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Highlander. Amori nel tempoHighlander. Torna da me

Di prossima pubblicazione:

Il mistero del talismano perduto

Prima edizione: gennaio 2012Titolo originale: Darkfever© 2006 by Karen Marie Moning© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.Il marchio Leggereditore è di proprietàdella Sergio Fanucci Communications S.r.l.via delle Fornaci, 66 – 00165 Romatel. 06.39366384 – email: [email protected] internet: www.leggereditore.itThis translation published by arrangement with Delacorte Press,an imprint of The Random House Publishing Group,a division of Random House, Inc.All right reserved.Proprietà letteraria e artistica riservataStampato in Italia – Printed in ItalyTutti i diritti riservatiProgetto grafico: Grafica Effe

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Karen Marie MoningI segreti del libro proibito

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ANeil, che mi ha tenuta per manoper entrare insieme nella Zona Oscura.

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When the walls come tumblin’ downWhen the walls come crumblin’ crumblin’...

JOHN COUGAR MELLENCAMP, Crumblin’ Down

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Prologo

La mia filosofia è alquanto semplice: qualsiasi giorno incui nessuno tenta di uccidermi per me è un buon giorno.

Ultimamente non ho avuto molti giorni buoni.Non da quando i muri che separano l’Umano dal Fatato

sono crollati.Prima che Il Patto fosse siglato tra Umani ed Esseri Fatati

(intorno al 4.000 a.C., per chi non conosce la storia delPopolo Fatato) i Cacciatori Unseelie ci davano la caccia perucciderci come animali. Ma Il Patto proibì agli Esseri Fatatidi versare sangue umano, perciò nei successivi seimila anni,secolo più secolo meno, quelli dotati della Vera Visione –persone come me che non si lasciano ingannare né dal fasci-no né dalla magia degli Esseri Fatati – erano ridotti in catti-vità e tenuti prigionieri fino alla morte nel Paese Fatato. Chegrande differenza: morire o restare bloccati nel Mondo Fa-tato per tutta la vita. Adifferenza di altri che conosco, io nonsubisco l’incantesimo degli Esseri Fatati. Avere a che farecon loro è come affrontare una qualsiasi dipendenza: se tiarrendi, ti posseggono; se resisti, non riusciranno mai adaverti.

Ora che i muri sono caduti, i Cacciatori cercano nuova-

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mente di ucciderci. Vogliono eliminarci neanche fossimo lapeste su questo pianeta.

Aoibheal, la Regina della Luce Seelie, non è più sul trono.In realtà nessuno sembra sapere più dove sia e alcuni comin-ciano a chiedersi se sia ancora viva. Dalla sua scomparsa,Seelie e Unseelie hanno portato la loro sanguinosa guerra intutto il nostro mondo e, a costo di apparire sfiduciata e pes-simista, penso che gli Unseelie stiano avendo decisamente lameglio sui loro fratelli più buoni.

Il che è davvero, ma davvero una brutta cosa.Non che i Seelie mi piacciano di più. Proprio no. A mio

parere, l’unico Essere Fatato buono è quello morto. È soloche i Seelie non sono pericolosamente letali come gli Un-seelie. Loro non ci uccidono a vista. Loro ci usano per unoscopo preciso.

Il sesso.Pur considerandoci a malapena esseri senzienti, a letto ci

apprezzano notevolmente.Quando hanno finito con una donna, per lei è un gran pro-

blema. È qualcosa che le entra nel sangue. Fare sesso non pro-tetto con un Essere Fatato risveglia nella donna un freneticoappetito sessuale per qualcosa che non avrebbe mai dovutocominciare a fare e che non riuscirà mai a dimenticare. Leoccorre molto tempo per riprendersi, ma almeno è viva.

Il che si traduce nella possibilità di lottare un altro giorno.Di tentare di riportare il nostro mondo nelle condizioni di untempo.

Di rispedire quei bastardi fatati nel dannato inferno da cuiprovengono.

Tutto ha avuto inizio come iniziano le cose in genere. Nonin una notte buia e tempestosa. Non preannunciato da mi-nacciose colonne sonore tipo ecco-che-arriva-il-cattivo, néda sinistri ammonimenti sul fondo di una tazza da tè e nem-meno da terrorizzanti presagi in cielo.

