l’antifascista - anppia.it · i luoghi della storia l’editoriale giorni terribili sono arrivati...
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I luoghi della storia
L’editoriale
Giorni terribili sono arrivatidi Guido Albertelli
Giorni terribili sono arrivati.
Un’intera regione, il Lazio, travolta
non solo da una non politica, ma da
comportamenti inimmaginabili dei
suoi componenti. I ladri all’ombra
dell’Istituzione si dividevano a loro
piacimento risorse dei cittadini per
un uso rozzo, volgare e personale.
Viene giù anche la Regione
Lombardia col suo presidente. Un
cattolico, timorato di Dio, apparte-
nente a un movimento che pone la
solidarietà, il rispetto e la fede come
obiettivo di vita, vive quella perso-
nale usufruendo del lusso messogli
a disposizione da amici che fanno af-
fari con la Regione. Non se ne pente,
anzi ne è fiero e vuole continuare a
sedere sul seggio, dimostrando all’o-
pinione pubblica che non c’è limite
alla spudoratezza e alla mancanza di
sensibilità, finché viene travolto per-
ché si scopre che la ‘ndrangheta si
era infiltrata nel Consiglio regionale.
Questi sono gli esempi che diamo a
un Paese impoverito e disamorato. Il
fango sale e la gente si accorge che ha
già i piedi bagnati.
È una vita che l’Anppia conduce la
sua battaglia, tesa a riportare i va-
lori morali al livello di una volta, ri-
cordando esempi di vita di politici
antifascisti che si batterono fino alla
morte restando poveri e disinteres-
sati. Questo mondo passato resta
un punto di riferimento per tutte le
persone anziane che hanno vissuto il
dopoguerra, ricostruendo un futuro
per i figli, mangiando sul lavoro pane
e cicoria e avendo un solo vestito
buono lungo la loro esistenza. Cosa
penseranno ora, sul declino della loro
vita, guardando quest’Italia irricono-
scibile e amorale? Potranno raccon-
tare ai nipoti il tempo migliore che
fu, ma i nipoti non vogliono ascoltare
perché sono presi dal mondo dei cel-
lulari e degli ipad. E allora subentra
la tristezza e la malinconia che porta
l’antifascistaperiodico degli antifascisti di ieri e di oggi
Fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini • anno LIX - n° 6,7,8,9 Giugno-Luglio-Agosto-Settembre 2012
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
AttualitàImposimatoa pagina 2
MemorieRussoa pagina 18
CulturaNivolaa pagina 8
NoiNuove destrea pagina 21
Quando la mafia mi condannò a morteIl giudice Imposimato ricostruisce per noi la stagione delle stragi e il rapporto criminalità-servizi deviati
di Ferdinando Imposimato
segue a pagina 2
Non c’è mai stata soluzione di continuità tra la strage di Piazza Fontana e tutte le altre che hanno insanguinato l’Italia fino al 1993. Le stragi sono state strumento di lotta politica, per stabilizzare il potere esistente o per
consentire alle forze conservatrici di conquistarlo nel momento in cui le forze democratiche stavano operando il cambiamento. Le prove di questa drammatica verità sono emerse in molte inchieste. Ma i giornali e la Tv non ne parlano, se non in modo superficiale e deviante. Non si vuole che gli italiani sappiano la verità.
La trattativa e le stragi
Molti anni fa, eravamo nel 1992, una giornalista ameri-cana, Judith Harris, del Reader’s digest, mi chiese quale fosse la differenza tra Br e mafia. Senza pensarci due volte risposi: «Le Br sono contro lo Stato, la mafia è con lo Stato. E spie-gai che la capacità della mafia è di intessere legami stretti con istituzioni, politica, magistra-tura, servizi segreti, a tutti i livelli. Con le buone o le cattive maniere. Chi resiste, come Boris Giuliano, Dalla Chiesa, Falcone e
Ferdinando Imposimato
Congresso Nazionale ANPPIAIl XVII Congresso nazionale si terrà a Roma presso l’Hotel S. Bernardo nei giorni 9, 10 e 11 novembre 2012
Lettere9 martiria pagina 21
Porta Lame a Bolognadi Mario Tempesta
Nella cultura popolare il nome di questa città viene spesso
indicato con alcuni aggettivi che la contraddistinguono:
turrita, dotta, grassa, rossa. Turrita per le numerosi torri
che caratterizzano la città medievale, dotta per l’Università
più antica d’Europa, grassa per l’opulenza della sua cucina
tradizionale, rossa per il colore dei muri e dei tetti delle sue
abitazioni ma anche per la sofferta lotta antifascista, per la
quale è stata decorata di medaglia d’oro il 24 novembre 1946
dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola.
segue a pagina 14
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Di quella Loggia facevano parte potenti uomini di Cosa nostra, uomini dei servizi segreti e terrori-sti come Concutelli. Allora Falcone cominciò a morire; era il 1981.
Io condannato a morte
La mia condanna a morte fu pronunciata, probabilmente dalla stessa associazione massonica che controllava i servizi segreti, subito dopo che fui incaricato di istruire il caso Moro, in cui apparvero uomini della mafia, guidati da Pippo Calò, braccio destro di Riina, i capi dei servizi manovrati dalla banda della Magliana e politici amici di Gelli. A raccontarlo al giudice Otello Lupacchini fu il mafioso Antonio Mancini; costui disse che verso la fine del 1979 o i primi del 1980, avendo fruito di una licenza dalla Casa di lavoro di Soriano del Cimino, non era rientrato nella Casa di lavoro; in occasione di un incon-tro conviviale in un ristorante di Trastevere, l’Antica Pesa o Checco il carrettiere, al quale aveva parte-cipato assieme a Danilo Abbruciati, a Edoardo Toscano, ai fratelli Pelle-grinetti, a Maurizio Andreucci e a Claudio Vannicola, mentre si discu-teva del controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefa-centi, si parlò «di un attentato alla vita del giudice Ferdinando Impo-simato». «Dal discorso si capiva che non si trattava di un’idea estem-poranea: era evidente che erano stati effettuati dei pedinamenti nei confronti del magistrato e della moglie; che erano stati verificati i luoghi nei quali l’attentato non avrebbe potuto essere eseguito con
Attualità
successo; si era stabilito che comunque non si trattava di un obiettivo impossi-bile, per carenze della sua difesa nella fase degli spostamenti in auto: il luogo dove l’attentato poteva essere realiz-zato era in prossimità del carcere di Rebibbia, dove la strada di accesso all’istituto si restringeva e non vi erano presidi militari di alcun genere»
«Quando sentimmo il discorso che si fece a tavola, io e Toscano pensammo che l’attentato dovesse essere una sorta di vendetta per l’impegno profuso dal magistrato nei processi per seque-stri di persona da lui istruiti e che avevano visto coinvolti i commensali, i quali parlavano del giudice Imposi-mato definendolo “quel cornuto che ci ha portato al processo”». «Succes-sivamente», chiarì Antonio Mancini, parlando dell’attentato ai danni del giudice Imposimato, «Danilo Abbru-ciati mi spiegò che, al di là delle ragioni
L’editorialeall’indifferenza. Ma ce ne sono molti
che non si arrendono e hanno tra-
smesso ai figli la visione dei confini
ideali della vita. I confini etici che
non possono essere superati perché
sono sopra di tutti e validi per sem-
pre. Il ladro non li vede, ma il mondo
delle ombre di chi ha costruito nobil-
mente il Paese che è sotto di loro, sì,
li vede e ha memoria.
Gli antifascisti devono essere i pri-
mi, in questo momento di disfatta
morale, a cambiare comportamenti.
Accantoniamo, per momenti miglio-
ri, le fasce nere al braccio che virtual-
mente portiamo a ricordo dei caduti
nelle ricorrenze, facciamo riposare
gli stendardi che esponiamo nelle
manifestazioni repubblicane, smet-
tiamo di scambiarci i ricordi delle
imprese dei nostri padri, ma chia-
miamoci a raccolta per la difesa della
Repubblica. Andiamo nelle piazze
con le nostre bandiere per vivere una
rivoluzione senza violenza insieme a
centinaia di migliaia di cittadini che
non intendono essere spettatori di un
degrado che non hanno provocato e
vogliono un’immediata azione della
parte di classe politica che forse è
stata troppo alla finestra, ma non è
direttamente responsabile.
Oggi il cielo è nuvolo e ingrugnito.
Si aspettano temporali e sono quel-
li che fanno paura perché arrivano
improvvisamente e scuotono le co-
scienze, distruggono le incertezze,
armano i pavidi e gli indecisi, danno
corpo alla rabbia di chi ha ragione,
di chi è povero per colpa di altri, di
chi non ha lavoro, di chi non crede
più alle fole della politica di casta. In
un’atmosfera così sono nati il biennio
rosso, il fascismo armato, l’antifasci-
smo senza armi durate il ventennio,
la guerra civile, la Resistenza, piazza-
le Loreto e la libertà tradita.
Guardiamo indietro e impariamo,
così non saremo travolti in avventure
pericolose. Siamo vigili e coraggiosi
a un tempo, ma impegnamoci nel-
la lotta senza criticare da lontano.
Guardiamo a uomini che sono anco-
ra sopra le parti e che possono con
la loro autorevolezza guidarci senza
ambizioni verso la conferma della
democrazia pulita e di elezioni vera-
mente libere.
di Licio Gelli. Questi già allora era legato a Totò Riina, il capo di Cosa nostra, e si recava in Sicilia per avere rapporti con esponenti della mafia. Furono diversi i mafiosi a rivelare questo collegamento tra Gelli e Riina.
I servizi segreti di quel tempo non persero tempo: strinsero patti scellerati con Pippo Calò, il mini-stro delle finanze di Riina, e con la banda della Magliana, sulla quale, senza rendermene conto, fin dal 1975, avevo cominciato a indagare, assieme al Pm Vittorio Occorsio. Con lui trattavo alcuni processi per sequestri di persona, tra cui quelli di Amedeo Ortolani, figlio di Umberto, uno dei capi della P2, di Gianni Bulgari e di Angelina Ziaco; sequestri che vedevano coinvolti esponenti della Magliana, della Loggia Propaganda 2 e del terrori-smo nero. Tra gli affiliati alla loggia di Gelli era un noto avvocato pena-lista, riciclatore del denaro dei sequestri, che poi venne strana-mente assolto, dopo che Occorsio aveva dato parere contrario alla sua scarcerazione.
Di quella banda facevano parte uomini della Magliana, legati alla mafia e ai servizi segreti. Occor-sio, che aveva scoperto l’intreccio tra la strage di Piazza Fontana, l’eversione nera, la massoneria e pezzi dello Stato, venne assas-sinato l’11 luglio 1976. Egli aveva sentito due giorni prima Licio Gelli, su cui stava indagando. Per l’atten-tato vennero condannati Pier Luigi Concutelli e Gianfranco Ferro. L’aspetto singolare di questa storia, ma non il solo, fu la scoperta che Concutelli risultava iscritto alla loggia Camea di Palermo. Giovanni Falcone, nel corso di una perquisi-zione, trovò la sua carta di identità.
Attualità
Borsellino, viene eliminato, senza pietà. Collante tra mafia e Stato è stata sempre la massone-ria o qualche altra entità multicentrica, come Gladio o Staybehind. Questo sistema di legami, che risale alla strage di Portella della Ginestra, non si è mai interrotto nel corso degli anni, ma, anzi, si è rafforzato ed è diventato più sofisticato. Tuttavia molti hanno fatto finta che non esistesse. Complice la stampa manovrata da potenti lobbies economiche.
Da qualche anno è affiorato, nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992 e del 1993, il tema della possibile tratta-tiva avviata da Cosa nostra tra lo Stato e la mafia dopo la strage di Capaci, per indurre lo Stato ad accettare le richie-ste mafiose. Il rifiuto della trattativa sarebbe stato il movente dell’uccisione di Paolo Borsellino. Non ho dubbi che le cose siano andate proprio in questo modo, almeno in parte. Ma è anche vero che Borsellino stava scoprendo i nessi tra mafia, potere politico e isti-tuzioni. E venne ucciso non per la trattativa, ma perché non doveva scoprire una verità drammatica e sconvolgente, che riguardava pezzi insospettabili delle istituzioni.
Per capire quello che si è verificato agli inizi degli anni ‘90 occorre rivol-gere uno sguardo verso il passato.
Tutto comincia con l’assassinio di Moro
Partendo dall’assassinio di Aldo Moro e da ciò che lo precedette e lo seguì. Con la riforma del 1977, che isti-tuì il Sismi, il servizio segreto militare, e il Sisde, servizio segreto democra-tico, i primi atti del presidente del Consiglio Giulio Andreotti e del mini-stro dell’Interno Francesco Cossiga furono la cacciata di funzionari seri e coraggiosi, come i prefetti Emilio Santillo e Gaetano Napoletano, e la nomina, ai vertici dei servizi segreti e degli organi di sicurezza, di ufficiali nelle mani di persone che Moro definì come estranee all’amministrazione: Giuseppe Santovito e Giulio Gras-sini, due generali affiliati alla Loggia Franco Imposimato, fratello di Ferdinando, coi figli piccoli Giuseppe e Filiberto
personali che pure aveva, aveva rice-vuto una richiesta in tal senso “da personaggi legati alla massoneria”, dei quali il giudice Imposimato aveva toccato gli interessi» (dichiarazione di Antonio Mancini; ordinanza di rinvio a giudizio numero 1154/87A GI del 13 agosto 1994 contro Abatino Maurizio più 230).
Due misteriosi agenti segreti
In seguito, durante il processo contro Giulio Andreotti per l’omici-dio di Mino Pecorelli, il procuratore della Repubblica di Perugia accertò che alla riunione, nel corso della quale si parlò dell’attentato a me, avevano partecipato due uomini dei servizi segreti militari italiani di cui Mancini fece i nomi: essi furono incriminati e rinviati a giudizio per favoreggia-mento.
Ma poi furono assolti. Sennonché i due funzionari dei servizi mi avvi-cinarono dicendomi che «loro due non c’entravano niente con quella riunione» e che evidentemente «c’era stato uno scambio di persone da parte di Mancini», altri due uomini del servizio erano coloro che avevano preso parte a quell’incontro in cui venne annunciata la mia condanna a morte.
Ovviamente non fui in grado di stabilire chi fossero i due agenti dei servizi che avevano parteci-pato alla riunione in cui si decise di farmi fuori. Restava il fatto che c’era stato un summit tra agenti segreti e mafiosi per decidere di eliminare, per
ordine della massoneria, un giudice
La tessera da repubblichino di Licio Gelli
Il ritrovamento del corpo di Moro ucciso dalle BR
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di sanguinari e ottusi brigatisti, aveva decretato l’uccisione di Aldo Moro per fini che nulla avevano a che vedere con la linea della fermezza.
Il disegno di costringermi a lasciare il processo sulla Magliana e quello sulla strage di via Fani riuscì, ma non secondo il piano dei congiurati. La mia uccisione non ebbe luogo per le precauzioni che riuscii a mettere in atto, ma nel 1983, nel pieno delle inda-gini su Moro, mio fratello Franco venne ucciso da uomini della mafia manovrati da Pippo Calò, legato a Gelli: quegli stessi che avevano ordito la vergognosa messinscena del 18 aprile 1978, ossia che il corpo di Moro era nel Lago della Duchessa. Quell’ope-razione venne esattamente percepita da Moro, che nella prigione di via Montalcini, venne informato dai suoi biechi e barbari carcerieri. Egli, nel suo memoriale, ricordando gli igno-bili articoli che avevano avallato come vera quella operazione del potere assassino, scrisse: «La stessa macabra grande edizione sulla mia esecuzione può rientrare in una logica, della quale forse non è necessario dare ulteriori indicazioni» (pagina 154 memoriale trovato in via Montenevoso).
I giudici Falcone e Borsellino
AttualitàAttualità
che istruiva due processi scottanti: quello sulla banda della Magliana e il processo per la strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Né io potevo occuparmi di una vicenda che mi riguardava in prima persona come obiettivo da colpire. Ma nessuno, tranne Falcone, che seppe da Giuffrè del progetto di assassinio di mio fratello, si preoccupò di stabi-lire chi dei servizi avesse partecipato al summit in cui era stata annunciata l’imminente esecuzione dell’assassi-nio del giudice che in quel momento si stava occupando del caso Moro. Processo in cui, 30 anni dopo, venne alla luce il ruolo della massoneria, della mafia e della politica, che erano state determinanti nell’uccisione di Moro: infatti presero parte alla turpe operazione del Lago della Duchessa, in cui un falso comunicato delle Brigate Rosse, il n. 7, preparato da un uomo della Magliana, annunciava la esecu-zione, mediante suicidio, di Aldo Moro. Di quest’operazione, secondo il racconto di uno dei congiurati, Steve Piecznick, si resero complici il mini-stro dell’Interno pro tempore e alcuni componenti del Comitato di crisi isti-tuito presso il Viminale.
L’uccisione di mio fratello
In quel periodo, io mi occupavo non solo di sequestri di persona, ma anche del falso sequestro di Michele Sindona, anche lui uomo della P2, e dell’assassinio di Vittorio Bachelet, del giudice Girolamo Tartaglione, del giudice Riccardo Palma e, natural-mente, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta; e avrei accertato, dopo anni, che della gestione del sequestro Moro si erano occupati, nei 55 giorni della prigionia, i vertici dei servizi segreti che erano affiliati alla P2 e legati alla banda della Magliana. Ma tutto questo io all’epoca non lo sapevo: la scoperta delle liste di Licio Gelli avvenne nella primavera del 1981. Ciò che è certo è che il capo del Sismi, gene-rale Giuseppe Santovito, affiliato alla loggia P2, era nelle mani di uomini della Magliana, articolazione della mafia a Roma. E dunque il racconto di Mancini era vero in tutto e per tutto. Qualcuno voleva evitare che la mia istruttoria su Moro e quella sulla banda della Magliana mi portassero a scoprire il complotto politico-masso-nico che, con la strumentalizzazione
I servizi segreti militari (Sismi), che si erano serviti del mafioso Antonio Chichiarelli per prepa-rare il falso comunicato n. 7, erano tutt’uno con la mafia della quale si servivano per compiere operazioni sporche di ogni genere, compresa quella del Lago della Duchessa, che provocò una reazione violenta delle Br contro Aldo Moro, divenuto «pericoloso».
Mafia, massoneria e stragismo
Sennonché, a distanza di 33 anni dal processo Moro, ho avuto la possibilità di scoprire quali fossero le ragioni del progetto criminale. Progetto che aveva visto impegnata quell’agenzia criminale, la banda della Magliana, che agiva in proprio, ma anche per eseguire gli assassini per conto dei servizi segreti, e cioè per conto dello Stato: impedirmi di conoscere il complotto contro Moro.
Era non una trattativa tra Stato e mafia, ma l’esecuzione di omicidi in forza di un vero e proprio accordo tra servizi, mafia e massoneria che, con la benedizione dei politici, aveva sancito, prima, l’eliminazione
di Moro, poi, la mia esecuzione e poi la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mia esecu-zione prevista per il 1979 e poi differita al 1980, 1981 e 1982, fallì. Il risultato fu che io dovetti abbando-nare tutte le inchieste sulla mafia e sui legami tra mafia, massoneria e stragismo.
Durante le indagini che io condu-cevo a Roma per il falso sequestro Sindona, Falcone a Palermo per associazione mafiosa, e Turone e Colombo a Milano per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, venne fuori a Castiglion Fibocchi, nella villa di Gelli, l’elenco degli iscritti alla P2. Enorme fu la sorpresa degli inqui-renti: esso comprendeva i capi dei servizi segreti italiani e del Cesis, l’organismo che coordinava i servizi, e di quelli che facevano parte del Comitato di crisi del Viminale, che era stato istituito da Francesco Cossiga con l’avallo di Giulio Andreotti. Dopo la scoperta venne decisa, dal ministro Virginio Rognoni, l’epurazione degli uomini di Gelli dai servizi e dal ministero dell’Interno; ma di fatto non fu così. La Loggia del venerabile maestro mantenne il controllo sui servizi segreti, come ebbe modo di accer-tare la Commissione parlamentare
sulla P2; e le deviazioni continuarono con la complicità di vari governi che si susseguirono.
