leggeri, anche: leggeri, beati, sconosciuti al male. Manmano che si sale al pianerottolo d’Urano, tenendoci per mano,alle celesti inconsistenze dello spirito mentale.

E abbiamo il sorriso, il sorriso, sì, affiorante volto della luce,dal colore del sogno e del vuoto.

Ci sorridiamo all’interno, al cuore più profondo di noi stessi,

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laddove quasi sempre c’incontriamo… anche se al di fuori, ma-gari, stilliamo gocce e lacrime di sale, dilavando polvere nei let-ti… e salutiamo tutti, dai fiumi che nel volto son scavati, nuo-tando in fondo ai mari prosciugati.

Camminiamo accanto, assieme composito e uniforme, persentirci più vicini e solidali, nel seguir le nostre orme come ali:anche senza guardarci in volto, perché questo soprattutto fapaura.

Ma ecco che, a un tratto, ci troviamo amaramente ad incon-trare, a calpestare quasi, il corpo di un uomo riverso sul sentiero,occupante per intero la misura.

Dorme: il suo respiro vibra sonoro, sfiorando il rantolo, il la-mento (non russa, però). È di mossa strana e involontaria: on-deggia senza posa la sua testa, come un maglio, in emicicli dipendolo all’intorno, con rotazione spasmodica e alternata, pro-tesa ad uno sforzo massimale… come tentando, più e più volte,ma sempre inutilmente, di scioglierla dai vinchi cervicali, la boc-cia occipitale, per imbucarla al mezzo delle spalle, nel suo pro-fondo centro, nel cavo del sacello pettorale.

Come immerso nel cuore di un incubo vivo: annaspa con lemani, braccia tese a perpendicolo sul corpo, agguantando l’ariadall’interno, fili invisibili dal cielo. Come corde di arpa.

Gli occhi grandi e pallati, aperti all’universo, spalancati. Losguardo grigio di metallo. Le pupille a pizzo, appuntite capoc-chie di spillo. Il naso da pinocchio, lungo e sottilissimo al con-fine: un’escrescenza viola di petecchie, rizoma tuberoso, protu-so, variolato e tremolante.

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Le guance scavate come fosse. Le borse rosse sotto gli occhi, le palpebre infiammate. La pel-

le pesta di lividi: laddove gialla itterica, laddove blu cianotica, overde bottiglione, o pallida di biacca, oppur marrone. Le cigliatutte belle in evidenza, come bistrate col rimmel.

La bocca che si apre e che si chiude, in spasmi fetali, vagitiprimordiali di silenzio: sbadigli, forse.

Lo aggiriamo con circospezione, probabilmente senza riusci-re a non urtarlo (ché, certo, non è poi così agile la dinamica delnostro andamento, e così precisa la manovra che possiamo: fac-ciamo tuttavia del nostro meglio).

Gli rivolgiamo parole di conforto, che vorremmo carezzevolie sicure, qualora risuonassero a conferma, ma che invece, perquanto noi cerchiamo di evitare, si dispongono da sole a inter-rogare, segnate da un rovello esistenziale, minate internamentee irresolute.

Ci risponde farfugliando suoni ottusi, che vorrebbero espli-care a loro volta. Ma è una forza velleitaria e inconsistente…una “forma informe” di vaporoso niente, che tremolando variae si fa vana, che si produce male e inutilmente.

Ha un sorriso ebete nel sogno, le immagini stampate sul suoviso. Ci guarda con espressione ammiccante, con una luce assur-da e lontana, dall’infinito cuore del suo tempo: come da un altromondo, dalla luna.

I suoi occhi riflettono il cielo, le sue mille evanescenti sfuma-ture. Sbarrati, mistici, lucenti. Iniettati di musica e dolore: guar-dano senza vedere, aperti su un mare di vuoto, rovesciati inten-samente al loro interno.

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Finito che ha di risponderci, poi, riprende in un momentocome prima, pari pari, la rotazione della testa ad emiciclo e, in-sieme, il movimento carfologico di mani – brulicante a spasmil’annaspio.

Noi proseguiamo il cammino. Poco più in là, c’è una mac-china gialla lasciata di traverso, con lo sportello aperto e il mo-tore ancora acceso. Mi sembra una Mercedes degli anni Settan-ta, di quelle che oggi usano i rom.

Ed ecco che, associando immantinente il “prima” e il “dopo”,si produce naturale l’inferenza, nella strana lucentezza del pen-siero. E lo dico alla ragazza, che la macchina, molto probabil-mente, è del tizio sdraiato per terra: aveva urgentissimo bisognodi riposar le membra stanche, e compensare i danni, dopo annidi guida ininterrotta.

