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1 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione-Tirocinio e Formazione Professionale Incontro di studio sul tema: “L’onere della prova e l’attività istruttoria nei diversi riti civili” Roma, 23-25 Novembre 2009 L’onere della prova nella responsabilità extracontrattuale:sinistri stradali, insidie stradali ed attività pericolose. Premessa: La responsabilità civile può essere contrattuale o extracontrattuale. I due tipi di responsabilità presentano differenti oneri della prova. Se la responsabilità è extracontrattuale l’attore deve provare la verificazione del danno ingiusto, il nesso causale fra la condotta illecita e tale danno, nonché la colpa o il dolo del danneggiante, ai sensi degli artt. 2043 e . 2697 c.c.. Il codice civile ed attualmente anche alcune leggi speciali prevedono tuttavia alcune ipotesi di illecito a carattere extracontrattuale che comportano una sorta di “responsabilità oggettiva “ secondo il prevalente orientamento interpretativo , di “presunzione di colpa” secondo altri interpreti, ma che, comunque, implicano una sostanziale inversione dell’onere della prova a favore del danneggiato: artt. 2050 (responsabilità per attività pericolosa), 2051 (responsabilità da cosa in custodia), 2052 (danno cagionato da animali) e 2053 (rovina di edificio), art. 2054 c.c.. relativo alla responsabilità da circolazione stradale. Per quanto riguarda le leggi speciali, ricordo la normativa in materia di responsabilità del produttore, già prevista dal d.p.r. 224/88 ed ora trasferita nel c.d. Codice del Consumo (d.slvo 6.9.2005 n. 206) e l’art. 15 del c.d. Codice della Privacy (Dlgs 196/2003). E’ la giurisprudenza che, nel corso degli anni, ha riempito di contenuti queste fattispecie normative individuandone più specificamente la nozione ed i limiti,in sede applicativa. La responsabilità ex art. 2043 c.c. e quella ex art. 2050 o 2051 c.c., ecc., hanno presupposti (“causa petendi”) differenti e pertanto se il danneggiato fa valere la prima , il G.I. non può d’ufficio ravvisare la seconda, o viceversa qualora gli elementi in fatto costitutivi della diversa fattispecie, non siano stati introdotti nel giudizio entro i termini perentori processuali di cui all’art. 183 c.p.c. (cfr. Cass. civ. sez III 31.07.2002 n. 11356). Il Giudice non dispone , infatti , nell’ambito del suo potere di qualificazione giuridica del rapporto su cui la domanda è fondata , del potere di alterare il “petitum” o la “causa petendi” (cfr. Cass- Civ. sez II 10.6.1998 n. 5719) , poiché altrimenti incorre nella violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. ( Cfr. Cass. Civ. sez II, 3.1.2002 n. 26, sez III 15.5.2001 n. 6712). §§§ 1) ART. 2050 – RESPONSABILITA’ DA ATTIVITA’ PERICOLOSA Un’attività va considerata “pericolosa” quando è così qualificata da una specifica normativa destinata a prevenire sinistri ed a tutelare l’incolumità pubblica, ovvero si tratta di un’attività per cui la pericolosità è intrinseca e trova riscontro nella natura

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione-Tirocinio e Formazione Professionale

Incontro di studio sul tema:

“L’onere della prova e l’attività istruttoria nei diversi riti civili” Roma, 23-25 Novembre 2009

L’onere della prova nella responsabilità extracontrattuale:sinistri stradali, insidie stradali ed attività pericolose. Premessa: La responsabilità civile può essere contrattuale o extracontrattuale. I due tipi di responsabilità presentano differenti oneri della prova. Se la responsabilità è extracontrattuale l’attore deve provare la verificazione del danno ingiusto, il nesso causale fra la condotta illecita e tale danno, nonché la colpa o il dolo del danneggiante, ai sensi degli artt. 2043 e . 2697 c.c.. Il codice civile ed attualmente anche alcune leggi speciali prevedono tuttavia alcune ipotesi di illecito a carattere extracontrattuale che comportano una sorta di “responsabilità oggettiva “ secondo il prevalente orientamento interpretativo , di “presunzione di colpa” secondo altri interpreti, ma che, comunque, implicano una sostanziale inversione dell’onere della prova a favore del danneggiato: artt. 2050 (responsabilità per attività pericolosa), 2051 (responsabilità da cosa in custodia), 2052 (danno cagionato da animali) e 2053 (rovina di edificio), art. 2054 c.c.. relativo alla responsabilità da circolazione stradale. Per quanto riguarda le leggi speciali, ricordo la normativa in materia di responsabilità del produttore, già prevista dal d.p.r. 224/88 ed ora trasferita nel c.d. Codice del Consumo (d.slvo 6.9.2005 n. 206) e l’art. 15 del c.d. Codice della Privacy (Dlgs 196/2003). E’ la giurisprudenza che, nel corso degli anni, ha riempito di contenuti queste fattispecie normative individuandone più specificamente la nozione ed i limiti,in sede applicativa. La responsabilità ex art. 2043 c.c. e quella ex art. 2050 o 2051 c.c., ecc., hanno presupposti (“causa petendi”) differenti e pertanto se il danneggiato fa valere la prima , il G.I. non può d’ufficio ravvisare la seconda, o viceversa qualora gli elementi in fatto costitutivi della diversa fattispecie, non siano stati introdotti nel giudizio entro i termini perentori processuali di cui all’art. 183 c.p.c. (cfr. Cass. civ. sez III 31.07.2002 n. 11356). Il Giudice non dispone , infatti , nell’ambito del suo potere di qualificazione giuridica del rapporto su cui la domanda è fondata , del potere di alterare il “petitum” o la “causa petendi” (cfr. Cass- Civ. sez II 10.6.1998 n. 5719) , poiché altrimenti incorre nella violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. ( Cfr. Cass. Civ. sez II, 3.1.2002 n. 26, sez III 15.5.2001 n. 6712).

§§§ 1) ART. 2050 – RESPONSABILITA’ DA ATTIVITA’ PERICOLOSA Un’attività va considerata “pericolosa” quando è così qualificata da una specifica normativa destinata a prevenire sinistri ed a tutelare l’incolumità pubblica, ovvero si tratta di un’attività per cui la pericolosità è intrinseca e trova riscontro nella natura

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delle cose , nelle caratteristiche dei mezzi adoperati o nella sua spiccata potenzialità offensiva. Si ritiene comunemente, infatti, che l’attività debba costituire la CAUSA del sinistro e non la semplice OCCASIONE del medesimo e che pertanto non sia pericolosa quell’attività nella quale la pericolosità insorge per un fatto esterno anche del terzo o per il caso fortuito (cfr. Cass. Civ. sez I 9.12.1996 n. 10951). Il requisito della pericolosità va valutato sempre in concreto, tenendo conto della probabilità statistica di eventi dannosi derivanti dall’esercizio di tale attività, dell’entità dei danni ragionevolmente prevedibili, della natura intrinseca dei mezzi impiegati per lo svolgimento dell’attività, secondo il criterio della c.d. “prognosi postuma”, ovvero sulla base dell’esame delle circostanze di fatto che si presentavano note al titolare dell’attività “ex ante” in base alle sue conoscenze e competenze specifiche (cfr. Cass. Civ. sez III 30.10.2002 n. 15288). E’ una responsabilità di tipo “dinamico”. La “ratio” di tale norma può identificarsi con la necessità di fornire un’equa tutela ai cittadini di fronte ad attività produttive o di servizi che, se pur legittime e consentite dall’ordinamento, siano di per sé potenzialmente lesive per la collettività ed in grado di provocare danni di una certa rilevanza. Per la nozione di pericolosità si ha riguardo anche alla normalità o meno delle condizioni in cui tale attività viene esercitata: Casistica: - In giurisprudenza non si ritengono attività pericolose, ad esempio: l’esercizio di

linee ferroviarie, di impianti di sci, di impianti sportivi, la stessa navigazione aerea, quando si svolgano in condizioni metereologiche o ambientali normali , tali attività diventano pericolose , invece , qualora siano praticate in condizioni di anormalità o di pericolo, per le condizioni atmosferiche o, nel caso dell’equitazione , quando si tratti di istruzione di principianti ovvero, per la navigazione aerea per anomalie atmosferiche o del velivolo;(Cass. Civ. sez III 19.02.2002 n. 10551).

sono invece ritenute attività pericolose: - la gestione di impianti elettrici, - lo stoccaggio di rifiuti tossico-nocivi, - la falciatura dell’erba con mototrancia agganciata e trainata da trattore, - l’esercizio dei “tappeti elastici” e di alcune giostre nei Luna Park, - la produzione di farmaci ed emoderivati;

- l’esecuzione di lavori pubblici su pubbliche strade (l’esercizio di lavori pubblici su strade demaniali si configura, pacificamente in giurisprudenza, come attività pericolosa, da parte dell’imprenditore che l’esercita, (non dell’Ente committente!) - segnalo, a questo proposito la sentenza Cass. Civ. sez III, 13.5.2003 n. 7298 su Danno e Responsabilità 2003, 1193, commentata sul n. 2/04 pag. 181 , relativa a caso di azione civile esercitata ex art. 2050 c.c. nei confronti della società esercente lavori pubblici da parte di un soggetto che, trovatosi un lago di asfalto bollente davanti alla propria autorimessa, in assenza di cartelli di pericolo o di varchi per il passaggio dei pedoni, mettendosi a saltellare ha tentato di superare la parte asfaltata, ma, avendo sopravvalutato la propria destrezza, ci è caduto dentro, ustionandosi, in cui i Giudici di merito avevano ritenuto che l’imprudente condotta del danneggiato avesse interrotto il nesso causale, mentre la Cassazione ha applicato rigidamente l’art. 2050 c.c. dicendo che il gestore non aveva provato di avere adottato ogni misura utile per evitare il danno). Cfr. anche Cass. Civ. sez III 07.05.2007 n. 10.300 in tema di attività edilizia che comporti rilevanti opere di rivolgimento o di spostamento di masse terrose e scavi profondi.

- L’esercizio dell’intrattenimento per bambini dei c,d, giochi gonfiabili installati su lastrico solare sovrastante un centro commerciale, non ancorati (cfr. Trib. Torino 31.7.2003);

- le esercitazioni dei Vigili del Fuoco, concernenti la discesa in gruppo di allievi in contemporanea da un “castello di manovra” con utilizzo di manichette quali funi ,

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una delle quali si è tranciata con precipitazione degli allievi, tutti privi di casco ed imbragature ( cfr. Tribunale Torino 3.5.2002);

In tutte le ipotesi ex art. 2050 c.c. sul danneggiato grava l’onere probatorio di dimostrare la verificazione del sinistro, il danno, la natura “pericolosa” dell’attività, il nesso causale fra l’esercizio dell’attività pericolosa e l’evento dannoso (cfr. Cass. Civ., sez II, 09.03.2006 n. 5080) laddove il danneggiante si libera solo se prova l’effettiva “adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno”. Tale prova si articola, da un lato, nella prova di avere seguito in concreto tutte le eventuali prescrizioni normative volte alla tutela dell’incolumità dei terzi in relazione a quel determinato tipo di attività, dall’altro nella prova dell’adozione , sempre in concreto, di tutte le opportune misure di tipo precauzionali ispirate ad un criterio di prudenza e/o perizia, di livello conforme alla natura dell’attività, in concreto.

Casistica:

1° a) Attività sportiva: Di regola, in tema di responsabilità degli organizzatori di eventi sportivi la giurisprudenza è alquanto rigorosa nel ritenere che l’attività agonistica implichi l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, intendendosi per tali non solo gli atleti in gara, ma tutti i soggetti (come gli arbitri, i guardialinee, i guardiaporte, i meccanici ecc. ) che si trovano al centro e/o ai limiti del campo di gara ed investiti di una funzione indispensabile allo svolgimento della competizione, cosicché i danni eventualmente da costoro sofferti ad opera di un competitore, rientranti nell’alea normale di quel tipo di sport, ricadono sugli stessi. Per escludere la responsabilità degli organizzatori è sufficiente che questi abbiano predisposto le normali cautele idonee a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto degli eventuali regolamenti della federazione sportiva (- cfr. Cass. Sez. III 20908 del 27.10.2005 relativa ad investimento di un guardiaporte da parte di un competitore in uno slalom gigante, conclusa con esclusione della responsabilità dell’organizzatore,

- Cass. Civ. sez III, 13.2.2009 n. 3528 relativa all’organizzazione di una gara di bob , in cui la SC ha cassato con rinvio la sentenza di merito per difetto di adeguato accertamento circa l’effettiva pericolosità del campo di gara in rapporto alle modalità di predisposizione delle paratie di sostegno; - Cass Civ. sez III 15.7.2008 n. 19449 in tema di equitazione, in cui la SC ha ritenuto irrilevante ogni accertamento circa le cause precise della caduta dell’allieva da cavallo ed il grado di abilità della danneggiata a cavalcare, ritenendo sufficiente che fosse stato accertato che l’evento dannoso si era verificato in conseguenza dello svolgimento dell’attività pericolosa-esercizio ippico- e che il danneggiante non aveva offerto la prova liberatoria ).

Organizzazione di partite di calcio: Si è qualificata come attività pericolosa l’organizzazione di un incontro di calcio di serie A, con riferimento ai danni patiti dagli spettatori a causa della violenza negli stadi (cfr. Tribunale di Torino 08.11.2004), in quanto si è osservato che benché sia “pacifico che il rischio per l’incolumità degli spettatori di una partita di calcio non derivi né dall’incontro come evento sportivo né dallo spettacolo in sé e per sè, bensì dalle attività perturbatrici violente poste in essere dai gruppi di tifosi facinorosi fuori ed all’interno dello stadio e dunque , a rigore, la pericolosità insorga proprio “per un fatto esterno” costituito dalla condotta illecita di taluni spettatori, l’attuale diffusione, costanza ed abitualità di tali atti di teppismo in tutte le partite di calcio professionistico, l’elevata e notoria frequenza statistica del fenomeno che confina con la certezza, nonché l’estrema violenza e la gravità dei danni fisici e materiali che spesso ne derivano consentono di affermare, in linea con due autorevoli precedenti della giurisprudenza di merito, che l’attività di organizzazione di un incontro di calcio rientri nell’ambito di applicazione dell’art . 2050 c.c. (cfr. Tribunale Milano, sez VII civ., 11.6.1998-21.9.98 n. 10037/98, C. Appello Milano, 18.5.2001 che conferma tale sentenza e Tribunale di Torino, 29.11.1999-19.01.2000). In un simile contesto, infatti, non appare più possibile distinguere nettamente fra attività pericolosa intrinsecamente ed attività normalmente non nociva ma occasionalmente pericolosa a causa del comportamento di terzi estranei alla sfera organizzativa della società : gli atti di teppismo e di vandalismo da parte dei tifosi facinorosi e dei clubs di “ultras” che supportano tutte le squadre di calcio di serie A assurgono

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infatti al rango di sistematica, prevedibile e costante fonte di danno per chi partecipi alla manifestazione in qualità di spettatore (e spesso anche per gli stessi calciatori e per gli addetti delle Forze dell’ordine). In altri termini si può dire che dall’esercizio dell’attività di organizzazione di un incontro di calcio del campionato italiano in presenza di pubblico ed i danni all’incolumità fisica o alle cose degli spettatori sussiste un rapporto di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica basato sull’esperienza, per cui un evento dannoso del tipo di quello occorso al sig. C. si presenta come una conseguenza normale dell’antecedente. L’attività in questione può tuttavia dirsi pericolosa anche in considerazione dell’esistenza di plurima normativa volta a regolamentare gli aspetti organizzativi e di tutela dell’incolumità pubblica con imposizione di speciali cautele (si veda, ad esempio, il d.m. 25.8.89 in tema di norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio di impianti sportivi, tutto improntato sulla consapevolezza della pericolosità estrema delle manifestazioni agonistiche, la legge 13.12.1989 n. 401, il d.l. 22.12.1994 n. 717 e la più recente normativa penale finalizzata proprio alla prevenzione e repressione della violenza negli stadi).” In tale controversia l’attività difensiva ed istruttoria della società calcistica organizzatrice dell’incontro volta a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, si era articolata sul proprio adeguamento a tutte le prescrizioni imposte dalla P.S. e dalla legge a tutela della pubblica incolumità, sull’accurata suddivisione delle tifoserie avversarie in separate postazioni , nonché sull’impossibilità per la Società di predisporre ispezioni e perquisizioni personali nei confronti degli spettatori, in quanto riservate per legge agli organi di P.S. . Tale prova è stata ritenuta insufficiente dal Tribunale, in rapporto alla comprovata consapevolezza della società circa l’inidoneità dello stadio utilizzato, in cui la cinta fiscale esterna non era integra e consentiva il passaggio di armi ed ordigni da parte di chi stava fuori al pubblico già entrato, cosicché si è ritenuto che la Società avrebbe potuto e dovuto , in previsione della partita segnalata dalla Questura come di massimo livello di rischio , avvalersi di un’altra struttura. La Corte d’Appello di Torino ha confermato l’impianto della sentenza con riferimento alla qualificazione dell’attività organizzativa come attività pericolosa, ma , ammesse prove documentali nuove concernenti il vincolo contrattuale che legava la Società con l’Ente titolare dello stadio, ha ritenuto, in fatto, che la Juventus non potesse avvalersi di un altro stadio per non incorrere in inadempimento al contratto di locazione ed ha riformato sul punto della sufficienza della prova liberatoria la sentenza di primo grado, rigettando la domanda.