L’agenda rossa di Borsellino
Oggi è riesplosa sulla stampa, per pochi giorni, la storia legata alla morte di Paolo Borsellino, subito silenziata dai mass media. La magi-stratura di Caltanissetta ha riaperto un vecchio processo che collega la tragica morte di Paolo Borsellino e della sua scorta a moventi inconfessabili, legati a menti raffinate delle stesse istitu-zioni. L’ipotesi investigativa prospetta la possibilità che Borsellino sia rimasto schiacciato nell’ingranaggio micidiale messo in moto da Cosa Nostra e da una parte dello Stato in sintonia con la mafia, allo scopo di trattare la fine della violenta stagione stragi-sta in cambio di concessioni ai mafiosi responsabili di crimini nefandi, tra cui la strage di Capaci e le altre stragi del 1992. Si tratta di un’autentica vergo-gna, un’offesa a Giovanni Falcone e ai cinque poliziotti coraggiosi morti per proteggerlo. Salvatore Borsellino dice, e io ne sono certo, che le prove di questa ricostruzione erano nell’agenda rossa sparita di Paolo Borsellino. Paolo, informato di questa infame proposta, probabilmente ha reagito con sdegno e rabbia: egli sapeva che lo Stato voleva
STATO LAICO O CONFESSIONALE?
Dal testamento biologico, alla fecondazione assistita, dalla legge 194 all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche: tutti temi sui quali trovare una piattaforma d’incontro scevra da ogni posizione radicale e inutili fondamentalismi e rispettosa dei diritti di ogni cittadino
di Enrico Modigliani
Sono tanti i temi per i quali è urgente battersi per la difesa della laicità nelle pubbliche istituzioni.
Prima di elencarli ed esaminarli occorre sottolineare che la difesa della laicità non implica una lotta contro la religione, il rispetto della quale è un diritto di ogni cittadino (come è diritto dei cittadini atei quello di non credere). Ma il godimento di questi diritti non deve essere strumentalizzato da fondamentalismi o, peggio, dall’uso del potere finalizzato al godimento di privilegi.
Quanto all’uguaglianza dei diritti la nostra Costituzione un problema lo pose con la redazione dell’articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egual-mente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze» e dell’art 7, secondo il quale una religione è più uguale delle altre: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati
scendere a patti con gli assassini di eroici combattenti. Di qui la decisione di accelerare la sua fine.
Ricordo che in quel tragico luglio del 1992, poco prima della strage di via D’Amelio, ero alla Camera dei depu-tati dove le forze contigue alla mafia erano ancora prevalenti e rifiuta-vano di approvare la legge voluta da Falcone, da me e da molti altri magi-strati antimafia, ma anche dal ministro Vincenzo Scotti e dal ministro Claudio Martelli: l’approvazione della legge sui pentiti e dell’articolo 41 bis sull’isola-mento rigoroso dei mafiosi in carcere per evitare che questi continuassero a dettare legge dall’interno del carcere, ordinando omicidi e stragi. Quella legge, nonostante la morte di Falcone, non aveva la maggioranza. Fu neces-saria la morte di Borsellino per il varo di quella legge che oggi si vorrebbe abrogare. Io ne fui testimone diretto e rimasi sbalordito del livello di pene-trazione della mafia nel Parlamento italiano.
Oggi i magistrati di Palermo hanno ripreso il lavoro di Falcone e Borsel-lino, ma sono stati isolati e vilipesi. Noi siamo con loro, poiché sappiamo che senza verità questo paese non si rifonda. E non si salva.
dai Patti Lateranensi».La Costituzione della Repubblica
Romana, madre della nostra Costitu-zione, nei Principi Fondamentali fu più equa e sintetica. Con il principio VII stabiliva che «dalla credenza reli-giosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici»; con il principio VIII affermava che «il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale».
Se si considera che fino al 1848 a Roma c’erano solo due religioni, la cattolica e quella ebraica, che era rele-gata nel ghetto, mentre in Italia, oggi,
La difesa delle libertà nelle istituzioni pubbliche
76 Attualità
ce ne sono oltre 50, tra veri e propri culti che affondano le radici nel passato e nuove sette, si comprende quanto sia importante difendere, da un lato, l’uguale libertà per tutti i fedeli e dall’altro separare la gestione della cosa pubblica dalla religione.
Anche se in questa legislatura non sarà possibile, sarà importante che il Parlamento vari una legge sulla libertà religiosa che risolva tanti problemi ancora in sospeso, come le intese non ancora approvate, la gestione dei luoghi di culto, e altro ancora.
La dinamica della società civile si è dimostrata non solo con i referen-dum sul divorzio e sull’aborto, ma con il crescere del numero di matrimoni civili rispetto a quelli religiosi e con la diffusione delle convivenze, anche omosessuali, alle quali però ancora non si riconoscono diritti.
È qui che si sviluppa il contrasto tra coloro, presenti in entrambi gli schieramenti politici, che aderiscono alla difesa dei «valori non negozia-bili» elencati dalla Chiesa e intendono imporre regole di origine cattolica anche ai non credenti, o diversamente credenti, causando il deficit di laicità nelle nostre istituzioni.
Oltre al tema già citato delle unioni civili, si pensi alle regole sulla fecon-dazione assistita che costringono le coppie che se lo possono permettere a recarsi all’estero. Va detto che alcune parti della legislazione sulla fecon-dazione assistita sono state bocciate dall’Europa che le ha sanzionate come incoerenti e non in linea con la norma-tiva europea. Si pensi alle pressioni esercitate sui medici, che dovrebbero praticare l’aborto, perché si rifiutino e pratichino la cosiddetta obiezione di coscienza. A 34 anni dalla sua nascita, la legge 194 sull’interruzione di gravi-danza viene ostacolata e si cerca di affossarla.
Per lo meno nel Lazio, come ha denunciato la Laiga (Libera associa-zione dei ginecologi per l’applicazione della legge 194) il 91,3 per cento dei ginecologi ospedalieri è obiettore di coscienza, e in 12 strutture pubbli-che su 31 non si eseguono aborti. Ma il tema più significativo, non solo per la sua importanza, ma per la dinamica delle strumentalizzazioni politiche che suscita, è quello del Testamento Biologico.
La Costituzione, con l’art. 32,
stabilisce che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sani-tario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Il cosiddetto «decreto Calabrò», approvato al Senato durante il governo Berlusconi, ma per fortuna ancora non discusso alla Camera, rappresenta il massimo della forzatura nel togliere valore alle volontà del cittadino sulle terapie da accettare in caso di incapacità di intendere e di volere, lasciando le decisioni solo al medico curante. Il colmo dell’ambiguità è definire l’idra-tazione e la respirazione forzata non trattamento sanitario, ma semplice alimentazione, quindi non rifiutabile dal paziente.
Altro tema significativo è l’ora di religione cattolica nelle scuole. Se con il nuovo Concordato del 1984 tale ora è facoltativa, ci sono ancora alcuni problemi: innanzitutto tale ora potrebbe essere disposta fuori dell’orario scolastico, dato che per coloro che non hanno scelto questa materia non ci sono in pratica insegnamenti alternativi; poi l’insegnante è scelto dal vescovo locale e, qualora dovesse essere rimosso, resterebbe come insegnante ordi-nario senza aver vinto alcun concorso; infine, su iniziativa del laico ministro Fioroni (con il governo D’Alema) l’insegnamento dell’ora di religione garanti-sce all’alunno che l’abbia seguita un credito scolastico che si somma ai risultati della maturità. In tal modo, nel caso d’iscrizione a facoltà universitarie con numero chiuso, gli alunni che non hanno seguito quell’ora sono svantaggiati.
I temi da affrontare sono tanti; ma se si riuscirà a costruire una società davvero democratica nella quale prevalga il dialogo nel reciproco rispetto, senza fondamentalismi di qualsiasi natura né strumentalizzazioni, chissà che non si riesca, con tutte le difficoltà nelle quali vive il nostro paese, a cooperare con serenità!
Cultura
Fatta l’Italia, che fine fecero i garibaldini?Il “dopo Unità” delle camicie rosseDimenticate la vulgata retorica sugli eroi del Risorgimento. Qui si narra l’amaro rovescio della medaglia
di Antonella Amendola
Di tutti i libri usciti per i 150 anni dell’unità d’Italia quello di Paolo Brogi, «La
lunga notte dei Mille» (Aliberti editore, con una prefazione di Gian Antonio Stella) è senz’altro il più curioso, il più godibile nella sua tramatura quasi di romanzo on the road a più voci. Perché Brogi, con il suo fiuto di segugio dalle tante passioni, con tutta la simpatia umana che ha per i perdenti, si dedica alla ricostruzione un po’ sghemba e delirante di quello che chiameremmo il secondo tempo. Vi siete beccati i pistolotti retorici della magnifica parata di camicie rosse in marcia da Calatafimi? Ora incassate l’amaro rovescio della medaglia. Molto più avvincente e istruttivo. Che successe a quei valo-rosi che compirono l’impresa una volta che il mitico Generale dette ordine di rompere le righe? Di tutto, di più. Dimenticate la roboante retorica dei libri di scuola, mettete da parte quei santini fotografici realizzati in bianco e nero dal foto-grafo Pavia che al Museo del Risor-gimento, a Roma, comunicano la struggente malinconia di una Spoon River tricolore.
Dopo il trionfo, per la maggio-ranza dei fantastici 1.089 (tanti erano) ci fu una diaspora pica-resca, quasi da sbandati che, pur insigniti di una regia pensione, sentivano di essere di troppo nel neonato stato italiano. Non li vole-vano. Il re, Cavour, Costantino Nigra, gli alti gradi dell’esercito temevano quell’impasto di gene-rosità guascona, quella brutale disponibilità all’avventura guerre-sca, quell’ingenua fede repubblicana che piacevano così tanto a Gari-baldi. Le camicie rosse furono percepite dai nascenti poteri centrali come potenzialmente ever-sive, isolate, disperse: il racconto popolare delle loro gesta fu ammac-cato dal silenzio e non riuscì mai a metter radici in una proposta poli-tica per il futuro.
Ma chi erano? Brogi li mette a fuoco uno per uno.
Il più piccolo, Bepin Marchetti, era un ragazzino di 11 anni, soffriva di tisi e buscava scappellotti dal padre medico sempre su di giri. Il più vecchio, Tommaso Parodi, di anni ne aveva 69. Tra loro una sola donna, 48 analfabeti, 10 ebrei. Mori-rono sul campo di battaglia in 78, 24 impazzirono, 16 si suicidarono, come quel Raffaele Piccoli che si piantò un chiodo nel cervello dopo che gli avevano tolto la pensione, riducendolo alla fame.
Se qualche fortunato riuscì a essere eletto in Parlamento (una piccola schiera di 37 nomi) o qual-cuno, come Pianciani, si conquistò il suo posto al sole come illuminato sindaco di Roma, per tanti si aprì la
via dell’esilio. Tre - Martino Franchi, Agostino Lombardi, Eugenio Ravà - finirono a combattere contro gli schiavisti nell’America del Nord; Nino Bixio sparì nelle isole della Sonda, Salvatore Castiglia, versatile mari-naio, si adattò a Odessa nei ranghi della diplomazia. E poi ci sono quelli che, come il medico Edoardo Herter, ricominciano nell’America del Sud, chi, come Bartolomeo Marchelli, fa il mago, chi compra lauree, chi speri-menta la truffa continua vestendo il saio.
Storie su storie che hanno un unico, sofferto, collante: la condizione borderline di chi è costretto a soprav-vivere al proprio fulgido mito.
Affile, protesta contro il sacrario fascistaLa manifestazione organizzata dal Comitato antifascista
Chiuso il mausoleo dal sindaco per rimuovere alcune scritte
Mostre e dibattiti nella cittadina blindata
Un momento della manifestazione ad Affile
Ha preso il via ad Affile – paese dell’Alta Valle dell’Aniene in provincia di Roma,
1700 abitanti - la manifestazione contro il sacrario dedicato al ministro di Salò Rodolfo Graziani. L’iniziativa, intitolata Non in mio nome, è stata organizzata dal
Comitato “Affileantifascista” dopo le forti polemiche politiche che hanno accom-
pagnato l’inaugurazione del mausoleo costruito all’interno del Parco Radimonte.
L’opera dedicata al ministro della Difesa di Salò, è costata 127 mila euro con fondi
erogati dalla Regione Lazio ed è finita alla ribalta internazionale conquistando, tra
mille polemiche, anche le colonne del prestigioso New York Times.
Il Comitato intanto ha allestito una mostra storica curata dalla Comunità etiope
nel parco della Rimembranza, in piazza San Sebastiano.
Intanto il sindaco di Affile con un’ordinanza ha disposto la chiusura del mauso-leo al gerarca fascista nel parco Radimonte, per rimuovere le scritte antifasciste
ivi apparse.
La copertina del libro di Paolo Brogi
98 Cultura Cultura
Nel 1952 Costantino Nivola rientra per la prima volta in Sardegna dopo la fuga negli USA per evitare le persecuzioni del fascismo a seguito delle leggi razziali.Nivola percorre in lungo e in largo l’isola con l’incarico di realizzare una serie di illustrazioni per documentare la lotta contro la malaria condotta dall’ERLAAS (Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna), un ente che godeva dei finanziamenti della Fondazione Rockefeller.L’articolo (anonimo) dal titolo DDT in Sardinia e i gli acquerelli di Nivola vennero pubblicati sul numero di Marzo del 1953 della rivista Fortune che, tra l’altro, ha la particolarità di avere la copertina illustrata da Giovanni Pintori, grafico dell’Olivetti e grande amico di Nivola.Il lavoro di Nivola diventa un vero e proprio reportage costituito da 21 illustrazioni dove l’artista si sofferma sui tratti salienti della lotta alle zanzare, senza trascurare di documentare caratteristiche e dettagli della vita quotidiana in Sardegna.
internazionali.Ma l’impegno e l’ideale antifa-
scista non erano sopiti nell’animo del Nostro, che ospitava, tra gli altri, nella sua residenza privata, il dirigente sardista Dino Giacobbe anch’egli esule in America, desideroso di organiz-zare una sezione territoriale del Partito Sardo d’Azione, parteci-pava a convegni e manifestazioni politiche, come quelle curate e organizzate dalla “Mazzini Society”, importante e meritoria associazione politica democratica e antifascista.
Costantino Nivola è stato uno dei più importanti artisti del secolo scorso, celebrato nei più grandi musei: sue opere ospitate nell’area antistante e prospiciente gli uffici del Consiglio regio-nale della Sardegna, a Cagliari, testimoniano che nonostante le fertili esperienze di lavoro in America rimaneva indissolubil-mente legato alla sua terra e alla sua comunità pastorale (morirà a Long Island il 5 maggio 1988; Ruth il 18 gennaio 2008). Il libro di Lorenzo Di Biase, arricchito da una prefazione di Carlo Dore, presidente regionale dell’Anp-pia della Sardegna, è un prezioso strumento per riscoprirlo e dargli il posto che merita nella storia dell’antifascismo.
Il libro di Lorenzo di Biase per l’Anppia sarda
Costantino Nivola, un artista contro il regime fascistadi Maurizio Orrù
È stato uno dei più importanti artisti contemporanei, negli Stati Uniti ha lavorato a
contatto con i maestri dell’avanguardia pittorica, ma la sua terra lo vuole ricor-dare come antifascista rigoroso della prima ora. In occasione del centenario della nascita di Costantino Nivola, pittore e scultore, mentre sono stati organizzati eventi culturali a livello nazionale e mondiale sulla personalità del grande artista sardo, l’Anppia della Sardegna ha dato il suo contributo con la pubblicazione del volume Costan-tino Nivola, un artista contro il regime fascista (Ed. Anppia Sardegna 2012).
L’autore del saggio, Lorenzo Di Biase, docente della scuola supe-riore, giornalista pubblicista, noto ai lettori dell’Antifascista per una serie di pubblicazioni di storia dell’antifa-scismo sardo e nazionale, ha avuto il merito di aver scandagliato la figura di Costantino Nivola da un punto di vista umano e politico, o meglio, attraverso il suo antifascismo militante: il suo libro è il frutto di un’accurata ricerca bibliografica e, in particolare, archi-vistica, condotta presso gli archivi pubblici e privati. Il risultato è stato
quello di approfondire, con un carteg-gio inedito, il ruolo di Costantino Nivola fiero oppositore del regime mussoliniano, che imperava sovrano in Italia.
Facciamo un passo indietro. Costan-tino Nivola nasceva a Orani, provincia di Nuoro, nel 1911, da una famiglia numerosa e umile. Il padre esercitava il mestiere di muratore, che condivideva con alcuni suoi figli maschi copreso Costantino che fin da piccolo mostrava inclinazione per le arti e veniva notato da Mario Delitala, pittore e incisore di valenza europea, che gli fece, nel corso del tempo, da nume tutelare.
Nivola, ispirato autodidatta, iniziava il suo percorso di formazione artistica frequentando corsi di arti decorative e figurative in alcuni scuole presenti nel Nord Italia. In seguito lasciava l’Ita-lia e soggiornava a Parigi, ospite di una parente, nella cui casa conobbe alcuni militanti antifascisti: l’occasione propizia per un approccio politico di stampo democratico ed antifascista. Al rientro in Italia conobbe le prime durezze del regime fascista: con sanzioni amministrative fu sospeso dalle lezioni dell’anno scolastico ‘34-’35 per essersi rifiutato di fare il saluto fascista.
Per Costantino Nivola il 1938 fu un anno cruciale: da una parte il varo delle leggi razziali, dall’altra il suo matrimonio con Ruth Guggenheim, una ragazza ebrea tedesca. I coniugi Nivola dovettero in tutta fretta abban-donare l’Italia e riparare oltre confine, a Parigi, dove Costantino entrava in contatto con i fuoriusciti antifasci-sti italiani, come Emilio Lussu e Leo Valiani, e una nutrita pattuglia di anti-fascisti sardi come Giovanni Gadoni, Bernadina Serra in Soru e Pietro Golosio, stretti nel vincolo di solida-rietà della “Concentrazione di azione antifascista” che operava in Francia.
Le frequentazioni politiche antifa-sciste di Costantino Nivola entrarono presto nel mirino dell’Ovra, potente e famigerata polizia politica fascista. Molti i rapporti “confidenziali” stilati sul nostro scultore. A tale riguardo scrive Dino Fabris, Ispettore Generale
di P.S.: “Per il pittore Nivola, che attualmente si trova all’estero, sarebbe bene, a mio subordinato avviso, farlo iscrivere in rubrica di frontiera per l’arresto”. L’artista antifascista era nel mirino, immi-nente la cattura. I coniugi Nivola per sottrarsi all’arresto decidevano, di comune accordo, di trasferire la loro residenza negli Stati Uniti, a New York. Attraverso puntuali e circonstanziate delazioni il regime apprendeva i nuovi spostamenti dei Nivola. Al riguardo leggiamo in un dispaccio ministeriale: “Con rife-rimento alla nota sopradistinta, si comunica che Nivola Costantino pare risieda attualmente a New York. Non è stato possibile finora accertare il di lui preciso recapito”.
