le cover negli anni cinquanta e sessanta: strategie economiche
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Le cover negli anni Cinquanta e Sessanta: strategie economiche, culturali, tecniche
dell'adattamento, dell’arrangiamento, della produzione discografica.
Franco Fabbri, Università di Torino
Intervento alla giornata di studi “Réécriture et Chanson”, 17 novembre 2014, Centre Aixois
d’Études Romanes, Aix-‐en-‐Provence.
Il termine cover (e anche cover song, o cover version) significa in inglese “a new performance
or recording of a previously recorded, commercially released (or unreleased) song, by some-‐
one other than the original artist or composer”,1 cioè una nuova esecuzione o registrazione di
una canzone precedentemente registrata e distribuita sul mercato (o non distribuita), da par-‐
te di qualcuno che non è l’interprete originale o il compositore.2 Il termine ha valenza giuridi-‐
ca nelle leggi sul copyright statunitensi (fin dal Copyright Act del 1909), stabilendo che se di
un brano esiste già una registrazione pubblicata chiunque può realizzarne una cover senza
chiedere permesso all’autore – pagando la somma corrispondente allo statutory rate a coper-‐
tura dei diritti fonomeccanici – ma che l’autore ha il diritto monopolistico di decidere chi rea-‐
lizza la prima registrazione.3
In Italia però il termine ha avuto per un certo periodo un significato diverso, più circo-‐
scritto, indicando la traduzione o l’adattamento nella lingua nazionale di una canzone il cui te-‐
sto originale è in un’altra lingua. Così “Ieri”, registrata dai Los Marcellos Ferial4 e dai Trappers
nel 1965,5 e “Ieri lei” registrata da Claudio Villa nel 1970,6 sono cover di “Yesterday” di Paul
McCartney,7 e “Quelli della mia età”, registrata da Catherine Spaak nel 1963,8 è una cover di
“Tout les garçons et les filles” di Françoise Hardy e Roger Samyn.9
1 http://en.wikipedia.org/wiki/Cover_version, ultimo accesso il 4 novembre 2014. 2 Qui e in seguito il discorso vale anche per due o più autori, o interpreti. 3 Vedere Donald S. Passman, All You Need to Know about the Music Business, Penguin, London, 1998, pp.
220-224. 4 Durium CN A 9177; disponibile anche nell’album I Marcellos Ferial, Durium ms AI 77123, 1966. 5 CGD ND 9606 6 Nell’album Music for Ever – International Hits Vol. 2, Fonit Cetra LPP-155, 1970. 7 Formalmente, di Lennon-McCartney: a quanto pare è la canzone che ha avuto più cover – nel senso ingle-
se/americano – nella storia. Gli autori del testo in italiano sono Marcello Minerbi e Tullio Romano, due dei componenti dei Los Marcellos Ferial, un gruppo a suo tempo allestito in fretta e furia per registrare una
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In alto, lo spartito italiano di “Ieri” (“Yesterday”) e la copertina del singolo dei Trappers. Sotto, il
singolo dei Marcellos Ferial (la ragazza sulla copertina è Stefania Sandrelli) e lo spartito italiano
di “Tous les garçons et les filles” (il testo italiano è di Vito Pallavicini)
D’altra parte, “Mr. Tambourine Man”, registrata dai Byrds nel 1965,10 all’epoca in Italia
non sarebbe stata chiamata una cover della canzone di Bob Dylan,11 ma una versione,
versione “pirata” (un falso originale, in spagnolo) di “Cuando calienta el sol”, un successo de Los Herma-nos Rigual.
8 Vito Pallavicini-Françoise Hardy-Roger Gustave Samyn, Ricordi SRL 10-323. 9 Disques Vogue HV 2003. 10 Columbia 4-43271, pubblicato il 12 aprile 1965.
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un’interpretazione, un diverso arrangiamento; una cover (anche nei termini di allora) fu inve-‐
ce “Mister Tamburino”, cantata da Don Backy.12 Curiosamente la registrazione di Don Backy
inizia ricalcando lo stile di quella di Dylan (con l’accompagnamento della sola chitarra), poi
prosegue ricalcando l’arrangiamento dei Byrds.