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Tutto è cominciato in sordina, in maniera innocua, comeavviene di solito con le catastrofi. Una farfalla batte le ali daqualche parte e il vento cambia, un fronte caldo si scontracon uno freddo a largo della costa dell’Africa occidentale e inmen che non si dica ecco approssimarsi un uragano.

Quando ci rendemmo conto della tempesta in arrivo, eraormai troppo tardi per fare qualcosa eccetto inchiodare assialle finestre e tentare di limitare i danni.

Mi chiamo MacKayla. Abbreviato in Mac. Sono una veg-gente sidhe, verità che ho accettato solo di recente e con estre-ma riluttanza.

Là fuori eravamo più di quanti si pensasse. Il che è unacosa dannatamente buona, anche.

Noi siamo quelli che limitano i danni.

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Un anno prima...9 luglio, Ashford, Georgia

Trentaquattro gradi e mezzo. Novantasette percento diumidità.

D’estate qui nel Sud fa un caldo pazzesco, ma vale la penasopportarlo in cambio di inverni tanto brevi e miti. Le stagio-ni, i vari climi, mi piacciono un po’ tutti. So apprezzare unanuvolosa, piovigginosa giornata autunnale – l’ideale perraggomitolarsi a leggere un buon libro – tanto quanto unazzurro e terso cielo estivo, anche se non vado pazza per laneve e il ghiaccio. Non so come facciano gli abitanti del Norda sopportarli. Tuttavia immagino che sia un bene che ci rie-scano, altrimenti scenderebbero tutti in massa qua da noi.

Abituata alla soffocante calura meridionale, me ne stavodistesa sul bordo della piscina nel cortile posteriore dellacasa dei miei genitori, con addosso il mio bikini preferito apois rosa che si abbinava perfettamente alla mia nuovamanicure e pedicure rosa della serie in-realtà-non-sono-una-cameriera. Ero sdraiata su un lettino coperto da un materas-sino, con i lunghi capelli biondi avvolti in un appuntito nodo

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sulla testa, un’acconciatura con la quale in realtà speri nessu-no ti possa mai vedere. Mamma e papà erano andati invacanza, per festeggiare il loro trentesimo anniversario dimatrimonio con una crociera di ventuno giorni da un’isolaall’altra dei tropici, iniziata due settimane prima a Maui edestinata a concludersi il weekend successivo a Miami.

In loro assenza curavo devotamente la mia abbronzatura,concedendomi rapidi bagni nelle schiumose, fresche acquedel mare, sdraiandomi al sole per asciugare le gocce d’acquasulla pelle, desiderando che mia sorella Alina fosse lì con meper passare un po’di tempo insieme e magari invitare qual-che amico.

L’iPod inserito nel Sound-Dock Bose di papà trasmettevaallegramente dal patio la compilation che avevo scelto speci-ficatamente per prendere il sole in piscina, composta da uncentinaio di singoli degli ultimi decenni più qualche branodi quelli che mi facevano sorridere, musica felicementespensierata per trascorrere un po’ di tempo felicemente espensieratamente. Al momento suonava una vecchia canzo-ne di Louis Armstrong: What a Wonderful World. Per essereuna che appartiene a una generazione che considera coolessere cinici e disincantati, a volte esco dal seminato. Oh, aldiavolo!

Avevo a portata di mano un bicchierone di tè dolce e ghiac-ciato e anche il telefono, nel caso che mamma e papà sbarcas-sero prima del previsto. In teoria non avrebbero dovuto rag-giungere l’isola successiva prima dell’indomani, ma già duevolte la nave aveva attraccato in anticipo sul programma.Dato che qualche giorno prima avevo accidentalmente fattocadere il cellulare in piscina, mi portavo dietro il cordless inmodo da non perdere nessuna chiamata.

Il fatto era che i miei genitori mi mancavano da morire.All’inizio, vedendoli partire, la prospettiva di stare da sola

mi aveva entusiasmato. Vivo con loro e a volte il trambusto

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trasforma casa in una sorta di Grand Central Station, con leamiche di mamma, i compagni di golf di papà, le signoredella chiesa in visita, intervallati dai figli dei vicini che fannoirruzione con una scusa o con l’altra, adeguatamente vestitiin calzoncini da bagno... diamine, una mossa astuta perscroccare un bagno?