A New York la situazione lavo-rativa di Costantino migliorava notevolmente. Grazie alla sua eclettica bravura artistica otte-neva importanti incarichi in alcune prestigiose riviste americane e
Nel 1983 Costantino Nivola fu
inserito nella lista dei 100 per-
sonaggi italiani più famosi negli
Stati Uniti dove fu molto apprez-
zata l’energia con la quale riuscì a
coniugare la sua cultura materica
sarda con la progettualità del de-
sign industriale. Il Nivola scultore
lavorò sull’archetipo mediterra-
neo della dea madre realizzando
forme petrose, allargate in senso
orizzontale, che molto ricordano
la primitiva arte cicladica, ma an-
che il paesaggio sardo. Frequentò
intensamente Le Corbusier, cui
si ispirò per il rigore e l’astrazio-
ne e forse dall’intenso rapporto
con Pollock, il genio dell’action
painting, trasse l’entusiasmo per
quelle gettate di cemento sulla
sabbia che contraddistinguono
la sua creatività architettonica.
Fu affascinato dal ritmo convulso
della vita di New York che conse-
gnò ad opere dallo stile informale,
mentre la sua poetica dei ricordi
è tutta racchiusa nei coloratissimi
acquerelli.
1110 Cultura
IL LIBRo DI CARLo GReppI
L’ultimo trenoRacconti del viaggio verso il lager
introduzione di David Bidussa
Con un registro emotivo particolarmente intenso, Carlo Greppi racconta gli umori, la fame, gli imbarazzi di una promi-scuità forzata, le risse intorno al cibo, ma anche le solidarietà che nascono intorno al cibo e, proprio attraverso questa fisi-cità, arriva a definire la comunità del vagone, una delle più significative novità storiografiche del libro.
Giovanni De Luna, Il Venerdì di Repubblica
Tra il 1943 e il 1945 più di trentamila persone – uomini, donne, vecchi e bambini – affollano le stazioni dell’Italia centro-settentrionale e partono
verso l’ignoto, stipate su treni merci e carri bestiame. L’ap-passionante studio di Carlo Greppi ricostruisce proprio questa fase essenziale nell’esperienza dei deportati e nella memoria dei salvati, il viaggio verso il lager, e lo fa ripercor-rendo le vicende di decine di comunità viaggianti, attra-verso le voci di centoventi sopravvissuti. Lo scorrere ango-sciato del tempo nei vagoni piombati, dove i nazisti sono solo figure sfocate, riempie le narrazioni dei testimoni e accompagna il racconto dei comportamenti dei fascisti, della forza pubblica, dei ferrovieri e della popolazione civile. Durante il tragitto e lungo le rotaie, infatti, questi naufraghi spaesati incontrano uomini e donne capaci di gesti di grande coraggio, ma anche di codardia e di indifferenza. Il racconto del viaggio diventa così l’istantanea di un abbraccio, di una mano tesa, di una lima nascosta, di un sorriso, ma anche di uno sguardo che si distoglie, di una lacrima, di uno sputo. È il ricordo dell’umanità che si incrina, il canto del cigno della normalità. Viaggiando verso i reticolati d’oltralpe, i depor-tati fanno amicizia e tentano la fuga, litigano e cantano, ridono e piangono, mentre cercano di catturare le ultime immagini di un mondo che si allontana lentamente e per
sempre dietro le loro spalle. E le voci intrecciate dei reduci, che in queste pagine rievocano il profumo della libertà e la dignità che svanisce, si trasformano in un grido ostinato in difesa della condizione umana. Gli scritti dei deportati si rincorrono in un inedito mosaico memoriale, schiudendo ai nostri occhi una geografia della sofferenza, che ci commuove e ci indigna. E che ha molto da dire al nostro presente.
GIUSeppe ARAGNo
ANTIFASCISMO E POTEREStoria di storie
Me l’hanno regalato, è appena uscito e vale la pena di fare una piccola batta-glia per procurarselo in libreria o acquistarlo on line, rinunciando al piacere della ricerca tra gli scaffali. Mi è sembrato davvero un libro prezioso.
Isa Viganò, Recensioni Feltrinelli
Nella cornice della “grande storia” – guerra, rivoluzione, passioni e conflitto sociale – uomini e donne in lotta per la dignità. L’antifa-scismo popolare, la scelta di lottare e resistere, tra coraggio e dispera-
zione, in otto storie attraversate da un filo rosso: la cieca ferocia della “ragion di Stato” e l’assurda razionalità dell’ordine costituito. Senza rinunciare al rigore della ricerca, il saggio colloca i fatti nella loro dimensione umana, resti-tuisce la parola a chi non l’ha mai avuta e acquista così i ritmi della narrazione e i toni del romanzo.
Ne nasce un processo al potere che ha per protagonisti voci sconosciute e volti dimenticati in cui il lettore ritroverà qualcosa di se stesso e riconoscerà il presente in un passato che chiamiamo Storia.
C’è un quartiere a Roma che non ricorda ciò che dovrebbe. È sulla Salaria,
alle porte di Roma, è Vescovio. Lì nell’ultimo giorno dell’occupazione nazista si è sacrificato per la libertà un giovanissimo che tutta Roma e non solo Vescovio ha faticato troppo a lungo a ricordare. Forse perché quel ragazzino che ebbe il coraggio di fermare un sabotaggio tedesco nell’ultimo scampolo di presenza nazifascista in città non era iscritto a nulla. Forse perché Ugo Forno con i suoi pantaloncini corti e il ciuffetto ribelle, 12 anni e due mesi nel giorno della morte, può essere apparso come un partigiano assolu-tamente improprio, troppo piccolo per essere tale, qualcosa di inusuale, inaspettato, inspiegabile. E così quanti anni sono ormai passati dal 5 giugno del 1944? Sessantotto anni, sessantotto lunghi anni in cui non si è trovato il tempo di rendere un vero omaggio al sacrificio del più piccolo dei difensori della città, un ragazzino dodicenne che a costo della sua giovanissima vita riuscì a impedire il sabotaggio del ponte ferroviario sull’Aniene da parte dei tedeschi in fuga da Roma. Ugo Forno, l’ultimo caduto della difesa di Roma, morto a Vescovio per una granata tedesca mentre in città c’erano già gli americani, non è ancora ricordato a Vescovio.
Giù in basso, quel ponte salvato dalla furia degli occupanti di Roma ridotti alla fuga e oggi usato dai Frecciarossa s’intitola da pochi anni al giovane Forno. Una decisione di Rfi, che ha reso oppor-tunamente omaggio al piccolo eroe. Bisogna dargliene atto. Ma sull’al-tura in cui Ugo Forno cadde non c’è nulla a ricordarlo. Si chiamava allora Vicolo del Pino il punto in cui fu colpito, oggi non esiste più, era una volta, superata via Masca-gni, la continuazione in discesa di via Luigi Mancinelli. Gli amici e i familiari di Ugo Forno hanno chiesto quest’anno che un piazzale-giardino lì esistente sia dedicato al
Memorie
ragazzo. Finora però a Vescovio non è successo niente.
Eppure è proprio lì che andò a finire i suoi giorni il ragazzo uscito quella mattina del 5 giugno dalla sua casa in via Nemorense 15. Ugo Forno, per tutti Ughetto, aveva appena finito la seconda media alla Settembrini di corso Trieste. La pagella lo ricorda come bravo ma un po’ irrequieto. Figlio di Enea Angelo, impiegato dell’intendenza di finanza, e di Maria Vittoria uscì presto di casa. Ma poco dopo la madre lo vide tornare trafelato a cercare qualcosa. Non un giorna-letto o un giocattolo, ma un pacchetto misterioso. Dentro l’involucro c’erano due pistole lanciarazzi tedesche che Ughetto aveva raccolto in quei giorni e nascosto sotto il letto. Suo fratello Francesco, diciottenne, a letto con l’in-fluenza, lo ricorda entrare ed uscire di corsa. Nessuno si rese conto di cosa stesse succedendo. È l’ultima imma-gine di Ughetto con i suoi pantaloni corti che imbocca di corsa le scale con quel pacco sotto il braccio. Ughetto aveva infatti saputo dei tedeschi sull’Aniene e aveva deciso di fare qual-cosa.
Alle 7,30 Angiolo Bandinelli lo aveva già intravisto in una mischia di persone, tra Via Ceresio e Via Nemorense mentre gridava: “C’è una battaglia, lassù oltre piazza Vescovio! Ci sono i tedeschi, resistono ancora”. A quel punto Ughetto si era allonta-nato verso piazza Vescovio mentre Angiolo Bandinelli era salito in stanza per prendere la sua pistola e assieme a Lucio Manisco si era poi diretto verso il luogo della battaglia. Ma la battaglia non c’era ancora, a scatenarla sarebbe stato Ughetto.
Il ragazzino era intanto già arri-vato sul posto, la fine della collina di Vescovio da cui si domina l’ansa del fiume Aniene accanto alla Salaria e a quel ponte ferroviario intorno al quale brulicavano i guastatori tedeschi che stavano sistemando i candelotti di dinamite. A Vicolo del Pino c’era un casolare, lì alcuni contadini erano riuniti nella pausa del lavoro, arrin-garli e portarseli dietro fu un attimo.
Erano Antonio e Francesco Guidi, Luciano Curzi, Vittorio Selvosi e Sandro Fornari. Ughetto nel frat-tempo aveva rimediato anche un fucile, i contadini estrassero due mitra nascosti nel fieno, così partirono all’at-tacco dei guastatori tedeschi.
I tedeschi risposero agli spari dei compagni di Ughetto, usarono le granate. Il primo a cadere fu France-sco Guidi, aveva 21 anni. A Luciano Curzi ferirono una coscia, a Sandro Fornari staccarono un braccio. E poi fu colpito anche Ughetto, alla testa e al petto. È così, morente, che lo trovò un sottotenente partigiano, Giovanni Allegra. Inutile la corsa col piccolo corpo ferito a morte verso la clinica dell’Inail a Monte delle Gioie. Ughetto non sopravvisse alle terribili ferite delle granate.
E poi? Roma ha stentato a lungo a
ricordarlo. Sotto Darida sindaco gli fu finalmente dedicata una piccola via, quasi di campagna, nell’estrema peri-feria di Casal Bernocchi. L’Anpi gli ha poi intitolato una sezione, quella presso l’Istituto superiore della sanità. Alla scuola Settembrini una targa ne ricorda il passaggio. Infine nel 2005,
MeMoRIe oSCURATe
Ugo Forno, il “ragazzo del ponte”Gli amici e i familiari hanno chiesto quest’anno che un piazzale-giardino del suo quartiere gli sia dedicato
Finora però a Vescovio non è successo niente
di Paolo Brogi
Ugo Forno con la mamma e la zia
1312
problemi adolescenziali.La vita in collegio trascorre abba-
stanza distorta dalla realtà esterna, le suore fanno quello che possono sia per la loro mentalità che per necessità. Più tardi verrà in colle-gio anche mio fratello. Poche visite della mamma, solo una volta al mese per ordine della Superiora, niente parenti, un deserto affettivo totale. Ho tre amichette: la Mara, la Rossana e la Silvana; con loro trascorro gran parte delle giornate, specialmente quando puliamo le scale di servizio o si va alla legnaia a prendere la legna, oppure siamo in cucina a sbucciare le patate. L’am-biente del collegio è molto bello, contrasta con la realtà di tutti i giorni: grandi spazi, lunghi corri-doi con appesi alle pareti ritratti maestosi, soffitti affrescati, un grande scalone di accesso, un cortile interno pieno di reperti antichi e ceramiche robbiane, un bel giardino. M’incanto ad osser-vare tutto questo estraniandomi dalla realtà, rendendo più leggera la quotidianità anche perché non andiamo fuori quasi mai, ma mi sento come in prigione. Quelle poche volte che usciamo, però, indossiamo una bella divisa all’in-glese di cui sono molto fiera e della
quale ho ancora un buon ricordo.A undici anni esco dal collegio, è
un trauma terribile: il mondo mi è completamente estraneo, non riesco a capirci niente, le persone mi fanno paura, a scuola vado molto male, e la mamma è molto severa, lei deve lavorare ed io non le posso creare
MemorieMemorie
con Veltroni sindaco, un’altra targa è stata inaugurata al Parco Nemorense (e non sono mancati poi i vandalismi vari). Nel frattempo è uscito anche un libro “Il ragazzo del ponte”, di Felice Cipriani, edizione Chillemi. E nella ricorrenza della morte che è anche quella della liberazione di Roma sono state celebrate alcune iniziative. Manca però qualcosa che lo ricordi nel posto in cui è avvenuto il suo sacrifi-cio. Vescovio sembra distratto da altre storie e altri interessi.
Fino a quando?
L’autrice di questa memoria è nata a Civitella in Val di Chiana, piccolo borgo martirizzato dalle efferateze dei tedeschi
Ha insegnato storia dell’arte nei licei
di Anna Magnanini
Viciomaggio, 8 Luglio 1944, sono passati dieci giorni dalla strage di Civitella in Val di
Chiana dove si è consumata una carne-ficina di uomini, donne e bambini innocenti, un orrore di fuoco e di morte messo in atto dai nazisti in riti-rata. È sabato, un giorno di sole splen-dente, sono circa le dieci del mattino; fuori e nei dintorni ci sono grandi manovre belliche, i boschi di Civitella e di Tuori pullulano di tedeschi allo sbando, si sta avvicinando il passaggio del fronte. La mamma ventiseienne e il babbo trentenne se ne stanno rinchiusi nelle cantine insieme a noi due bambini, io di tre anni ed il mio fratel-lino di un anno; tutti insieme agli abitanti del posto. Una cantina umida e piena di botti, dove un mucchio di gente sta assiepata nel poco spazio disponibile, gente muta, assorta piena di terrore, che sobbalza ad ogni esplo-sione di colpi di cannone o di mitra-glia. C’è un lungo momento di tregua, fuori l’aria è ferma ed immota come se tutto fosse finito. Un amico, proprie-tario del cascinale, propone al babbo di uscire per rendersi conto della situazione; il tragitto all’esterno è breve: c’è solo da attraversare uno stradello e salire pochi gradini di un bel giardino sopraelevato pieno di verde e di fiori. Il babbo accetta e istintivamente, con me in braccio, si
segnato da una sorte tragica.È il 1946, la mamma, vedova di
guerra, trova finalmente lavoro come bambinaia al Brefotro-fio insieme ad altre vedove. Per la mamma coraggiosa, anzi eroica, è la salvezza; inizia il suo riscatto ma deve fare una scelta crudele per poter lavorare. Prima tocca a me andare in un collegio per orfani. Ho solo cinque anni, ma una piena consapevolezza della situazione in cui mi trovo. Di colpo sono sola e abbandonata, un fuscello al vento, immersa in un mare di solitudine. È una sensazione di assenze incolma-bili, molto ricorrente nella mia vita futura. Mi sento completamente orfana. Un incubo notturno ricor-rente mi fa svegliare in piena notte in quel camerone illuminato da una luna livida ed estranea alle mie paure: mi trovo in un cunicolo buio, cammino per trovare un’uscita, avverto dei passi cadenzati, sempre più vicini, mi metto a correre piena di terrore, i passi si fanno sempre più minacciosi, mi trovo di fronte ad un muro e non ho scampo, mi volto, cerco di urlare con tutte le mie forze ma la voce non mi esce. Ripe-scando nel mio inconscio, tanti anni dopo, saranno delle sedute anali-tiche a liberami da questo incubo e da tanti altri traumi infantili e
Il parco che si vorrebbe dedicare a Ugo Forno nel quartiere Vescovio di Roma
avvia verso l’uscita; la mamma mi trat-tiene, forse mi sono messa a piangere o forse… un presentimento. Il babbo lo conosco poco, è stato congedato da pochi giorni, per malattia, dopo quattro anni di fronte.
Passano alcuni momenti: una canno-nata e una scarica di mitraglia, lunga e vicinissima, squarciano il silenzio di quel misero rifugio pieno di fami-glie impaurite e disperate. La tragedia si è compiuta: il babbo è preso in pieno, vicino alla limonaia, da schegge mortali, il suo amico morirà dopo una lunga agonia. Da quel momento una giovane vita famigliare piena di speranze è stata troncata di netto, come con un colpo di mannaia mici-diale. Non ricordo la fisionomia del babbo, ma dalla fotografia del matri-monio appare come un giovane alto e biondo, pieno di vitalità e voglia di vivere. Ricordo il cancelletto a cui sto aggrappata per osservare il mesto corteo del funerale con una cassa zincata un anno dopo la tragedia: sì, perché il babbo viene rimosso dalla limonaia il giorno dopo per paura di rappresaglie e messo dentro quat-tro assi, un po’ alla meglio, da mani pietose. Inizia un doloroso calvario per la mia mamma: sola, con noi bimbi piccoli, ed abbandonata da entrambe le famiglie e, come si suole dire, “senza arte né parte”; il nostro destino sembra
problemi. Seguo un indirizzo di studi commerciali che a me non piacciono e non mi ci sento tagliata, ma è la strada più breve per trovare un impiego. Sono sempre più complessata! Continuo a pensare che stavo meglio in colle-gio, mi sento inadeguata e fuori posto. La casa è brutta, vecchia e buia, la mia sola salvezza è vivere all’esterno. Mi allargano il cuore la bella chiesa di San Domenico, che crea un trian-golo magico con il Prato e il Duomo, la vista dei bei palazzi antichi e della bella campagna lussureggiante poco lontano, che mi riconcilia col genere umano. Sono sempre silenziosa ma osservo molto, la mia adolescenza non mi piace. Mi sento ingabbiata in una vita poco consona e con pochi affetti. Dietro suggerimento di altre persone la mamma, che si dimostra intelligente, mi regala dei libri per adolescenti: li trovo inutili e superficiali, ma uno di questi intitolato “Le rane non si arren-dono” mi fa capire che senza la buona volontà e la determinazione non si arriva a nulla e che solo tu puoi essere artefice della tua vita.
Mi metto a leggere con avidità tutto ciò che trovo in libreria, con i libri economici della BUR, sono molto brava a disegnare e prendo sempre dieci con i complimenti dell’insegnante. Capi-sco che devo fare ciò che mi piace e
così mi iscrivo ad un doposcuola arti-stico. Incomincio ad allargare il mio orizzonte e a prendere coscienza di me e anche un po’ più di sicurezza. Il salto qualitativo avviene con la deci-sione di frequentare il Liceo Artistico a Firenze, dopo aver superato gli esami di ammissione. Sono anni di grande
volontà e determinazione. La mamma, che nel frattempo è diventata infer-miera del Pediatrico, mi sostiene e anche lei cerca un riscatto nella vita dopo tante sofferenze e privazioni. Mio fratello frequenta, con successo, il Liceo Scientifico. Capisco che io e lui siamo la sua forza e quindi non possiamo deludere le sue aspettative. La mattina esco di casa alle sei meno un quarto, sono sempre felice e serena, mi chiudo la porta dietro le spalle con grande soddisfazione, mi sento libera di affrontare una giornata piena di imprevisti e di emozioni, in spazi aperti e meravigliosi, come solo le strade e i monumenti fiorentini sanno dare. Ho sedici anni e finalmente con grande determinazione sono inserita in un contesto confacente ai miei desi-deri. A scuola l’insegnamento è molto aperto ma rigoroso. Gli insegnanti sono bravi e gentili ma molto severi e selettivi, per cui anno dopo anno siamo sempre meno alunni, consapevoli di appartenere a un gruppo ristretto. Di solito ritorno da Firenze alle quat-tro del pomeriggio, ma due giorni per settimana alle otto di sera. La mole di studio è enorme, soprattutto per i dise-gni geometrici occorre un’applicazione lunga e sistematica. A volte, mentre sono china sui fogli, in pieno silenzio notturno, avverto alle mie spalle un lieve respiro, una presenza costante e rassicurante. Mi volto ma la stanza è vuota.