Sopra, le etichette del singolo dei Byrds e dell’album di Bob Dylan con “Mr. Tambourine Man”.
Sotto, la copertina dell’album di Don Backy contenente la versione italiana.
11 Apparsa nell’album Bringing It All Back Home, Columbia CS 9128, pubblicato il 22 marzo 1965. I Byrds
poterono pubblicare la loro cover senza dover chiedere direttamente l’autorizzazione a Dylan proprio per-ché la registrazione di Dylan era già stata pubblicata. Il brano era già noto da tempo (Dylan l’aveva cantato al folk festival di Newport nel 1964).
12 Nell’album L’amore, Clan Celentano ACC S/LP 40005, 1965.
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In tempi più recenti le cose, almeno in Italia, sono cambiate: ad esempio, i tre album di
Franco Battiato, Fleurs (1999),13 Fleurs 2 (2008)14 e Fleurs 3 (2002)15 sono stati pubblicizzati e
accolti dalla critica come album di cover, anche se molte canzoni sono di autori italiani, e an-‐
che se le canzoni straniere sono cantate nella lingua originale.
In ogni caso, ancora oggi il fenomeno delle cover, nelle comunità dei critici, degli addetti
dell’industria musicale, dei fan, è associato agli anni del secondo dopoguerra, e soprattutto a-‐
gli anni Cinquanta e Sessanta, con qualche accenno nostalgico e non poche semplificazioni (ad
esempio, quella secondo la quale una cultura rock inizierebbe in Italia solo negli anni Settanta,
perché prima i gruppi “facevano solo cover”: di questo ho parlato in un capitolo di Made in I-‐
taly, intitolato “And The Bitt Went On”).16 Per capire meglio quel fenomeno è utile situarlo nel
panorama culturale, normativo, economico e industriale della musica italiana di quei decenni.
Innanzitutto, si deve ricordare che la pratica della traduzione di opere vocali (inclusa
l’opera in senso stretto) era molto comune, già nell’Ottocento, e proprio fino al secondo dopo-‐
guerra. Nei teatri italiani si cantava spesso il Flauto magico, il Freischütz, il Tannhäuser, il
Faust, La Valchiria, la Carmen, e così via, in italiano (così come altrove in Europa si cantavano
le opere italiane nella lingua locale), e numerose erano le arie tradotte incise da tenori e altri
interpreti (anche non italiani) nei primi decenni della discografia. L’idea che un’opera vada in-‐
terpretata comunque e dovunque nella lingua del libretto originale è un’acquisizione relati-‐
vamente recente. Naturalmente, quelle dei libretti erano traduzioni in senso proprio, magari
con qualche licenza poetica: era necessario rispettare lo sviluppo drammatico dell’originale.
La dizione dei cantanti lirici, si sa, è spesso incomprensibile, in qualunque lingua, ma si tradu-‐
cevano i libretti con la buona intenzione di permettere al pubblico di seguire ciò che avveniva
sul palcoscenico senza dover consultare il testo preventivamente, o nella penombra del teatro.
Da un bisogno diverso partivano i traduttori e gli adattatori dei testi di canzoni. Lì si trat-‐
tava di fare propri dei successi internazionali, che difficilmente avrebbero potuto raggiungere
in massa il pubblico locale, per varie ragioni. Ne elenco alcune: i dischi a 78 giri di gommalacca
– a causa della fragilità e del peso – viaggiavano con difficoltà, ed era molto più conveniente
stamparli localmente; fino al secondo dopoguerra, quando divennero disponibili i registratori
a nastro, non era possibile spedire il master originale di una registrazione, semmai solo lo
13 Mercury 546 775-2. 14 Mercury 0602517883819. 15 Columbia COL 508884 2. 16 Franco Fabbri, “And the Bitt Went On”, in F. Fabbri, G. Plastino (eds.), Made in Italy. Studies in Popular
Music, Routledge, London and New York, 2014, pp. 41-55.