§§§ 2) ART 2051: DANNO CAGIONATO DA COSA IN CUSTODIA:

Ai sensi dell’art. 2051 c.c. la responsabilità grava, non di per sé sul proprietario o possessore della cosa , bensì su chi abbia una relazione “di custodia” con la cosa, relazione intesa, in giurisprudenza nel significato di avere la padronanza e l’effettiva disponibilità giuridica e di fatto della cosa tale da escluderne i terzi, ed in modo tale che il soggetto abbia un potere ed un obbligo di governo sulla stessa (ad es., in primis, ovviamente il proprietario, ma anche il conduttore di un locale, l’esercente di un supermercato, l’impresa che esercita la manutenzione di un ascensore, il condominio con riferimento alle parti comuni dell’edificio ). Ai fini della responsabilità ex art. 2051 c.c. il danneggiato deve provare il nesso eziologico fra la cosa in custodia ed il danno , che può sussistere in due diverse situazioni: a)per un dinamismo intrinseco della cosa , provando cioè che l’evento dannoso è riferibile alla normale utilizzazione della res nel suo complesso considerata (ad. Es. per C. App. Palermo 23.03.1995 , una scala ripida, un pavimento sdrucciolevole, un tappeto liso), b) per l’insorgenza anche esterna di un agente dannoso (ad esempio, presenza sui gradini di liquido scivoloso, caduta di neve e ghiaccio dai tetti, rottura della rete idrica, lo scoppio di una bombola di gas, la mancanza di illuminazione del luogo , un incendio ecc.).

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Naturalmente questi due diversi tipi di riconducibilità causale del sinistro alla cosa vanno visti in alternativa fra loro e costituiscono due diverse fonti di responsabilità, agli effetti della domanda processuale e delle preclusioni : se il danneggiato agisce affermando di essere caduto da una scala a causa della presenza di liquido scivoloso sui gradini, non può poi, qualora la prova non sia raggiunta sul punto, addurre che la scala era di per sé pericolosa per un’altra ragione (cfr. Cass.Civ, sez III 16.2.2001 n. 2331). La norma non richiede prova alcuna della colpa del custode, che risponde in quanto tale. La prova liberatoria del custode è ancora più rigida di quella richiesta dal precedente articolo 2050, in quanto non incide solamente sul livello della colpa (aver fatto tutto il possibile per evitare il danno) ma addirittura sul nesso causale, consistendo nel “caso fortuito” ovvero nell’intervento esterno di un fattore del tutto eccezionale, imprevedibile ed inevitabile che esclude , appunto, il nesso causale fra la cosa e l’evento dannoso (ad esempio eventi atmosferici di eccezionale intensità, tumulti popolari e, in giurisprudenza, anche il fatto indipendente di terzi che interrompa il nesso causale o il fatto colposo dello stesso danneggiato talmente pregnante da escludere del tutto il nesso causale con la cosa- ( cfr. Cass Civ. sez III, 22.09.2009 n. 20415). E’ principio consolidato che la cosa debba essere utilizzata in conformità alla sua natura e funzione e che il custode non risponda degli eventuali utilizzi impropri o abnormi. L’imprudenza del danneggiato, in particolare, viene spesso utilizzata nella giurisprudenza di merito per attenuare la rigidità della norma, che è ormai utilizzata come un “bancomat” , in un clima di totale deresponsabilizzazione degli utenti di qualsiasi servizio. (cfr. Cass. Civ. sez III 17.01.2001 n. 584- che, confermando le sentenze di merito, precisa che ben il comportamento del danneggiato può integrare il fortuito incidentale che interrompe il nesso causale fra cosa e danno,degradando la cosa a mera “occasione” del sinistro e che quanto meno la cosa si presenta come di per sé intrinsecamente pericolosa, tanto più il danno da essa derivante può essere preveduto ed evitato dal cittadino tramite l’adozione di normali cautele cosicchè tanto più incide l’imprudenza del soggetto nell’elidere il nesso causale: caso del consumatore che spinge carrello del supermercato in area di parcheggio, senza guardare dove cammina, ruota si incastra in stretta fessura del suolo e carrello si rovescia schiacciandogli il piede.) . Tuttavia, secondo la SC, non qualsiasi uso improprio della cosa rispetto alla sua destinazione funzionale può escludere il nesso causale, in quanto se la modalità abnorme di utilizzo non è ex ante del tutto imprevedibile non sussiste il caso fortuito (cfr. Cass Civ. sez III 21.5-22.9.2009 n. 20415). Quando si parla di danno ex art. 2051 c.c., in genere , viene spontaneo il collegamento al concetto di INSIDIA o TRABOCCHETTO , definibile come una situazione di pericolo occulto caratterizzata congiuntamente dall’elemento oggettivo della non visibilità e da quello soggettivo della non prevedibilità dell’evento. La nozione di “insidia” è stata in verità elaborata dalla giurisprudenza in relazione alla responsabilità ex art. 2043 c.c. della P.A. per i beni demaniali , ma è spesso utilizzata dalla giurisprudenza anche nei rapporti fra privati, anche se , in realtà, la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. è ravvisabile indipendentemente dalla sussistenza di un’insidia o trabocchetto : si pensi , ad esempio, ad un’infiltrazione cagionata alla proprietà di un terzo dalla rottura di una tubazione dell’alloggio sovrastante: il proprietario ben può rispondere ex art. 2051 c.c. dei danni così cagionati dall’infiltrazione, indipendentemente dalla questione del “trabocchetto” che in questo caso non è pertinente. - 2 bis – INSIDIA STRADALE E RESPONSABILITA’ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE : Sono frequentissime le azioni giudiziarie civili in relazione a beni di proprietà degli Enti Pubblici, ad esempio per cadute in buche stradali nelle vie cittadine, presenza di ghiaccio , olio su strade statali o provinciali, dissesti per lavori pubblici (in questo caso si può richiamare anche l’art. 2050 c.c. in quanto l’esercizio di lavori pubblici su strade demaniali si configura, pacificamente in giurisprudenza, come attività pericolosa).

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Si annoverano, in tema di qualificazione della responsabilità della P.A. per danni cagionati da beni demaniali , sostanzialmente due difformi orientamenti giurisprudenziali. a) Secondo una prima, tradizionale, maggioritaria giurisprudenza, l’art. 2051 c.c., pur potendosi applicare alla Pubblica Amministrazione, trova un limite con riguardo ai beni demaniali sui quali sia esercitato un uso ordinario, generale e diretto da parte dei cittadini, quando l’estensione di tali beni renda praticamente impossibile un continuo ed efficace controllo idoneo ad evitare l’insorgenza di una situazione di pericolo (così Cass. sent. 87/526; 88/291 e 11366/2002). Tale principio veniva in passato senz’altro applicato costantemente in presenza di demanio stradale (cfr. Cass. Civ. sez III 28.10.1998 n. 10759 e, da ultimo, Cass. Civ. sez II 31.07.2002 n. 11366) ed è stato ribadito, anche dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 156 del 10.5.1999, la quale afferma la necessità di valutare, comunque, in concreto, l’applicabilità eventuale dell’art. 2051 c.c. alla stregua delle caratteristiche della strada ove si è verificato il sinistro e delle circostanze di tempo , in quanto la demanialità del bene , la sua estensione e l’uso generalizzato e diretto sono meri indici dell’impossibilità di controllo da parte della P.A. La sentenza della Corte di Cassazione sez III n. 22592 del 1.12.2004 ha confermato il suddetto orientamento, confutando espressamente la possibilità di ravvisare genericamente l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. allorchè si tratti di strade pubbliche , in una fattispecie relativa ad una via cittadina di un Comune, ricollegandosi alla già citata sentenza della Corte Costituzionale 10.5.1999 n. 156 ed affermando la seguente massima : “L’art. 2051 c.c., in tema di presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia- in realtà- trova applicazione nei confronti della P.A., con riguardo ai beni demaniali, esclusivamente qualora tali beni non siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei terzi, ma vengano utilizzati dall’amministrazione medesima in situazione tale da rendere possibile un concreto controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo (Cass. 30.10.1984 n. 5567), ovvero, ancora, qualora trattisi di beni demaniali o patrimoniali che per la loro limitata estensione territoriale consentano un’adeguata attività di vigilanza sulle stesse (Cass. 7..1982 n. 58)”. Sempre secondo tale orientamento tradizionale, tuttavia, l’ inoperatività del disposto dell’art. 2051 c.c. non fa venir meno il dovere della Pubblica Amministrazione di operare in base al principio del “neminem laedere”: ciò comporta che l’Ente Pubblico possa essere, al pari di qualsiasi altra Pubblica Amministrazione, ritenuto responsabile per i fatti dolosi o colposi che cagionino ai terzi un danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (Cass. sez. un. 88/6635). Si richiede tuttavia che i danni siano stati cagionati da una situazione di pericolo occulto caratterizzato congiuntamente dall’elemento oggettivo della non visibilità e da quello soggettivo della imprevedibilità dell’insidia (cfr. in tal senso Cass. Civ- sez III II agosto 1995 n. 8823), da intendersi come una sorta di “figura sintomatica” della colpa della P.A. (cfr. Corte Cost. 10.5.1999 n. 156 cit.) L’onere della prova circa la sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito compete , secondo tale prospettazione, integralmente, al danneggiato. b) Secondo un secondo, minoritario, ma più recente indirizzo , invece, la responsabilità della P.A., proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall’utente della strada, va ricondotta sempre alla disciplina dell’art. 2051 c.c., assumendosi che la P.A., quale custode del bene demaniale, per escludere tale responsabilità, deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile quale conseguenza della mancata prova da parte del danneggiato dell’esistenza di un’insidia o della condotta insufficente ovvero omissiva del custode , onere insussistente, in quanto è sufficiente che il danneggiato provi l’evento dannoso ed il nesso di causalità con la cosa (Cass. 22.4.1998 n. 4070, Cass. 20.11.1998 n. 1179, Cass. 21.5.1996 n. 4673).

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A tale indirizzo si allinea la recente sentenza 20.2.2006 n. 3651, che inquadra sempre la responsabilità della P.A. per danni da beni demaniali nell’ambito dell’art. 2051 c.c., riportando tuttavia la responsabilità del custode nell’ambito della responsabilità per colpa presunta, così distaccandosi dalla comune interpretazione, anche penalistica del fortuito che viene invece comunemente inteso come fattore eccezionale incidente sul nesso causale e non sul piano della colpa. Taluni interpreti, richiamano, infine la pronuncia della Corte di Cassazione, III sezione civile 30.6-1.10.2004 n. 19653 , sostenendo che si tratti della definitiva adesione da parte della S.C. all’orientamento secondo cui la presunzione di cui all’art 2051 c.c. opererebbe invece sempre nelle ipotesi di sinistro cagionato da cosa in custodia di un Ente Pubblico, a prescindere dalla natura, estensione del bene e dalla generalità del suo utilizzo da parte dei consociati. Tale interpretazione (forse frutto di una massimazione eccessivamente “astratta”) non risulta, a ben vedere, del tutto fedele alla fattispecie oggetto della citata sentenza 19653/2004 , di cui merita leggere integralmente la motivazione. Occorre infatti valutare che la citata pronuncia riguarda non un’ipotesi di insidia stradale , bensì un incidente capitato ad un soggetto sulla rampa di una scala di un edificio di proprietà di un Comune (precisamente caduta a causa del sollevamento della copertura antiscivolo di una rampa di un palazzetto dello sport comunale) , ovvero di un bene immobile di modesta estensione e sicuramente ben più controllabile da parte dell’Ente , rispetto ad una strada, che l’oggetto dell’impugnazione ed il conseguente effetto devolutivo consiste non in una censura circa l’erronea scelta del Giudice di merito di utilizzare l’art. 2043 c.c. anziché l’art. 2051 c.c., bensì l’erronea applicazione di tale ultima norma, già richiamata dalla Corte di Appello, in rapporto all’onere della prova gravante sulle parti. La pronuncia conferma, in realtà , la necessità di valutare, comunque, in concreto, l’applicabilità eventuale dell’art. 2051 c.c. alla stregua delle caratteristiche del luogo ove si è verificato il sinistro e delle circostanze di tempo e, una volta verificata l’applicabilità al caso concreto dell’art. 2051 c.c., l’opportunità di adattare l’onere della prova circa il fortuito in conformità con la natura pubblica del soggetto custode del bene e la natura dell’insidia. Tale ultima impostazione risulta sostanzialmente ripresa, ma rielaborata ed approfondita dall’ articolata sentenza della III sezione civile della S.C. n. 15383 del 6.7.2006, la quale ribadisce il carattere “oggettivo” della responsabilità del custode ex art. 2051 c.c., l’incidenza del caso fortuito sul piano del nesso causale, indipendentemente dalla colpa del custode e la nozione di “custodia” come relazione di fatto, e non semplicemente giuridica, fra il soggetto e la cosa, implicante un potere di governo che si articola in tre elementi: “il potere di controllare la cosa, il potere di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonché quello di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui è prodotto il danno”. Da tali premesse la sentenza n. 15383/20006 trae la logica conseguenza che tale potere di fatto fra il soggetto e la cosa non possa essere“a priori escluso in relazione alla natura demaniale del bene, ma neppure ritenuto in ogni caso sussistente anche quando vi è l’oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo” ed afferma che “se il potere di controllo è oggettivamente impossibile, non vi è custodia e quindi non vi è responsabilità della P.A. ai sensi dell’art. 2051 c.c.” richiedendo un accertamento in concreto circa le caratteristiche del bene demaniale in rapporto alla possibilità del controllo ed affermando che: “ove tale attività di controllo non sia oggettivamente possibile non potrà invocarsi alcuna responsabilità della P.A. , proprietaria del bene demaniale, a norma dell’art. 2051 c.c., per mancanza di un elemento costitutivo della custodia e cioè la

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controllabilità della cosa, residuando , se ne ricorrono gli estremi, la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c.. Segnatamente, per i beni del demanio stradale la possibilità in concreto della custodia, nei termini sopra detti, va esaminata non solo in relazione all’estensione delle strade, ma anche alle loro caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti”. La Corte suggerisce anche quale figura sintomatica della possibilità dell’effettivo controllo di una strada del demanio stradale comunale “ la circostanza che la stessa si trovi all’interno della perimetrazione del centro abitato” poiché “la localizzazione della strada all’interno di tale perimetro, dotato di una serie di altre opere di urbanizzazione e, più in generale, di pubblici servizi che direttamente o indirettamente sono sottoposti ad attività di controllo e vigilanza costante da parte del Comune , denotano la possibilità di un effettivo controllo e vigilanza della zona”. Naturalmente, “ove l’oggettiva impossibilità della custodia renda inapplicabile l’art. 2051 cc., come detto, la tutela risarcitoria del danneggiato rimane esclusivamente affidata alla disciplina di cui all’art. 2043 c.c.”, in merito alla quale, sempre secondo la S.C., va specificato che tale responsabilità non può essere limitata ai soli casi di insidia o trabocchetto, che consistono in meri elementi sintomatici della responsabilità della P.A. che non escludono “che possa individuarsi nella singola fattispecie anche un diverso comportamento colposo della P.A”. (cfr. sent. 15383/2006). La Cass. Civ. sez III 25.7.2008 n. 20427 ha confermato che la responsabilità del custode costituisce un’ipotesi di resopnsabilità oggettiva e non presunta. 2ter - AUTOSTRADE- : Con specifica attenzione alle autostrade, e cioè a quelle strade contemplate dall’art. 2 del codice della strada, che per loro natura sono destinate alla percorrenza veloce dei veicoli in condizioni di sicurezza e che ormai sono quasi tutte gestite da società private , segnalo alcune importanti decisioni. La pronuncia della sez III della Cassazione 27.11-15.01.2003 n. 488 (su Guida al Diritto 8/3.2003 n. 9 pag. 43), in applicazione dei criteri suggeriti dalla C. Cost nella già citata sentenza 156/99 ha infatti evidenziato come la concreta possibilità di un controllo costante e continuo da parte dell’Ente pubblico non si atteggi nello stesso modo per ogni tipo di strada, ma che , quanto alle autostrade, tenuto conto della loro natura, del fatto che , appunto, sono destinate alla percorrenza veloce dei veicoli in condizioni di sicurezza, delle numerose norme che richiedono l’adozione di particolari cautele, quali la presenza di barriere protettive in determinate condizioni, segnaletica particolare, ecc, sistemi di assistenza , nonché del progresso tecnologico , è ravvisabile la configurabilità di un rapporto di custodia agli effetti dell’art. 2051 c.c., quantomeno con riferimento alle situazioni di pericolo connesse in modo immanente alle strutture o alle pertinenze dell’autostrada (carreggiata, buche, barriere, illuminazione in galleria, ecc.) , cosicchè l’uso generalizzato e l’estensione non avranno alcuna valenza esclusiva della responsabilità del custode. La pronuncia distingue da queste situazioni quelle di pericolo derivante da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato delle cose che ponga a repentaglio l’incolumità degli utenti (ad esempio animali vaganti, presenza di ostacoli fissi o mobili perduti da altri veicoli ) , per le quali dovrà configurarsi il fortuito ogni qualvolta l’evento dannoso presenti i caratteri della imprevedibilità ed inevitabilità, tenuto anche conto della concreta possibilità dell’ente di attivazione prima del sinistro per rimuovere il pericolo. In conformità a tale principio, ad esempio, la sentenza Cass. Civ. sez III 13.01.2003 n. 298 (stessi Presidente e relatore), ha cassato la sentenza di merito che , nel caso di urto di una