Ma trascorse due settimane di tanto agognata solitudine,non ne potevo più. La casa, in genere caotica, sembrava do-lorosamente silenziosa, soprattutto di sera. Intorno all’oradi cena mi sentivo completamente persa. Oltre che affama-ta. Mamma è una cuoca eccezionale, mentre io m’ingozza-vo di pizza, patatine e mac and cheese. Non vedevo l’ora digustare il suo pollo fritto, il purè, le erbette in padella e lacrostata di pesche con la panna fatta in casa. Mi ero persinopreoccupata di acquistare in anticipo tutti gli ingredientinecessari.

Amo mangiare. Fortunatamente non si vede. Ho un belseno e un bel sedere, ma vita sottile e cosce magre. Merito diun metabolismo che funziona bene, anche se mamma dice:«Sì, aspetta di arrivare a trent’anni. E poi a quaranta e a cin-quanta.» Al che papà ribatte: «C’è più da amare, Rainey.» Elancia a mamma un’occhiata che mi costringe a concentrar-mi con tutte le forze sulla prima cosa che capita. Qualsiasicosa. Adoro i miei genitori, ma questo loro comportamentodiventa un EDI, ovvero un Eccesso Di Informazioni.

Tutto sommato, vivo una vita felice, a parte il sentire lamancanza dei miei e il contare i giorni che mancano al rien-tro di Alina dall’Irlanda, due problemi comunque tempora-nei e presto risolti. A breve, la mia esistenza tornerà a essereperfetta come prima.

Che l’essere troppo felice stuzzichi il Fato a recidere unodei fili più importanti che tengono insieme la tua vita?

Quando il telefono squillò, pensavo fossero i miei genitori.Così non fu.

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* * *

Buffo come un atto minuscolo, insignificante, ripetutodecine di volte al giorno, possa trasformarsi in una linea didemarcazione.

Il sollevare un telefono. Il premere un tasto.Prima che lo facessi – per quanto ne sapevo – mia sorella

Alina era ancora viva. Nel momento in cui schiacciai il tasto,la mia vita si divise in due epoche ben distinte: Prima dellachiamata e Dopo la chiamata.

Prima della telefonata, non sapevo che uso fare del termi-ne ‘demarcazione’, una di quelle parole che conoscevo sola-mente perché ero un’avida lettrice. Prima, mi lasciavo tra-sportare nella vita da un momento felice all’altro. Prima,pensavo di sapere tutto. Credevo di sapere chi ero, che postooccupavo nel mondo ed esattamente che cosa mi riservava ilfuturo.

Prima, pensavo di avere un futuro.Dopo, cominciai a scoprire che in realtà non sapevo nulla

di nulla.

Aspettai per due settimane, dal giorno in cui appresi chemia sorella era stata assassinata, che qualcuno facesse qual-cosa – qualsiasi cosa – oltre a seppellirla dopo un funerale acassa chiusa, ricoprirla di rose e affliggersi.

Piangere non l’avrebbe fatta tornare e di certo non mi face-va cambiare idea sulla persona che l’aveva ammazzata e chese ne andava in giro da qualche parte, soddisfatto della suavisione psicotica, mentre mia sorella giaceva gelata e biancasotto due metri di terriccio.

Quelle settimane rimarranno per sempre annebbiate perme. Piansi per tutto il tempo, con la visione e la memoria offu-scate dalle lacrime. Le mie erano lacrime involontarie. Era lamia anima a gocciolare e gemere. Alina non era soltanto mia

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sorella: era anche la mia migliore amica. Sebbene negli ultimiotto mesi fosse andata a studiare al Trinity College di Du-blino, comunicavamo incessantemente via mail e ci sentiva-mo al telefono almeno una volta alla settimana, confidandocisu tutto, senza avere segreti.

O almeno così credevo. Ragazzi, non mi ero mai sbagliatatanto.