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stampatore (e del resto le registrazioni originali erano disponibili nei cataloghi delle case di-‐
scografiche); ma fino all’elettrificazione del giradischi, verso la fine degli anni Venti, trasmet-‐
tere dischi alla radio era – se non impossibile – tecnicamente controproducente; la diffusione
della conoscenza delle lingue straniere, presso il pubblico di massa, era scarsa. In definitiva,
solo una nicchia di appassionati collezionava dischi stranieri (acquistandoli in negozi selezio-‐
nati che vendevano dischi di importazione, o le versioni stampate in Italia), e ai cantanti della
radio era affidato il compito di far conoscere i successi di altri paesi europei, e americani, nelle
versioni italiane. Difficilmente il grande pubblico avrebbe potuto ascoltare le versioni origina-‐
li, e questa situazione si prolungò anche dopo la fine della guerra. A tutto questo bisogna ag-‐
giungere l’influenza del fascismo e il suo controllo sulla radio di stato, l’EIAR: dopo il varo del-‐
le leggi razziali, come annuncia trionfante un editoriale del Radiocorriere del marzo 1939,
l’EIAR “ha eliminato”, si noti il verbo, “le canzoni di autori ebrei e negri”.17 In verità, alcuni can-‐
tanti (Alberto Rabagliati, Natalino Otto), gruppi vocali (il Trio Lescano, il Quartetto Cetra), di-‐
rettori d’orchestra (Gorni Kramer, Pippo Barzizza, Mascheroni) erano appassionati del jazz e
dello swing: a volta bastava contrabbandare una versione come “adattamento” o “parodia” – o
non dire che si trattava di una versione, spacciando la canzone per italiana – per ottenere che i
funzionari dell’EIAR chiudessero un occhio (ne fa un resoconto gustoso Virgilio Savona rac-‐
contando dell’audizione dei Cetra – che si chiamavano ancora EGIE – all’EIAR di Via Asiago, a
Roma).18 Un esempio famoso è “Tristezze di San Luigi” (o anche “Tristezze di S. Louis”), ver-‐
sione in italiano – testo di Mauro – della nerissima “St. Louis Blues” di W.C Handy, incisa nel
1937 da Gorni Kramer in un’esecuzione solo strumentale,19 e nel 1940 da Natalino Otto con
l’Orchestra Semprini (Natalino Otto incise la stessa canzone anche in inglese, nello stesso an-‐
no: una rarità).
Non pochi “classici” di Tin Pan Alley vennero “tradotti” in italiano negli anni prima della
guerra, ignorando o aggirando le proibizioni del regime (gli esempi che seguono sono tratti da
un sito dedicato al Trio Lescano, http://www.trio-‐lescano.it/collaboratori.html, che ne elenca
molti altri, anche europei e latinoamericani): di Irving Berlin, “Lasciati andare” (“Let Yourself
Go”), 1936, testo di Lulli (non meglio identificato); “La ragazza del giornale” (“The Girl on the
Police Gazette”), 1937, testo di Umberto Bertini e Nino Rastelli; “Un anno di baci” (“This Year’s
Kisses”), 1937, testo di Bertini-‐Rastelli; “Vado in centro” (“Slumming on Park Avenue”), 1937, 17 Articolo non firmato (forse scritto dal direttore dei programmi, Giulio Razzi), “Ancora della musica legge-
ra”, Radiocorriere 10, anno XV, 1939, p. 5. 18 Virgilio Savona, Gli indimenticabili Cetra, Sperling & Kupfer, Milano, 1992, p. 36 e segg. 19 Fonit 8025-A: sull’etichetta del disco compare solo il nome dell’autore del testo italiano.