Un giorno, terminati prima del previsto i compiti scolastici, la mamma entra in camera chiedendomi di andare a comperare un vaso da fiori per la tomba del babbo. Fuori sta piovendo e tira un bel po’ di vento. Entro in un negozio poco lontano dalla nostra casa, scelgo il vaso e, dopo aver pagato, vado verso l’uscita che dà direttamente sulla strada, ma nel momento in cui sto per attraversare un grosso camion soprag-giunge a gran velocità, sto per essere investita, ma una forza, forse una mano, mi trattiene ferma, rigidamente stretta contro il muro, impedendomi di andare avanti: risento il respiro dietro di me, sempre lo stesso. Sono salva.
Da quel momento non mi sono più sentita abbandonata e, dopo avere terminato gli studi e ottenuto l’inse-gnamento, sono felicemente diventata madre di due splendidi bambini.
8 luglio 1944
Il borgo di Viciomaggio ai giorni nostri
1514 I luoghi della storia I luoghi della storia
segue da pagina 13
Nella cultura popolare il nome
di questa città viene spesso
indicato con alcuni aggettivi che la
contraddistinguono: turrita, dotta,
grassa, rossa. Turrita per le numerosi
torri che caratterizzano la città
medievale, dotta per l’Università più
antica d’Europa, grassa per l’opulenza
della sua cucina tradizionale, rossa
per il colore dei muri e dei tetti delle
sue abitazioni ma anche per la sofferta
lotta antifascista, per la quale è stata
decorata di medaglia d’oro il 24
novembre 1946 dal Capo provvisorio
dello Stato Enrico De Nicola.
Durante tutto il periodo tra le due
guerre mondiali, Bologna fu infatti
teatro di vari fermenti sociali e
particolarmente tenace fu la resistenza
dei bolognesi alla Repubblica di Salò e
all’invasione tedesca.
Uno degli episodi più significativi
della lotta di Liberazione fu la
“battaglia di Porta Lame” del 7
novembre 1944 (anche se si disquisisce
sulla definizione di “battaglia”) che
segnò il momento di una stagione
della guerra nella quale le forze della
Resistenza vennero a contatto in forme
nuove, dirette e più diffuse, rispetto a
quanto era avvenuto in passato sia con
le forze nemiche che con gli Alleati.
All’alba di quel giorno nell’area
compresa fra il vecchio Ospedale
maggiore, via del Macello, via delle
Lame e viale Pietramellara, 320
partigiani della 7° Brigata GAP
(Gruppo di Azione Patriottica), armati
di mitra, moschetti, pistole, bombe a
mano e 2 mitragliatrici, erano dislocati
all’interno dei ruderi dell’Ospedale
e di uno stabile di via del Macello.
L’inizio dello scontro ebbe origine da
un rastrellamento dei nazifascisti teso
ad eliminare le basi partigiane nella
zona. La scoperta “accidentale” della
base (i fascisti hanno sostenuto da una
“delazione”) da parte di una pattuglia
tedesca motorizzata con 40 unità e di
circa 150 uomini delle Brigate Nere, un
totale inferiore alle forze partigiane,
trasformò il rastrellamento in una
vera e propria battaglia fra le mura
cittadine; dopo 5 ore di scambio di
fucileria con severe perdite in morti e
feriti, i nazifascisti chiesero rinforzi.
Arrivò la compagnia Arditi della GNR
(Guardia Nazionale Repubblicana) e
un reparto tedesco della Divisione SS
Reichsfuehrer, forse proveniente da
Casalecchio di Reno, con un pezzo
anticarro da 37 mm. e un cannone
antiaereo da 88 mm. Lo scontro si
protrasse per ore fino alla totale
demolizione mediante cannonate della
base di via del Macello; ma al momento
della conquista del caposaldo da
parte degli attaccanti, i partigiani
avevano abbandonato il luogo della
loro resistenza. Le SS a questo punto
con tutti i loro mezzi ritornarono sulle
loro posizioni. Rimasero a completare
il rastrellamento la compagnia delle
Brigate Nere bolognesi, il Reparto
RAP (Reparto Assalto Polizia), la
compagnia Arditi della GNR e la
pattuglia tedesca, per un totale di
circa 200 uomini.
Al calar delle tenebre, i partigiani
uscirono dalla base; la simultaneità
e l’audacia della sortita consentì ai
“gappisti” di riparare in altri luoghi
più sicuri e di attaccare i tedeschi e i
fascisti in vari punti della città: a Porta
S. Felice, all’angolo di via Riva di Reno,
a via delle Lame, a via del Randone.
Le perdite di questo fatto d’arme
furono 17 morti accertati ed altri 50
feriti per i fascisti, non meno di 15 per
i tedeschi, mentre la 7° Brigata GAP
ebbe 12 morti e 15 feriti.
Nell’Italia occupata dalle truppe
naziste, questa battaglia rappresenta
la più rilevante sconfitta dei tedeschi
all’interno di un centro cittadino
e dimostra quanto fosse alta la
combattività e l’ardimento dei giovani
bolognesi e degli antifascisti di
ogni ceto; ma soprattutto evidenzia
quanto fosse socialmente ampio e
diversificato il sostegno popolare alla
lotta partigiana.
Con la battaglia di “Porta
Lame” (nonché della precedente
all’Università e di quella successiva nel
quartiere Bolognina, il 15 novembre
1944), i partigiani - pur vittoriosi
avendo inflitto pesanti perdite al
nemico e tenuto in scacco l’esercito
tedesco all’interno della città - non
riuscirono a modificarne la situazione
bellica. Bologna rimase sotto il rigido
controllo nazifascista fino al 21 aprile
del 1945, data della sua liberazione
ad opera delle truppe del generale
Anders.
Le due battaglie di “Porta Lame”
e della “Bolognina” avvennero quasi
in concomitanza con il Proclama del
generale Harold Alexander del 13
novembre che, esplicitando l’arresto
dell’offensiva sulla “Linea Gotica”,
chiese ai partigiani italiani di cessare
per il momento operazioni organizzate
su vasta scala, di “stare in difesa” e
di conservare le munizioni in attesa
del successivo attacco alleato. La
Linea Gotica, costruita lungo i crinali
appenninici per bloccare l’avanzata
dell’esercito angloamericano al
Nord Italia, era lunga oltre 300 km.
e comprendeva bunker, casematte,
trincee, nidi per mitragliatrici,
camminamenti e, lungo la riviera,
torrette, fortificazioni a “denti di
drago” per impedire eventuali sbarchi.
La sua realizzazione aveva comportato
la cacciata dalle proprie case di
collina e di pianura, requisite per
motivi bellici, di decine di migliaia di
contadini, che si rifugiarono a Bologna
con le loro masserizie occupando tutti
gli spazi disponibili della città ove
la popolazione arrivò a superare le
500.000 persone.
Il Proclama incise profondamente
sulle vicende della guerra partigiana
e della Resistenza bolognese, che
dovette frenare lo slancio iniziale e
pagarne le conseguenze con il mancato
raggiungimento dell’obiettivo militare
della campagna. Ne approfittarono
i tedeschi ed i fascisti per scatenare
feroci rastrellamenti e rappresaglie;
gli scontri armati videro impegnati
i partigiani bolognesi in attesa di
rinforzi in condizioni assai difficili
anche per il duro inverno.
L’arresto dell’offensiva alleata era
dovuto al fatto che, nell’estate del
1944 con lo sbarco in Normandia, vi
era stato il mutamento del quadro
strategico generale e l’Italia era
divenuta un fronte secondario; inoltre,
la linea adottata dagli Alleati nei
confronti della Resistenza italiana
era sì di sfruttarne le potenzialità ma
anche di tenere a freno le prospettive
di azione autonoma sia delle forze
combattenti che dei partiti politici che
l’animavano.
A tal fine gli Angloamericani
strinsero alla fine del 1944 un accordo
con il CLN (Comitato di Liberazione
Nazionale), che prevedeva da un
lato il riconoscimento ufficiale della
Resistenza italiana da parte degli
Alleati, dall’altro che, subito dopo la
liberazione, la Resistenza cedesse le
armi e rinunciasse alla costituzione
di propri organi di potere negli ambiti
locali, Comuni e Province. Anche se
tra gli stessi Alleati c’era un differente
sentimento politico: gli Inglesi,
assai più che gli Americani, non
dimenticavano che l’Italia era un paese
sconfitto e che, malgrado gli apporti
del Corpo Italiano di Liberazione e
del Movimento di Resistenza nelle
zone ancora occupate, che pure
venivano accolti e incentivati, l’Italia
doveva rimanere fino al Trattato
di Pace un Paese sconfitto anche se
“cobelligerante”. Insomma il rapporto
non prescindeva che l’Italia, come
Stato aggressore e vinto, dovesse
subire una punizione.
Attualmente a Porta Lame una
Lapide, collocata nel 1964, ricorda
alle successive generazioni il’eroico
sacrificio dei dodici giovani caduti per
l’indipendenza e la libertà. Davanti
all’epigrafe, due figure immerse nello
spazio, due statue senza basamento,
“Il Partigiano” e “La Partigiana”,
dello scultore bolognese Luciano Minguzzi. Il loro bronzo proviene
dalla statua equestre di Benito
Mussolini, che era collocata sotto la
Torre di Maratona al Littoriale (ora
stadio Dall’Ara); decapitata dal popolo
bolognese il 26 luglio del 1943; era
stata ricavata - a sua volta - dal metallo
dei cannoni sottratti agli Austriaci nel
1848.
Artista di fama internazionale, il
Minguzzi ha forgiato le due opere
in un simbolico realismo: lui in
atteggiamento assorto, pensieroso; lei
- con la bandoliera a tracolla - pronta
per le battaglie delle donne negli anni
a venire. È netto il contrasto con il
vibrante e tormentato espressionismo
che lo stesso scultore forgiò nella
“Porta del Bene e del Male” nella
basilica di S. Pietro a Roma dove nel
pannello del Male, “l’Esercito dei
Martiri” commemora i 13 partigiani
della 63° Brigata Garibaldi, trucidati
il 10 ottobre del 1944 a Casalecchio di
Reno; legati ai cancelli vicino ad un
cavalcavia, passati con il filo spinato
attorno al collo, furono fucilati al
basso ventre e alle gambe in modo
che i corpi, piegandosi, prolungassero
l’agonia; lì rimasero esposti per tre
giorni.
Porta Lame a Bolognadi Mario Tempesta
Il monumento presso Porta Lame con le statue di Minguzzi
La lapide ai Caduti della Resistenza presso Porta lame
1716 I luoghi della storia I luoghi della storiaMemorieMemorie
pICCoLA SToRIA DeL pARTITo D’AZIoNe
Quella sconfitta politica è oggi un monito moraledi Giovanni Russo
della libertà. Parlo del pensiero e dell’azione dei fondatori di Giustizia e Libertà Ugo La Malfa e Guido Calo-gero e dell’esperienza breve, dopo la fine del fascismo, fallita, ma proprio per questo ricca di insegnamenti illu-minanti, del Partito d’Azione, fino alla battaglia condotta dal 1949 al 1966 dal Mondo di Mario Pannunzio, dove confluirono ex azionisti, liberali, democratici e socialisti. Il significato de Il Mondo di Pannunzio è stato proprio quello di conciliare, da Croce a Einaudi, azionisti come Ernesto Rossi e personalità come Gaetano Salvemini.
Nel momento in cui si tratta di prefigurare una democrazia in cui ci sia libertà e giustizia c’è da chie-dersi perché il pensiero e l’opera di quel filone al quale facciamo rife-rimento non siano presi in dovuta considerazione. Tocca a noi ripren-derlo e riproporlo.
Tra il socialismo e Benedetto Croce
È vero che Palmiro Togliatti, leader del Pci, fu sprezzante nel liquidare il Partito d’Azione ed è ben vero che, da un altro punto di vista, lo stesso Benedetto Croce sottopose a critica, considerandoli concetti contraddittori, i termini di giustizia e libertà, in quanto la libertà, egli scrisse, non può essere in funzione di una questione economica. Ma è anche vero che, nonostante questa critica, lo stesso Croce ha poi finito per riconoscere che nella libertà l’uomo non può non ricercare la giustizia sociale.
Intellettuali ex comunisti sosten-gono che, come esisteva un cattivo uso dell’ideologia comunista, il cosiddetto comunismo reale, gli intellettuali non comunisti avreb-bero tralasciato di approfondire la cosiddetta democrazia reale.
Anche qui appare strano come si sia dimenticato che tutto il movimento di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione nasceva non solo dalla critica del sociali-smo tradizionale e del comunismo cosiddetto reale, contrassegnato dalla dittatura e da una burocra-zia sfruttatrice, ma anche dalla critica della democrazia reale dei Paesi capitalisti. Rosselli, Gobetti, e poi Ernesto Rossi si sono sempre occupati proprio dei difetti e dei problemi della democrazia reale.
Nel Malgoverno, un libro pubbli-cato nel 1954, Ernesto Rossi scriveva che molti di coloro che si dicono liberali non hanno alcun ritegno a rinnegare i principi della libertà e a presentarli come prin-cipi liberali per fare i loro interessi. Egli ribadiva, appunto, come il vero liberismo impone pianificazione, programmazione, regolamento
Chi ha vissuto in Italia l’espe-rienza politica di questi anni e ha scelto di non essere un anti-
comunista viscerale (senza nulla concedere alla giustificazione dei metodi dittatoriali dell’ideologia comunista e ciò soprattutto per evitare di trovarsi in cattiva compagnia) deve constatare come siano quasi ignorati, o comunque ricordati solo marginal-mente, il contributo e l’esperienza di intellettuali o di uomini politici che hanno cercato, proprio in Italia, durante il fascismo, una strada in cui si potesse realizzare la giustizia sociale mantenendo tutte le garanzie e i valori
anche con rispetto del mercato. Gli intellettuali che si riuni-
vano intorno a Il Mondo sapevano pensare a una vera Italia euro-pea. Era l’Italia dell’utopia del Partito d’Azione, sognata da Ugo La Malfa. È l’idea di un’Italia di mino-ranza, ma che rappresenta quelle radici morali di un Paese che non è condannato al disprezzo dell’etica, al servilismo, al conformismo.
Non posso non ricordare Piero Calamandrei e le sue riflessioni che hanno ispirato il settimanale Il Ponte, la rivista che dirigerà fino alla morte e che ha rappresentato, insieme al Mondo, una voce così significativa nella cultura e nella lotta politica italiana. Calamandrei, come Leo Valiani hanno avuto un rapporto dialettico con il pensiero di Benedetto Croce, che gigan-teggia su questi personaggi con le sue critiche. Valiani permette di cogliere nel pensiero di Croce l’im-pegno morale della libertà come una conquista nella vita pratica. È interessante come Valiani sottolinei il ruolo positivo di Benedetto Croce e Adolfo Omodeo.
L’intellettuale disorganico
Mentre con la fine del Partito comunista è caduto pure il modello dell’intellettuale che vi faceva rife-rimento, la morte prematura del Partito d’Azione non ha portato con sé la fine di quel modello d’intellet-tuale, strutturalmente disorganico, naturalmente impegnato a sinistra.
Gli intellettuali del Partito d’Azione, checché ne dicano i cosid-detti revisionisti, non erano mai stati legati da nessuna dipendenza ideologica e politica diversa dagli ideali di Giustizia e Libertà.
Come affermava Gennaro Sasso, il massimo studioso odierno di Benedetto Croce, che è stato anche lui un azionista: «Oggi è di moda dire peste e corna degli azionisti, accusarli di tutti i mali della Repub-blica, come se non ci fossero altri esempi molto più autorevoli a rappre-sentare questi mali».
Non posso non ricordare poi Paolo Vittorelli, che dirigeva con Aldo Garosci il primo giornale in cui ho cominciato a scrivere, L’Italia Socialista, protagonista della lotta antifascista fin da giovanissimo nel Nord Africa. Egli, infatti, era nato
ad Alessandria d’Egitto ed era stato inviato da Giustizia e Libertà al Cairo dove fondò un gruppo di GL. Dopo la guerra, insieme a Stefano Terra, viene dall’Egitto in Italia e diventa uno degli esponenti del Partito d’Azione. Il volume, uscito nel 1998, L’età della speranza, testimonianze e ricordi del Partito d’Azione di Paolo Vittorelli (che dimostra il talento di un vero scrit-tore) è ricco di intuizioni politiche ed è prezioso per conoscere la storia di quel partito, ne analizza le ragioni della crisi e i motivi di una scissione che egli fino all’ultimo tentò di scongiurare.
Il maestro Guido Calogero
Mi è capitato di sfogliare un libretto di Guido Calogero, in cui parlava del suo concetto di liberal-socialismo e scriveva: «Coerente e autonomo è solo quel liberalismo che è insieme socia-lista, o quel socialismo che è insieme liberale. Si chiami questo poi più adeguato e approfondito concetto col nome di liberal-socialismo, di radicali-smo, di laburismo, con quella qualsiasi altra denominazione che si preferisca come più rispondente al proprio gusto e opportunità. Quando si vuole la libertà politica, e non la si vuole solo a metà, allora si deve volere anche la ugua-glianza economica, quando si vuole la giustizia sociale, e non si accetta che essa sia una giustizia ipocrita, allora è forza volere anche la piena libertà poli-tica».
Calogero ha teorizzato il rapporto tra libertà e giustizia ed è stato prota-gonista della famosa polemica con Benedetto Croce, che appose al
liberalsocialismo la definizione di ircocervo. Il liberalsocialismo di Calo-gero era, per noi giovani, ricco di motivi politici e di spunti sugge-stivi che uscivano dagli schemi tradizionali, contraddicevano lo stori-cismo di Croce. E di Calogero vorrei anche ricordare l’importante ruolo svolto nel primo congresso del Partito di Azione, a Roma, nel 1946, al quale partecipai come rappresentante del movimento giovanile del Partito d’Azione del Sud e al quale intervenne anche Bruno Trentin, che rappre-sentava il movimento giovanile del Partito d’Azione del Nord Italia. Tren-tin insisteva sulla necessità di legare il Partito d’Azione alle masse operaie, mentre io, sotto l’influenza lamalfiana, pensavo che bisognasse mantenere una completa autonomia. Calogero riuscì a evitare che lo scontro degene-rasse in una crisi.
Un’idea di europa e di Mezzogiorno
Cos’è rimasto, oggi, di vivo del pensiero azionista in Italia e in parti-colare nel Mezzogiorno ?
Vi è stata la riabilitazione, per così dire, di Carlo Rosselli, che era stato denigrato da Palmiro Togliatti, da parte degli ex comunisti, in un discorso di Walter Veltroni. Le criti-che salveminiane alle degenerazioni delle classi dirigenti meridionali non hanno perso validità e ad esse ci si può richiamare quali ragioni ideali nella lotta alla criminalità organizzata e alla pratica del clientelismo. È ancora fondamentale l’esigenza di un Mezzo-giorno legato all’Europa, che fu uno Di spalle a sinistra Ugo La Malfa, a destra Giovanni Russo
Russo con la figlia di Benedetto Croce, Elena
1918 Memorie Memorie
dei cavalli di battaglia dell’azionismo. Da non sottovalutare anche il tema del federalismo, oggi al centro della pole-mica politica suscitata dalla Lega come strumento di divisione e spaccatura fra l’Italia del Nord e del Sud, mentre in Salvemini e Guido Dorso era invece considerato un mezzo per moderniz-zare lo Stato.
Anche sul rapporto con l’Europa le posizioni che furono degli autori del Manifesto federalista, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, rappresentano ancora l’obiettivo da raggiungere nella Comunità Europea. Si può dire perciò che se il Partito d’Azione perse come partito, ha vinto come pensiero cultu-rale che ha trionfato sulle vecchie e tramontate ideologie.
Gli azionisti volevano un’Italia nuova, coerente agli ideali per i quali durante la Resistenza si batterono nelle formazioni di Giustizia e Libertà per la democrazia italiana. Purtroppo il loro progetto non ebbe allora fortuna e l’Azionismo crollò come forza poli-tica, ma è rimasto come forza morale. Sicché allo stato attuale esso può pretendere di riproporre, soprattutto ai giovani, i suoi ideali in un paese dove prevale, proprio, la mancanza di ideali.