Immaginavamo di prendere un appartamento insiemeappena fosse rientrata. Progettavamo di trasferirci in città,dove finalmente avrei pensato seriamente al college e Alinaavrebbe lavorato al suo dottorato nella stessa università diAtlanta. Non era un segreto che quella ambiziosa in famigliafosse mia sorella. Da quando mi ero diplomata alle superiori,ero stata più che contenta di lavorare come cameriera alBrickyard quattro o cinque sere alla settimana, di vivere con imiei, di conservare la maggior parte dello stipendio e di segui-re il minor numero possibile di lezioni della locale PudunkUniversity (una o due a semestre, e corsi tipo Come usare inter-nete L’etichetta del viaggiatorenon soddisfacevano i miei vecchi)in modo da fornire a mamma e papà la ragionevole speranzache un giorno mi sarei laureata e avrei trovato un lavoro veronel mondo reale. Tuttavia, ambizione a parte, al ritorno di Alinaprogettavo realmente di mettere la testa a posto e di apporta-re qualche grosso cambiamento nella mia vita.

Quando l’avevo salutata mesi prima in aeroporto, il pen-siero che avrei potuto non rivederla mai più viva non mi eranemmeno passato per la testa. Alina era una certezza, esatta-mente come l’alba e il tramonto. Era felice. Aveva ventiquat-tro anni e io ventidue. Avremmo vissuto per sempre. I tren-ta erano lontani anni luce. I quaranta non erano nemmenonella stessa galassia. La morte? Ah ah. La morte era destina-ta alla gente molto vecchia.

Per niente.Dopo due settimane, l’annebbiata cortina di lacrime co-

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minciò a sollevarsi un poco. Il dolore no, quello rimaneva.Sono convinta di avere espulso dal corpo tutto il liquido chenon era assolutamente necessario per mantenermi in vita. Ela rabbia irrigava il mio animo disseccato. Volevo delle rispo-ste. Volevo fosse fatta giustizia.

Volevo vendetta.Ma sembravo essere l’unica.Qualche anno prima avevo seguito un corso di psicologia

nel quale si diceva che la gente affronta la morte superando ivari stadi del dolore. Io non mi ero crogiolata nell’intontimen-to della negazione che dovrebbe essere la prima fase. In unattimo ero schizzata dallo stordimento alla sofferenza. Conmamma e papà lontani, ero quella che doveva identificare ilcorpo. Non era stato facile e in nessun modo avrei potutonegare che Alina fosse morta.

Dopo due settimane, ero in piena fase rabbia. In teoria lasuccessiva sarebbe stata quella della depressione, seguita poi,salute permettendo, dall’accettazione. Scorgevo già i primisegni di accettazione in quelli che mi circondavano, come sefossero passati direttamente dall’obnubilamento alla sconfit-ta. Parlavano di ‘atti casuali di violenza’. Dicevano ‘la vitacontinua’. Sostenevano ‘la polizia sa cosa fare. Siamo in buo-ne mani’.

Io non ero così positiva. Nemmeno mi fidavo della poliziairlandese.

Accettare la morte di Alina?Mai.

«Non ci andrai, Mac, punto e basta.» Mamma era in piedidavanti al bancone della cucina, con uno strofinaccio sullaspalla, un vivace grembiule rosso e giallo con stampati soprabianchi fiori di magnolia legato in vita, e le mani imbiancatedi farina.

Infornava. Cucinava. Puliva. Infornava ancora. Era diven-

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tata un vero e proprio diavolo di Tasmania della vita dome-stica. Nata e cresciuta nel profondo Sud, quella era la suamaniera di far fronte all’accaduto. Quaggiù, le donne si rifu-giano nel nido come chiocce quando la gente muore. Fannocosì.

Discutevamo da un’ora. La sera prima, la polizia di Du-blino aveva chiamato per comunicarci che con grande ram-marico, a causa della mancanza di prove, alla luce del fattoche non disponeva di un solo indizio e di nessun testimone,non aveva nulla su cui indagare. In pratica, ci annunciavanoufficialmente che non gli restava loro che girare l’omicidio diAlina alla Divisione casi irrisolti, che chiunque con un bricio-lo di cervello sapeva non essere affatto una divisione, ma unsemplice schedario in un archivio scarsamente illuminato edimenticato dai più, situato in chissà quale scantinato. No-nostante l’assicurazione che il caso sarebbe stato riesaminatoperiodicamente alla ricerca di nuove prove, che nulla sareb-be stato tralasciato, il messaggio suonava forte e chiaro:Alina era morta, era stata spedita nel suo Paese e non era piùdi loro competenza.