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testo di Bertini-‐Rastelli; di Cole Porter “È tanto facile amarti” (“Easy to Love”), 1936, testo di
Levi (forse Ezio Levi, fautore del jazz insieme a Gian Carlo Testoni); “Tu vivi nel mio cuor”
(“I’ve Got You Under My Skin”), 1936, testo di Levi; di Richard Rodgers, “Dove e quando”
(“Where or When”), testo di Alfredo Bracchi. Un altro elenco, ancora più ampio, si trova in ap-‐
pendice al volume curato da Gianfranco Vinay su George Gershwin.20
Molti altri successi nordamericani furono “tradotti” o anche ritradotti, si potrebbe dire
quasi con furia, a partire dal 1946: risale a quell’anno, ad esempio, l’incisione da parte di Lidia
Martorana di “L’uomo che amo”, versione (di Riccardo Morbelli) di “The Man I Love” dei fra-‐
telli Gershwin. Va detto che Gershwin (ma anche Berlin) era stato individuato e additato come
ebreo dalla propaganda nazista,21 per cui le scappatoie trovate nel Ventennio relativamente ad
altri autori nordamericani difficilmente avrebbero potuto avere successo; esisteva comunque
un amplissimo repertorio di canzoni straniere mai “tradotte” o da “ritradurre”. L’aspetto della
ritraduzione è curioso ma difficilmente esplorabile, se non attraverso esempi lampanti: come
“Stardust” (1927) di Hoagy Charmichael (“Polvere di stelle”) la cui versione italiana è attribui-‐
ta sulle etichette dei dischi del Ventennio – ma anche su qualche edizione discografica e a
stampa successiva – a tale Cariga (non meglio identificato, finora), e risulta poi essere accredi-‐
tata a Devilli (pseudonimo dell’editore Alberto Curci) nel dopoguerra.22 Purtroppo gli archivi
della Siae accessibili al pubblico non riportano alcuna informazione utile (non indicano nem-‐
meno la data della prima pubblicazione, né tantomeno includono accenni alla storia editoriale
dei brani). Che Cariga e Devilli siano la stessa persona? Anche di “I’ve Got You Under My Skin”
di Cole Porter risultano due versioni italiane: una di Levi (la già citata “Tu vivi nel mio cuor”),
una di Leo Chiosso (“È il mio destino”).
Il fatto è, comunque, che un numero abbastanza ristretto di autori firmò le versioni ita-‐
liane di molti “classici” di anteguerra, come si vede consultando gli spartiti dell’epoca: Devilli
(1886-‐1973), Umberto Bertini (1900-‐1987, attivo come paroliere e traduttore già negli anni
Trenta), Mario Panzeri (1911-‐1991, idem), Gian Carlo Testoni (1912-‐1965, idem), Leo Chiosso
(1920-‐2006).
20 Gianfranco Vinay, a cura di, Gershwin, EDT, Torino, 1992. 21 Christa Maria Rok e Hans Brükner, a cura di, Judentum und Musik. MR dem ABC jüdischer und nichari-
scher Musikbtlissener, a cura di, Hans Brukner, Munchen, 1936, cit. in Vinay cit., 326, n. 11. 22 Bisogna ricordare che “Stardust” nacque come brano strumentale, al quale successivamente venne adattato
un testo: esistono, in realtà, più testi in inglese della medesima canzone.
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Tre celebri standard con testi in italiano di Devilli (l’editore Alberto Curci)
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Una raccolta di canzoni del repertorio di Frank Sinatra.
Fra gli autori dei testi in italiano: Bertini, Chiosso, Panzeri, Testoni.
Era in vigore dal 1941 la legge sul diritto d’autore (n. 633 del 22 aprile 1941), che con poche
modifiche regola tuttora la materia in Italia; l’articolo 4 recita così: “Senza pregiudizio dei di-‐
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ritti esistenti sull’opera originaria, sono altresì protette le elaborazioni di carattere creativo
dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua... (eccetera)”. Nel 1962 una deliberazione
del presidente della Siae (reiterata in seguito) avrebbe specificato con precisione il valore di
quella tutela: “All’autore dell’adattamento del testo letterario di composizioni tutelate di ori-‐
gine straniera deve essere assegnata una quota non inferiore rispettivamente: a) per i proven-‐
ti di cui all’art. 1: a 2/24; b) per i proventi di cui all’art. 4: al 5% nel caso di un solo adattatore
e al 10% nel caso di più adattatori.”23 Le quote si riferiscono, rispettivamente, alle utilizzazioni
in balli e concertini, film, emissioni radiotelevisive, concerti (le prime quattro classi della ri-‐
partizione della Sezione Musica della Siae), e ai diritti fonomeccanici (classe V): corrispondo-‐
no alla metà della quota riservata – secondo le consuetudini italiane – agli autori del testo (le
quote comuni sono 4/24 o 16,7% agli autori del testo, 8/24 o 33,3% agli autori della musica,
12/24 o 50% agli editori: non è impedito dai regolamenti di assegnare quote uguali al parolie-‐
re e al compositore, come è consuetudine – ad esempio – negli USA e in Gran Bretagna, ma la
ripartizione 4/8/12, in Italia, è considerata “normale”). Non so, e mi riprometto di cercare, se
prima della deliberazione del 1962 l’articolo 4 della legge sul diritto d’autore venisse evaso, o
– come sembra molto più probabile – fosse applicato a discrezione degli editori: mi stupirebbe
se una tale attività di “traduzione” di canzoni straniere fosse intrapresa senza un guadagno.