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Mercedes contro una tanica di gasolio presente sulla carreggiata di un’autostrada, aveva ritenuto applicabile l’art. 2051 c.c. sulla base della mera natura di autostrada del percorso, laddove la S.C. ha ritenuto che si dovesse e potesse applicare l’art. 2043 c.c. e verificare la colpa in concreto del gestore, costituita non tanto, in questo caso, dal mancato tempestivo intervento del personale (che era giunto per rimuovere l’ostacolo immediatamente dopo lo sfortunato conducente) , bensì dal mancato inserimento dell’avviso di pericolo nella segnaletica elettronica pur presente su quella rete. La sentenza Cass Civ. sez III 13.1.2003 n. 298 si segnala, altresì, per l’affermazione di un altro importante principio, e cioè quello della CONTRATTUALITA’ del rapporto fra utente e società concessionaria dell’autostrada, contrattualità che , nel caso di specie, viene ammessa , in concorso con la extracontrattualità, innovando rispetto all’opinione tradizionale, secondo cui il pagamento del pedaggio delle autostrade, che tradizionalmente erano gestite in passato da enti pubblici, determinasse la nascita di un contratto, ma si risolvesse in una prestazione pecuniaria imposta all’utente per poter usufruire di un pubblico servizio (cioè ad una sorta di tassa). In tal senso si erano espresse le SS.UU. 7.8.2001 n. 10893 . La S.C. cit. ha invece riguardo alla normativa che riguarda la concessione dell’esercizio delle autostrade ad aziende private (leggi 12.2.1979 n. 51 e 13.10.1985 n. 526) e che contemplano due tipi di tariffa, una interna di natura autoritativa, che lega il concedente al concessionario , l’altra esterna, applicata all’utenza, che lega il concessionario all’utente e che ha natura contrattuale in quanto la prestazione del concessionario o dell’amministrazione consiste nella infrazionabile messa a disposizione dell’autostrada in condizioni da poter essere percorsa con sicurezza; ha altresì riguardo alla circostanza che il prezzo sia determinato anche con la concorrenza del CIPE, che gli adeguamenti delle tariffe siano autorizzati con decreto ministeriale e che le associazioni che hanno lo scopo di tutelare gli interessi dei consumatori abbiano la legittimazione all’impugnazione dei provvedimenti con cui l’ANAS fissa gli importi delle tariffe autostradali con riferimento a ciascun ente concessionario. Tale indirizzo è seguito anche dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. TAR Lazio sez. III 3.9.1998 n. 2551).

§§§ 3) art. 2054 cc: Sinistri stradali.

La norma disciplina tre ipotesi distinte di illecito, con diversa strutturazione dell’onere della prova. 3a) I comma: Il primo comma, che delinea una sorta di responsabilità oggettiva in capo al conducente di un veicolo circolante , vincibile solo con la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno ha una struttura analoga a quella dell’art. 2050 c.c., non si applica ai casi di collisione fra due o più veicoli circolanti, per cui vale l’apposita previsione del II comma e NON RICHIEDE che sia avvenuta la collisione (dunque si applica, a mio avviso, anche alle ipotesi di interferenza da parte di un veicolo nella traiettoria di un altro, senza collisione). 3b) II comma Il secondo comma presuppone invece lo SCONTRO fra due o più veicoli circolanti ed introduce una presunzione di pari responsabilità concorsuale dei conducenti “fino a prova contraria”, norma che viene generalmente interpretata nel senso che spetta a ciascuno dei conducenti provare non solo la colpa esclusiva dell’antagonista, ma anche di avere tenuto una condotta di guida esente da ogni possibile censura. Le modalità di applicazione del secondo comma, apparentemente semplicissimo, non sono in realtà così chiare, potendo insorgere il dubbio, ad esempio, se nel percorso logico motivazionale in giudice debba partire dalla presunzione e quindi esaminare i singoli

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aspetti di irregolare condotta di guida o viceversa, nonché il dubbio se residui qualche effettivo margine di motivazione per il riconoscimento di una colpa esclusiva in capo a uno solo dei conducenti. Si tratta in realtà, come chiarito in sede applicativa, di una presunzione che opera sul piano residuale. “ In tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, la presunzione di pari responsabilità stabilita dall’art. 2054 comma II c.c. in caso di scontro di veicoli, ricorre non solo nei casi in cui sia certo l’atto che ha causato il sinistro, ma sia incerto il grado di colpa attribuibile ai diversi conducenti, ma anche quando non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno, con la conseguenza che, in tutti i casi in cui sia ignoto l’atto generatore del sinistro, causa presunta dell’evento devono ritenersi in egual misura i comportamenti di entrambi i conducenti coinvolti nello sconto , anche se solo uno di essi abbia riportato danni ; detta presunzione può essere superata unicamente dalla duplice prova , posta a carico del danneggiato, che lo scontro è dipeso dal solo comportamento colposo dell’altra parte e che il danneggiato medesimo ha fatto tutto il possibile per evitare il verificarsi dell’evento dannoso (Cass. Civ. sez III 17.12.2007 n. 26523) La giurisprudenza afferma che: “in tema di responsabilità da sinistro stradale con scontro di veicoli, l’accertamento della colpa esclusiva di uno dei conducenti libera l’altro dalla presunzione della concorrente responsabilità di cui all’art. 2054 II comma c.c.. nonché dall’onere di dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno; la prova liberatoria per il superamento di detta presunzione di colpa non deve necessariamente essere fornita in modo diretto-e cioè dimostrando di non avere arrecato apporto causale alla produzione dell’incidente- ma può anche indirettamente risultare tramite l’accertamenti del collegamento eziologico esclusivo dell’evento dannoso con il comportamento dell’altro conducente. (cfr. Cass. Sez III, 22.4.2009 n. 9950-fattispecie relativa a circolazione contromano in una strada a senso unico con carreggiata stretta)”. Ricordo la peculiare giurisprudenza in tema di tamponamento, secondo cui : “ per il disposto dell’art. 149 del vigente codice della strada, il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l’arresto tempestivo del mezzo, evitando collisioni con il veicolo che precede, per cui l’avvenuta collisione pone a carico del conducente medesimo una presunzione “de facto” di inosservanza della distanza di sicurezza , con la conseguenza che, non potendosi applicare la presunzione di pari colpa di cui all’art. 2054 comma 2 c.c., egli resta gravato dall’onere di dare la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto dell’automezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte non imputabili” (cfr. Cass. Civ. sez III 21.9.07 n. 19493). 3c) III comma: I soggetti responsabili in solido con il conducente sono individuati tramite il richiamo al terzo comma dello stesso articolo, i quali rispondono , in questo caso, a titolo di RESPONSABILITA’ OGGETTIVA . Non è data alcuna prova liberatoria, eccezion fatta per la c.d. circolazione “invito domino”, concetto inteso in giurisprudenza in senso alquanto restrittivo

In tema di applicazione del combinato disposto degli art. 126 bis, comma 2, e 180, comma 8, codice della strada, il proprietario del veicolo, in quanto responsabile della circolazione dello stesso nei confronti delle pubbliche amministrazioni non meno dei terzi, è tenuto sempre a conoscere l’identità dei soggetti ai quali ne affida la conduzione, onde dell’eventuale incapacità

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d’identificare detti soggetti necessariamente risponde, nei confronti delle une per le sanzioni e degli altri per i danni, a titolo di colpa per negligente osservanza del dovere di vigilare sull’affidamento in guisa da essere in grado di adempiere al dovere di comunicare l’identità del conducente.

Cassazione civile , sez. II, 24 aprile 2008, n. 10786

Il proprietario dell'autovettura da altri utilizzata per un tentativo di omicidio non risponde in solido con l'autore del fatto criminoso per i danni arrecati, secondo quanto disposto dall'art. 2054, comma 3, c.c., perché, ai fini della presunzione di responsabilità del proprietario, è necessario che ricorra nella condotta del conducente il presupposto della circolazione, intesa come uso del veicolo in quanto mezzo di locomozione e non strumento di offesa, e tale presupposto manca nella condotta di uso del veicolo in modo non conforme alla sua destinazione naturale.

Cassazione penale , sez. I, 30 maggio 2006, n. 22890

Ad integrare la prova liberatoria dalla presunzione di colpa stabilita dall'art. 2054 comma 3 c.c., che è configurabile anche rispetto alla circolazione di una escavatrice meccanica (rientrante nella categoria dei veicoli quale macchina operatrice meccanica), non è sufficiente la dimostrazione che la circolazione del veicolo sia avvenuta senza il consenso del proprietario, ma è al contrario necessario che detta circolazione sia avvenuta contro la sua volontà, la quale deve estrinsecarsi in un concreto ed idoneo comportamento ostativo, specificamente inteso a vietare ed impedire la circolazione del veicolo ed estrinsecatosi in atti e fatti rivelatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito, che aveva ritenuto la sussistenza della prova liberatoria, essendo emerso che l'intervento dell'escavatore coinvolto nel sinistro - che non era munito di certificazione per circolare su strada - era stato in un primo tempo rifiutato da un dipendente dell'azienda proprietaria del mezzo, perché l'uscita dal cantiere era stata vietata, disposizione disattesa da altro dipendente dopo l'orario di chiusura del cantiere).

Cassazione civile , sez. III, 07 luglio 2006, n. 15521

In tema di assicurazione obbligatoria, la responsabilità dell'assicuratore è legittimamente predicabile, quanto alla sua astratta configurabilità e quanto alla sua concreta sussistenza, a condizione che venga affermata la responsabilità (eventualmente in via solidale, ove, al momento dell'incidente, il veicolo sia condotto da terzi) dell'assicurato, e cioè del proprietario del veicolo, con la conseguenza che, ove il veicolo stesso circoli (come nella specie) contro la volontà del proprietario per effetto di furto, non solo deve essere rigettata ogni domanda risarcitoria contro il predetto proprietario (in applicazione della "regula iuris" di cui all'art. 2054, comma 3, ultima parte, c.c.), ma non può del pari trovare accoglimento quella eventualmente proposta nei confronti del suo assicuratore da parte del terzo trasportato a bordo del veicolo rubato, atteso che la deroga al suddetto principio di esclusione di responsabilità è limitata (ex

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art. 1, comma 3, della legge n. 990 del 1969) alle sole ipotesi di danneggiato non trasportato e di danneggiato trasportato contro la propria volontà.

Cassazione civile , sez. III, 01 aprile 2005, n. 6893

Quest’ultima massima va tuttavia rimeditata alla luce dell’innovazione normativa espressa con l’art. 122 del codice delle Assicurazioni, laddove prevede che l’assicurazione obbligatoria non abbia effetto nei confronti del proprietario o soggetto equipollente, solamente a partire dal giorno successivo alla denuncia presentata all’Autorità di Pubblica Sicurezza. L’onere della prova gravante sul danneggiato diventa più gravoso qualora si agisca contro il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada (ex art. 19 della legge 990/69, o art Cod. Ass, )

Il danneggiato che propone un’azione di risarcimento nei confronti del Fondo di Garanzia per le

Vittime della Strada, nel caso previsto dall’art. 19 lett. A) legge 24.12.1990, ha l’onere di provare,

per giurisprudenza costante e consolidata, che il sinistro si è verificato per la condotta dolosa o

colposa del conducente di un veicolo rimasto non identificato e potenzialmente suscettibile di

assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile da circolazione stradale (cfr. Cass. Civ. sez III,

10.06.2005 n. 12304, Tribunale Nocera Inferiore, 28.03.2001).

Tale prova deve essere esaustiva ed inequivoca (cfr. Giudice Pace Roma 12.5.1999).

Non vi sono in materia prove privilegiate né automatismi, dunque è vero che la prova può essere

fornita dal danneggiato anche sulla base di “mere tracce ambientali” o di “dichiarazioni orali”, senza

necessità che venga prodotta una denuncia o una querela così come affermato in certa giurisprudenza

(cfr. Cass. Civ. sez III, 18.11.2005 n. 24449, Cass. Civ. sez III 3.9.2007 n. 18532)), ciò non elide

tuttavia l’onere della prova gravante integralmente sul danneggiato in materia di illecito

extracontrattuale ex art. 2697 c.c. e dunque comporta il mancato accoglimento della domanda

risarcitoria qualora non si raggiungano elementi sufficienti per poter ricostruire l’esatta dinamica

dell’incidente, ovvero allorché non siano stati forniti sul punto elementi affidabili, da valutarsi

secondo il libero convincimento del giudice del merito (cfr. Cass. Civ. sez. III, 03.09.2007 n. 18532,

Cass. Civ 8086/1995, n. 10484/2001, Tribunale Monza sez I 02.10.2007 n. 2823).

L’art. 19 comma 1 lett a) legge 990/69 non intende infatti assicurare un sistema di tutela risarcitoria a

prescindere dalla colpa del danneggiante, come avviene in altri ordinamenti, cosicché il danneggiato

deve provare innanzitutto il nesso causale fra la circolazione del veicolo non identificato ed il danno

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e quindi la sussistenza del dolo o della colpa del conducente di tale veicolo. (così Cass. Civ. 8086/95

e 18532/2007 cit.). 3d) IV comma: Introduce una responsabilità presunta assoluta per vizi di manutenzione o difetto di costruzione , che non può essere vinta da alcuna prova contraria, eccezion fatta, ovviamente, per la prova che si desume, in negativo, dalla definizione normativa, ovvero che il danno non sia derivato da un vizio di costruzione e/o manutenzione, relativa al nesso causale . La giurisprudenza, in conformità al principio generale per cui in qualunque illecito , per aversi responsabilità, occorre che vi sia nesso causale fra il danno e l’illecito, consente tuttavia la dimostrazione del fattore esterno interruttivo del nesso causale (cfr. ad esempio Cass. Civ. sez III 09.03.2004 n. 4754). Con tale responsabilità può concorrere quella ex art. 2043 c.c. del costruttore, determinandosi così una responsabilità solidale , a norma dell’art. 2055 c.c. , senza che sussista tuttavia un litisconsorzio necessario fra tali soggetti (Cass. Civ. sez III, 06.08.2004 n. 15179).

4) PROVA DEL DANNO E PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE: Comune a tutte le ipotesi di illecito extracontrattuale oggetto di trattazione è il principio tradizionalmente riconosciuto dell’attribuzione dell’onere della prova circa la sussistenza e l’entità delle voci di danno pretese in capo al danneggiato. A tal proposito anche le c.d. sentenze gemelle del 11.11.2008 (nn. 26972/26975-2008) sono rimaste nel solco interpretativo classico, ribadendo che è colui che allega un determinato pregiudizio quale conseguenza di un illecito a doverne fornire compiutamente la prova. La SC ha tuttavia temperato il rigore di tale onere ricordando che, come già sottolineato precedentemente dalle sentenze del 2003 in tema di DNP, il Giudice, oltre ad avvalersi degli ordinari strumenti di prova, quali le prove testimoniali, documentali , gli interrogatori delle parti e le CTU, in punto accertamento dei danni non patrimoniali, che spesso ricadono nella sfera intima psicologica del danneggiato, ben può avvalersi delle PRESUNZIONI – art. 2729 c.c.- che hanno un rango probatorio pari agli altri mezzi di prova previsti dal codice. (così anche la recente sentenza della Cass. Sez III 13.5.2009 n. 11059- c.d. “caso Seveso” e sez III 3.4.2008 n. 8546). Si richiede tuttavia che i dati fattuali dai quali il Giudice poi possa inferire il dato ignoto siano oggetto quantomeno di allegazione e prova da parte del danneggiato, anche se non è necessario che in concreto il fatto ignoto da dimostrare sia l’unica conseguenza possibile di un fatto noto, “essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza del verificarsi dell’altro secondo criteri di regolarità causale” (cfr. Cass. 11059/2009 cit.). A fronte dell’attuale testo dell’art. 167 c.p.c. (come modificato dopo la novella del 1990 e a maggior ragione dal 2006) e , a ancor più a seguito della modificazione dell’art. 115 c.p.c., che ha espressamente richiamato il Giudice al controllo della specificità delle contestazioni, in quanto questi deve porre a fondamento delle proprie decisioni le prove proposte dalle parti o dal PM NONCHE’ I FATTI NON SPECIFICATAMENTE CONTESTATI DALLA PARTE COSTITUITA nonché in tutti i processi celebrati con c.d.