Potenza 1945. Carlo Levi (col trench) e Giovanni Russo
Da sinistra: Rosario Romeo, Francesco Compagna (seduto), Manlio Rossi Doria e Michele Cifarelli (per gentile concessione dell’Archivio A.N.I.M.I.)
La mia esperienza nel Partito d’Azione è legata alle battaglie politiche dopo la fine della seconda guerra mondiale in Lucania e nel Sud.
Nel 1943 alcuni giovani, tra cui il sottoscritto, a Potenza, in Luca-nia, entrarono a far parte del Partito d’Azione. Eravamo un gruppo di amici, coetanei, tra i 17 e i 19 anni, che, avendo letto la Storia del Liberalismo di De Ruggiero, la Storia d’Italia di Croce e L’apologia dell’ateismo di Giuseppe Renzi, vagheggiavano di fondare un movimento politico e culturale che riflettesse il loro vago antifascismo. Il protagonista di riferimento fu Michele Cifa-relli, che era magistrato a Bari, ma già uno dei più noti esponenti del Partito d’Azione. Fu lui che ci convinse a fondare una sezione a Potenza, di cui conservo la tessera numero 6. Era l’agosto o il settembre del 1943, poche setti-mane dopo il 25 luglio, quando Benito Mussolini era stato dimesso da Vittorio Emanuele III. Ci impegnammo nell’organizzazione e nella propaganda per la Repubblica in vista del referendum che si tenne nel 1946 insieme alle elezioni per la Costituente, e riuscimmo a mobilitare sia borghesi che contadini, contri-buendo così al successo del voto per la Repubblica.
La nostra bussola Michele Cifarelli
Avevamo letto i libri di Adolfo Omodeo, conoscevamo Rosselli e Gobetti e, nello stesso tempo, avevamo appreso le idee del liberalsocialismo di Guido Calogero che uscivano dagli schemi tradizionali, dato che contraddicevano lo storicismo di Croce. Chi ci aprì a queste letture e a queste idee, e nello stesso tempo ci impegnò nella lotta politica che portò poi al Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale di Bari del 1944, fu proprio Michele Cifarelli, grande organizzatore non solo del congresso a Bari, ma anche avvincente conferen-ziere che riusciva a raccogliere numerosissimi ascoltatori affascinati dalla sua
oratoria. A Potenza, professionisti, studenti, impiegati affollavano la sala della Cattedra oraziana dove venivano a parlare gli esponenti dei partiti politici.
Il più atteso era proprio Cifarelli, che alternava argo-mentazioni storiche e culturali alle analisi politiche. Nato a Bari nel 1913, aveva vinto nel 1938 il concorso in magistratura e aveva maturato la sua critica al fascismo frequentando casa Laterza, dove spesso si recava Bene-detto Croce, insieme con Fabrizio Canfora, Ernesto De Martino, Giuseppe Bartolo, e dove si incontrava con Tommaso Fiore, studioso di Virgilio e seguace di Salvemini. Cifarelli insieme al fratello Raffaele costituì clandestinamente l’associazione liberalsocialista Giovane Europa ed elaborò, attraverso i contatti con Tommaso Fiore e Guido Calogero, un programma in cui si poneva al primo punto la realizzazione della Repubblica e dove erano già presenti un richiamo all’Europa unita e un abbozzo di federalismo insieme ai temi della questione meridionale. Questa intensa attività clandestina non sfuggì all’Ovra e nel giugno del ‘43 Cifarelli fu arre-stato insieme a Calogero, De Ruggero e Tommaso Fiore e venne liberato solo il 28 luglio, dopo la caduta del fasci-smo.
A Bari dopo l’armistizio
Nel suo libro Il regno del Sud, che ben descrive l’at-mosfera politica durante il governo Badoglio, Agostino degli Espinosa così racconta le iniziative del gruppo di giovani antifascisti baresi: «A Bari, subito dopo l’annunzio dell’armistizio, gli uomini del Fronte Nazionale d’Azione,
centro dell’antifascismo militante, capeggiati da Michele Cifarelli, vole-vano armare il popolo e, sollevando una rivolta popolare, procedere alla cattura delle truppe tedesche e si rivolsero al prefetto». Poi commenta: «Era una proposta in cui nobilmente fremeva il mito mazziniano del combattimento popolare, ma a fatica un funzionario statale, uso al tecnici-smo dell’amministrazione pubblica, avrebbe potuto accettarla».
Dopo l’8 settembre, Cifarelli insieme con altri riuscì a pren-dere in mano Radio Bari, dove grazie anche al maggiore inglese Greenless, responsabile del Pwb (divisione per la guerra psicologica), amplificò la propaganda democra-tica a tutto il Sud. In quel periodo c’era una vivace attività politica e culturale promossa da uomini del Partito d’Azione o che a esso si ispi-ravano. Resta fondamentale il ruolo di Cifarelli nel primo congresso nazionale del Cnl, che si tenne al teatro Piccinni a Bari, il 28 e 29 gennaio del 1944, e che fu determi-nante per la posizione assunta da Benedetto Croce nella nascita della Repubblica e nel porre le premesse per l’abdicazione del re.
Cifarelli promosse anche la rina-scita degli studi meridionalistici che durante il fascismo erano stati completamente posti da parte.
In quegli anni fiorirono inizia-tive culturali e politiche: a Bari
Vittore Fiore, figlio di Tommaso, fondò Il Nuovo Risorgimento, setti-manale di dibattito e di inchieste, che dovrebbe essere riscoperto e analiz-zato in quanto dette un vivace impulso alle idee e alle proposte azioniste.
Il romanzo di Carlo Levi
Svolsero un ruolo importante nell’attività culturale e politica dell’a-zionismo il grande critico letterario e studioso Carlo Muscetta e, dopo l’uscita del suo famoso romanzo Cristo si è fermato a Eboli, naturalmente Carlo Levi. Nel suo libro su Roma, L’Orolo-gio, Levi traccia un vivace ritratto di Muscetta, giornalista a L’Italia libera.
Com’è stato ricordato nel conve-gno del 2005, promosso ad Avellino dal Centro Dorso, che ha rievocato la multiforme attività di intellettuale, critico, poeta, organizzatore edito-riale di Muscetta, questi fu uno dei principali redattori de L’Italia libera clandestina, a Roma condivise il carcere con Leone Ginzburg e, dopo il 1944, aderì a una visione della questione meridionale così come era stata concepita da Dorso e Gramsci. Egli considerò sempre Dorso un suo maestro anche se, sotto l’influenza del pensiero di Gramsci, nel 1947 aderì al Partito comunista. Il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi può considerarsi un aspetto della cultura azionista nel Mezzogiorno perché, al di fuori degli schemi della ideologia comunista e della egemonia clericale
democristiana, apriva una grande fine-stra sul mondo contadino e sulla meschinità della borghesia dei paesi del Sud, i «galantuomini».
Carlo Levi partecipò alle elezioni del 1946 per la Costituente nella lista presentata a Potenza dal Movimento democratico repubblicano costituito da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa dopo la scissione del Partito d’Azione avvenuta nel Congresso svoltosi a Roma nel 1946 e che non dipese, come si è sostenuto, dal dissidio fra Lussu e La Malfa.
La scoperta del mondo contadino
Importantissimo è il ruolo che nella cultura politica azionista nel Mezzo-giorno ha ricoperto Manlio Rossi Doria, con cui ho avuto stretti legami. Sto rievocando tempi lontani, ma le motivazioni che ci guidarono allora sono ancora valide. Oltre a Rossi Doria e Levi, nella lista che si presentò alle elezioni per la Costituente, erano presenti Guido Dorso, Alberto Cianca e Vincenzo Calace. Ricordo che a piazza Sedile, a Potenza, esposi a un balcone la bandiera del Partito d’Azione prima del comizio che Rossi Doria tenne a conclusione della campa-gna per il referendum: un comizio travolgente che convinse anche molti contadini a votare per la Repubblica. Rossi Doria, grande economista agra-rio, aveva un rapporto umano, e non da tecnico, con i contadini, e lo dimostrò proprio attraverso la riforma agraria
pICCoLA SToRIA DeL pARTITo D’AZIoNe
Quando ero un giovane azionista meridionaledi Giovanni Russo
2120
Garrone, Manlio Rossi Doria e Ugo La Malfa, quindi liberali, crociani, salveminiani, ex azionisti, ai quali si aggiunsero poi Vittorio De Capra-riis, Rosario Romeo, Francesco Compagna e Alberto Ronchey. Il Mondo eredita, proprio attraverso gli scritti di Compagna e di Rossi Doria, e con le inchieste sul Mezzo-giorno e sui contadini compiute anche da me insieme ad altri gior-nalisti, come Andrea Rapisarda, molta parte del pensiero meridiona-lista del Partito d’Azione.
Bisogna dire che saranno proprio Compagna, De Caprariis, Macera e Giordano a indurre Pannunzio a inserire nelle pagine de Il Mondo, in maniera sempre più ampia, la questione meridionale. Ma capo-fila è Ugo La Malfa che, come scrive Francesco Erbani, fissa «i passaggi di un nuovo manifesto meridio-nalista» nell’editoriale Finanze e Mezzogiorno pubblicato nel luglio 1949 proprio nel Mondo. Al settima-nale di Pannunzio collaborano tra il 1949 e il 1966 alcuni tra i più noti studiosi e giornalisti che si occu-pano di Mezzogiorno, quali Nello Ajello, Giovanni Cervigni, Mario Dilio, Vittorio Fiore, Riccardo Musatti, Andrea Rapisarda, Atanasio Mozzillo, Leonardo Sacco e non vorrei averne dimenti-cati altri.
Il Mondo promuoverà poi la campagna contro il laurismo, di cui fu un protagonista l’azionista Guido Macera, allievo di Dorso, e soprattutto Vittorio De Caprariis, che, pur non essendo uno speciali-sta, svolse un ruolo importante in questa polemica. Raffinato studioso del Cinquecento e del Seicento e di Tocqueville, nel Mondo appro-fondisce l’esame dei temi politici riguardanti la democrazia italiana e, in particolare, le condizioni del Mezzogiorno. Sulle pagine del setti-manale si sviluppa così un ampio dibattito. Sia sulla riforma agra-ria, nel confronto tra le posizioni di Rossi Doria, che ne fu artefice e difensore, e quelle di Carandini, che invece fu fieramente avverso, sia sull’intervento straordinario, dibattito che prelude alla nascita, a livello nazionale, del governo di centro sinistra e che riguarderà anche il tema dell’industrializza-zione del Mezzogiorno.
Aldo Garosci, Giovanni Russo e il pittore Mino Maccari
MemorieMemorie
che egli diresse in Calabria e Lucania, quando doveva stabilire la divisione dei poderi da assegnare. Seguendolo in questa sua attività, potei scoprire il complesso rapporto con il mondo contadino di cui rispettava l’autono-mia. Condivideva con Carlo Levi il suo affetto per Scotellaro: lo chiamò, infatti, all’istituto agrario di Portici, che egli dirigeva, dandogli l’inca-rico di scrivere il libro Contadini del Sud, il primo libro di sociologia lette-raria in Italia. Rossi Doria, in seguito, arricchì la concezione meridionalista della rivista Nord e Sud di Francesco Compagna, con le sue analisi sulla questione meridionale.
La battaglia per il Mezzogiorno
C’è stata una continuità del pensiero meridionalista di ispirazione azio-nista negli anni in cui si arrivò all’intervento straordinario e alla isti-tuzione della Cassa del Mezzogiorno, che fu difesa sia contro le destre, che non volevano rompere gli equili-bri della proprietà meridionale e del latifondo, sia contro Giorgio Amen-dola, che era decisamente contrario. Non si può non tener conto del contri-buto che venne da Ugo La Malfa, già dal 1949, nel dibattito sulla questione meridionale. Egli lanciò uno dei primi appelli affinché lo Stato si impegnasse direttamente nel Sud, cosa che aveva affermato al congresso del Partito Repubblicano del 1948 a Napoli. La Malfa, che in quel partito aveva portato le idee e la visione del Partito d’Azione, aveva sostenuto, anche sulla base del rapporto dell’economi-sta Pasquale Saraceno, la necessità
di un intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno, idea che già era stata di Giovanni Amendola, secondo cui il problema della depres-sione meridionale è un problema di interesse italiano. Nell’agosto del 1949, nell’articolo Le due Italie, pubblicato ne Il Mondo, aveva ribadito questo appello. Quando nel 1954 France-sco Compagna fondò la rivista Nord e Sud Ugo La Malfa e lo storico Rosa-rio Romeo sostennero le posizioni di un meridionalismo democratico, in polemica con le tesi del Partito comu-nista che erano espresse dalla rivista Cronache meridionali ispirata da Gior-gio Amendola, Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte. Negli anni ‘50 e ‘60 la rivista Nord e Sud è stata quindi il laboratorio culturale più
importante della politica dell’in-tervento straordinario nel Sud, alla quale hanno collaborato Renato Giordano, Vittorio De Capra-riis, Giuseppe Galasso, Guido Macera e Giuseppe Ciranna: vennero indicati i mali che ancora oggi caratterizzano il nostro paese, il pan sindacalismo e il pan regiona-lismo, fu sottolineata la necessità di legare il Mezzogiorno all’Europa.
Il pensiero meridionalista di ispi-razione lamalfiana, che fu poi, come si è detto, ereditato da Nord e Sud, fu alla base della polemica con i comunisti, che si erano oppo-sti all’istituzione della Cassa del Mezzogiorno e anche all’intervento straordinario. Questa opposizione fu espressa da Giorgio Amendola il 20 giugno 1950 nel discorso alla Camera dei Deputati sulla legge istitutiva della cassa per il Mezzo-giorno e, per 30 anni, fu la posizione dei comunisti. Al contrario la rivi-sta Nord e Sud aveva un ancoraggio europeista e Compagna lo illustrò in un suo libro intitolato Mezzo-giorno d’Europa.
Le firme del Mondo
Il settimanale Il Mondo, fondato nel 1949 da Mario Pannunzio, raccolse sulle sue pagine persona-lità, anche di idee e temperamenti diversi, della tradizione liberale, a cominciare da Benedetto Croce, e della tradizione azionista come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Alessandro Galante
Giorgio Amendola con Russo
NeL CeNTeNARIo DeLLA NASCITA
Joyce Lussu. Passione civile e antifascismo militantedi Maurizio Orrù
A cent’anni dalla nascita vogliamo ricordare Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti,
universalmente conosciuta con il nome di Joyce Lussu, straordinario esempio di impegno civile e politico, antesi-gnana delle battaglie femministe, fondatrice dell’Udi, sostenitrice dei diritti civili delle popolazioni abori-gene e curde, sempre in primo piano nella lotta per la pace e nell’antifa-scismo militante.
È stata, secondo l’unanime parere del mondo culturale e politico a lei contemporaneo, una donna di finissima sensibilità umana e di soli-dissima cultura, come dimostrano le tante opere pubblicate: Liriche (1939), Portrait (1988), Il libro delle stre-ghe (1990), Sguardi sul domani (1996), Padre, Padrone e Padreterno (2009) e saggi sull’avanguardia africana e sul poeta turco Nazim Hikmet.
Joyce amava la critica, il dubbio intellettuale, il confronto teorico, ma poi si lasciava catturare dalla poesia e i suoi versi così particolari, quasi il ritratto di un’anima, hanno conqui-stato molti lettori.
La forte personalità di Joyce Lussu è stata oggetto, nel corso del tempo, di numerose interpretazioni e valuta-zioni. Scrive Nello Ayello, giornalista e scrittore: «Fra le donne che lottarono contro il fascismo a Joyce Lussu va riconosciuto un posto privilegiato e originale. Joyce ha sempre posseduto un’irresistibile forza vitale e rara predi-sposizione all’autoironia. Il quesito se coraggio e senso dell’umorismo possano combinarsi senza stridori riceve, nel suo caso, una risposta affermativa. Forse la leggenda più irrepetibile della scrittrice rimane la sua biografia, vissuta accanto a un patriota che si chiama Emilio Lussu, peregrinando avventurosamente tra fronti e frontiere».
Proprio così, Joyce è stata la compa-gna tenace e coraggiosa, solidale e generosa, di uno dei padri dell’anti-fascismo. Nel 1938 Joyce incontrava clandestinamente quell’Emilio Lussu, conosciuto con il nome di battaglia di Mr. Mill, fondatore del Partito Sardo
d’Azione e del Movimento Giusti-zia e Libertà, e l’intesa intellettuale e politica sfociava in un rapporto senti-mentale saldissimo che ha attraversato prove e burrasche senza mai appan-narsi. I due si sposarono e vissero a Parigi fino all’estate del 1940, quando la città veniva militarmente occu-pata dalle truppe germaniche. Allora i coniugi Lussu spostavano la loro residenza a Marsiglia, dove dettero impulso a un’organizzazione di espa-trio clandestino la quale riusciva a concertare le partenze di numerosi antifascisti di diverse nazionalità.
Moglie e marito si distinsero per saper inquadrare le ragioni dell’anti-fascismo italiano e i suoi obiettivi nella più ampia cornice politica mondiale. Mai il loro punto di vista fu angusto e provinciale. Trasferivano la loro resi-denza in Portogallo e in Inghilterra, dove lei, con una buona dose di anti-conformismo vero e non di maniera, era impegnata in un corso di adde-stramento alla guerriglia in un campo militare. La Lussu è stata davvero una personalità che ha precorso i tempi, dando prova nei fatti della concreta
Joyce Lussu in un ritratto giovanile
2322 Memorie Memorie
parità tra i sessi. Rientrata in Italia nel luglio 1943, dopo l’arresto di Musso-lini, partecipava attivamente alla Resistenza, in qualità di staffetta, compiendo numerose e delicate azioni: il suo eroismo veniva premiato con la medaglia d’argento al valor militare.
Joyce Lussu ha narrato le sue rischiose esperienze di vita parti-giana in un testo dal titolo Fronti e frontiere, un classico per chiarezza e completezza storiografica. Cittadina del mondo, ha portato il suo personale contributo nei paesi colonizzati, contro la guerra, nell’ottica della pace univer-sale.
Scrive nel libro Lotte, ricordi e altro: «Occorre delegittimare la guerra e quindi disattivare gli orrendi arsenali
sparsi in tutto il mondo, riconvertendo le industrie belliche, anche se ciò non sarà un piccolo problema; sostituire agli eserciti nazionali e nazionalisti con formazioni internazionali senza insegne corporative e fornite di armi esclusiva-mente difensive che escludano quelle nucleari, chimiche e batteriologiche». Anche questa era Joyce Lussu, la quale ha avuto un particolare amore (ricambiato) nei confronti della “sua” Sardegna.
Joyce negli ultimi anni della sua vita impegnava tutte le sue energie intellettuali nella formazione delle nuove generazioni, attraverso lezioni e seminari di studio su percorsi di poesia, storia e progettualità sociale. È stata una delle fondatrici e dirigente
regionale sarda dell’ISSRA (Isti-tuto sardo per lo studio della Resistenza e dell’Autonomia).
Per ricordare questa protagoni-sta così vitale, forte e curiosa della vita, anticipatrice, nelle scelte, dei principali movimenti femminili del secondo Novecento (morì a Roma a 86 anni il 4 novembre 1998) consi-gliamo una tappa al Museo storico di Armungia, che attraverso un particolare percorso fotografico e multimediale consente di ricostru-ire la vita difficile, ma intensa e bellissima dei coniugi Lussu.