Anzi, tendo a pensare che quell’attività fosse ricompensata già prima del 1962 con gli stessi
criteri poi regolamentati dalla Siae.
Dunque, vale la pena di chiarirlo con un esempio, per la versione italiana di “The Man I
Love” Riccardo Morbelli avrebbe ottenuto 2/24 dei diritti d’autore (e l’8,33% dei diritti fono-‐
meccanici), altrettanti ne avrebbe avuti Ira Gershwin (perdendo quindi la metà di ciò che gli
sarebbe spettato in mancanza di una versione italiana), mentre gli eredi di George Gershwin
avrebbero ottenuto 8/24 e il 33,3%; il resto sarebbe andato agli editori. La misura era sem-‐
brata adeguata al legislatore del 1941, e ancora alla Siae nel 1962, ritenendo che la “traduzio-‐
ne” rendesse molto più facile la circolazione in Italia di un’opera in lingua straniera: ciò che
l’autore originale del testo perdeva, cedendo dei diritti al “traduttore”, era recuperato sulla
quantità complessiva dei diritti maturati.
Ma era proprio così? Tanto per cominciare, dopo la fine della guerra, l’apertura dei mer-‐
cati, le innovazioni tecniche, la forte ripresa dell’industria discografica, il dilagare delle tra-‐
smissioni radiofoniche di dischi rendevano accessibili al grande pubblico le versioni originali:
c’era davvero bisogno della funzione di traino delle “traduzioni” per far conoscere le canzoni 23 Articolo 7 degli “Schemi di ripartizione” deliberati dal Presidente della Siae (30/4/1971, aggiornamento di
analoghe deliberazioni del 28/2/1962 e del 12/11/1964).
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cantate da Frank Sinatra, o “Les feuilles mortes”? E poi, un altro fattore pesantissimo si ag-‐
giungeva: poiché la Siae, con i mezzi di allora, pareva incapace di determinare se un brano fos-‐
se utilizzato nella versione italiana o in quella originale, si stabilì che i diritti relativi a qualun-‐
que utilizzazione di un brano straniero sul territorio italiano sarebbero stati ripartiti come se
il brano fosse stato utilizzato nella versione “tradotta”. Proprio così: l’autore del testo italiano
avrebbe preso la sua parte anche quando il brano fosse stato eseguito, radiotrasmesso, vendu-‐
to in forma registrata, nella versione originale. Che si trattasse di una vera incapacità tecnica,
e non del risultato delle pressioni delle lobbies che governavano la Siae, non è facile da dimo-‐
strare: certo, gli assistenti alla regia della Rai erano tenuti a compilare i programmi musicali
da consegnare alla Siae indicando con grande precisione i titoli e gli altri dati presenti sulle e-‐
tichette dei dischi: è difficile che confondessero “I Got You Under My Skin” con “Sei il mio de-‐
stino”, o, più tardi, “A Whiter Shade Of Pale” con “Senza luce”. Ma l’autore del testo italiano in-‐
cassava i diritti, anche se la radio aveva trasmesso un disco di Frank Sinatra o dei Procol Ha-‐
rum (a proposito: fra gli autori del testo italiano di “A Whiter Shade Of Pale” risulta, nel
database della Siae, un tal Ettore Carrera, direttore editoriale della Suvini Zerboni, che proba-‐
bilmente non mise mano al testo, ma si limitò a raccogliere una sorta di tangente – assai abi-‐
tuale negli ambienti editoriali e discografici dell’epoca).