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“rito del lavoro” per cui l’art. 416 c.p.c. richiede che le parti prendano posizione ab initio e per sempre rigorosamente sui fatti ex adverso allegati ci si chiede come si combini l’onere di contestazione, in campo extracontrattuale, con l’onere della prova gravante sul danneggiato, specialmente quando la prova debba vertere su circostanze personali del soggetto , a lui proprie e difficilmente conosciute o conoscibili dai convenuti. E’ sufficiente la contestazione generica sul “quantum”? Occorre una presa di posizione specifica sui singoli fatti costitutivi allegati dal danneggiato o basta una generica contestazione sulla voce di danno? Quale spazio ha il ricorso alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.?. In linea generale si afferma in dottrina ed in giurisprudenza che il principio di non contestazione non possa trovare applicazione:

1) Nei processi relativi a diritti indisponibili; 2) Per i contratti per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam; 3) Nel processo contumaciale.

(cfr. Tribunale Rovigo sez. Dist Adria 10.9.09 e C. App. Torino 5.1.09).

In ordine ai sopraesposti interrogativi, per l’ipotesi specifica dell’accertamento dei danni negli illeciti extracontrattuali, ha preso articolatamente posizione la Corte di Appello di Torino con la sentenza 5.10.2009 in tema di sinistro stradale (investimento di un pedone), giungendo a “massimare” il seguente percorso logico argomentativo: “Un tentativo di sintesi all’attualità dello stato della giurisprudenza potrebbe essere abbozzato secondo il seguente schema: 1. il nostro ordinamento non riconosce danni punitivi; 2. il danneggiato che richiede il risarcimento del danno non patrimoniale è quindi gravato dall’onere della prova delle

conseguenze negative da lui dedotte, pur attinenti la sua sfera intima e psicologica; 3. non ricorre l’onere probatorio per i fatti primari specificamente allegati in atto introduttivo e non contestati

specificamente ex adverso nella comparsa di risposta; 4. la contestazione dell’allegazione è pur sempre necessaria, ma può essere generica, senza particolari conseguenze

processuali pregiudizievoli, se il convenuto non è ragionevolmente in grado di prender posizione in modo specifico sul fatto ex adverso dedotto, attinente ad una sfera personale della controparte, al cui riguardo egli si trovi, verosimilmente, in difetto di informazioni;

5. per il soddisfacimento dell’onere probatorio il danneggiato può ricorrere alla prova presuntiva, nel rispetto dei criteri fissati in via generale dall’art.2697 c.c.;

6. la prova del fatto intimo e psicologico potrà quindi essere fornita attraverso la prova di fatti storici oggettivi che, secondo il comune modo di intendere e di pensare, si accompagnano e si correlano al fatto psicologico ignoto, obiettivo di prova;

7. non è necessaria una prova rigorosa neppure di tali fatti- indizio quando la sofferenza psicologica costituisce una conseguenza normale dell’evento lesivo nel contesto noto e la parte attrice si è limitata ad allegare una sofferenza standard, ossia non deviante dalla normalità;

8. in tal caso, se il danneggiato allega e prova il fatto lesivo in un contesto noto e pacifico, non è necessaria la prova neppure dei fatti storici indizianti se la richiesta attiene al risarcimento del pregiudizio psicologico standard, che può essere accordata, per così dire, di default , in difetto di prova di circostanze atte a dimostrare l’inesistenza del normale pregiudizio.

In quest’ottica sarà il convenuto a dover dimostrare le specifiche ragioni per cui, ad esempio, il marito non ha sofferto particolarmente per la perdita della moglie, da cui si intendeva separare per l’intollerabilità della convivenza, ovvero che i figli si erano già progressivamente assuefatti alla previsione del decesso del genitore, affetto da grave e incurabile malattia, deceduto improvvisamente per altra causa. Il punto è ben tratteggiato nella già citata sentenza 13546 del 2006 laddove la Corte ha osservato “Provato il fatto-base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, è allora da ritenersi che la privazione di tale rapporto presuntivamente determina ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull’assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione. Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es., situazione di mera convivenza “forzata”, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà “separati in casa”, ecc.).Non si tratta infatti, diversamente da quanto lamentato dalla odierna ricorrente, di un’ipotesi di presunzione iuris et de iure.” I l ricorso al potere equitativo ex art. 1226 c.c. opererà così in un momento successivo, al fine di integrare il principio di prova già raggiunto.

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La giurisprudenza in tema di art. 1226 c.c. e poteri liquidatori è infatti divenuta assai rigorosa: Ritiene infatti costantemente la S.C. che nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non sia riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso e che il medesimo ordinamento non consenta l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento di ricchezza da un soggetto ad un altro. Si afferma così che, pertanto, anche nell’ipotesi in cui il danno sia ritenuto “in re ipsa” e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attenga alla sola possibilità dell’esistenza del danno , ma non alla sua effettiva esistenza materiale , cosicchè permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio, ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione per equivalente pecuniario, non essendo precluso al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua sussistenza o la sua materiale entità non risultino provate (cfr. Cass. Civ. sez II, 27.10.2008 n. 25849). L’attore che abbia proposto una domanda risarcitoria ha dunque l’onere di fornire la prova certa e concreta del danno, oltre che la prova del nesso causale fra il danno ed i comportamenti addebitati al responsabile e può farsi ricorso alla liquidazione in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., solo a condizione che l’esistenza del danno sia comunque dimostrata, sulla scorta di elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione (cfr. Cass. Civ. sez I 15.2.2008 n. 3794). Ombretta Salvetti

Allegati:

1) Cass Civ. sez. III, 13.2.2009 n. 3528; 2) Cass Civ. Sez III, 15.7.2008 n, 19449; 3) Tribunale Torino 8.11.2004 ; 4) Cass Civ. Sez III, 22.4.2009 n. 9550. 5) C. App. Torino sez III 5.10.2009 6) Cass Civ sez III 25.07.2008 n. 20427

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ALLEGATO 1)

Cassazione civile , sez. III, 13 febbraio 2009, n. 3528

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo - rel. Presidente - Dott. MASSERA Maurizio - Consigliere - Dott. TALEVI Alberto - Consigliere -

Dott. AMATUCCI Alfonso - Consigliere - Dott. SPAGNA MUSSO Bruno - Consigliere -

ha pronunciato la seguente: sentenza

sul ricorso 27832/2004 proposto da: M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CONFALONIERI 5, presso lo studio dell'avvocato MANZI Luigi, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GOSTNER GERHART, giusta

delega in calce al ricorso; - ricorrente -

contro BOB CLUB (OMISSIS), in persona del presidente pro tempore R. G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FERDINANDO DI

SAVOIA 3, presso lo studio dell'avvocato DI LORETO MARIA GLORIA, rappresentato e difeso dall'avvocato ASSIRELLI Giandomenico giusta

delega in calce al controricorso; G.G., D.R.W., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell'avvocato MONZINI MARIO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato CHEMELLO

GIANNA giusta delega in calce al controricorso; FISI FEDERAZIONE ITALIANA SPORT INVERNALI, in persona del Presidente

pro tempore del Presidente pro tempore C.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RONCIGLIONE 3, presso lo studio

dell'avvocato GULLOTTA FABIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato PRINCIPI EMANUELE giusta delega a margine del

controricorso; A.M., D.A., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA RONCIGLIONE 3, presso lo studio dell'avvocato GULLOTTA FABIO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato PRINCIPI EMANUELE

giusta delega a margine del controricorso; COMITATO OLIMPICO NAZIONALE ITALIANO CONI, in persona del suo

Presidente, legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 48, presso lo studio dell'avvocato

PALLADINO ALFONSO, che lo rappresenta e difende giusta del a margine del controricorso;

- controricorrenti - e contro

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Z.G., Z.T., PROV AUT (OMISSIS); - intimati -

sul ricorso 2563/2005 proposto da: PROVINCIA AUTONOMA DI (OMISSIS), nella persona del Dott. S.

O., nella qualità di Vicepresidente sostituto pro tempore della Giunta provinciale, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell'avvocato MANZI LUIGI, che lo

rappresenta e difende unitamente all'avvocato GOSTNER GERHART giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;

- ricorrente - contro

G.G., Z.G., FISI FED ITAL SPORT INVERNALI, A.M., D.A., Z.T., BOB

CLUB (OMISSIS), D.R.W.; - intimati -

avverso la sentenza n. 1577/2003 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, sezione 4 civile emessa il 28/5/2003, depositata il 27/10/2003,

R.G.N. 261/99; udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

30/10/2008 dal PRESIDENTE Dott. PAOLO VITTORIA; udito l'Avvocato EMANUELE COGLITORE; udito l'Avvocato ALFONSO PALLADINO; udito l'Avvocato EMANUELE PRINCIPI;

udito l'Avvocato MARIA GLORIA DI LORETO (per delega Avv. Giandomenico Assirelli);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SALVI Giovanni, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Inizio documento Fatto

1. - La notte dell'(OMISSIS), nel corso delle prove di qualificazione dei campionati italiani di bob a 2 sulla pista di (OMISSIS), il bob condotto da M.M. sbandò, si rovesciò su un fianco ed il guidatore andò ad urtare con la testa contro una delle tavole di contenimento della pista. Gliene sarebbero risultati gravi danni al volto, a causa della perdita del casco. Da questi fatti ha tratto origine la presente controversia. 2. - M.M., con la citazione notificata il 7.5.1986, ha iniziato un giudizio davanti al tribunale di Belluno. Vi ha convenuto il Bob Club di (OMISSIS), G.G. e C.G.; sono stati poi chiamati in causa la Federazione italiana sport invernali, che ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva allegando d'essere solo un organo tecnico del C.O.N.I., nonchè i componenti della giuria, A.M., D.A. e Z.T. che a sua volta ha chiamato in causa il C.O.N.I.. Nel giudizio è intervenuta la Provincia autonoma di (OMISSIS), per chiedere in confronto dei responsabili il rimborso delle spese di spedalizzazione sostenute per l'attore. Alla causa è stata poi riunita quella ancora proposta da M. M. contro D.R.W.,

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già presidente del Bob Club di (OMISSIS). 3. - La domanda è stata proposta dall'attore allegando che il casco in vetroresina era entrato come una lama di coltello nella parte sporgente di una delle tavole di contenimento tagliandone una grossa scheggia che gli si era conficcata nel viso ed aveva provocato la rottura della cinghia del casco e la perdita dello stesso: sicchè, continuando la corsa e strisciando la faccia priva di ogni protezione contro il ghiaccio, aveva riportato orribili lesioni ed un profondo stato di coma. 4. - La domanda è stata rigettata sia dal tribunale, sia in secondo grado dalla corte d'appello. I giudici di merito hanno ritenuto non provato che la scheggia si fosse formata a causa di un non perfetto allineamento delle tavole di contenimento e si fosse originata dal bordo di una delle tavole, anzichè a causa dell'urto del casco contro la superficie della tavola, urto che a sua volta s'era determinato a causa dall'erronea manovra del guidatore. 5. - La sentenza 27.10.2003 della corte d'appello di Venezia è stata impugnata sia da M.M. sia dalla Provincia autonoma di (OMISSIS), dal primo con ricorso la cui notifica è stata chiesta il 7.12.2004, dalla seconda con ricorso incidentale, la cui notifica è stata chiesta il 17.1.2005. Hanno resistito, separatamente, G.G. e D.R. W.; il C.O.N.I.; la F.I.S.I. - Federazione italiana sport invernali e A.M. e D.A.; il Bob Club di (OMISSIS). Non hanno resistito C.G. e Z.T.. Hanno depositato memorie il ricorrente M.M. ed i resistenti A.M. e D.A.; il C.O.N.I. e la F.I.S.I. e D.R.W..

Inizio documento Diritto

1. - I procedimenti cui hanno dato luogo ricorsi principale ed incidentale debbono essere riuniti, perchè sono relativi alla impugnazione della stessa sentenza (art. 335 cod. proc. civ.). 2.1. - La difesa dei resistenti A.M. e D.A., nei controricorsi, e della Federazione italiana sport invernali, nella memoria, hanno sollevato una questione di decadenza del ricorrente principale dalla impugnazione, facendo rilevare che la sentenza è stata depositata il 27.10.2003 e che la notifica al domicilio eletto è avvenuta il 13.12.2004 e perciò dopo un anno e 48 giorni. I dati riferiti sono esatti, ma la questione non è fondata perchè ad impedire la decadenza dalla impugnazione è sufficiente che la notificazione sia richiesta prima della scadenza del termine e ciò è avvenuto non oltre il 7.12.2004, giacchè dalla relazione di notificazione apposta in calce all'originale del ricorso risulta che l'ufficiale giudiziario vi ha provveduto a mezzo del servizio postale appunto il 7.12.2004. 2.2. - Ancora, la difesa dei resistenti A.M. e D.A. ha dedotto che altro dei convenuti, Z.T., è deceduto tra la data in cui la causa è stata trattenuta in decisione e quella in cui la sentenza è stata depositata. Osserva la Corte che il ricorso è stato tuttavia notificato a Z.T. presso l'avvocato Marino Almansi suo difensore e che - secondo l'interpretazione della sentenza 28 luglio 2005 n. 15783 delle sezioni unite che appare si debba seguire e la soluzione poi accolta dalle sentenze 27 ottobre 2006 n. 23168 e 14 novembre 2006 n. 24208 - nei giudizi che erano pendenti alla data del

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30.4.1995, il venir meno della parte nel corso del processo, rimasto ignoto all'altra, non fa venir meno la legittimazione del difensore a ricevere la notificazione della impugnazione. Il giudizio di Cassazione è stato perciò instaurato in modo conforme a diritto anche nei confronti delle persone che si sarebbero potute costituire in giudizio come successori. 2.3. - Inammissibile - invece - è il ricorso incidentale della Provincia autonoma di (OMISSIS). La Provincia ha proposto ricorso con atto consegnato per la notifica il 17.1.2005 e notificato in data successiva. Ora, la sentenza è stata pubblicata il 27.10.2003 ed il 17.1.2005 il termine di un anno stabilito dall'art. 327 cod. proc. civ., era già decorso, pur se aumentato di 46 giorni in corrispondenza della durata del periodo di sospensione feriale dei termini processuali. Non può del resto giovare alla Provincia d'aver proposto ricorso nel termine di 40 giorni da quello in cui ha ricevuto (il 13.12.2003) la notifica del ricorso principale, perchè nè la Provincia ha in questo processo la qualità di litisconsorte necessario, ciò che la legittimerebbe appunto all'impugnazione incidentale tardiva (art. 344 cod. proc. civ.) nè, dopo la sua acquiescenza alla decisione, la sua posizione processuale è stata posta in pericolo di divenire deteriore in caso di accoglimento del ricorso principale, ciò che pure sarebbe valso a legittimarla alla impugnazione incidentale tardiva (Sez. Un. 27 novembre 2007 n. 24627). 3. - La corte d'appello ha svolto queste considerazioni. L'attore non è riuscito a provare che la scheggia conficcatasi nello spazio tra la struttura del casco e la sua imbottitura interna si sia staccata da una sporgenza dovuta ad imperfetto allineamento dei tavoloni di legno, posti a contenimento della pista. Appare invece plausibile ritenere che la scheggia si possa essere formata sul tavolato di contenimento semplicemente a causa della violenza dell'impatto provocato dal bob, rimasto totalmente senza controllo. La mancanza di adeguata prova di un fatto imputabile ad una specifica omissione degli organizzatori non consente di accogliere una pretesa ancorata all'art. 2043 cod. civ.. Nè si può far capo nel caso alla responsabilità da attività pericolosa. A tale riguardo la corte d'appello ha in particolare osservato quel che segue. Una competizione agonistica può essere pericolosa in ragione dei rischi che ineriscono allo stesso esercizio di quella pratica sportiva, ma l'atleta che vi prende parte accetta quel pericolo; per contro, l'attività preparatoria ed organizzativa è di per sè innocua e quindi la presunzione di responsabilità che grava su chi esercita un'attività pericolosa non gli può essere riconnessa (ed al riguardo ha richiamato la sentenza 28.2.2000 n. 2220 di questa Corte). Con la conseguenza che gli organizzatori rispondono solo in caso di mancata predisposizione delle normali cautele, atte a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività agonistica, nel rispetto dei relativi regolamenti (ed al riguardo ha richiamato la sentenza 20.2.1997 n. 1564 sempre di questa Corte). 4. - Il ricorso contiene due motivi.