Teodoro Bigi il 5 luglio aveva compiuto 100 anni, il 22 è venuto a mancare
Parlando con mio padreper ricordarlo pubblichiamo una conversazione del 1986 avuta col figlio Diego
di Diego Bigi
Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini viene messo in minoranza al Gran Consiglio del fascismo. Dopo
poche ore è arrestato per ordine del re. Nuovo capo del Governo è nominato il Generale Pietro Badoglio dallo stesso re Vittorio Emanuele III. Quel giorno mi trovavo richiamato militare a Lati-sana (Udine) al 26° deposito fanteria. In tutto il paese e anche lì si svolsero manifestazioni di strada per la gioia della caduta del fascismo, inneggiando alla pace e alla libertà. Vi presi parte anch’io, organizzando la partecipa-zione di altri soldati.
In caserma, per la mia attività antifascista, i dirigenti volevano evitare ogni contatto tra me e il resto dei soldati e per questo ero esentato da tutti i servizi. In conse-guenza della caduta di Mussolini e delle nuove decisioni del Governo Badoglio fui reintegrato in tutte le attività. Ben presto però le speranze suscitate dagli avvenimenti di quelle ore si rivelarono delle illusioni. Fu emanato il proclama “La guerra conti-nua” a fianco dell’alleato tedesco, in altre parole della Germania nazista.
I tedeschi si rivelarono sempre più come occupanti.
Mio padre si sofferma a pensare per una domanda che io gli faccio e poi riprende a parlare.
Il 27 Luglio 1943 un ufficiale Colonnello raduna tutti i soldati per rivolgere loro un discorso in cui dichiara che la guerra conti-nua a fianco del vecchio alleato, la Germania di Hitler. Aggiunge inol-tre che in Italia ci sono pericoli di disordini, poiché vi è chi chiede la fine della guerra e la pace, speci-ficando che deve essere compito di noi soldati assicurare l’ordine pubblico in caso di manifestazioni di protesta per chiedere la fine della guerra. Dichiara poi che se sarà richiesto noi soldati dovremo sparare contro i manifestanti.
Appena l’ufficiale si allontana, terminato il discorso, decido di prendere io la parola. Salto in piedi sopra un tavolo e chiedo ai soldati di ascoltarmi. Tutti riman-gono ad ascoltare. Quello era il mio primo discorso politico pubblico ed avveniva in una situazione davvero drammatica.
“Non sono d’accordo”, inizio a dire, “con quello che ha detto il Colonnello. Ha affermato che la guerra continua a fianco dei tede-schi e che il nostro compito è di tenere l’ordine rispettando gli ordini dei comandi superiori, anche a costo di sparare contro la gente inerme. Al contrario dobbiamo anche noi chiedere la fine della guerra e solidarizzare con i mani-festanti che la chiedono. Se ci ordinano di sparare contro i mani-festanti per tenere l’ordine noi non lo faremo, perché sono la nostra gente, tra loro ci sono i nostri geni-tori, i nostri fratelli e le nostre sorelle. Se costretti spareremo piut-tosto contro chi ci ordina di sparare e ci uniremo ai manifestanti per la pace. Il nostro compito oggi è quello di impedire che altri militari tede-schi entrino in Italia, di disarmare i tedeschi che sono nel nostro paese e richiamare in patria i nostri soldati all’estero. Occorre mettere l’Italia in condizione di combattere a fianco degli Alleati anti-tedeschi per porre termine più rapidamente possi-bile alla guerra con la sconfitta del nazismo, liberando il nostro Paese dall’invasore tedesco e portare la pace in Europa e nel mondo”.
Se i comandi militari e il Governo avessero deciso quello che io indi-cavo come via da seguire, si sarebbe evitato il disastro dell’8 Settembre
1943, che segnò la disfatta del nostro esercito, e gli eccidi di militari e civili che ne seguirono, come quello di Cefa-lonia dove i tedeschi uccisero migliaia di soldati italiani e come quelli di Marzabotto e S. Anna di Stazzema e tanti altri, dove trucidarono centinaia di vecchi, donne e bambini, inclusi neonati».
Dopo una pausa mio padre riprende a raccontare.
L’impressione tra i soldati fu forte, era la ribellione che stava prendendo corpo. Di questo furono ben coscienti le autorità militari della caserma. Il giorno dopo fui arrestato per questo discorso fatto ai soldati e in attesa di processo fui trasferito in Via Tigor, così si chiamava, al carcere mili-tare di Trieste. I 45 giorni del Governo Badoglio li trascorsi qui.
Badoglio nei primi giorni del settem-bre 1943 firma l’armistizio con gli inglesi e gli americani. Alla sera del
famoso 8 settembre lesse alla radio un breve proclama in cui era reso pubblico tale fatto. In esso non si invitava alla lotta per la cacciata dell’esercito tede-sco, ma si concludeva con un semplice “Esse (le Forze Italiane) però reagi-ranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Da quel momento l’esercito italiano fu abban-donato a se stesso e le truppe tedesche ebbero tutto il tempo di fronteggiare la nuova situazione e di occupare sistematicamente l’Italia. Nelle ore successive i soldati italiani furono disarmati e catturati. La stessa cosa avvenne a Trieste. Una donna ebbe la possibilità di lanciare all’interno del cortile del carcere un biglietto in cui avvertiva i carcerati militari della necessità di fuggire: “Fuggite, i tede-schi stanno occupando Trieste”.
In una situazione di completo disordine io e gli altri carcerati riuscimmo a fuggire prima che i
Pisticci, 1939. Un gruppo di confinati nella colonia materana. Bigi è quello in ginocchio col gatto in braccio
Teodoro Bigi in una foto recente. Per lunghi anni è stato dirigente della Federazione di Parma, poi nella Presidenza onoraria dell’Anppia
25Memorie
L’ANPPIA di Bologna ha organizzato
il 21 di giugno scorso nella Cappella
Farnese di Palazzo d’Accursio, resi-
denza del Comune, un convegno sulle
nuove destre europee, con particolare
riferimento ai temi del nazionalismo e
del populismo.
Gli interventi del prof. Andrea Mammone, docente nella Kingston
University di Londra, del prof. Nicola Tranfaglia professore emerito di
Storia dell’Europa e del Giornalismo
dell’Università di Torino, e del Pre-
sidente nazionale dell’Anppia Guido Albertelli sono stati puntuali e pre-
cisi, e hanno alimentato un dibattito
partecipato ed interessante. Alcune
notizie più recenti, come la richiesta di
un consigliere Pdl di Gualtieri (Reggio
Emilia) di intitolare la scuola elemen-
tare della cittadina a Benito Mussolini
(il pretesto: lì aveva insegnato come
maestro elementare il futuro capo
del fascismo dal 1900 al 1904) e la
“punizione” somministrata a Viterbo
dal capo di Casa Pound in persona a un
“traditore”, reo di essere un collaboratore
del presidente Gianfranco Fini, riportano
l’attenzione sul tema del convegno. C’è un
problema di presenza della destra estrema,
(la seconda notizia), ma anche un problema
di memoria (la prima notizia). I due piani
sono evidentemente collegati fra loro: il re-
visionismo storico, ampiamente praticato
e largamente pubblicizzato negli anni del
governo Berlusconi, ha sicuramente aperto
una strada al nuovo estremismo di destra,
almeno dal punto di vista formale.
Come si ricordava al convegno, l’Italia
uscita dal dopoguerra (gli storici lì soste-
nevano che non è corretta la definizione
di prima o seconda repubblica, visto che la
Costituzione e le Istituzioni repubblicane
sono sempre quelle) ha avuto il più forte
partito neofascista dell’Europa occidenta-
le, l’Msi di Giorgio Almirante. Questo par-
tito è stato un modello per tutte le destre
europee, mentre in Italia era teoricamente
emarginato dalla vita politica e parlamen-
tare (anche se sappiamo benissimo che ve-
niva usato da altre forze per scopi tutt’altro
che trasparenti).
Berlusconi ha riunito tutte le destre
italiane e sdoganato l’allora ortodosso “ca-
merata” Fini, (dichiarazioni del Cavaliere
il 23 novembre del 1993 a Casalecchio di
Reno), e questo è stato uno degli elementi
che gli ha permesso di governare per
11 degli ultimi 18 anni. Da allora, anche
mediaticamente, è caduto un tabù: si può
esplicitamente parlare in maniera positiva
(a volte cantarne le glorie) del fascismo, e il
dichiararsi fascisti non è più un problema.
Che poi nascano e crescano movimenti
come Casa Pound o Forza Nuova non può
destare molto meraviglia. Può darsi che
nell’Italia dei vecchi partiti che ora non ci
sono più ci fosse una certa dose di ipocrisia
sul Msi, che settori deviati dello Stato
proteggessero o addirittura alimentassero
i neofascisti (i sevizi segreti) con tutto
quello che ne è conseguito (quella che fu
definita la “strategia della tensione” e il suo
portato di orrende stragi come quella del
2 Agosto 1980 a Bologna), certo è che per
noi antifascisti oggi assistere alla aperta
rivalutazione del famigerato ventennio e di
tutte le sue conseguenti eredità politiche,
militari tedeschi prendessero possesso dell’edificio carcerario. Il nostro primo tentativo di fuga fu impedito dalle truppe italiane che ancora comanda-vano nella zona. Il giorno dopo queste non c’erano più e le guardie carcerarie fuggirono anch’esse.
In carcere ho conosciuto un soldato che era lontano parente di Giovanni Roveda, il noto antifasci-sta con cui avevo condiviso il confino all’isola di Ventotene. Il mio passato di antifascista, amico di Roveda mi aveva fatto conquistare la sua stima.
Al momento della fuga dal carcere quel soldato mi aiutò conducendomi da suoi conoscenti a Trieste. Questi ci accolsero, nonostante il rischio che correvano, ci fecero lavare, ci diedero abiti civili che erano indispensabili per uscire in strada ed anche un aiuto economico per far fronte alle spese di viaggio. Dopo aver pernottato ci mettemmo in cammino per la stazione alla ricerca di un treno per poter tornare a casa. Come un cittadino qualsiasi riuscii a prendere il treno.
Arrivato a Bologna dovetti cambiare convoglio. Mentre raggiungevo il nuovo punto di partenza vidi che i soldati tedeschi arrestavano tutti quelli che erano in divisa e io non fui fermato. Durante il viaggio un ferro-viere avvertì i militari presenti o presunti tali, che la stazione di Reggio Emilia era occupata dai tedeschi e che procedevano all’arresto di tutti i soldati italiani e di quelli sospetti di esserlo. Per sfuggire ad ogni controllo di identificazione scesi a Rubiera, un paesino a pochi chilometri da Reggio Emilia. Attraversando i campi raggiunsi la mia abitazione a Pratofon-tana.
Come figlio primogenito di mili-tare morto nella prima guerra mondiale, mio padre aveva diritto all’esonero dal servizio militare. Però, come lui mi racconta, fui richia-mato nel 1935. In quel periodo però mi trovavo in carcere a Reggio Emilia. Ero stato arrestato per propaganda contro la guerra di Africa e dovevo venire giudicato dalla Commissione Provin-ciale. Venni condannato a 5 anni di confino. Siccome ero stato richiamato la pena venne sospesa e fui inviato alla 1a Compagnia di disciplina militare ed assegnato ad un reparto speciale di antifascisti a Pizzighettone (Cremona). L’intento era quello di prepararci mili-tarmente e di farci poi combattere per
il fascismo.Noi perseguitati politici antifa-
scisti facemmo di tutto affinché il reparto non adempisse ai compiti per il quale era stato costituito. Si cominciò subito ad organizzare la protesta contro la disciplina che si voleva imporre al reparto.
Venne organizzato un tentativo di fuga per andare a combattere in Spagna contro i fascisti e per la Repub-blica. Però il gruppo che fuggì, per delazione di una guida che doveva portarli oltre confine, venne arre-stato. Si trattava di Didimo Ferrari di Reggio Emilia, il futuro partigiano Eros, Mazzetti di Bologna e l’avvocato Boretti di Milano. Dopo quel tenta-tivo di fuga la località venne ritenuta non più sicura e il reparto fu trasferito all’isola d’Elba. Io nel frattempo avevo trascorso i miei tre mesi di addestra-mento e fui inviato al confine nell’isola di Ventotene. All’isola d’Elba vi fu una nuova fuga ed alcuni raggiunsero la Spagna. Tra questi l’avvocato Boretti di Milano, morto poi sul fronte spagnolo e Mazzetti di Bologna.
Per l’azione di noi perseguitati antifascisti il regime fu costretto a prendere la decisione di sciogliere il reparto.
Brevi note biografiche
Teodoro Bigi nasce a Villa Prato
Fontana nel 1912. Già dal 1929 inizia
l’attività clandestina antifascista e
nel ’31 si iscrive al Partito comunista.
Ammonito nel 1933; arrestato nell’a-
gosto 1935 per discorsi contrari alla
preparazione della guerra d’Abissinia
è confinato a Ventotene per 5 anni,
ridotti a 3 in appello. A fine pena
è riassegnato al confino per 3 anni
(Pisticci) perché dimostra di essere
“irriducibile avversario del regime”.
Nel 1940 è condannato a 6 mesi di
carcere (Matera) per contravvenzio-
ne agli obblighi confinari. Liberato
nel dicembre 1940, è richiamato alle
armi e costantemente vigilato fino
alla caduta del fascismo (da Quaderni
dell’Anppia n. 3 - Antifascisti nel
Casellario Politico Centrale, 1989)
Noi
DAL CoNVeGNo BoLoGNeSe DeLL’ANppIA LA VIGILANZA DeMoCRATICA
Contrastare la risorgenza dell’estremismo di destraUno stimolante confronto di idee dai contributi di Andrea Mammone, Nicola Tranfaglia, Guido Albertelli
Dal neofascismo post-bellico, alla strategia della tensione, agli attuali episodi di violenza nera una linea conseguente
Responsabilità del periodo berlusconiano
di Massimo Meliconi*
14 settembre 2012. A Isernia, Molise, i neofascisti di Casa Pound sono stati contestati da sette attivisti antifascisti che hanno avuto l’ardire di cantare “Bella Ciao”. Il tribunale ha ordinato una settimana di carcere. Si tratta della stessa Procura che aveva archiviato gli esposti sul movimento Fascismo e Libertà, ennesima vergogna tutta italiana
Una Poesia
La poesia di una bambina scritta
nell’ormai lontano 1979 è uscita
da un cassetto di ricordi della sua
allora insegnante di V Elementare
della Scuola “Vittorio Veneto” di
Roma. Insieme a temi di tutti i
bambini, a disegni ed anche a bre-
vi fumetti partecipò ad un con-
corso sulla “Resistenza” indetto
dall’”Associazione Nazionale
Partigiani”, “Sezione S. Lorenzo–
Tiburtino” vincendo il 1° Premio
– una targa dorata.
A noi è sembrata meritevole di
pubblicazione per due motivi:
il primo, quello di costituire un
esempio della capacità delle gio-
vani generazioni di saper appren-
dere gli episodi del nostro passa-
to, di saperli valutare e di trovare
in essi la “forza” e il “coraggio” di
“lottare” per vecchi e nuovi idea-
li; il secondo, il meritato compen-
so ad un formatore che ha saputo
svolgere con capacità, passione
ed onestà di intenti il proprio do-
vere. (M.T)
Partigiano
La vita non aveva prezzoper loro,appunto si sacrificavano,appunto combattevano.Ma nelle loro vene scorreva sangue glorioso.E combattevano ovunque,sulle montagne, nei paesi, nelle città, sulla neve,ovunque splende orail bel sole d’Italia.Nei loro cuoriNon regnava pauraCome nei nostri oggi,ma amore, ma coraggio,ma forza di lottare,perché avevano un ideale:fare la Patria libera.
Rosalba Dastoli1972, classe Vc, Scuola “Vittorio Veneto”, Roma (Insegnante Loguercio Maria Anna)
24
2726 Noi Noi
alla nascita di movimenti e associazioni
che si richiamano dichiaratamente e orgo-
gliosamente a quel funesto passato è uno
schiaffo impossibile da assorbire.
La forma, come spesso capita, è diventata
sostanza. Quanto peso poi potranno avere
queste organizzazioni nell’immediato
futuro del nostro paese è difficile da dire;
siamo nel pieno di una terribile crisi eco-
nomica mondiale, tutti gli economisti pa-
ragonano questo momento alla grande crisi
del 1929, che ebbe fra le sue conseguenze
politiche l’ascesa al potere in Germania del
nazismo e infine la guerra più devastante
che l’umanità abbia conosciuto, il secondo
conflitto mondiale.
Non si vogliono qui fare parallelismi
sciocchi e inconsistenti fra ora e allora, vi-
sto che noi siamo nel pieno della tempesta
economica e nessuno sa a tutt’oggi come
andrà a finire. Credo però che sia corretto
dire che bisogna comunque mantenere
alto il livello di vigilanza rispetto a questi
fenomeni.
In Europa, in recenti elezioni in vari sta-
ti, la destra più becera e razzista ha avuto
consensi ed è presente nei parlamenti na-
zionali. Ciò è accaduto in Olanda, Francia,
Grecia, per non parlare dell’Ungheria,
dove addirittura i nazionalisti magiari
sono al potere. Sono aspetti che gli studiosi
unanimemente giudicano attualmente
marginali nel grande scacchiere europeo
e, francamente, non ci si può che augurare
che sia così. Tuttavia, anche e soprattutto
in un contesto di gravissima crisi economi-
ca, il presidio democratico risulta fonda-
mentale, in Italia come in Europa.
Se da un lato è sicuramente sbagliato
ingigantire questi fenomeni, è un imperdo-
nabile errore minimizzare e sottovalutare.
In particolare nel nostro Paese, per troppo
tempo si è fatto scempio della memoria
storica, del percorso che ci ha portato alla
libertà repubblicana, dell’antifascismo,
della Resistenza e del documento che è
l’espressione principale della nostra demo-
crazia, la Carta Costituzionale.
Qualche effetto, purtroppo, come abbia-
mo visto, c’e stato. Continuare a difendere
questi valori e contrastare la risorgenza di
forze neofasciste è e continuerà ad essere il
nostro compito.
*Presidente dell’ANPPIA di Bologna
DA ROMA
Ciao Ego!
Il 16 settembre 2012 si è spento a Roma Ego Spartaco Meta, antifascista e uomo politico nazionale nato a Pratola Peligna (AQ) il 27 giugno 1924. Secon-dogenito del sindacalista e dirigente anarchico Luigi (1883-1943, attivo per quarant’anni nelle lotte anticapitaliste e rivoluzionarie in Italia, Francia e Stati Uniti), a 13 anni è costretto a lasciare la scuola per mancanza di mezzi economici, essendo la sua famiglia precipitata nell’indigenza a causa delle persecuzioni fasci-ste e del forzato esilio del padre (1937). Si arrangia prima come scrivano, poi come contabile. Gli insegnamenti paterni e l’ingiustizia subita da lui e dalla fami-glia, angariata dai fascisti con pedante continuità, lo spingono giovanissimo ad abbracciare le idee di un ardente antifascismo che non abbandonerà mai.
In questi anni di dittatura, oscuran-tismo e barbarie trova nella figura di Rocco Santacroce (antifascista della prima ora, poi partigiano nelle squadre del Partito d’Azione) un solido punto di riferimento morale e politico. Nella guerra di Resistenza e Liberazione Ego è attivo patriota nelle formazioni del Partito d’Azione, organizzazione politica nella quale milita fino al suo scioglimento (1947). Dal 1950 è nel Psdi, dove arriva a far parte del Comi-tato centrale. Ventiduenne approda a Roma, lavorando ed impegnandosi socialmente in un campo profughi. Faticosa-mente riprende gli studi interrotti, concludendoli con un diploma, ricostruendo così anche la sua posizione sociale ed una sua vita personale. Si sposa ed ha due figli.