Insomma, sotto una pellicola di legalità fragilissima si consumò, per una trentina d’anni,
una manipolazione del diritto d’autore che portò nelle tasche di un numero limitato di autori
italiani di testi quantità smisurate di denaro. Quanto? La Siae, probabilmente, non lo rivelerà
mai. Alla fine degli anni Ottanta fui testimone involontario di una telefonata di Bruno Lauzi,
cantautore rispettabilissimo, che raccontava a un amico di aver percepito, per la sola versione
italiana di “Hello Dolly” (1964) diritti per quattrocento milioni di lire (al netto dell’inflazione,
circa un milione di euro di oggi).
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Testi poco noti di cantautori famosi
Gli effetti di questa pioggia miracolosa sull’industria musicale italiana degli anni
dall’immediato dopoguerra fino agli anni Settanta (ben pochi non ne furono toccati) sono stati
molteplici. Da un lato, editori e autori sempre più famelici andavano in caccia di successi este-‐
ri, accumulandone le versioni italiane in pochissime mani. Se si voleva fare un piacere a qual-‐
cuno, magari a un giovane autore, per vincolarlo a una casa editrice, gli si offriva una “tradu-‐
zione”. E i giovani interpreti, anche quelli che avrebbero saputo scrivere le proprie canzoni,
venivano invitati a registrare delle cover, per favorire il processo grazie al quale gli autori dei
testi lucravano sulle versioni originali.
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Spartiti con testi italiani di grandi successi angloamericani (di Mogol, Testa, Ricky Gianco, Gar-‐
giulo). Non tutti furono mai registrati nella nostra lingua, ma gli adattatori non ne soffrirono.
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Di fatto, nei rapporti fra editori italiani ed editori delle versioni originali, spesso la notizia o
anche solo la promessa di una cover italiana poteva convincere a stipulare un accordo di li-‐
cenza editoriale. La proliferazione di cover nel beat italiano – intorno alla metà degli anni Ses-‐
santa – si spiega anche così, oltre che con l’inevitabile desiderio dei gruppi di misurarsi con
uno stile non facile da ricreare. E il fenomeno, senza che le regole fossero cambiate, si spense
velocemente all’inizio degli anni Settanta, quando gli editori esteri, ormai smaliziati dopo es-‐
sere stati sollecitati dai propri autori di testi, iniziarono a seguire una politica più restrittiva,
concedendo contratti di licenza per la “traduzione” solo dopo aver ricevuto adeguate rassicu-‐
razioni che la cover sarebbe stata registrata da interpreti di primo piano, di sicuro impatto
commerciale.
Finora ho usato indifferentemente le espressioni “versione italiana” e “traduzione”,
quest’ultima sempre tra virgolette: come ho accennato fin dall’inizio, e come molti esempi di-‐
mostrano, si trattava più che altro di adattamenti di un testo italiano a una melodia preesi-‐
stente, molto raramente con l’intento di tradurre anche solo approssimativamente il testo.
Molte versioni italiane non hanno nulla a che vedere col contenuto del testo originale. D’altra
parte, una versione deve basarsi sulla stessa metrica del testo originale, obbligando la lingua
della canzone “tradotta” a riempirsi di parole tronche, o di monosillabi, a imitazione
dell’inglese (o del francese): del resto, è molto diffuso fra autori, cantanti e critici della canzo-‐
ne italiana il luogo comune secondo il quale la lingua italiana sarebbe inadatta alla canzone
“moderna”, perché povera di tronche e di monosillabi. Molti esempi potrebbero dimostrare
che, invece, basta che il compositore crei una melodia “pensando in italiano”, e non in inglese,
perché le prosodie dell’italiano parlato e di quello cantato si trovino in accordo. Ma, ai fini di
una riflessione sull’economia delle cover, è più importante notare che in generale la stessa
melodia ammette versificazioni alternative, attraverso il ricorso all’anacrusi o alla divisione di
un’unità metrica in sottounità più brevi, o viceversa: questa libertà, che è concessa a un autore
(si confrontino fra di loro, ad esempio, le quattro strofe di “Mr. Tambourine Man”, o di “Like A
Rolling Stone”, di Bob Dylan, ciascuna diversa metricamente dalle altre tre) non è concessa
all’adattatore, anche se una versione metricamente più libera potrebbe risultare più fedele al
contenuto originale. Ne ho esperienza diretta: quando, nel 1966, il gruppo del quale facevo
parte propose di incidere una versione italiana di “All Or Nothing” (Marriott-‐Lane),24 registra-‐
ta in originale dagli Small Faces, il testo che scrissi insieme agli altri era una traduzione abba-‐
stanza fedele di quello inglese, e si intitolava “Tutto o niente”. Ci venne fatto notare che il mo-‐ 24 In questo caso, che pure ricorreva, il brano non era stato suggerito o imposto dalla casa discografica o dagli
editori collegati.