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La cassazione vi è chiesta, col primo motivo, per i vizi di violazione di norme di diritto e di difetto di motivazione (art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 2050 cod. civ.), col secondo per il vizio di difetto di motivazione (art. 360 cod. proc. civ., n. 5). Illustrando la questione di diritto, i ricorrenti, che si dichiarano consapevoli degli orientamenti richiamati dalla Corte d'appello, invitano a riconsiderarli. 5. - I motivi - che denunciano vizi logici nel processo logico di applicazione della disposizione dettata dall'art. 2050 cod. civ., e di violazione di tale norma - sono fondati. Prima di illustrarne le ragioni è però opportuno fare due premesse. La corte d'appello ha pronunciato sulla domanda ed all'esito dell'esame dei fatti, l'ha rigettata, da un lato senza prendere in esame il profilo della titolarità passiva della obbligazione di responsabilità, aspetto su cui si sono soffermate qui nelle loro difese alcune delle parti, dall'altro considerando la postulata obbligazione dei convenuti sotto il profilo e della responsabilità per colpa e della responsabilità da attività pericolosa, senza che questo punto abbia costituito oggetto di censura. Ne segue che, se, in sede di rinvio, potrà risultare accertata una responsabilità da attività pericolosa, dovrà anche essere esaminato, perchè è rimasto non pregiudicato, il punto di quali siano i soggetti cui essa va riferita. 6. - La Corte - nelle decisioni cui si è richiamato il giudice di appello - non ha affermato che non possono rilevare come attività pericolosa la predisposizione del campo di gara per lo svolgimento di una manifestazione agonistica. Bensì, nella sentenza 20 febbraio 1997 n. 1564, se da un lato ha affermato che nell'attività agonistica c'è accettazione del rischio da parte dei gareggianti, per cui i danni da essi sofferti nell'occasione rientrano nell'alea normale e ricadono sugli stessi, dall'altro ha ricordato che gli organizzatori - al fine di sottrarsi ad ogni responsabilità - debbono aver predisposto le cose in maniera regolare e cioè in maniera da contenere il rischio nei normali limiti confacenti alla specifica attività sportiva, apprestando le opportune cautele nel rispetto di eventuali regolamenti sportivi. Nella sentenza 28 febbraio 2000 n. 2220 la Corte si è limitata poi a porre in rilievo due aspetti: che, se a sostegno della pericolosità dell'attività di organizzazione di una manifestazione sportiva - nella specie si trattò di una gara di sci - non si invoca una specifica disposizione normativa, spetta al giudice di merito l'apprezzamento se tale attività, per la sua natura o per i mezzi adoperati, fosse in concreto pericolosa; che, in tema di gare sportive, non è possibile predicare in astratto che organizzarle costituisca sempre o mai un'attività pericolosa, ma è necessario considerare, come sempre quando si discute della applicazione di tale norma, se è insita nel successivo svolgimento della attività organizzata la probabilità del danno, o se si tratta invece di attività normalmente innocua. Orbene, dagli stessi precedenti giurisprudenziali richiamati dalla corte d'appello, ma anche dal successivo sviluppo della interpretazione dell'art. 2050 cod. civ. da parte della Corte, emerge che la pericolosità dell'attività esercitata deve essere valutata in base alle concrete circostanze di fatto in cui si è venuta svolgendo, tenendo conto insieme della specifica capacità di chi è chiamato a svolgerla e della potenzialità di danno che essa comporta (così, ad esempio,

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Cass. 9 aprile 1999 n. 3471 e 26 aprile 2004 n. 7916). Ora, è certo che l'atleta impegnato in una manifestazione agonistica accetta di esporsi a quegli incidenti che ne rendono prevedibile la verificazione, perchè a produrli vi concorrono gli inevitabili errori del gesto sportivo proprio o degli altri atleti impegnati nella gara, come gli errori di manovra dei mezzi usati. E questo esclude che delle conseguenze di tali incidenti debbano rispondere i soggetti cui spetta predisporre e controllare il campo di gara. Ma è proprio tale insita pericolosità della attività di cui si assume l'organizzazione ad imporre che questa non sia aumentata da difetto od errore nella predisposizione delle misure che debbono connotare il campo di gara, in modo da evitare che si producano anche a carico dell'atleta conseguenze più gravi di quelle normali. Sicchè, l'attività di organizzazione di una gara sportiva connotata secondo esperienza da elevata possibilità di incidenti dannosi, non solo per chi vi assiste, ma anche per gli atleti, è da riguardare come esercizio di attività pericolosa, ancorchè in rapporto agli atleti nella misura in cui li esponga a conseguenze più gravi di quelle che possono essere prodotte dagli stessi errori degli atleti impegnati nella gara. Ora, nel caso in esame, è rimasto accertato che ad innescare il danno subito dall'attore è stato il distacco di una scheggia da uno dei tavoloni di sostegno della pista contro il quale la testa dell'atleta, rivestita dal casco è andata a cozzare. Alla stregua di quanto si è prima osservato il problema che la corte d'appello doveva risolvere era se quella predisposizione, ordinata ad evitare il pericolo della fuoriuscita del mezzo e dell'atleta dalla pista, in caso di sbandamento del veicolo, abbia accentuato per altro verso la pericolosità del campo di gara. Non invece in quale modo si sia determinato il distacco della scheggia, perchè, quand'anche possa essere avvenuto in modo diverso da quello affermato dall'attore, esso ha tuttavia avuto origine nel come nel suo complesso si presentava predisposto il campo di gara. Invero, acquisito che a determinare la perdita del casco che proteggeva la testa dell'atleta era stata una scheggia di legno staccatasi dal tavolato; una volta che non si poteva escludere in via di principio che l'evento si era prodotto nel corso di un'attività valutabile come pericolosa nel senso già detto; si doveva accertare se la pericolosità sussisteva in concreto anche in ragione dei ripari apprestati, mentre non importava stabilire in quale concreto modo il distacco della scheggia fosse avvenuto, ma se si era avuto cura di scegliere ripari non pericolosi in sè o se, non potendosene adoperare altri, si fosse avuto cura di renderli inoffensivi. Discende dall'accoglimento del motivo, che i fatti della causa debbano essere rivalutati nella duplice prospettiva di un concreto accertamento della pericolosità della predisposizione attuata; della prova del limite alla conseguente responsabilità, in termini fortuito, e della imputazione della responsabilità per attività pericolosa ai diversi soggetti convenuti in giudizio. 7. - Il ricorso principale è accolto, l'incidentale è dichiarato inammissibile. In relazione al ricorso accolto, la sentenza è cassata con rinvio alla corte d'appello di Venezia in diversa composizione, cui è rimesso di provvedere sulle spese del giudizio di Cassazione.

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8. - Le spese del giudizio di Cassazione, nei rapporti tra la Provincia autonoma di (OMISSIS) ed i resistenti, possono essere dichiarate compensate, considerata l'identità dei motivi svolti dalla Provincia e la sua posizione marginale nel dibattito processuale.

Inizio documento P.Q.M

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il principale, cassa in relazione e rinvia alla corte di appello di Venezia in diversa composizione anche per le spese del giudizio di cassazione; dichiara inammissibile l'incidentale e dichiara compensate le spese del giudizio tra la Provincia autonoma di (OMISSIS) e le altre parti. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, a seguito di riconvocazione dalla udienza, il 30 ottobre 2008. Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2009

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ALLEGATO 2)

Cassazione civile , sez. III, 15 luglio 2008, n. 19449

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele - Presidente - Dott. FEDERICO Giovanni - Consigliere - Dott. URBAN Giancarlo - Consigliere - Dott. SPIRITO Angelo - rel. Consigliere - Dott. BISOGNI Giacinto - Consigliere -

ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da:

F.L.D., quale socia accomandataria della Servizi Sportivi Sas di F.L., elettivamente domiciliata in

ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 132/18, presso lo studio dell'avvocato DE AMICIS FULVIO, che la difende unitamente all'avvocato MELOTTI CARLO,

giusta delega in atti; - ricorrente -

contro B.S., F.D., B.C.;

- intimati - avverso la sentenza n. 2635/03 della Corte d'Appello di MILANO, seconda sezione civile, emessa il 24/06/03, depositata il 26/09/03,

R.G. 2712/01; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/06/08 dal Consigliere Dott. Angelo SPIRITO; udito il P.M., in persona del Sostitute Procuratore Generale Dott.ssa

CARESTIA Antonietta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Inizio documento Fatto

Il B. e la F. citarono in giudizio la F. (quale presidente dell'associazione sportiva Broni Equitazione) ed il C. (istruttore) per essere risarciti dei danni subiti dalla loro figlia minore, caduta da cavallo nel corso di una lezione di equitazione. Gli stessi attori citarono con diverso atto la medesima F., stavolta quale socia ac- comandataria della s.a.s. Servizi Sportivi, posta in liquidazione e poi cancellata dal registro delle imprese. Il Tribunale di Voghera, riuniti i giudizi, respinse la domanda proposta nei confronti del C., nonchè della F. in ambedue le qualità. La sentenza, impugnata nei confronti della sola F., fu parzialmente riformata dalla Corte di Milano, la quale accolse la domanda risarcitoria nei confronti dell'appellata stessa, nella qualità di socia accomandataria della menzionata società.

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La F. propone ora ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Milano, svolgendo cinque motivi. Non si difendono gli intimati nel giudizio di Cassazione.

Inizio documento Diritto

Con il primo motivo (violazione artt. 112, 183 c.p.c.) la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata avrebbe accolto la domanda in base ad una causa, petendi (l'esercizio di giro al galoppo, ritenuto inadeguato rispetto al livello di capacità dell'allieva) diversa da quella dedotta dagli attori (lo strappo di uno staffile mentre l'allieva conduceva il cavallo al passo). Il secondo motivo (violazione art. 115 c.p.c. - vizi della motivazione) censura la sentenza per avere affermato che l'incidente sarebbe accaduto mentre l'allieva procedeva al galoppo, benchè non vi fosse alcuna prova a riguardo e gli stessi attori avessero originariamente allegato che il cavallo procedeva al passo. Il terzo motivo (violazione artt. 116, 184, e 244 c.p.c., art. 2697 c.c. - vizi della motivazione) censura la sentenza nel punto in cui ha affermato l'inesperienza dell'allieva rispetto al giro al galoppo. Sostiene la ricorrente che la circostanza non era sin dall'origine provata e che, a riguardo, il giudice avrebbe offerto un'inadeguata motivazione. Il quarto motivo (violazione artt. da artt. 2043 a 2052 c.c., art. 2697 c.c., art. 116 c.p.c. - vizi della motivazione) censura la sentenza nel punto in cui ha ritenuto coperta da giudicato la qualifica di pericolosità dell'attività di gestione di maneggio (qualifica attribuita dal primo giudice in base ad una valutazione di fatto accettata dalle parti) e la conseguente applicabilità della disposizione di cui all'art. 2050 c.c.. Sostiene la ricorrente che la pericolosita in questione è attribuita dalla tradizionale giurisprudenza all'imprevedibilità del cavallo, sicchè la pericolosita in questione non avrebbe ragion d'essere nei casi in cui (come quello di specie) l'animale non ha avuto alcuna reazione imprevedibile. Con il quinto motivo (violazione artt. 2050, 2049 c.p.c., art. 112 c.p.c.) la ricorrente sostiene che la sentenza l'avrebbe ingiustamente dichiarata responsabile in via presuntiva dell'evento, ex art. 2050 c.c., per l'operato di un soggetto (l'istruttore) rispetto al quale non aveva poteri di direzione e controllo in ordine all'esecuzione di ogni singolo esercizio. Il ricorso è infondato. Può essere subito sgombrato dal campo della discussione il quinto motivo, il quale, siccome pone una questione affatto nuova (la responsabilità della F. per l'operato dell'istruttore), è inammissibile. Altrettanto deve dirsi quanto al quarto motivo, il quale pone in discussione la natura pericolosa dell'attività in questione, in ordine alla quale (come chiarisce la sentenza impugnata nell'esordio della motivazione) s'è formato il giudicato con la sentenza di primo grado. Venendo ai primi tre motivi (i quali possono essere congiuntamente esaminati), anch'essi si manifestano inammissibili per difetto d'interesse della ricorrente alla relativa decisione. Si deve ribadire in proposito che la sentenza impugnata, rilevato il passaggio in giudicato della statuizione di primo grado circa l'applicabilità alla fattispecie dell'ipotesi di cui all'art. 2050 c.c., concentra l'indagine sulla ricorrenza o meno

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della relativa prova liberatoria, concludendo che questa non era stata fornita in maniera idonea a vincere la presunzione di responsabilità prevista in quella disposizione normativa. In tal modo, il giudice d'appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in. relazione alla presunzione di colpa posta dall'art. 2050 c.c. a carico di colui che svolge un'attività pericolosa, l'unica prova che deve offrire il danneggiante è quella relativa all'esistenza del nesso di causalità tra l'attività stessa e l'evento dannoso lamentato, restando poi a carico del danneggiante l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (tra le varie, cfr. Cass. 9 marzo 2006, n. 5080). Così posta la questione, accertato che l'evento dannoso s'è verificato in conseguenza dello svolgimento di un'attività pericolosa (l'esercizio ippico) e che il danneggiante non ha offerto la prescritta prova liberatoria, risulta affatto irrilevante, ai fini della decisione (e rispetto ad essa quella parte di motivazione si manifesta eccentrica), che la caduta sia avvenuta a causa dell'andamento del cavallo o della rottura di uno staffile (come si discute nel primo motivo), che la danneggiata conducesse l'animale al passo o al galoppo e che ella fosse o meno sufficientemente preparata a farlo (come si discute nei motivi secondo e terzo). Per altro verso, non può farsi a meno di rilevare che la ricorrente non pone nemmeno in questione la circostanza fondamentale della controversia, ossia l'avere essa offerto o meno la prova liberatoria. In conclusione, il ricorso deve essere respinto. La mancata difesa degli intimati esime la Corte dal provvedere in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Inizio documento P.Q.M

La Corte rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il 17 giugno 2008. Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2008

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ALLEGATO 3)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO

SEZIONE QUARTA CIVILE

Il Tribunale di Torino, in persona del Giudice D.ssa Ombretta Maria

SALVETTI, in funzione di Giudice unico:

Ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 3285/2002R.G.F.

avente per oggetto: richiesta di risarcimento danni ex art. 2050 c.c.

promossa da:

COLASANTE Walter, residente a Roma, elettivamente domicil. in Torino, via XX Settembre 67 , presso lo studio

dell’Avv. Rita ROSSELLO che lo rappresenta e difende come da procura in atti, unitamente all’avv. Franco

BARBIERI del Foro di Roma.

PARTE ATTRICE

Contro

JUVENTUS F.C. s.p.a.,in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede a Torino elettivamente domicil.

in Torino, corso Galileo FERRARIS n. 71, presso lo studio dell’Avv. Massimo FOSSATI che la rappresenta e

difende come da procura in atti.

PARTE CONVENUTA

CONCLUSIONI DELLE PARTI

S E N T E N Z A

N°__________________

Fasc. N°________________

Cron. N°_______________

Rep. N°_______________

S E N T E N Z A

N°__________________

Fasc. N°________________

Cron. N°_______________

Rep. N°_______________

S E N T E N Z A

N°__________________

Fasc. N°________________

Cron. N°_______________

Rep. N°_______________

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Per parte attrice

Voglia l’Ecc.mo Tribunale, contrariis rejectis, accertata e dichiarata l’esclusiva responsabilità della Juventus F.C.

s.p.a. per i fatti di cui è causa, condannarla al risarcimento in favore dell’attore dei danni tutti dallo stesso subiti e

subendi in conseguenza del sinistro de quo, per gli importi così precisati:

ITT ASSOLUTA gg. 2 x € 38 al dì € 78

ITP gg. 50 al 50% € 975

ITP gg. 40 al 25% € 390

INVALIDITA’ PERMANENTE

(26%-tabelle Tribunale Roma) € 52.399

DANNO MORALE (50% del biologico) € 26.921.,00

INCIDENZA SULLA CAPACITA’ LAVORATIVA (in equa misura 10%), 20.902,005-triplo pensione sociale x

10% = 2090,21 x 18,777 (coeff. A 24 anni) = € 39.247,87

SPESE MEDICHE = € 120.527,33

Oltre a rivalutazione monetaria ed interessi legali dall’evento dannoso al soddisfo effettivo.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari, CPA 2% ed IVA 20% come per legge, nonché rimborso forfettario

delle spese generali pari al 10% delle competenze ed onorari .