Ostruito il nostro passo dall’intoppo, nella sua linearità, con-tinuiamo adesso in diagonale, lungo un ideale marciapiede dicittà. Ecco, è fatta: il sentiero che di nuovo ci appartiene.

Dopo un po’, però, sentiamo a distanza, quasi con le antennevibrazioni, che lui si è finalmente alzato e, avendoci concesso unvantaggio appena sufficiente, comincia ad inseguirci, braccarcialle calcagna i pantaloni, a muoverci la guerra coi cannoni.

Lo affrettiamo a più non posso, a tutta birra, il nostro ansi-micchiante claudicare, dopo aver commesso, senza fallo, qual-che errore imperdonabile esiziale! (Chissà che abbiamo detto! Ocosa mai ha capito! E come lo ha tradotto equivocando, il per-maloso!) …E convinti, per logica conseguenza, di meritare trop-po il suo castigo, la dura punizione, dalla sua mano ultrice e san-guinaria.

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Ci raggiungerà, certo, seppure noi corressimo al galoppo: èscritto, sì, è inciso nella scienza delle cose, stampato nella lucein fondo all’aria.

Ed è pure giusto che accada – questo è il fatto!

Ci rifugiamo infine in una stanza matrimoniale, che forse ècasa nostra. Come in albergo, con letto a doppia piazza e bagnoincluso. Mi volto e vedo che la ragazza… è già sotto le lenzuola,nuda, donde tosto m’invita a raggiungerla, a occupare senza te-ma il mio bel posto, per proteggerci a vicenda e consolarci, am-mazzando il tempo dell’attesa (e in quale modo, posso imma-ginare)…

Le dico se è scema, se le pare questa l’occasione…Dal futuro so che lui è entrato: dal presente che entrerà, che

anzi è in procinto di farlo, dal momento che sta per arrivare.Devo capire da dove, attraverso quale andito o fessura. Assicuro meglio la porta, e le finestre. E intanto la ragazza

mi richiama, lagnosa e impaziente: ha bisogno di coccole e ca-rezze: di godere ancora, per una volta almeno, le gioie e le dol-cezze dell’amore. Non mi curo neppure di risponderle, intentocome sono a controllare. Ecco: ora è più sicura, la faccenda. Eallora?

Resta la porta del bagno, quasi tralasciavo: anche da lì, ma-donna, c’è il rischio concreto che lui irrompa.

La apro. Si spalanca su un androne buio ed ammuffito (for-tore d’aria umida mi punge), dal quale – dopo un po’ – affioraun lontano sfarfallio, riflesso sfrigolante di cerino, formicolio diluce da una grata, che piove a innaffiatura di lassù (forse, la

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bocca di un tombino?)… e la sagoma di una scala a chiocciola,sospesa di vertigine nel vuoto, a torre nell’abisso verticale.

Per più di un quarto, invece, lo sguardo può spaziare all’inter-no di una chiesa, vista dall’abside, dietro l’altare ma da un lato,di scorcio, con la prospettiva sghemba di navata, i banchi a pe-corella inginocchiata, le lucine rosse delle insegne, sui confessio-nali, la fiamma tremolante ai candelieri (e mi arrivano colpi ditosse, ripetuti e infine soffocati, e scricchiolii di legno, e scalpicciidi passi, in echi rimbalzanti nel silenzio).

Giungerà dalla scala, credo, oppur direttamente dalla chiesa,facendosi largo fra le quinte stesse al boccascena, oltre la tendaviola del sipario. Incoraggiato, certamente, dal prete bellimbustocol Ferrari: un tipo malandrino e delatore, insieme alla sua gentedi congrega, fedeli più ferventi e baciapile, ma pure gli scagnozzie i caudatari, da quello sopra tutti prediletti, che ci godono, infondo – e sono molto avvezzi e predisposti – nel farsi i cazzi d’al-tri a piedi pari: ci prenderanno gusto a fomentarlo, uno dopol’altro in successione, a spingerlo all’attacco come un cane…

Ma sì, sicuramente.Ho la sensazione sempre più netta che sarà qui a momenti, il

figlio di mignotta. Non c’è più altro da fare: siamo condannati!È firmata, ormai, la sentenza della pena capitale. Mi spoglio nu-do, allora, e raggiungo la ragazza dentro il letto (“Finalmente!”,sento che sussurra, e, rinfrancata, mi accoglie in un tenero ab-braccio, col suo corpo caldo e vellutato). E così lo attendiamo,prossimo imminente, tremando e accarezzandoci, ridendo epiangendo insieme, mentre facciamo l’amore, assaporando pianoe intensamente, disperati, gli ultimi istanti della nostra vita.

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