Avevano gettato la spugna.Il tutto in un tempo record, no? Tre settimane. In soli ven-

tuno giorni. Era inconcepibile!«Puoi scommetterci quello che vuoi che se vivevamo lì

non avrebbero rinunciato così in fretta» dissi amaramente.«Questo non puoi saperlo, Mac.» La mamma si tolse una

ciocca di capelli biondo cenere dagli occhi azzurri cerchiatidi rosso per il pianto, lasciando un velo di farina sul soprac-ciglio.

«Dammi la possibilità di scoprirlo.»Le labbra si strinsero a formare una sottile linea bianca.

«Assolutamente no. Ho già perso una figlia in quel Paese.Non intendo perderne un’altra.»

Impasse. Eravamo ferme a questo punto sin dalla colazio-

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ne, quando avevo annunciato la mia decisione di prendermidel tempo per andare a Dublino a scoprire cosa aveva fattorealmente la polizia per far luce sull’omicidio di Alina.

Avrei chiesto una copia del fascicolo e fatto il possibile permotivarli a proseguire le indagini. Avrei dato un volto e unavoce – una voce forte e speravo molto persuasiva – alla fami-glia della vittima. Nessuno mi toglieva dalla testa che se miasorella avesse avuto un suo rappresentante a Dublino, le for-ze dell’ordine avrebbero preso più sul serio il caso.

Avevo tentato di spingere papà ad andare, ma al momentonon c’era modo di raggiungerlo, perso com’era nel suo dolore.Nonostante io e Alina avessimo visi e corporature differenti, ilcolore dei capelli e quello degli occhi erano identici e le pochevolte che mio padre mi aveva guardato ultimamente, sul vol-to gli era comparsa un’espressione che mi aveva fatto deside-rare di essere invisibile. O bruna con gli occhi marroni comelui, anziché bionda con colpi di sole e con gli occhi verdi.

All’inizio, dopo il funerale, si era buttato a capofitto nel-l’azione, facendo telefonate interminabili, contattando e par-lando con tutti. L’ambasciata si era dimostrata gentile, mal’aveva indirizzato all’Interpol. L’Interpol l’aveva tenuto oc-cupato per qualche giorno mentre ‘valutava la situazione’prima di rimandarlo diplomaticamente al punto di parten-za: la polizia di Dublino. Il corpo di polizia di Dublino nonaveva mai vacillato: nessuna prova, niente indizi, nulla sucui indagare. ‘Se la cosa non la convince, signore, si rivolgaalla sua ambasciata.’

Allora aveva telefonato alla polizia di Ashford... No, loronon potevano andare in Irlanda per occuparsi della faccen-da. Aveva contattato di nuovo la polizia di Dublino... Eranosicuri di avere interrogato proprio tutti gli amici, i compagnidi studio e i professori di Alina? Non avevo dovuto sentire lerepliche a quella domanda dall’altra parte della linea persapere che la polizia di Dublino cominciava a irritarsi.

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Alla fine si era rivolto a un vecchio amico del college chericopriva un’importante quanto segreta carica governativa.La risposta dell’amico – quale fosse sia stata – lo aveva sgon-fiato del tutto. Da allora si era chiuso la porta alle spalle, si eraallontanato da noi.

Il clima era decisamente cupo in casa Lane, con mammache sembrava un tornado in cucina e papà un buco nero nelsuo studio. Non potevo starmene ferma all’infinito in attesache si riprendessero. Perdevamo tempo e la pista si raffred-dava sempre più. Se si poteva fare qualcosa, bisognava farlosubito, e dovevo essere io a muovermi.

Dissi: «Io vado e non m’importa se siete d’accordo o no.»Mamma scoppiò in lacrime. Sbatté la pasta che stava lavo-

rando sul piano dell’armadietto e corse fuori dalla cucina.Dopo un minuto, sentii la porta della camera da letto sbattere.

Una cosa che non riesco ad affrontare sono le lacrime dimia madre. Come se non avesse pianto abbastanza ultima-mente, ero appena riuscita a scatenare un’altra crisi. Mi pre-cipitai fuori e scivolai di sopra, sentendomi la schifezza piùschifezza sulla faccia della terra.

Mi tolsi il pigiama, feci la doccia, mi asciugai i capelli e mivestii, poi rimasi ferma in piedi nel corridoio per qualcheistante, completamente smarrita, con gli occhi fissi sulla por-ta chiusa della stanza di Alina.