Per parte convenuta

Voglia l’Ill.mo Tribunale,

NEL MERITO:

assolvere la conchiudente da ogni domanda.

Con vittoria di spese.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 22.03.2002 l’attore conveniva in giudizio la Juventus F.C. s.p.a. chiedendo

l’accertamento della responsabilità della società e la sua condanna al risarcimento dei danni patiti dal medesimo in

conseguenza del sinistro occorso in Torino, in data 6.5.01, orario serale, allorché il COLASANTE si trovava

all’interno dello stadio “Delle Alpi” per assistere alla partita di calcio di serie A tra le squadre della Juventus e

della Roma, programmata per le ore 20,30 e, prima ancora dell’inizio dell’incontro, era stato oggetto del lancio di

un ordigno fumogeno lanciato dall’opposta tifoseria, che lo aveva colpito ad una gamba , esplodendogli poi in

mano nel tentativo di allontanarlo dalla propria persona.

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Allegava l’attore di non avere potuto evitare il fumogeno e di non aver avuto alcuna possibilità di fuga, poiché

aveva la gamba destra ingessata per un precedente infortunio e che l’esplosione gli aveva cagionato gravi lesioni

alla mano destra (amputazione secondo dito dx, fratture multiple esposte mano destra da scoppio).

Allegava altresì che la responsabilità della Juventus discendesse dalla sua qualità di organizzatrice dell’incontro e

formulava la complessiva richiesta risarcitoria di € 118.262,43.

La parte convenuta non si costituiva, benché ritualmente citata, cosicché all’udienza del 11.06.2002 ne veniva

dichiarata la contumacia.

La Juventus s.p.a. si costituiva solamente in data 5.9.2002 in cancelleria, contestando ogni pretesa attorea sia in

fatto che in diritto, allegando che, in assenza di espressa qualificazione giuridica, si potesse ritenere richiamato

solamente l’art. 2043 c.c. ed eccepiva la preventiva adozione da parte della Società di ogni possibile misura

preventiva volta a tutelare gli spettatori, secondo le proprie competenze, essendo riservata la tutela dell’incolumità

pubblica alle Forze dell’Ordine.

Eccepiva altresì che, tenuto conto della gravità delle lesioni riportate nella stessa occasione da altri tre tifosi della

Roma, fosse ipotizzabile l’illecita detenzione di materiale esplodente proprio da parte della tifoseria romanista, ed

anche da parte del COLASANTE, che era stato iscritto nel registro degli indagati a Torino proprio per detenzione

di materiale esplodente.

Contestava altresì l’entità delle pretese risarcitorie attoree.

Invano era esperito il tentativo di conciliazione.

Con memoria autorizzata ex art. 183 u.c. c.p.c. depositata il 23.10.2002 la parte attrice, contestate le avversarie

eccezioni, qualificava la propria domanda alla stregua dell’art. 2050 c.c.., configurazione che la parte convenuta

contestava con la memoria di replica 29.11.2002.

Veniva esperita istruttoria testimoniale e per interpello , tramite ispezione dello Stadio “Delle Alpi”, nel corso

della quale venivano anche scattate fotografie e tramite acquisizione della videocassetta relativa alle riprese

dell’incontro calcistico effettuata in allora dalla Questura di Torino, nonché di atti e documenti provenienti sempre

dalla medesima Questura.

Ambedue le parti producevano documenti

Quindi la causa era trattenuta a decisione sulle conclusioni di cui in epigrafe, rese all’udienza del 08.06.2004.

Motivi in fatto ed in diritto della decisione

Non vi sono questioni in rito.

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L’ampia istruttoria condotta in corso di causa ha condotto ad appurare con elevato grado di certezza lo

svolgimento dei fatti, che possono essere sintetizzati come segue:

In data 6.5.2001, in occasione della partita di calcio del campionato di serie A Juventus-Roma organizzata per tale

data a Torino, presso lo stadio Delle Alpi e con programmazione dell’ora di inizio alle ore 20,30, il sig.

COLASANTE, tifoso romanista, giungeva a Torino a bordo di un pullmino da nove persone insieme ad alcuni

amici giallorossi, fra cui i testi PISANI Gabriele e FLAMMINI Filippo (ambedue escussi durante il sopralluogo

effettuato all’interno dello stadio) , faceva ingresso allo stadio nel tardo-pomeriggio sera, prima dell’inizio della

partita, e si collocava nel settore EST 3 dello stadio , nona fila con seggiolini (punto evidenziato con un puntino di

colore azzurro nella planimetria C. n. 4 dello stadio prodotta dalla parte convenuta, che si considera parte

integrante della presente sentenza- cfr. interpello COLASANTE e deposizioni PISANI e FLAMMINI e riscontro

fotografico digitale –foto n. 103-0395 IMG relativo al sopralluogo del 06.07.2003, raffigurante l’attore sul suo

seggiolino ).

In tale occasione tutto il settore EST 3, che confina con la curva NORD destinata ai tifosi juventini, era stato

riservato alla tifoseria ospite (cfr. settore delimitato con evidenziatore giallo sulla menzionata planimetria).

IL COLASANTE era limitato nella deambulazione in quanto aveva una gamba ingessata o comunque bloccata da

un fissatore esterno, in quanto fratturata per un precedente infortunio e si trovava seduto sul suo seggiolino (cfr.

testi PISANI e FLAMMINI).

Ancor prima che iniziasse la partita, in orario compreso fra le ore 19,30 e le 20, le tifoserie rivali avevano dato

corso ad episodi di violenza tramite lancio di oggetti di vario tipo (rondelle, monete, bottiglie, fumogeni, ecc.) così

come confermato da ambedue i già citati testi e come risultante dalle annotazioni di servizio della Questura di

Torino contenute nel fascicolo penale relativo al procedimento penale a carico del COLASANTE, archiviato, che è

stato acquisito agli atti.

Dalla visione della videocassetta relativa alle fasi antecedenti all’inizio della partita realizzata dalla Questura di

Torino, dalla medesima duplicata e trasmessa all’Ufficio si evince chiaramente il clima da “guerriglia” instauratosi

all’interno dello Stadio fra le opposte tifoserie: trattasi di riprese “a spezzoni” di fasi differenti, dalle quali si

notano chiaramente lanci di vari oggetti da un settore all’altro, esplosioni, lanci di fumogeni ( ad esempio nel

primo filmato si nontano lanci in orario compreso fra le ore19:43:04 e le ore 19:43:51, in particolare:

h 19,43:04 lanci di oggetti dal settore juventino a quello romanista;

h 19:43:48 scia di un oggetto volante ;

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h 19:43:51 fumo.

Le turbolenze sono continuate anche dopo l’inizio della partita, degenerando ulteriormente (cfr. secondo

spezzone di filmato h 21.27 e 21:28 cortina di fumogeni e terzo spezzone, senza ora in sovrimpressione, con lanci

reciproci reiterati ed una vera e propria esplosione preceduta da un fuggi fuggi generale fra i tifosi romanisti nel

settore Est).

Più di un tifoso romanista , in tali frangenti, ha subito lesioni (cfr. annotazioni di Polizia citate).

Verso le ore 20 (orario desumibile in parte dalla deposizione dell’attore, in parte dal verbale di sommarie

dichiarazioni dal medesimo rese nell’immediatezza dei fatti alla Polizia, contenuto nel fascicolo penale, in parte

dall’orario di ingresso al Pronto Soccorso, indicato nelle ore 20,40), dal secondo anello superiore, da un punto

collocato dai testi FLAMMINI e PISANI all’interno della curva NORD occupata dai tifosi juventini, viene

lanciato, insieme ad altri, un fumogeno che urta al capo l’attore e cade davanti alle sue gambe. Mentre gli amici si

danno in qualche modo alla fuga o saltano indietro, il COLASANTE, impedito a muoversi a causa della gamba, si

china in avanti nel tentativo di afferrare l’ordigno onde allontanarlo da sé, ma, in tale attimo, esso esplode,

lesionandogli gravemente la mano destra, così come risulta dalla documentazione medica prodotta dalla parte

attrice ed è stato confermato dalla CTU medico-legale disposta in corso di lite.

La parte convenuta non ha invece provato che , così come eccepito, il sig. COLASANTE si sia lesionato da solo

nel maneggiare un ordigno esplosivo dal medesimo portato seco . Benchè infatti la sede anatomica attinta e la

curiosa coincidenza che tutti i tifosi romanisti feritisi prima dell’inizio di quella partita, abbiano subito lesioni alle

mani ( e, segnatamente i tifosi giallorossi DE BENEDICTIS Alessio, DE VALERI Alessandro) , con versione dei

fatti identica a quella del COLASANTE , abbiano indotto gli inquirenti a denunciare a piede libero anche il

COLASANTE per illecita detenzione di materiale esplodente, il procedimento penale è poi stato archiviato per

insufficienza di elementi probatori a suo carico ed i testi escussi nel presente processo civile, che di per sé non

possono dirsi inattendibili sol perché amici dell’attore e tifosi giallo-rossi, hanno escluso un ruolo attivo del

medesimo.

Non consta inoltre che alcuno del gruppo di coloro che erano arrivati con il COLASANTE sia stato arrestato o

sottoposto ad indagini per fattispecie di reato, nella medesima occasione.

I danni allegati dall’attore, cagionati in via immediata e diretta (c.d. causalità materiale) dall’illecita condotta

penamente rilevante di un qualche tifoso, presumibilmente juventino, purtroppo non identificato, risultano pertanto

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causalmente ricollegabili anche alla presenza del danneggiato all’interno dello stadio in qualità di spettatore della

partita di calcio organizzata dalla Juventus F.C. s.p.a. .

Occorre, a questo, punto, verificare se tali danni possano altresì essere considerati eziologicamente dipendenti,

secondo il criterio della causalità giuridica, dall’attività di organizzazione della partita intesa come evento

spettacolo, posta in essere dalla Società convenuta.

Sembra infatti ovvio sottolineare che la fattispecie dedotta in causa nulla ha a che fare con l’evento sportivo

calcistico, in sé e per sé considerato, né con le regole ed i rischi del gioco del calcio per i calciatori .

Il ragionamento che seguirà , tuttavia, deve limitarsi a prendere in considerazione unicamente gli aspetti rilevanti

in relazione all’impostazione giuridica della causa configurata dall’attore che in citazione e con la memoria ex art.

183 u.c. c.p.c. si è richiamato alla normativa in tema di illecito extracontrattuale e, in particolare all’art. 2050

c.c.(già implicitamente invocato in citazione con il riferimento alla qualità di organizzatrice dell’incontro della

società).

Su tale qualificazione la parte convenuta ha mosso unicamente contestazioni nel merito.

Ci si muove pertanto esclusivamente nel campo dell’illecito extracontrattuale, segnatamente della responsabilità da

attività pericolosa, restando precluso ogni richiamo alla responsabilità contrattuale, non dedotta entro il termine di

decadenza di cui all’art. 183 u.c. c.p.c., decadenza che non può essere sanata, cosicchè le osservazioni della difesa

attorea formulate per la prima volta in comparsa conclusionale circa gli aspetti contrattuali della vicenda sono

inammissibili, senza facoltà per il giudicante di modificare d’ufficio il titolo della domanda .

Il Giudice non dispone , nell’ambito del suo potere di qualificazione giuridica del rapporto su cui la domanda è

fondata , del potere di alterare il “petitum” o la “causa petendi” (cfr. Cass- Civ. sez II 10.6.1998 n. 5719) , poiché

altrimenti si incorre nella violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art.

112 c.p.c. ( Cfr. Cass. Civ. sez II, 3.1.2002 n. 26, sez III 15.5.2001 n. 6712).

L’art. 2043 c.c. richiede, com’è noto , la prova a carico integrale del danneggiato della sussistenza di tutti gli

elementi dell’illecito ed anche dell’elemento psicologico.

In tema di art. 2050 c.c. è noto il tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui può considerarsi

pericolosa ogni attività per cui particolari disposizioni legislative impongano obblighi di cautela, ma anche quelle

aventi in sé una pericolosità intrinseca da accertare in concreto sulla base della sua natura, delle caratteristiche dei

mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva.

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Il giudizio di pericolosità dev’essere dato secondo il criterio c.d. della “prognosi postuma” ovvero sulla base

dell’esame delle circostanze di fatto che si presentavano note al titolare dell’attività “ex ante” in base alle sue

conoscenze e competenze specifiche (cfr. Cass. Civ. sez III, 30.10.2002 n. 15288).

Il requisito della pericolosità va altresì valutato tenendo conto della probabilità statistica di eventi dannosi,

dell’entità dei danni ragionevolmente prevedibili e della natura intrinseca dei mezzi impiegati per lo svolgimento

dell’attività.

La “ratio” di tale norma può identificarsi con la necessità di fornire un’equa tutela ai cittadini di fronte ad attività

che, pur legittime e consentite dall’ordinamento, siano di per sé potenzialmente lesive ed in grado di provocare

danni, tutela che si esplica nell’addossare sul soggetto che trae guadagno dalla gestione dell’attività il rischio.

Si ritiene, tradizionalmente, che l’attività debba costituire la CAUSA del sinistro e non la semplice OCCASIONE

del medesimo e che pertanto non sia pericolosa quell’attività nella quale la pericolosità insorge per un fatto

esterno (cfr. Cass. Civ. sez I 9.12.1996 n. 10951) anche del terzo o per il caso fortuito.

Benchè, nel caso di specie, sia pacifico che il rischio per l’incolumità degli spettatori di una partita di calcio non

derivi né dall’incontro come evento sportivo né dallo spettacolo in sé e per sè, bensì dalle attività perturbatrici

violente poste in essere dai gruppi di tifosi facinorosi fuori ed all’interno dello stadio e dunque , a rigore, la

pericolosità insorga proprio “per un fatto esterno” costituito dalla condotta illecita di taluni spettatori, l’attuale

diffusione, costanza ed abitualità di tali atti di teppismo in tutte le partite di calcio professionistico, l’elevata e

notoria frequenza statistica del fenomeno che confina con la certezza, nonché l’estrema violenza e la gravità dei

danni fisici e materiali che spesso ne derivano consentono di affermare, in linea con due autorevoli precedenti

della giurisprudenza di merito, che l’attività di organizzazione di un incontro di calcio rientri nell’ambito di

applicazione dell’art. 2050 c.c. (cfr. Tribunale Milano, sez VII civ., 11.6.1998-21.9.98 n. 10037/98 BERUTTI

C/MILAN A.C. s.p.a., C. Appello Milano, 18.5.2001 che conferma tale sentenza e Tribunale di Torino, G.U. Dr.

CARBONE 29.11.1999-19.01.2000 – causa MOCCO C/Juventus s.p.a.).

In un simile contesto, infatti, non appare più possibile distinguere nettamente fra attività pericolosa

intrinsecamente ed attività normalmente non nociva ma occasionalmente pericolosa a causa del comportamento di

terzi estranei alla sfera organizzativa della società : gli atti di teppismo e di vandalismo da parte dei tifosi

facinorosi e dei clubs di “ultras” che supportano tutte le squadre di calcio di serie A assurgono infatti al rango di

sistematica, prevedibile e costante fonte di danno per chi partecipi alla manifestazione in qualità di spettatore (e

spesso anche per gli stessi calciatori e per gli addetti delle Forze dell’ordine).

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In altri termini si può dire che dall’esercizio dell’attività di organizzazione di un incontro di calcio del campionato

italiano in presenza di pubblico ed i danni all’incolumità fisica o alle cose degli spettatori sussiste un rapporto di

sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica basato sull’esperienza, per cui un evento dannoso del

tipo di quello occorso al sig. COLASANTE , si presenta come una conseguenza normale dell’antecedente.

L’attività in questione può tuttavia dirsi pericolosa anche in considerazione dell’esistenza di plurima normativa

volta a regolamentare gli aspetti organizzativi e di tutela dell’incolumità pubblica con imposizione di speciali

cautele (si veda, ad esempio, il d.m. 25.8.89 in tema di norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio di

impianti sportivi, tutto improntato sulla consapevolezza della pericolosità estrema delle manifestazioni

agonistiche, la legge 13.12.1989 n. 401, il d.l. 22.12.1994 n. 717 e la più recente normativa penale finalizzata

proprio alla prevenzione e repressione della violenza negli stadi).

La delicatezza degli aspetti organizzativi della partita Juventus-Roma oggetto di causa, in particolare, emerge in

tutta evidenza, senza bisogno di commenti ulteriori, dal testo dell’ordinanza n. 1183/01 della Questura di Torino

Ufficio di Gabinetto sez 1° -Ordine e Sicurezza Pubblica acquisita ex art. 213 c.p.c. riguardante il dispiegamento e

la dislocazione del servizio d’Ordine all’interno dello Stadio e in città, il ricevimento e la scorta ai gruppi di tifosi

giallo-rossi in arrivo, il controllo dei biglietti, l’orario di apertura degli ingressi, le perquisizioni, la distinzione

degli accessi riservati alle opposte tifoserie, l’assegnazione ed il controllo del settore riservato agli ospiti, la

bonifica dei cassonetti della spazzatura e dei parcheggi, ecc.