La passione sociale ereditata dal padre e la dura scuola dell’antifascismo non l’abbandonano e lo spingono all’impegno politico, che non gli consente di comple-tare gli studi universitari (Economia e Commercio, poi Scienze Amministrative, nella cui disciplina gli viene conferita una laurea honoris causa). Ha lavorato nello Stato fino al 1976. Dal 1964 è distaccato dal ministero dell’Interno a quello degli Esteri (con Saragat) e poi alla Marina Mercantile (per due volte), al Turi-smo e Spettacolo, all’Onu (due volte), ai Beni Culturali come Capo della segreteria particolare del ministro Lupis. Commissario dell’Atac di Roma dal 1961, dal 1971 al 1981 è Consigliere comunale della Capitale e per due volte Assessore.
Membro di Accademie e di Commissioni giudicatrici (a volte come Presidente), nonché delle Commissioni nazionali statali per le onoranze a Guglielmo Marconi nel centenario della nascita e di quella per la revisione del trattamento econo-mico e giuridico dei segretari comunali e provinciali. In questi anni ha sempre avuto vivida la memoria del padre, di cui è stato orgoglioso testimone delle idee e dell’insegnamento, e non ha mai abbandonato il suo volontario impegno sociale in cooperative, enti morali ed associazioni al fianco dei più deboli e dei giovani. Coerente e coraggioso avversario del neoliberismo e del pensiero unico oggi imperante («sono nato sotto Mussolini e non voglio morire sotto Berlusconi!», ripeteva), ha vissuto con dolore e amarezza la “conversione” al capitalismo e la sottomissione all’ideologia mercatista della “sinistra” parlamentare italiana. Non ha mai smesso di partecipare alla vita di quelle organizzazioni (Anpi e Anppia) che continuano a tenere accesi nella società italiana i valori etici e politici della Resistenza e dell’impegno per la lotta all’ingiustizia sociale. Con spirito demo-cratico, libertario e fieramente anticlericale ha anche seguito e sostenuto le iniziative editoriali e le attività promosse dal Centro studi libertari “Camillo Di Sciullo” (Chieti) e dal Centro studi e ricerche “Carlo Tresca” (Sulmona).
a cura del Centro studi libertario “Camillo Di Sciullo”
Ego Spartaco Meta per lunghi anni Presidente del nostro Collegio sindacale
DA PISA
Il 5 settembre 1938 a San Rossore la firma delle leggi razziali
«Un atto ignobile che vogliamo ricordare» ha detto il Sindaco di Pisa.
Ricordare l’infamia come monito
per le generazioni future. Per questo a
Pisa ogni 5 settembre si commemorano
le vittime della persecuzione fascista
degli ebrei e di quei cittadini che fin dal
1922 combatterono il fascismo.
74 anni fa il sovrano Vittorio Ema-
nuele III firmava nella sua residenza di
San Rossore i primi decreti razziali che diedero il via anche in Italia alla
persecuzione degli ebrei da parte del
regime fascista. I provvedimenti anti-
semiti vietavano agli ebrei di lavorare
per gli enti pubblici, comprese scuole
e università ma anche banche e assicu-
razione, di fare i notai e i giornalisti. I
ragazzi dovevano andare in scuole se-
parate. Tra i più fervidi sostenitori delle
leggi razziali il pisano Guido Buffarini Guidi, già sottosegretario agli Interni
del governo fascista dal 1933 al 1943 e
poi ministro dell’Intero della repubbli-
ca sociale di Mussolini.
Anche quest’anno a San Rossore,
presso la lapide posta dove un tempo
sorgeva un edificio nelle cui stanze nel
1938 furono firmate le leggi razziali, si è
svolta la cerimonia di commemorazione
del drammatico avvenimento.
Alla rievocazione erano presenti
con le loro testimonianze il Direttore
della Scuola Normale Superiore Fabio Beltram; Guido Cava presidente della
Comunità ebraica di Pisa; Massimo Fornaciari dell’Aned; Sergio Ca-stelli dell’Anppia; Giorgio Vecchiani dell’Anpi e le autorità civili e militari
cittadine.
«Un tragico evento, un atto ignobile che
ogni anno vogliamo ricordare – ha detto
il Sindaco di Pisa Marco Filippeschi –. Con la solennità istituita dal Comune
per rinnovare, il 5 settembre di ogni
anno, la memoria di quel giorno infausto
del 1938 in cui furono firmati, in San
Rossore, i regi decreti che promulgavano
la legislazione per la difesa della razza,
abbiamo inteso stabilire un momento
permanente per costruire una memoria
condivisa della nostra storia recente, per
dare ai giovani un messaggio importante
contro il razzismo e contro ogni forma di
discriminazione.
«Un tragico evento, un atto ignobile
che ogni anno vogliamo ricordare – ha
continuato il Sindaco – Ricordando sentia-
mo di poter dare un contributo alla memoria
di quello che questa firma ha comportato
arrivando fino alle estreme conseguenze del
genocidio e dell’Olocausto. Le leggi razziali
mettono in atto una discriminazione crudele
che arriva da una lontana storia e giunge
fino ai giorni nostri. Non dobbiamo infatti
distogliere l’attenzione dalle odierne forme
di razzismo e discriminazione. Sono passati
20 anni dall’inizio della guerra nella ex – Ju-
goslavia e dalle stragi che essa ha comporta-
to e tutt’oggi ci sono situazioni che ci devono
preoccupare. Pisa, data la sua visibilità, ha
una missione da assolvere: quella di portare,
come sta facendo, la memoria degli eventi
affinché anche i più giovani possano impa-
rare da quel ricordo.
Anche oggi, mantenendo l’impegno preso,
lo facciamo con un programma ancora più
ampio e articolato che è, insieme, di studio
– con il contributo di autorevoli studiosi – e
di rif lessione culturale che vogliamo sia
patrimonio di tutta la comunità, affinché
prosperino i valori di libertà, democrazia e
tolleranza che stanno alla base della nostra
convivenza civile e che sono di grande attua-
lità».
Sono poi seguite le testimonianze del
Direttore della Scuola Normale Supe-riore, che ha sottolineato l’importanza
del laboratorio antifascista creatosi nella
Scuola ad opera di alcuni suoi valenti
studenti ed il valore scientifico dei docenti
espulsi – insieme ai colleghi dell’Universi-
tà pisana – in ragione delle leggi razziali,
elenco di seguito; della Comunità ebraica
che ha rievocato come la politica razziale
non sia stato un episodio occasionale, e le
sue rovine hanno travolto non i soli perse-
guitati, ma la vita intera del Paese; e dell’A-ned che ha richiamato l’attenzione sulla
dignità della persona, decoro totalmente
oltraggiato nei campi di concentramento
nazi-fascisti.
Per parte sua l’Anppia ha ricordato
quanto sia oggi importante essere an-
tifascisti in un paese dove razzismo e
omofobia rinnovano quotidianamente la
loro malvagità e dove il dissenso politico
non è ragione di confronto dialettico, bensì
di aggressione fisica. «Oggi siamo qui per
ricordare – ha detto Castelli – e per capire
la capacità di mobilitazione da parte di tutte
le istituzioni locali e da parte delle organiz-
zazioni antifasciste a tutela dei valori scritti
nella Costituzione della Repubblica italiana.
È un ottimo sintomo di salute civica, di un
fronte compatto che è pronto a scendere in
campo perché non ci si abitui, non si alzino
le spalle, non si minimizzi e si normalizzino
gli sfregi ai simboli della Resistenza. Ovvero
la messa in discussione delle nostre radici
storiche, delle nostre identità territoriali. Di
questa sollevazione unitaria, non possiamo
che ringraziare sindaci, presidenti, rettori
di università, dirigenti scolastici, forze
armate, organi di stampa, singoli cittadini
che solennizzano con noi questa giornata
perché l’antifascismo non cada nell’oblio.
È, altresì, rilevante trasformare tutti quei
luoghi che furono di morte e sacrificio, in
luoghi di vita e di socializzazione, e nessuno
oserà più profanarli, perché saranno di tutti
e per sempre.»
È seguito l’intervento dell’Anpi, che
ha rammentato alcuni episodi antisemiti
consumati a Pisa dai fascisti.
I docenti espulsi dall’Università di pisa
I docenti di ruolo erano cinque, quat-
tro ordinari e uno straordinario, tutti
arruolati in facoltà scientifiche: Enrico Emilio Franco, ordinario di anatomia
patologica; Attilio Gentili, ordinario di
clinica ostetrico-ginecologica; Giulio Ra-cah, straordinario di fisica teorica; Ciro Ravenna, ordinario di chimica agraria
e preside della facoltà di agraria; Cesare Sacerdoti, ordinario di patologia generale.
Ad essi si aggiungevano la libera docente
ed incaricata di entomologia agraria
Tre momenti della commemorazione di San Rossore (Pisa). Nella foto qui sopra il direttore della Scuola Normale, Fabio Beltram, assiste all’intervento del nostro Sergio Castelli
2928
Enrica Calabresi; il libero docente ed
incaricato di fisica tecnica Leonardo Cassuto, l’aiuto Bruno Paggi (patologia
chirurgica), gli assistenti Giorgio Millul (clinica chirurgica), Piero De Cori (chi-
mica generale), Naftoli Emdin (medicina
legale), Aldo Lopez (clinica otorinolarin-
goiatrica), Renzo Toaff (clinica ostetrico-
ginecologica) e i liberi docenti Aldo Bolaffi (patologia speciale chirurgica),
Renzo Bolaffi (diritto civile), Salvatore De Benedetti (patologia clinica oculisti-
ca), Roberto Funaro (clinica pediatrica),
Emanuele Hajon Mondolfo (patologia
speciale medica), Raffaello Menasci (patologia speciale medica dimostrativa)
e il lettore Paul Oskar Kristeller (lingua
tedesca). una perdita complessiva di venti
unità, pari al 5,3% dell’intero corpo docen-
te dell’Ateneo.
DA PISA
Cordoglio degli antifascisti toscani per la morte di Didala Ghilarducci, «partigiana per amore»
Aveva 90 anni. Era stata staffetta dei
partigiani della Brigata Garibaldi du-
rante la Liberazione. I tedeschi le ave-
vano ucciso il giovane marito. Il giorno
prima era a Sant’Anna di Stazzema per
le cerimonie del 25 Aprile.
Personalmente ho incontrato Didala Ghilarducci per l’ultima volta nel
dicembre 2009, perché convocati dalla
Regione Toscana per sensibilizzare i
giovani contro tutte le mafie e parlare
loro dei valori dell’antifascismo, della
libertà e della pace. Nella circostanza
Didala lasciò una bella testimonianza,
ricordando la nostra storia e aiutandoci
a non dimenticare.
È morta il 26 aprile scorso, nella sua
abitazione a Viareggio. Novant’anni,
partigiana viareggina alla quale i te-
deschi uccisero il marito Ciro Bertini, detto “Chittò” nell’agosto del 1944. Ha
vissuto la Resistenza come staffetta
partigiana delle Brigate Garibaldi. Nel
settembre del 1943 lasciò la propria
casa col figlio Riccardo di pochi giorni
per seguire il marito impegnato nella
guerra partigiana sulle Alpi Apuane.
DA LIVORNO
“MAI SMeTTeRe DI RICoRDARe”
Un progetto per i giovani che copre tutte le date significative dell’antifascismo
“Si può continuare a sperare anche quan-
do il mondo sembra impazzito, quando leggi
ingiuste costringono a lasciare la scuola, gli
amici, la casa e cercare rifugio in un nascon-
diglio segreto. Si può continuare a sperare
perché si crede in se stessi, nella propria
forza e nella propria pazienza, nel legame
profondo che unisce la famiglia, perché si
trova conforto nei libri, nella musica, nelle
tradizioni del proprio popolo. Soprattutto,
si può continuare a sperare perché esistono
uomini e donne pronti a rischiare la vita per
salvare quella di altri uomini e altre donne”
(Dal libro di Erminia Dell’Oro “La casa se-
greta, la paura e il coraggio, la speranza di
tornare a vivere”, ed. Bruno Mondadori).
Chi ha vissuto personalmente le leggi
razziali del 1938 ha provato “la paura e il
coraggio, la speranza di tornare a vivere”;
chi ha combattuto il fascismo e ha fatto la
Resistenza si è battuto per i valori altissimi
della democrazia contro quelli aberranti
di nazismo e fascismo. Non ci si deve stan-
care di ricordarlo soprattutto ai giovani
non solamente attraverso i testi scolastici,
ma attraverso le testimonianze di chi ha
vissuto ed è sopravvissuto a quel nefasto
periodo: senza retorica, ma rendendo quei
valori vivi e attuali con un coinvolgimento
emotivo di chi racconta e di chi ascolta.
L’Anppia di Livorno ha commemorato
in questo modo “Il Giorno della Memoria”:
mercoledì 8 febbraio alla Multisala Gran-
de, nell’ambito del Progetto Mai smettere di ricordare (dalle leggi razziali alla fine del fascismo), oltre 300 studenti delle
scuole medie cittadine hanno assistito al
film “Vento di primavera” di Rose Bosch,
una pellicola di memoria e per la memoria
che racconta un episodio poco noto della
storia del Novecento: il rastrellamento di
ebrei francesi deportati nel Velodrome
d’Hiver il 16 luglio del 1942, orchestrato
dal collaborazionismo del governo di Vichy
con Hitler. Il punto di vista che il film as-
sume è quello di alcuni bambini che vivono
nel quartiere di Montmartre e, in partico-
lare, quello del decenne Joseph. Dopo la
visione del film i ragazzi hanno incontrato
Dino Molho, protagonista del libro “La
casa segreta” e, con la mediazione del dot-
tor Leonardo Moggi, regista e responsabile
del Progetto “Lanterne magiche”, sono
intervenuti rivolgendo domande sul film e
sulla storia di Dino ed Esther Molho che,
all’epoca delle persecuzioni razziali, erano
due ragazzini ebrei spensierati, allegri,
aperti al futuro e alle speranze della vita
fino a che il fascismo e le leggi razziali
tolsero loro ogni fondamentale diritto, an-
che quello della vita. Ed a giudicare dagli
applausi degli alunni a Dino Molho e dalla
partecipazione commossa al film, l’Anppia
è sempre più convinta che tali iniziative
siano quelle giuste per raggiungere la
sensibilità dei giovani.
Ma questa è stata solo la prima fase del
lavoro: gli studenti hanno proseguito in
classe la lettura del libro “La casa segreta”
e, con i loro insegnanti si sono preparati
per la giornata conclusiva che si è tenuta
nell’ambito delle manifestazioni del 25
aprile, anniversario della Liberazione.
Infatti, la mattina del 20 aprile, presso la
Multisala Grande, c’è stata la consegna
degli attestati di partecipazione alle classi,
alla presenza di Dino Molho e di Erminia
Dell’Oro, autrice del libro, e di altri testi-
moni dell’antifascismo quali Garibaldo Benifei - fondatore dell’Anppia a livello
nazionale con Umberto Terracini e di cui
oggi è Presidente a Livorno e Presidente
Onorario nazionale - e Osmana Benetti staffetta partigiana, militante antifascista,
oggi dirigente dell’Anppia. Si è trattato
di un incontro-dibattito tra i ragazzi e i
testimoni che si sono raccontati e hanno
risposto alle domande di alunni e docenti.
E poi il gran finale: la Banda di Corea è
entrata nella sala del cinema e, con i suoi
strumenti a fiato e percussioni, ha coinvol-
to i ragazzi e tutto il pubblico con emozioni
che solo la musica sa dare. Così, cantando
“Bella ciao” si è conclusa la manifestazione
Noi
Ha scritto la sua storia nel libro “Parti-
giana per amore” (Del Bucchia editore).
Nella ricorrenza del 25 aprile, il giorno
prima della scomparsa, era stata a
Sant’Anna di Stazzema per glorificare
le vittime dell’atrocità nazifascista, per
celebrare la Festa di Liberazione e per
testimoniare i valori della Resistenza,
un impegno svolto per tutta la vita con
grande dedizione e rispetto. Alla salma
esposta nella sede dell’Anpi di Viareg-
gio, gli antifascisti toscani, per tutto il
giorno, hanno reso omaggio a Didala
“Partigiana per amore”, come spesso
amava definirsi.
Tutto inizia nel 1936 – racconta
Antonio Carollo –, lei, quindici anni,
una fanciulla in fiore dai lunghi capelli
ondulati, un viso dolce e intelligente,
studentessa alle “Medee”, figlia di un
marinaio imbarcato; lui, sedici anni, un
robusto ragazzo occhialuto, gioviale e
intraprendente, studente al Liceo Clas-
sico, figlio di un affermato avvocato.
Facevano i giri più strani per potersi
incontrare, all’uscita dalla scuola. Si
rifugiavano in casa dell’amica Nereide
Bertuccelli per stare insieme e fare
quattro salti, sempre in compagnia del-
Didala Ghilarducci col marito Ciro Bertini in una foto giovanile
le amiche di lei e del gruppo dei compagni
di scuola di lui, Sergio Breschi, Delfo Pivot,
Vezio e Valerio De Ambris, Ninì Ciuffreda,
Adelmo Del Frate, Athos Del Magro, Ario
Papi (saranno tutti partigiani). Non secon-
daria è la figura del professore di filosofia
Giuseppe De Freo, un antifascista che
nei bui anni Trenta parla ai suoi allievi di
libertà, democrazia e giustizia sociale du-
rante le gite domenicali sulle Alpi Apuane.
La storia si snoda con il fidanzamento in
casa (“Se mi vuoi manda la tu’ mamma a
casa mia”), i dispetti e le azioni contro le
autorità fasciste, come la bastonatura al fi-
glio del Duce e l’imbrattamento della targa
della Casa del Fascio; il servizio di leva di
Chittò a Napoli, il matrimonio in tempo di
guerra, il suo rifiuto di arruolarsi nell’e-
sercito repubblichino dopo l’8 settembre,
la fuga in montagna dei due giovani sposi
con il loro figlioletto di pochi giorni in
braccio. E poi, la vita sui monti, i disagi di
una sposina con un bambino da allattare
e accudire dormendo sotto i castagni, la
formazione “Marcello Garosi”, gli altri
compagni Giancarlo Taddei, Gustavo Ron-
tani, Lloyd e Antonio Calvano, Giovannino
Maffei, Ardito Biancalana, “Bori” Bianca-
lana, Sauro Bartelloni, Emilio Jacomelli; le
Noi
DA LIVORNO
Commemorato il 69° anniversario della caduta del fascismo (25 luglio 1943)
A Livorno si sono svolte numerose ma-
nifestazioni.
In mattinata sono state deposte presso
il monumento simbolo dei Perseguitati Politici Antifascisti situato in viale della
Libertà – Parco della Pinetina, due corone
di alloro, una dell’Anppia, l’altra del Comu-
ne di Livorno.
Erano presenti - oltre al presidente
dell’Anppia livornese Garibaldo Benifei - il Prefetto ed il Questore di Livorno, rap-
presentanze delle Autorità Civili e Militari
e rappresentanti dell’Anpi e dell’Anei.
Alle 11,00, presso il palazzo della Que-
stura omaggio alla lapide che ricorda il
sacrificio di otto Agenti del Corpo delle
Guardie di Pubblica Sicurezza trucidati
dai nazifascisti in fuga nel 1944.
Nel pomeriggio, presso la Sala riunio-
ni della Circoscrizione 1 si è tenuta la
conferenza del prof. Nicola Tranfaglia
dell’Università di Torino, noto storico e
saggista, il cui tema è stato Il fascismo e la
sua parabola tra le due guerre mondiali.
L’illustre storico ha esaminato le con-
dizioni che in Italia, Germania, Spagna
e Portogallo, hanno portato all’avvento
della dittatura fascista, indicando le con-
dedicata ai giovani.
Nel pomeriggio, invece, l’evento è
stato dedicato alla cittadinanza tutta.