Quante migliaia di volte ci chiamavamo a vicenda in unsolo giorno, quante altre bisbigliavamo di notte, svegliando-ci l’un l’altra per essere confortate dopo un brutto sogno?

Ora mi dovevo rincuorare da sola se avevo degli incubi.Controllati, Mac. Mi scossi da quel torpore e decisi di anda-

re al campus. Stando a casa, rischiavo di essere risucchiataanch’io dal buco nero il cui diametro – lo percepivo chiara-mente – si allargava in maniera esponenziale.

Mentre mi dirigevo in centro in macchina, mi rammentaiche il cellulare era finito in piscina – Dio, ma era veramente

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successo tutte quelle settimane prima? – e decisi di fermarmiin un centro commerciale per acquistarne uno nel caso i mieiavessero avuto necessità di parlarmi mentre ero fuori.

Sempre che si accorgessero che ero uscita.Giunta al negozio, comprai il Nokia più a buon mercato

che avevano, feci disattivare la scheda vecchia e attivare lanuova mantenendo il mio numero.

Una volta acceso il telefono, scoprii di avere quattordicinuovi messaggi, un vero record per me. Difficile definirmiuna gran compagnona. Non sono una di quelle sempreattaccate al telefono o fissate col servizio recall. Anzi, l’idea diessere così facilmente rintracciabile mi fa venire la pelled’oca. Non ho un cellulare con macchina fotografica né lapossibilità di inviare sms. Niente internet né radio satellitare,solo un account base, niente di più. L’unico altro gadget tec-nologico che mi serve è il mio fidato iPod: la musica è la miagrande evasione.

Tornai in auto, avviai il motore affinché il condizionatored’aria potesse contrastare l’implacabile caldo di luglio e co-minciai ad ascoltare i messaggi registrati in segreteria. Vec-chi, perlopiù, di amici di college o del Brickyard con i qualiavevo parlato dopo il funerale.

Presumo che, inconsciamente, credessi di non avere potutousufruire della linea telefonica da qualche giorno prima dellamorte di Alina e nutrissi la speranza di ricevere un messaggioda lei. Speravo che mi avesse chiamato, di sentirla felice primadella sua morte. Speravo che potesse dirmi qualcosa in gradodi alleviare il dolore che provavo, anche solo temporanea-mente. Desideravo disperatamente sentire un’altra volta lasua voce.

Quando fui accontentata, quasi lasciai cadere il telefono.La voce che uscì dal minuscolo altoparlante suonava freneti-ca, atterrita.

«Mac! Oddio, Mac, dove sei? Devo parlarti! Scatta subito la

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segreteria! Perché diavolo hai spento il cellulare? Richiamamiappena ascolti questo messaggio! Subito, non perdere tempo!»

Nonostante l’opprimente calura estiva, mi sentii raggela-re sotto la pelle umidiccia.

«Oh, Mac, è andato tutto storto! Pensavo di sapere quelloche facevo. Pensavo che mi stesse aiutando, ma... dio, nonriesco a credere di essere stata tanto stupida! Credevo diessere innamorata di lui e invece è uno di loro, Mac! È uno diloro!»

Sbattei le palpebre, senza capire. Uno di loro? E poi, chiera questo ‘lui’ che era uno di ‘loro’? Alina... innamorata?Impossibile! Alina e io ci dicevamo tutto. A parte qualcheragazzo con cui era uscita senza impegno nei primi mesi deltrasferimento a Dublino, non aveva mai accennato a nessunaltro uomo nella sua vita. E tanto meno a uno di cui si era in-namorata!

La voce venne rotta da un singhiozzo. Serrai con forza lamano sul telefono, come se così facendo potessi raggiungeremia sorella. Fare in modo che questa Alina restasse viva e alsicuro dal pericolo. Seguì una serie di scariche statiche e poidi nuovo la sua voce, più bassa, come se temesse che qualcu-no origliasse.