Se si pensa che, come dichiarato dal teste LONGO della Questura, in occasione di quella partita era previsto

l’arrivo di circa 10.000 tifosi romanisti, di cui meno di 4000 dotati di regolare biglietto per il settore loro riservato,

l’enormità del dispiegamento di forze, il dispendio di denaro pubblico e mezzi e la difficoltà di gestione

dell’apparato organizzativo ne risultano ancor più confermati.

Più che la predisposizione del servizio d’Ordine per un evento sportivo pare trattarsi di una strategia militare a

prevenzione di un attacco bellico o terroristico!

La stessa parte convenuta, del resto, sembra avere implicitamente riconosciuto la pericolosità delle partite per il

pubblico, proprio con riferimento agli aspetti logistici ed organizzativi, allorchè ha trasmesso alla Questura di

Torino la lettera 1.2.1991 (doc. 9 – il cui ricevimento è stato confermato dal Vicario del Questore di Torino dr.

Salvatore LONGO, sentito come teste) con cui la Società ha segnalato alla Questura alcune problematiche e

conseguenti suggerimenti al fine proprio di prevenire fatti violenti all’interno dello stadio, dando atto che era

ripreso l’arrivo a Torino di molti tifosi delle squadre ospiti sia in treno che in pullman privi di biglietti e che, come

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conseguenza costante, si verificava il tentativo abusivo dei facinorosi di entrare allo stadio e di introdurvi,

malgrado i controlli, attraverso le sbarre del recinto fiscale, vari oggetti atti all’offesa.

Il teste OPEZZI Renato, ex responsabile dirigente della Juventus, sentito presso lo Stadio ha in merito dichiarato

che tale lettera si riferiva agli eventi calcistici aventi luogo a Torino in generale e non solo a quello

Juventus/Roma.

Ne discende la certa applicabilità dell’art. 2050 c.c..

§§§§

Nel merito, attesa la natura e le modalità del sinistro occorso al sig. COLASANTE , che è stato attinto da un

fumogeno esplosivo lanciato da un livello superiore a quello ove il medesimo si trovava e proveniente dal settore

occupato dai tifosi bianco-neri, confinante con quello destinato ai romanisti, rilevano specificamente i seguenti

aspetti logistici:

1) controlli e perquisizioni dei tifosi agli ingressi;

2) sistema di separazione delle tifoserie avversarie;

3) collocazione dei tifosi giallo-rossi all’interno dello stadio;

4) servizio d’Ordine interno;

5) cautele volte ad evitare l’introduzione di abusivi, armi ed oggetti pericolosi tramite il recinto esterno del

stadio;

6) cautele volte ad evitare che i tifosi collocati nel primo anello, più ampio di quelli superiori, fossero

destinatari dei lanci e delle sassaiole da parte dei tifosi collocati più in alto.

Molti degli elencati aspetti risultano essere stati diligentemente presi in considerazione dalla Società, sulla base del

protocollo di intervento stabilito dalla Pubblica Autorità di cui all’ordinanza n. 1183/2001 della Questura di

Torino.

E’ stato provato, in particolare, che la Società ha comunicato tempestivamente, in data 30.04.2001 alla Direzione

S.I.A.E., alla Croce Rossa Italiana, alla Questura , al Prefetto, al Comando dei Vigili del Fuoco, alla Digos ed alla

Polizia Municipale di Torino la data ed il luogo dell’evento sportivo (cfr. docc. Da 1 a 8 di parte convenuta 9), che

ha scrupolosamente rispettato l’ordine della Pubblica Autorità di riservare alla tifoseria ospite i tre anelli del

settore EST 3 e del primo anello del SottoSettore EST 3, con delimitazione degli spalti e di tali settori con

strutture fisse e transennamenti mobili , in allora costituiti da griglie metalliche (cfr. interpello COLASANTE e

dichiarazioni del tecnico AEM FAINI , vedi foto digitali n 103-0397, 103-0399, 103-0400 IMG), solo ora

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affiancate da barriere di vetro o plexiglass fatte apporre successivamente su ordine della Questura di Torino allo

scopo di impedire i contatti fisici fra le opposte tifoserie (cfr. dichiarazioni OPEZZI, LONGO e fotografie digitali

cit.).

Risulta altresì che la Juventus s.p.a. ha venduto ai tifosi romanisti solamente il numero di biglietti espressamente

indicato dalle Pubbliche Autorità , più elevato del solito, proprio al fine di garantire la concentrazione degli ospiti

in un solo settore e non farli infiltrare in mezzo agli juventini, nonché che ha predisposto il consueto servizio di

ordine interno a mezzo di proprie “maschere” tuttavia non abilitate, in quanto soggetti privati, a perquisire o

ispezionare il pubblico, né a sequestrare oggetti, ma solamente a controllare i tagliandi di ingresso ed a coadiuvare

i Poliziotti presenti nello stadio nella vigilanza sul rispetto delle prescrizioni di sicurezza, senza disporre di alcun

potere coercitivo.

E’ bene precisare subito che nel 2001 la società non era proprietaria della struttura, locata dal Comune di Torino

e che, come società sportiva, aveva “piena giurisdizione” solamente su quanto accadeva sul campo di calcio e

negli spogliatoi (cfr. testi LONGO ed OPEZZI).

Nessun potere aveva (allora come adesso) in merito alla tutela dell’Ordine Pubblico, tutela riservata per legge alle

Forze di Polizia.

Si riporta, per la sua chiarezza ed esaustività, con sottolineatura delle sue parti salienti, la deposizione del Vicario

del Questore di Torino, dr. LONGO, circa le misure di sicurezza adottate in occasione dell’incontro ed i poteri

della società convenuta: “1) confermo la circostanza, sia in generale che con riferimento a questa partita, preciso che la Juventus e tutte le società comunicano alla Questura , poi noi autonomamente diamo notizia dell’evento alle altre autorità menzionate nel capo 1) 2) è vero, preciso che per questa partita in particolare, che era “a rischio” sia con riferimento all’epoca che alla squadra avversaria, era data come “rischio 3” che è il massimo, mi pare, ci eravamo mossi fin dalla fine di marzo, mentre normalmente cominciamo solo dieci-quindi giorni prima dell’evento. Vi fu una serie di riunioni tecniche sia in Questura che in Prefettura, con l’intervento dei vertici della Società per assicurare alcune cose. Sempre quando gioca la Juventus i tifosi ospiti vengono concentrati nel settore EST 3 su tre livelli, che complessivamente hanno una capienza di circa 4000 posti (meno di 4000) a sedere. Eravamo preoccupati perché all’epoca la Roma quando si muoveva viaggiava con circa 10.000 spettatori Sulla base di questi dati confermatici dalla Questura di Roma furono indette varie riunioni anche con i vertici della Juventus. La nostra preoccupazione era di dare la possibilità ad un numero più elevato di tifosi della Roma di assistere alla partita, perché altrimenti si rischiava l’acquisto di biglietti di altri settori e la commistione con i tifosi di casa. 3) La Juventus scrisse formalmente che il settore ospiti era di circa 3.900 posti , anche ai sensi delle disposizioni federali in materia che prevedono la cessione alla tifoseria ospiti di un numero di posti non superiore al 5%, onde garantire alla società di casa la possibilità di avere la massima disponibilità di posti. Nel caso concreto l’esigenza di ordine pubblico prevalse e quindi la Juventus mise a disposizione il primo livello del settore attiguo all’ EST 3 aumentando il numero di posti per i tifosi della Roma e garantendo un ingresso della tifoseria ospite separato da quello di casa e predisponendo su richiesta nostra la separazione fra il settore

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occupato dalla tifoseria romanista ed il settore occupato dagli Juventini con delle griglie fissate a terra imbullonate ad altezza tale da poter teoricamente garantire che non venissero scavalcate. Adr: queste griglie furono appositamente montate qualche giorno prima della partita, come ho personalmente constatato, erano di metallo, ovvero dei grigliati imbullonati, non ricordo l’altezza. Ci fu anche una riunione della Commissione Provinciale di Vigilanza per i Pubblici spettacoli, trattandosi di una modifica strutturale dello stadio , che avrebbe potuto creare problemi anche per la sicurezza, in termini di occlusione delle vie di fuga, anche se in realtà le vie di fuga erano tutte garantite. Adr: non furono montati ripari aerei onde impedire il lancio di oggetti dall’alto. In quello stadio è impossibile adottare una simile misura, perché gli ingegneri ed architetti sulla base di studi fatti, lo hanno escluso, non so perché. 4) all’epoca dei fatti lo stadio era gestito dal Comune e immagino che la Juventus acquisisse di volta in volta il diritto di far svolgere ivi la partita. Solo quest’anno lo stadio è stato ceduto alla Società. Adr: la Juventus allora come ora disponeva di un servizio di ordine privato che disponeva dei seguenti potericontrollo: controllo dell’accesso tramite verifica dei tagliandi di ingresso, controllo delle uscite di sicurezza e di tutti i cancelli esistenti che consentono il passaggio da un settore all’altro, tutti da loro presidiati, presenza all’interno dei settori per garantire che tutte le scale siano lasciate libere e consentire l’eventuale arrivo di soccorsi, invece alla Questura competevano i servizi di ordine pubblico e di controllo generale, man mano che si rendevano necessari. In quel caso in particolare furono effettuati controlli e perquisizioni agli accessi del settore EST 3 Nord e Sud. Ovviamente le perquisizioni vennero fatte a campione, o, quando arrivavano i gruppi di tifosi exagitati si procedeva al controllo su tutto il gruppo. Aggiungo che in queste partite il controllo viene fatto anche precedentemente nei luoghi ove si radunano le tifoserie avversarie, ad esempio i caselli autostradali, negli aeroporti ed alle stazioni. Quel giorno i primi arrivi furono alle sette del mattino su un treno in arrivo da Roma e trovammo circa cento tifosi senza biglietto di ingresso allo stadio che furono portati in Questura. Adr: teoricamente è possibile che tifosi rimasti fuori dello stadio passino ordigni o altre cose a quelli che sono entrati, attraverso la cinta esterna che non è chiusa ma a sbarre metalliche, tant’è che noi chiediamo che i vigilanti della Squadra ospite che si trovano all’interno dello stadio esercitino una particolare vigilanza per impedire questo passaggio di cose dall’esterno e che nel momento in cui ci siano passaggi o scavalcamenti dall’esterno chiediamo che ci chiamino, in quanto essendo privati non dispongono di poteri coercitivi. Aggiungo che questa faccenda del passaggio di oggetti dall’esterno all’interno dello Stadio è questione noJuventus , non posso ricordare se lo fosse anche all’epoca dei fatti, comunque è un fatto notorio, tanto che attualmente con lo stadio nuovo la Juventus ha in programma di chiudere la cinta esterna , in modo che non sia possibile più il passaggio di oggetti dall’esterno all’interno, visto che ora lo stadio è suo, non so dire se prima lo abbia fatto. 5)è vero,

7) ho già risposto, 8) è vero, 9) è vero 10) per esigenze di ordine pubblico la Questura quando si rende necessario presentava richieste al Comune

che a volta le accettava a volte no, poi occorreva l’intervento della Struttura Provinciale di Vigilanza. Noi per esempio abbiamo chiesto che il settore EST 3 ed EST 4 (del Torino) venisse separato dalla curva attigua con elementi di separazione trasparenti ed infrangibili con creazione di corridoi. Tale modifica venne però attuata dopo la partita per cui è causa, mi pare.

11) Mi viene rammostrato il doc 9 prodotto dall’avv. FOSSATI , confermo che si tratta di una nota da noi ricevuta, ma non ne ricordo l’epoca.

12) È vero; 13) È vero, tant’è vero che poi il Comune è intervenuto, ma solo in vista del campionato 2002

sicuramente creando il corridoio di rispetto che prima non c’era ma veniva creato di volta in volta mettendo sbarramenti costituiti da Forze dell’Ordine i quali diventavano cuscinetto fra migliaia di persone, lo sbarramento trasparente fu affiancato a quello preesistente, non ricordo se lo sbarramento rigido trasparente fosse o meno superiore in altezza a quello preesistente.

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14) Ho già risposto; 15) su questo argomento posso dire che vi era stato un progetto su iniziativa del Comune per installazione di

una rete-tetto di protezione dall’alto, ma la tendenza è quella di abolirli e di creare barriere con fossati, nonché di ridurre i posti destinati alle tifoserie ospiti. Non so dire perché questo progetto non sia stato ultimato.

16) Non credo che a questa comunicazione (doc 9) abbiamo risposto espressamente per scritto alla Società.Adr:sicuramente ci fu la richiesta nostra di creare lo spazio di rispetto e la barriera di cui ho già parlato, ma non posso dire se ciò sia conseguenza della menzionata missiva della Juventus. Adr: a seguito dei controlli preventivi di cui ho detto lo Stadio quella volta fu ritenuto idoneo a far disputare la partita oggetto di causa. Attualmente vi è uno studio in corso al dipartimento di P.S. per attribuire una qualifica diversa alle società sportive per renderle maggiormente partecipi dei problemi. A domanda dell’avv. ROSSELLO: “all’epoca ed anche ora non era possibile che venissero venduti più biglietti dei posti a disposizione della tifoseria romanista. I 3900 biglietti venivano dati a disposizione dei clubs romanisti che li spartivano . Ovviamente è un numero di biglietti insufficiente per quella tifoseria. E’ dunque possibile che alcuni gruppi di romanisti andassero a rifornirsi di biglietti indipendentemente, ad esempio comprando quelli riservati ai tifosi della Juventus, per questo noi chiedemmo l’estensione dei posti riservati ai tifosi ospiti. Preciso che i tifosi di una squadra sono normalmente facilmente identificabili sulla base dell’abbigliamento e della condotta”.

Si evince poi dal tenore dell’ordinanza della Questura acquisita che, in occasione della partita de qua la

costruzione di adeguati sbarramenti di separazione delle due tifoserie, il mantenimento di un’adeguata zona di

rispetto al primo anello fra il settore Est e la curva Nord, nonché il punteggiamento della balconata del livello Est

1 ed Est 2 al fine di prevenire il lancio degli oggetti da parte dei tifosi bianconeri sulla tifoseria ospite presente al

primo anello, non coperta dalle balconate superiori (cfr. riscontro fotogr. digitali 103-0395 Img e 103-0398 IMG)

era espressamente demandato ad un reparto della Polizia di Stato (cfr. ordinanza Questura 5.5.2001 pag. 16).

In concreto non è noto come sia entrato allo Stadio delle Alpi l’ordigno che fu lanciato contro il sig.

COLASANTE, e cioè se esso sia stato introdotto da un tifoso non perquisito all’ingresso (la perquisizione

avveniva infatti a cura esclusivamente delle Forze dell’Ordine ed a “campione”) o se sia stato passato dall’esterno

attraverso il c.d. recinto fiscale, costituito solamente da sbarre e dunque non protetto integralmente da una barriera

fissa.

La sassaiola ed i lanci verificatisi copiosamente prima dell’inizio della partita, testimoniata dai due amici del

COLASANTE escussi e dalle video-riprese, rendono evidente che tutto l’apparato di protezione si è rivelato

insufficiente ad impedire gli eventi di questo tipo.

Questo rilievo di per sé non implica “in re ipsa” la sussistenza di una colpa concreta della Società organizzatrice ex

art. 2043 c.c. e nemmeno il fallimento automatico della prova liberatoria di cui all’art. 2050 c.c. richiesta alla

medesima, perché altrimenti, per qualsiasi evento lesivo, la sua verificazione renderebbe impossibile fornire una

qualsiasi prova liberatoria (c.d. “probatio diabolica”. Tale prova non può nemmeno limitarsi al caso fortuito.

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Nello specifico, se il fallimento delle misure di protezione fosse dovuto esclusivamente ad una lacuna del sistema

di perquisizione o all’insufficienza del numero di Poliziotti dislocati nella “zona di rispetto” e ai lati del settore

riservato agli ospiti, il difetto non sarebbe imputabile alla Società qui convenuta, trattandosi di attività di tutela

pubblica interdetta ai suoi dipendenti e dunque addebitabile, eventualmente, esclusivamente alla Questura

competente ed in ultimo allo Stato.