Così, alle 17,30 il pubblico livornese ha
affollato lo spazio dibattiti della Libre-
ria Gaia Scienza per ascoltare la storia
di Dino Molho raccontata dallo stesso
protagonista e dall’autrice del libro “La
vita segreta”. È intervenuto Garibaldo
Benifei, il cui impegno politico di mi-
litante antifascista dal ’31 fino ad oggi
costituisce la testimonianza più signifi-
cativa dei valori della democrazia, della
giustizia, della libertà che la celebra-
zione del 25 Aprile vuole affermare. Ed
infine ha preso la parola Paola Jarach Bedarida, rappresentante della Comu-
nità Ebraica che, riprendendo il tema
dell’incontro “Mai smettere di ricorda-
re”, è andata oltre le nefandezze della
Shoah per analizzare i recenti episodi
di razzismo che ancora oggi dilagano in
Europa e in tutto il mondo.
Genny De Pas, Donatella Di Martino
operazioni per assicurare i collegamenti e
le segnalazioni per i lanci di viveri e armi
da parte degli aerei alleati, le rappresaglie
tedesche, la cattura e l’evasione di Sergio
Breschi dal carcere di Pisa, le uccisioni,
l’umanità di un commissario repubblichi-
no, Milano Giannecchini, che aiutò Didala
a sfuggire ad un rastrellamento. Didala
seguiva il suo uomo, senza paura, con dedi-
zione, svolgendo compiti di comunicazione
con le altre formazioni partigiane. Poi,
improvvisa la tragedia: Chittò, Giancarlo
Taddei e Gustavo Rontani caddero in un
agguato teso dai tedeschi mentre erano in
perlustrazione. Erano disarmati per evi-
tare eventuali rappresaglie contro i civili.
Rontani riuscì a fuggire. Chittò e Taddei
furono uccisi a freddo; i loro cadaveri
rimasero sul terreno per giorni. Ora, per la
Memoria mancherà una voce importante
soprattutto nelle scuole, dove Didala aveva
raccolto le sue ultime energie per le nuove
generazioni, perché ciò che è accaduto non
potesse ritornare.
Sergio Castelli
3130 Noi
Una sala del Museo Cervi di Gattatico, visitato dai nostri associati di Verona (foto Massimo Dallaglio)
Lettere
Una decina di giorni fa mi ero recato
nella centralissima Piazza Nove
Martiri Aquilani. Per fare un po’ di
compagnia a quei nove giovani, d’età
compresa tra i 17 ed i 21 anni, trucidati
da un plotone di nazisti e fascisti il 23
settembre 1943 come “franchi tiratori”
alle Casermette dell’Aquila. I resti
dei martoriati corpi riesumati dalle
due fosse comuni scavate con le loro
stesse mani, fu possibile solamente a
metà giugno del 1944 con l’avvenuta
Liberazione della città. Alcuni giorni
dopo si tennero i solenni funerali e la
contestuale intitolazione dell’omonima
piazzetta in loro onore, nonché la
successiva erezione di un sacrario nel
cimitero monumentale dell’Aquila.
Ebbene. Il desolante scenario d’una
ingiustificabile incuria della più
rappresentativa coscienza civico-
memoriale aquilana (la Piazza Nove
Martiri, appunto) coincideva con il
dolore di due pugni sferrati contro me
a tradimento dall’Amministrazione
comunale. Il primo dato allo
stomaco; l’altro sugli occhi. Una
corona rinsecchita appoggiata su
un muro sbriciolato dal terremoto
e una demenziale, graffitara scritta
rossastra, sfiguravano già di per sé i
nomi dei Nove Martiri scolpiti nelle
soprastanti tre targhe commemorative.
Il subitaneo strazio non finiva qui.
Guardandomi intorno non riconoscevo
più quella stessa piazzetta rimessa a
nuovo, tra il marzo e l’aprile del 2010,
dalle quattro incursioni corsare del
Popolo delle carriole. A quel tempo la
zona era “ancora rossa” (dalla e per la
vergogna posso ribadire ancor oggi),
nonostante fosse passato già un anno
dal sisma del 6 aprile. La rimozione dei
cumuli d’immondizia e delle macerie,
le ordinate cataste di mattoni, pietre e
coppi, le violette piantate nelle aiuole,
il reading di poesie tenuto il 25 aprile,
lasciavano ben sperare. Nulla di più
deludente. Ora, davanti a me, nella ex
“zona rossa”, quelle disordinate cataste
abbandonate a se stesse, sono state
saccheggiate dai turisti delle rovine e,
molto probabilmente, da costruttori
citazionisti; le aiole fanno più che
pena; l’azzittita fontana con la bella
scultura del D’Antino danneggiata
dal sisma, attorniata da rifiuti. In una
parola: un’imperante sporcizia fisica
ed estetica. Di chi le responsabilità di
tanta sciatteria se non del Comune? Fosse
finito qui, il mio cahier des doleances!
Il peggio del peggio doveva ancora avvenire.
Puntualmente, purtroppo, il 23 aprile del
2012. Ieri, cioè. In cuor mio mi ero augurato
che in occasione delle celebrazioni ufficiali
previste per il 69 anniversario della strage,
la piazzetta fosse ritornata “bella, linda e
pinta”, così com’era stata a suo tempo ri/
consegnata alla città da Il Popolo delle
carriole. Fiducioso, intorno alle ore 11, mi
ero recato sul “luogo del delitto” con un
mazzetto di fiori viola Settembrini, detti
anche Astri (chiara metafora indirizzata
ai nomi dei Nove Martiri: Anteo, Pio,
Francesco, Fernando, Bernardino, Bruno,
Carmine, Sante, Giorgio). Non l’avessi mai
fatto! Questa volta una vera e propria botta
in testa mi era stata data da un ingombrante
furgone rosso con la vistosa scritta
giallognola “Paninoteca” parcheggiato
ad una trentina di centimetri dall’area
monumentale. Ostruendola, perciò, sia
visivamente che fisicamente. L’appassita
corona ricordata più sopra, si trovava
ora affissa nella sua parte posteriore alla
stregua di un carro funebre, occultante in
gran parte la scritta “La vera porchetta”.
Che ci faceva lì, quel sacrilego furgone?
Osservando l’oltraggiosa, incredibile
scena, la risposta mi veniva data da un
filo della corrente che dal mezzo arrivava
nel vicino locale “ ex Avana” (un pub?) a
suo tempo chiuso sine die dal terremoto.
Un faro sovrastante l’insegna, acceso in
pieno giorno forse sin dal 6 aprile del
2009, spiegava l’arcano: il furgone stava
succhiando energia elettrica per ricaricare
la cella frigorifero. Chi era stato l’autore di
cotanta infamia? Perché l’Amministrazione
civica ha consentito un vero e proprio
stupro memoriale, lasciando la piazzetta
alla mercé di sconsiderati? Perché non
aveva, invece, provveduto a ridare un
minimo di dignità urbana a quel luogo sacro
tanto amato dagli aquilani? Prima di fuggire
inorridito, ho segnalato telefonicamente
il tutto alla Polizia Municipale. Avrà
provveduto ad elevare almeno una
contravvenzione al parcheggiatore abusivo?
O peggio ancora: era stato forse autorizzato
da qualcuno a compiere quell’empietà?
Un’ultima riflessione. È diventata strana,
molto strana, la mia città sgretolata.
Architettonicamente sfigurata.
Completamente imbalsamata nei suoi
puntellamenti piranesiani. Socialmente
imbarbarita e smemorata. Istituzionalmente
imbelle ed inutilmente vendicativa verso i
suoi figli migliori. La riprova? Il prossimo
25 ottobre quattro concittadini (E.B., A.P.C.,
D.G.A. e M.S.) dovranno presentarsi davanti
al giudice per essersi inoltrati insieme ad
altre centinaia di aquilani, il 28 marzo 2010
(nonostante il ridicolo sequestro delle
carriole da parte della DIGOS), proprio
nella “zona rossa” della Piazza Nove Martiri
per rimuovere macerie e immondizia.
In base all’art. 650 del codice penale
rischiano l’arresto fino a tre mesi oltre il
pagamento di una sostanziosa ammenda.
Per un’altra settantina di concittadini de Il
Popolo delle Carriole (me compreso) sono
previsti a breve altri processi. Sul tragico
sfondo della realtà sino a qui descritta, la
municipalità aquilana sventola l’oppiacea
bandiera di “L’Aquila capitale europea
della cultura 2019”. Con quale faccia tosta
sta presentando la sua candidatura? Un
23 SeTTeMBRe 1943-2012
il sacrilego oltraggio nella Piazza Nove Martiri Aquilani
I funerali dei 9 martiri aquilani
dizioni sociali, politiche, economiche che
in questi paesi hanno portato al potere
dittatori come Franco, Salazar, Mussolini
e Hitler. Ha quindi messo in rilievo come,
dopo la seconda guerra mondiale, sorsero
movimenti che si ispiravano ai modelli del
fascismo europeo in Asia e in Africa fino
a quelli nati in America Latina, citando gli
esempi di Peron in Argentina e di Vargas
in Brasile.
Tranfaglia ha concluso guardando alla
situazione italiana nell’attuale momento
storico dicendo che “Non è retorica parlare
oggi di possibili ritorni all’indietro, che sono
particolarmente facili quando, problemi
politici e legislativi essenziali, conflitti di
interessi, falsi bilanci non controllati, leggi
elettorali inaccettabili, non sono stati ancora
risolti e, da parte sua, il sistema delle comu-
nicazioni non risponde ancora ai requisiti
che la Costituzione Democratica ha dettato
fino dal gennaio del 1948.”
Al termine della conferenza i componen-
ti della Banda del Quartiere Circoscri-zione 1 hanno eseguito canzoni popolari e
della resistenza.
DA VERONA
Un viaggio a Fossoli, Carpi e Gattatico e due buone iniziative d’estate
L’Anppia di Verona in collaborazione
con l’Anpi, l’Aned e l’Istituto veronese per
la storia della Resistenza e dell’età contem-
poranea ha organizzato domenica 15 aprile
2012 una escursione con visite guidate a
tre luoghi che ricordano pagine dolorose
del periodo 1943-1945 e che videro tanti
italiani pagare con la vita il desiderio di
riscatto nazionale.
Il giorno prima, sabato 14 aprile, per
introdurre le motivazioni della nostra gita,
lo storico Carlo Saletti aveva presentato
il libro di Costantino Di Sante Stranieri
indesiderabili. Il campo di Fossoli e i centri
raccolta profughi in Italia (1945-1970), edito
da ombre corte nel 2011.
Saletti e Di Sante ci hanno accompagna-
to anche nel viaggio verso questi luoghi
della Memoria intrattenendo il gruppo
dei cinquanta partecipanti con spiegando
gli avvenimenti che avevano condotto a
queste tragedie in modo da poter usufruire
appieno della visita.
La prima tappa è stata Fossoli dove
abbiamo percorso il perimetro del campo,
visitato le baracche, o meglio quel che ne
resta, e le guide ci hanno illustrato, all’in-
terno della baracca ricostruita, quella che
con appropriata definizione è stata indica-
ta come “la memoria stratificata del campo
di Fossoli”. Ci siamo quindi trasferiti a
Carpi per ammirare il suggestivo Museo
Monumento politico e razziale opera di
architetti italiani che avevano conosciuto
il dramma della deportazione.
Nel primo pomeriggio siamo arrivati a
Gattatico nella bassa pianura reggiana
dove nella casa in cui la famiglia Cervi
abitò dal 1934 è stato allestito il Museo che
ricorda la vita contadina di questo solido
nucleo familiare e il sacrificio dei sette
fratelli.
A nome delle nostre associazioni al cam-
po di Fossoli e al Museo Cervi sono state
deposte due corone di fiori tricolori per
onorare i tanti italiani caduti.
Sono stati poi realizzati due incontri
durante la stagione estiva.
A San Zeno di Montagna, presso Pa-
lazzo Ca’ Montagna, l’8 agosto ha avuto
luogo Cefalonia, Kalavrita. La Grecia nel cuore. L’appuntamento organizzato
dalla Biblioteca Comunale di San Zeno
di Montagna ha visto la proiezione di
un dvd curato da Roberto Buttura che ha montato le fotografie del viaggio
scattate da Valeria Brutti, Flavia Cominelli e Laura Vigna. Marco e
Valeria Cazzavillan hanno parlato del
massacro di Kalavrita (una delle tante
Marzabotto greche) avvenuto il 13 di-
cembre 1943. Silvio Pozzani, autore di
Byron e la Grecia, ha illustrato la figura
del grande poeta inglese morto nel 1824
a Missolungi, e ha narrato l’eroismo dei
patrioti ellenici e dei volontari, accorsi
da tutta Europa, per difendere la libertà
della Grecia contro i turchi. L’incontro
è stato introdotto da Roberto Bonente
che ha ricordato l’eroico sacrificio di
migliaia di Italiani nell’isola di Cefalo-
nia nel settembre 1943.
Il 29 settembre scorso, presso la sala
“Berto Perotti” dell’IVrR, ha avuto
luogo la presentazione del libro dal
titolo Prigionia e deportazione nel ve-ronese 1943-1945 di Gracco Spaziani e Paola Dalli Cani.
Sono intervenuti Gino Spiazzi, presi-
dente della sezione veronese dell’Aned,
Tiziana Valpiana, vicepresidente
dell’Aned e gli autori del volume. Il
libro è stato presentato dal nostro da
Roberto Bonente.
32
l’antifascistaMensile dell’ANPPIAAssociazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Antonella Amendola
REDAZIONE:
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Ccp n. 36323004 intestato a “l’antifascista”
Chiuso in redazione il: 17 Ottobre 2012
finito di stampare il: 25 Ottobre 2012
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
Lettere
suggerimento piccolo piccolo ai dis-
amministratori della res publica. Se la
“retta via” della ri/nascita è stata, come lo
è, completamente smarrita, per trovarla e
ritrovarla, si prendano nuove, vitali energie
dalla lettura di una toccante poesia scritta
da Carmine Mancini, uno dei giovani
Martiri trucidati: “Oh, io vedo la mia
strada! / La nostra strada! /È lunga tanto,
tanto lunga e lontana, / ma anche breve se
essa conduce alla morte / E quanto sole vi
splende! / E poi tutto sorride laggiù…! / E io
ci credo, noi ci crediamo..! / Ed io ci vado,
ci vado correndo / con i miei compagni
di lotta, / con tutto il bagaglio di chimere,
/ di sogni e di ideali. / Ci vado, sicuro di
non restar solo / con la mia speranza”.
Carissimo Carmine, carissimi altri otto
sventurati compagni della protoresistenza
italiana. Continuate a riposare tranquilli:
gli aquilani più sensibili (ce ne sono ancora
tanti, nonostante la persistente diaspora)
continueranno ad esservi più che vicini.
Antonio Gasbarrini (L’Aquila)
Sulle orme di Ugo Muccini“Coltivare la memoria di quanto è accaduto
affinché non si ripeta”. A questo fine sono
sorti negli ultimi anni i numerosi centri
museali (nella sola zona della Battaglia
dell’Ebro, 5 Centri di interpretazione e 15
spazi storici), emanazione del progetto
“memorial democràtic” sulla Guerra civile
spagnola (1936 – 1939) promosso dalla
Comunità Autonoma della Catalogna,
regione duramente colpita durante
l’avanzata franchista e nella repressione
seguente. Quando scorrono le immagini
dell’Istituto Luce nel “Centro 115 dias”
di Corbera d’Ebre che abbiamo visitato
(i bombardamenti, le strette di mano
tra Franco e Mussolini, i “volontari” del
Littorio inviati a combattere la Repubblica
democratica spagnola), è difficile non
provare un remoto senso di responsabilità
vergognosa. La consapevolezza greve
che i materiali forniti dalle nostre
industrie belliche, esposti oggi nelle
mensole, hanno contribuito al successo
del colpo di stato militare sostenuto da
monarchici, latifondisti e chiesa cattolica,
per soffocare la giovane democrazia
spagnola, è solo in parte mitigata dall’aiuto
apportato dai nostri antifascisti.
Anche a questo è servito il viaggio intrapreso
dall’ANPI Sarzana “sulle orme di Ugo
Muccini”, per spargere un pugno di terra
della natia Arcola nel bosco della Sierra
Cavalls (Valle dell’Ebro) e avere in cambio
maggiori conoscenze su un episodio cruciale
del Novecento, poco ricordato rispetto alla
sua rilevanza. Ci ha supportato in questo
pellegrinaggio storico il gentilissimo sindaco
di Corbera d’Ebre, Sebastian, avvertito a
sorpresa via telefono della nostra presenza
(sabato, tra l’altro), quindi impossibilitato
a riceverci in maniera ufficiale, senza
pasticcini e gagliardetti, ma fermo nel volerci
incontrare, puntualissimo davanti alla porta
del municipio, che ha aperto invitandoci a
entrare. Interloquendo col nostro presidente
Piero Guelfi, sopra la bandiera della
brigata (Divisione Garibaldi “U. Muccini”,
appunto) spiegata sul tavolo, il sindaco ha
reso omaggio al sacrificio dei volontari
internazionali come Ugo Muccini (morto a
28 anni su queste montagne), dimostrando
di conoscere e apprezzare la differenza che
passava tra il Governo del Regno d’Italia e
certi italiani. Ma quanto possono redimerci
collettivamente gli esempi rappresentati da
chi, come Muccini, ha sentito la necessità di
prestare soccorso alla Spagna democratica
e repubblicana sotto l’attacco dei fascismi
europei? Possono redimerci nella misura
in cui noi stessi siamo capaci, nel nostro
tempo, di compiere scelte scomode e
portarle innanzi senza i tentennamenti
dovuti agli interessi personali, con
spirito di servizio per le cause comuni,
coltivando la propria coscienza critica.
Altro incontro emozionante il giorno
seguente, alle pendici della Sierra Cavalls,
con l’anziano signore basco al quale
abbiamo spiegato il motivo della nostra
visita e che, rivolto a Piero, per la prima
volta in questi luoghi a 85 anni, ha detto:
“Anche se in ritardo, molte grazie!”.
Molto spesso sentiamo dire che l’idea
dell’Europa contemporanea è nata dalla
guerra di Liberazione dal nazifascismo;
ebbene, questa guerra di Liberazione è
nata in Spagna nel 1936 e, nonostante abbia
provvisoriamente fallito, ha posto le basi
per la vittoria del 1945, una volta fatto
tesoro, come ci ricordano i partigiani, del
valore dell’unità, disatteso in terra iberica.
Il legato di tale vittoria, scritto a chiare
lettere nella Costituzione della Repubblica
Italiana, può essere garantito solamente
rifondando l’Europa (e non solo) sui valori
della solidarietà umana e sulla volontà di
costruire un mondo giusto, non su dottrine
economiche che portano gli interessi dei
popoli europei a divergere e politiche
nazionali volte all’abuso neocoloniale di
rendite di posizione sempre più esigue;
quest’ultima via, lo abbiamo già visto, porta
alla guerra. Ma questo viaggio in terra di
Spagna, il cui Ventennio è durato il doppio
del nostro, ci impone una riflessione anche
sul camaleontismo fascista. Quali sono le
parole d’ordine, gli atteggiamenti, i canali
di diffusione della cultura fascista? Quali
gli attuali centri decisionali sostenuti
dagli stessi poteri che, mutatis mutandis,
90 anni fa si tutelarono attraverso le
politiche fasciste? Dove si nasconde il
pericolo fascista internazionale, oggi?
Sotto un fez? No. Dietro un manganello?
Non solo. Soprattutto si nasconde
nelle politiche orientate al razzismo,
all’individualismo, allo smantellamento
dei diritti nati dal sistema dello “Stato
sociale europeo”, alla gestione immorale
della res publica, all’inaridimento
degli spazi di espressione democratica,
alla costrizione del libero arbitrio,
all’imbarbarimento culturale. Il
compito di individuarlo e combatterlo
è, qui, ora, e sempre, di tutte le persone
antifasciste. Prima che la storia si ripeta.