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do secco in cui intendevamo cantare il titolo, nel ritornello (“tut-‐to o nien-‐te”) non corrispon-‐
deva alla scansione dell’originale (“A-‐all or no-‐thing”), e che l’adattamento a quella scansione
(“Tu-‐ut-‐ to [o] nien-‐te”) sarebbe suonato male. Dunque, senza troppi complimenti, ci fu detto
di cantare “O-‐og-‐gi pian-‐go”, su un testo (di significato completamente diverso dall’originale)
scritto da Mogol. Come traduttori eravamo tecnicamente insufficienti, era bene rivolgersi a un
professionista.
I thought you’d listen to my reasoning
But now I see, you don’t hear a thing
Try to make you see, how it’s got to be
Yes it’s all, all or nothing
Yeah yeah, All or nothing
All or nothing, for me
Things could work out just like I want them to, yeah
If I could have the other half of you, yeah
You know I would, If I only could
Yes it’s yeah, all or nothing
Oh yeah, all or nothing
You'll hear my children say, all or nothing, for me
Lasciare tutto è difficile
lasciare il mondo dove c’eri tu
ma dovrò partir, ti dovrò lasciar, anche se
Oggi piango,
ye ye, oggi piango, sai che
oggi piango per te
A volte penso che è più facile
restare indietro e arrendersi
Ma non ti puoi fermar quando vuoi volar, anche se
Oggi piango, perché ti voglio bene,
oggi piango, perché ti voglio troppo bene
oggi piango per te
A sinistra, parte del testo di “All Or Nothing” (Marriot, Lane), un successo degli Small Faces
(1966); a destra, parte del testo (scritto da Mogol) di “Oggi piango”, registrata dagli Stormy Six
nello stesso anno e pubblicata all’inizio del 1967.
Le malefatte dell’editoria musicale e della discografia italiana si accordano bene con una
certa immagine del paese e del livello di moralità di molti ambienti, non solo politici. Ma non
sono al momento in grado di giurare che in altri paesi queste cose, o cose simili, non avvenis-‐
sero. Ad esempio, la storia dell’editoria e della discografia statunitense è abbastanza ricca di
esempi di brani di tradizione popolare che furono depositati e sfruttati economicamente da
chi li aveva raccolti (senza alcun riguardo per i portatori), o di brani che effettivamente ave-‐
vano un autore, ma abbastanza sfortunato da vivere in un paese sottosviluppato, e dei quali
quindi si appropriarono senza complimenti autori statunitensi.
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Un caso classico di appropriazione. “The Lion Sleeps Tonight” (un grande successo dei Tokens,
1961) è un adattamento di “Wimoweh”, un successo degli Weavers degli anni Cinquanta, che a
sua volta deriva da “Mbube”, un brano del gruppo africano Solomon Linda’s Original Evening
Birds (1938). Solomon Linda è accreditato nella versione degli Weavers, insieme a Campbell (lo
pseudonimo collettivo degli Weavers), ma il suo nome scompare nei credits dello hit del 1961,
dove invece figurano altri adattatori, statunitensi (e Leo Chiosso, autore della versione italiana).
Suggerirei anche che le regole di ripartizione per le traduzioni adottate negli anni del se-‐
condo dopoguerra dalle società degli autori di altri paesi (la Spagna, la Francia, la Germania,
ecc.) meritino qualche studio.
Infine, vorrei dedicare qualche parola alle cover in quanto produzioni discografiche.