«Dobbiamo parlare, Mac! Ci sono tante cose che non sai.Mio dio, nemmeno sai chi sei! Avrei dovuto darti un sacco dispiegazioni, ma pensavo di riuscire a tenerti fuori finché lasituazione si fosse fatta più sicura per entrambe. Sto cercan-do di tornare a casa,» s’interruppe con una risatina amara,un suono caustico totalmente estraneo ad Alina «ma noncredo che mi permetterà di lasciare il Paese. Ti chiamerò ap-pena...» Altre scariche. Un sospiro. «Oh, Mac, arriva!» La vo-ce si ridusse a un sussurro disperato. «Ascoltami bene! Dob-biamo trovare...» La parola che seguì pareva distorta ostraniera, qualcosa simile a sci-sadu, pensai. «Dipende tuttoda questo! Non possiamo permettergli di averlo! Dobbiamo

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trovarlo prima noi! Lui mi ha mentito per tutto il tempo. Oraso che cos’è e dove...»

Silenzio.La telefonata era stata terminata.Attonita, rimasi seduta immobile cercando di dare un

senso a ciò che avevo sentito. Mi dissi che forse possedevouna doppia personalità e che esistevano due Mac: una cheaveva almeno qualche idea su quanto avveniva nel mondoattorno a lei e un’altra il cui senso della realtà era a malapenasufficiente a farla vestire al mattino e a non farla sbagliare ainfilarsi le scarpe. La Mac-coi-piedi-per-terra doveva esseremorta insieme ad Alina, perché questa Mac ovviamente nonsapeva un accidente della sorella.

Lei si era innamorata e non me l’aveva mai detto! Nem-meno accennato. E a quanto sembrava non era l’unica cosache mi aveva taciuto. Rimasi a bocca aperta. Mi sentivo tra-dita. Mia sorella mi teneva nascosta da mesi una parte im-portante della sua vita.

In che guaio si era cacciata? Da quale pericolo cercava ditenermi lontano? Quando la situazione sarebbe stata piùsicura per entrambe? Che cosa dovevamo trovare? Era statol’uomo di cui pensava di essersi innamorata a ucciderla?Perché – oddio, perché – non mi aveva detto il suo nome?

Controllai data e ora della telefonata: il pomeriggio dopola caduta in piscina del telefono. Fui assalita dalla nausea. Leiaveva bisogno di me e io non ero lì per lei. Mentre Alina cer-cava freneticamente di contattarmi, io oziavo al sole in giar-dino, ascoltando la mia compilation di spensierate canzonet-te, col cellulare in corto circuito abbandonato sul tavolo dellasala da pranzo.

Premetti cautamente il tasto Salva, poi ascoltai gli altrimessaggi, con la speranza che mi avesse richiamato. Inveceno. Stando a quanto detto dalla polizia, mia sorella Alina eramorta approssimativamente quattro ore dopo avere cercato

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di raggiungermi, anche se il corpo era stato rinvenuto quasidue giorni dopo in un vicolo.

Una visione, questa, che mi sforzavo di allontanare dallamente, ma senza riuscirci.

Chiusi gli occhi e cercai di non indugiare sul pensiero diavere perso l’ultima occasione di parlarle, tentai di non pen-sare che se avessi risposto forse avrei potuto salvarla in qual-che modo. Questi pensieri rischiavano di farmi impazzire.

Ascoltai di nuovo il messaggio. Che cos’era uno sci-sadu? Eche cosa intendeva con quel criptico ‘nemmeno sai chi sei’?Qual era il significato di quella misteriosa affermazione?

Al terzo ascolto, sapevo il messaggio a memoria.Sapevo inoltre che in nessun modo potevo farlo ascoltare a

mamma e papà. Oltre a spingerli ulteriormente nella de-pressione più profonda (sempre che fosse possibile farli starepeggio di quanto stavano), probabilmente avrebbero se-gregato me in camera e buttato via la chiave. Non ce li vedevoproprio a rischiare di giocarsi l’unica figlia che restava loro.

Ma... se andavo a Dublino e lo facevo sentire alla polizia,forse avrebbero riaperto il caso, no? Questa era indubbiamen-te una buona pista. Se Alina aveva un uomo, di sicuro qualcu-no li aveva visti insieme da qualche parte. All’università, nelsuo appartamento, sul lavoro, in giro. Qualcuno doveva pursapere chi era lui.

E se questo uomo misterioso non era l’assassino, di certoera la chiave per scoprirne l’identità. Dopo tutto, era ‘uno diloro’.

Mi accigliai.Chiunque, o cosa, fossero questi ‘loro’.

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