Quando si pensa alle cover degli anni Sessanta, soprattutto, si sottintende che fossero delle
copie il più fedeli possibile degli originali, solamente con un testo nella lingua locale. Si dà per
scontato, dunque, che il diritto di traduzione o adattamento implicasse anche il diritto di ap-‐
propriarsi dell’arrangiamento, il che non è vero. Il fatto è che l’arrangiamento, almeno in Italia,
non è protetto dal diritto d’autore. Arrangiatori e complessi musicali, con rare eccezioni, tro-‐
vavano normale replicare gli arrangiamenti dei dischi originali. C’erano però dei limiti. In mol-‐
ti casi, le tonalità andavano adattate all’estensione dei cantanti o delle cantanti, e questo modi-‐
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ficava il timbro degli strumenti, in seguito allo spostamento in un altro registro; poi, special-‐
mente i tecnici del suono inglesi tendevano a sfiorare o superare la soglia della distorsione,
dalla quale invece i tecnici italiani, più conservatori e meno pressati da musicisti novellini e
intimiditi, si tenevano lontani. Questo vale anche per i suoni degli strumenti: molte chitarre o
tastiere o batterie ai limiti della distorsione nei dischi angloamericani risultavano “pulite” (e
dunque anche “piccole”) nelle cover italiane. Ma soprattutto, incombeva il giudizio della
Commissione d’Ascolto della Rai, che non si limitava a spulciare i testi alla ricerca di volgarità
e riferimenti espliciti (per non dire degli accenni alla politica o alla religione), ma si preoccu-‐
pava della qualità tecnica, temendo che eventuali distorsioni potessero essere interpretate
come disfunzioni della trasmissione.25 Per di più, l’aspetto censorio e quello tecnico si sposa-‐
vano nella richiesta che il livello della voce fosse sempre consistentemente più alto di quello
della base: a parità di qualsiasi altro fattore, la stragrande maggioranza delle cover differiva
sostanzialmente dall’incisione originale perché la voce era molto più “fuori”.
A sinistra, il singolo di Tommy James and the Shondells con “Crimson and Clover” (1969);
a destra la copertina della versione italiana (testo diMogol e Minellono) del Patrick Samson Set
Gli esempi possibili sono numerosissimi. In un mio libro ho descritto abbastanza minu-‐
ziosamente la registrazione di “Oggi piango” e le inevitabili (e un po’ malinconiche) differenze
25 Sulla Commissione d’Ascolto si veda la tesi di laurea di Roberto Bonato, La Commisione d'Ascolto della
Rai. Musica e radiotelevisione in Italia dal fascismo alla fine del monopolio Rai (Laurea triennale, Torino, Facoltà di Lettere, 2007-2008), scaricabile all’indirizzo http://www.francofabbri.net/pagine/Uni_Tesi.htm
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rispetto a “All Or Nothing”;26 qui suggerisco l’ascolto comparato della versione originale di
“Crimson and Clover” (T. James-‐P. Lucia, 1969), interpretata da Tommy James and the Shon-‐
dells (Roulette R-‐7028), e della cover italiana “Soli si muore” (testo italiano di Mogol e Cristia-‐
no Minellono), incisa nello stesso anno dal Patrick Samson27 Set (Carosello Cl 20225). Mi au-‐
guro che possa suggerire un buon riassunto dei vari temi affrontati in questa mia comunica-‐
zione.
26 Franco Fabbri, Album bianco. Diari musicali 1965-2011, Milano, il Saggiatore, 2011, pp. 41-43. 27 Patrick Samson, il cui vero nome era Sulaimi Khoury, era di origine libanese. Il suo gruppo, all’epoca, era
uno dei più apprezzati per un sound aggressivo, simile a quello dei migliori gruppi di r&b angloamericani. Nella registrazione, però, il suono è addomesticato, con la voce molto “fuori” (per evidenti esigenze radio-foniche) e gli strumenti “puliti”. Spicca soprattutto la realizzazione dell’effetto finale sulla voce, che nel disco di Tommy James è realizzato facendola passare per il canale del tremolo di un amplificatore per chi-tarra, mentre nella versione italiana si accontenta di un riverbero accentuato, ma scialbo.