Nel nostro caso, invece, si deve avere riguardo anche all’ oggettiva dimostrata insufficienza e non integrità del

recinto fiscale esterno , così come alla mancanza di ripari orizzontali fissi o mobili che ostacolassero i lanci

reciproci di oggetti fra tifosi avversari e dunque, in generale, all’inadeguatezza delle strutture dello Stadio delle

Alpi, nel 2001, ad impedire gli eventi dannosi del tipo di quello che si è verificato ai danni dell’attore, con i

seguenti rilievi:

1)è stato illustrato testimonialmente che lo Stadio era di proprietà del Comune, che la Società lo affittava di

in volta, previa approvazione della Commissione Provinciale di Vigilanza, di cui fa parte anche la Questura,

riguardante l’agibilità , la conformità normativa e l’idoneità alla sicurezza degli spettatori, che la Juventus non

poteva intervenire in alcun modo in modifica delle strutture, nemmeno apponendo barriere verticali fisse, ma che

poteva al più rendersi promotrice di richieste destinate al Comune, suscettibili di approvazione, tuttavia, sia da

parte del Comune che della Commissione di Vigilanza (cfr. testi LONGO ed OPEZZI);

2)è stato altresì provato documentalmente (doc. 9 di parte convenuta) e per testi che la Società calcistica, avendo

ben presente il rischio connesso con le suddette lacune strutturali, ha inviato alla Questura la lettera 1.2.2001 con

cui faceva presente l’inadeguatezza del recinto esterno sia con riferimento all’altezza che alle sbarre, nonché la

limitata altezza del separatore tra il settore Ospiti (Est 3) e la Curva Nord ed il Settore Est 1-2, indicata come causa

del fitto e reciproco lancio di razzi , petardi, bottigliette d’acqua, eccetera e proponeva di adottare alcune misure

cautelative, fra cui la chiusura con fogli di lamiera dello zoccolo fino alla cima del recinto fiscale, l’innalzamento

del recinto di delimitazione dei suddetti settori ed il posizionamento di reti apposite (gabbia totale) che

impedissero o limitassero il lancio fra i settori (gabbie mobili che secondo l’attore sono talvolta utilizzate in altri

stadi italiani), la collocazione di un secondo recinto opacizzato fra i due settori.

A tale missiva non è nemmeno stata fornita risposta.

Ed allora, senza entrare nel merito della possibilità tecnica di contemporanea adozione di tutte queste misure

all’interno dello Stadio delle Alpi in rapporto alla sua tipologia architettonica (secondo il dr. LONGO ed il sig.

OPEZZI, ad esempio, la gabbia mobile sarebbe ancora più pericolosa per l’incolumità pubblica,potendo cadere per

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effetto di pressioni o movimenti di massa sugli stessi spettatori e i ripari fissi non sarebbero compatibili con le

caratteristiche progettuali della struttura) si può tuttavia escludere la sussistenza di una responsabilità colposa ex

art. 2043 c.c. in capo alla convenuta, dal momento che ha dimostrato di avere diligentemente seguito,

nell’organizzazione dell’incontro di calcio, tutte le prescrizioni normative e dell’Autorità di P.S. e di avere agito

con idonea prudenza nel richiedere la facoltà di ulteriori interventi, facoltà negatale senza sua colpa. La Società

era altresì in possesso di tutte le autorizzazioni pubbliche e del giudizio di idoneità dello Stadio alla partita e certa

del dispiegamento del servizio d’Ordine.

Ma l’art. 2050 c.c. pretende un qualcosa in più, dal momento che la prova a discarico ivi richiesta riguarda

l’effettiva adozione di “tutte le misure idonee ad evitare il danno”, secondo le conoscenze proprie della Società ex

ante .

E’ dunque doveroso chiedersi se la società avrebbe potuto e dovuto, oltre a quanto ha dimostrato di avere fatto,

invio della lettera compresa, fare ancora qualcos’altro.

A fronte del mancato accoglimento delle proprie legittime richieste e stante la prevedibilità concreta del

pericolo, così come risulta dal documento n. 9 proveniente dalla Juventus, si ritiene che la società avrebbe potuto e

dovuto, in occasione di una partita così a rischio, senza rinunciare , naturalmente, a far disputare l’incontro,

ricorrere ad una struttura diversa dallo Stadio delle Alpi, la quale, in allora, così come rilevato anche dal G.u. dr.

CARBONE nella più volte menzionata sentenza, riguardante un’identica fattispecie era una “ struttura

oggettivamente priva di sufficienti caratteristiche di sicurezza, nella quale all’indubbio pregio architettonico non

corrisponde adeguata funzionalità nella preclusione di un fenomeno-il lancio degli oggetti dai settori prossimi e

da quelli sovrastanti- dal quale non si può prescindere, in quanto prevedibile, nella ripartizione delle tribune e

nella stessa strutturazione dell’impianto.”

Non risulta infatti provata in causa la sussistenza di un vincolo contrattuale stabile che legasse con vincolo

obbligatorio la Juventus al Comune di Torino per l’utilizzo dello Stadio delle Alpi per tutte le partite , anzi, i testi

OPEZZI e LONGO indicati dalla stessa Juventus hanno dichiarato che la società acquisiva i diritti sullo Stadio

volta per volta.

Dunque soltanto ovvii e presumibilmente rilevanti interessi economici (la Juventus attualmente è una s.p.a. con

fini di lucro) , nonché le prassi sportive hanno impedito alla Società di utilizzare stadi diversi presenti sul territorio

nazionale maggiormente dotati sul piano della sicurezza, in occasione delle partite più a rischio, come quella

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disputata fra la Juventus e la Roma ( squadre entrambe i cui rispettivi supporters ed ultras sono notoria

particolarmente virulenti e nemici fra loro) il 6.5. 2001, che era una partita “a rischio3” (cfr. teste dr. LONGO).

Ma gli interessi economici debbono soccombere a fronte dell’esigenza primaria del diritto degli spettatori alla

propria incolumità fisica ed alla tutela della salute , che è un bene costituzionalmente garantito.

Non si ritiene pertanto che la Juventus F.C. abbia fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 2050 c.c. , la cui

“ratio” è proprio , come sé già detto, quella di contemperare gli interessi (economici) del soggetto che esercita una

determinata attività pericolosa con l’interesse preminente della tutela dell’incolumità delle persone e delle cose

tramite la voluta scelta di porre il rischio dei danni derivanti da tale attività su coloro che ne traggono lucro.

La parte convenuta deve pertanto rispondere di tutti i danni provati in causa, patiti dal sig. COLASANTE in

occasione del sinistro de quo.

§§§§

Necessitano tuttavia alcune premesse.

Per quanto concerne la natura e l’entità delle conseguenze risarcibili, infatti, le recenti innovazioni

giurisprudenziali in tema di danno biologico, morale ed esistenziale rendono opportuna una rivisitazione della

materia ed una nuova classificazione delle singole voci di danno , optando i Giudici di merito di questa sezione per

l’adeguamento ai principii di diritto sanciti dalla Consulta e dalla Corte di Cassazione , sebbene non a Sezioni

Unite.

La S.C. sezione III civile, infatti, con le note sentenze nn. 7281, 7282 e 7283/03, in fattispecie riguardanti danni

da circolazione da veicoli e da attività pericolose, con particolare riferimento ai prossimi congiunti della vittima

principale dei sinistri , ha superato i tradizionali limiti risarcitori prima ricondotti all’art. 2059 c.c. ed è giu

riconoscere la risarcibilità del danno morale ogniqualvolta sia ravvisabile in astratto una fattispecie di reato, pur

nei casi di colpa presunta e non accertata in concreto civilisticamente.

Con le successive sentenze sempre della III Sez. Civ. n. 8827 e 8828 del 31.05.2003 , la Cassazione , confermando

tale orientamento, ha affermato l’estensione della nozione di “danno non patrimoniale” “inteso come danno dal

lesione di valori inerenti alla persona” e non più solo come “danno morale soggettivo”, e richiesto il ristoro

anche dell’irreversibile perdita di un prossimo congiunto all’interno del nucleo parentale garantito e protetto dalla

Carta Costituzionale.

A sua volta la Corte Costituzionale con la sentenza 11.07.2003 n. 233, aderendo a tale orientamento, ha ritenuto

tramontata “la tradizionale affermazione secondo cui il danno non patrimoniale riguardato dall’art. 2059 c.c. si

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identificherebbe con il c.d. danno morale soggettivo” ha impostato concettualmente le categorie del danno in

modo nuovo, sostituendo alla vecchia tripartizione 1) danno patrimoniale 2)danno biologico 3) danno morale, un

sistema bipolare costituito da:

1)danno patrimoniale (danno emergente, lucro cessante)

2)danno non patrimoniale, (inteso come ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di

valori inerenti alla persona) nel quale fa rientrare il DANNO BIOLOGICO (ovvero la lesione delll’integrità

fiscia e psichica della persona) ed il DANNO MORALE IN SENSO LATO, inteso come il riflesso soggettivo del

danno, che a sua volta ricomprende il C.D. danno morale in senso stretto (o patema d’animo transeunte) e il

c.d. esistenziale o alla vita di relazione (incidente sulle esplicazioni della personalità nelle formazioni sociali,

famiglia, ecc. in rapporto a interessi costituzionalmente rilevanti) .

Le due sentenze della S.C. n. 8827 e 8828/2003, peraltro, oltre a richiedere che il danno c.d. “esistenziale” sia

allegato e provato, suggeriscono anche criteri per la liqudazioni delle varie voci del danno non patrimo

richiamando il criterio equitativo ex artt. 1226 e 2056 c.c. e consentendo il cumulo fra danno morale in senso

stretto e danno esistenziale (o alla vita di relazione) , ma precisando che, in caso di duplice liquidazione, il

“quantum” per il danno morale puro andrà contenuto, stante la “sua più limitata funzione di ristoro della

sofferenza contingente che gli va riconosciuta” e l’opportunità di un “giusto equilibrio fra le varie voci che

concorrono a determinare il complessivo risarcimento”.

Non viene prescritto invece alcun sistema tabellare predeterminato di liquidazione.

A questo punto il vecchio sistema risarcitorio tabellare seguito da questa Sezione per il danno non patrimoniale ,

parzialmente inadeguato alla nuova classificazione, viene integrato come segue:

1) i danni all’integrità psicofisica della persona, intesi come meri danni anatomo-funzionali valutabili con

accertamento medico-legale, si ritengono ristorabili in base agli ordinari criteri di liquidazione adottati dalla

giurisprudenza di questa Sezione a far tempo dal maggio dell’anno 2004 espressi in euro, riferiti alla data odierna

(criteri aggiornati annualmente sulla base degli indici di svalutazione della moneta), con valutazione equitativa

rigorosa dell’età del danneggiato per un abbattimento o un aumento del valore del “punto” tabellare entro il 50%;

2) invalidità temporanee: i valori intermedi degli scaglioni relativi all’invalidità temporanea vengono calcolati con

criteri di progressività rispetto ai due parametri tabellari estremi, sempre secondo le vecchie tabelle;

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3)i riflessi oggettivi del danno biologico, apprezzabili principalmente tramite accertamento medico legale

(incidenza su sport, attività fisiche, maggior usura al lavoro, ecc.) sono valutati mediante eventuale incremento

ulteriore dei valori di cui al precedente paragrafo, fino al 50%;

4)il danno morale in senso stretto inteso come il mero “patema d’animo” viene liquidato, per lesioni sofferte

dallo stesso danneggiato, nella percentuale ricompresa fra ¼ e ½ di quanto liquidato a titolo di danno biologico, (

sommatoria del danno da invalidità permanente con quello da invalidità temporanea) , per lesioni sofferte da un

congiunto o per perdita del congiunto, invece, in via equitativa, secondo le specifiche cond izioni, come dalle

vecchie tabelle di questa Sezione;

5)il danno esistenziale (o da vita di relazione), che ora ricomprende anche alcune voci che in precedenza venivano

liquidate tramite il sistema del c.d. “punto pesante” verrà liquidato, qualora sorretto da rigorosa istruttoria, con

una percentuale variabile fra 1/6 e 1/3 del danno morale.

Tutti i valori del danno morale in senso lato permangono, ovviamente incrementabili o diminuibili fino al 50% in

considerazione delle particolarità oggettive e soggettive del caso, fra cui l’età delle parti, le modalità della

fattispecie che ha dato corso al danno, le caratteristiche peculiari dei rapporti parentali, e, segnatamente, la natura

ed intensità dei legami affettivi, ecc..

Si precisa che si è ritenuto di calcolare il danno morale in senso stretto come percentuale del danno biologico nel

suo complesso e non più solo con riferimento alla mera invalidità permanente, in considerazione dell’accento

puntato dalla citata giurisprudenza sulla centralità del danno rispetto all’elemento soggettivo dell’autore del fatto,

e dunque della necessità di tenere conto della sofferenza dei danneggiati conseguente ai ricoveri, all’impossibilità

di muoversi ed ai periodi di inabilità parziale .

Si conferma, infine, che i criteri riguardanti le invalidità temporanee e quelle permanenti persistono a trovare

applicazione con riferimento:

- alle fattispecie relative a sinistri concernenti la circolazione di veicoli avvenuti anteriormente all’entrata in

vigore della legge 5.3.2001 n. 57, indipendentemente dall’entità del danno biologico,

- alle fattispecie relative a sinistri concernenti la circolazione di veicoli avvenuti posteriormente all’entrata in

vigore della legge 5.3.2001 n. 57 dalle quali sa derivato un danno biologico pari o superiore al 10%;

a tutte le altre ipotesi di responsabilità contrattuale o extracontrattuale non concernenti la circolazione di

veicoli.

§§§

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In applicazione di tali criteri, il danno all’integrità fisica patito da COLASANTE Walter, viene così quantificato,

sulla base dell’esito della CTU medico- legale disposta in corso di causa, le cui risultanze adottate dal CTU in

accordo con il ctp di parte convenuta (mentre parte attrice non ha nominato alcun CTP) , in quanto logiche,

tecniche ed adeguatamente motivate, si condividono:

- invalidità temporanea totale in regime di ricovero ospedaliero (100%): giorni 2, per complessivi euro 104,4;

- invalidità temporanea parziale (50%): giorni 50, per complessivi euro 1044;

- invalidità temporanea minima (25%): giorni 40, per complessivi euro 417,6;

- postumi permanenti (consistenti in esiti di trauma da scoppio con lesioni plurime alla mano destra- amputaizone

del II dito e plurime fratture a carico del pollice, III e IV dito della mano medesima) ritenuti liquidabili,

considerazione dell’età e di ogni altra circostanza suscettibile di essere assunta a parametro di determinazione,

nella misura di euro 2.200 a punto, con aumento a 2.300 a punto in applicazione del c.d. “punto pesante” tenuto

conto della riscontrata inc idenza della menomazione, in termini di maggior disagio, sulle attività della vita che

richiedano la presa a pugno con sforzo della mano destra in soggetto destrimane: 26%, per complessivi euro

59.800.

Non è stata riscontrata maggior usura in relazione ad eventuale attività lavorativa confacente al titolo di studio del

COLASANTE.

Danni morali, ritenuti liquidabili - attesa l'antigiuridicità penale, per lo meno astratta, in linea con le citate sentenza

della Cassazione, della condotta generatrice del sinistro e in considerazione del grado di afflizione che ne è

derivato, da valutarsi non elevatissimo, sia in considerazione del mancato accertamento della colpa concreta sia

valutato il contesto in cui è avvenuto il fatto - in complessivi euro 20.455,33 riferiti alla data odierna.

Non è, invece, suscettibile di liquidazione alcunchè a titolo di danno patrimoniale.

L’attore non ha infatti documentato alcuna spesa medica e, in assenza di riscontro medico- legale sull’incapacità

lavorativa specifica, non è liquidabile nemmeno questa voce di danno.

Il sig. COLASANTE era del resto disoccupato al momento del sinistro e non ha comunque provato che dai

postumi derivanti del sinistro sia conseguita in concreto una diminuzione dei suoi redditi o della capacità di

guadagno.

I danni complessivamente suscettibili di risarcimento ammontano pertanto ad euro 61.366

per danno biologico e ad euro 20.455,33 per danno morale corrispondenti - previa

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devalutazione di tali componenti di danno non patrimoniale liquidate con riferimento ai

parametri odierni - a complessivi euro 76.194,45 alla data del fatto.

Trattandosi di una forma di risarcimento per equivalente e in assenza di specifica prova sull'entità del pregiudizio

sofferto dalla parte creditrice, si ritiene - conformemente alla costante giurisprudenza di legittimità - di liquidare il

danno emergente in via equitativa attraverso la rivalutazione del capitale secondo gli indici I.S.T.A.T. (così da

reintegrarne il valore iniziale, compensando la successiva perdita del potere d'acquisto della moneta) ed il lucro

cessante, anch'esso in via equitativa, attraverso l'attribuzione degli interessi nella misura del tasso legale, i quali,

al fine di evitare l'ingiustificata locupletazione della parte creditrice, vengono calcolati sul capitale originario

rivalutato anno per anno anziché, come precedentemente affermato in giurisprudenza, sul capitale già

integralmente rivalutato.

In base a tali parametri i danni risultano liquidabili, alla data della pronuncia della presente sentenza in euro

90.119,40, di cui euro 76.194,45 per capitale, euro 5.626,81 per rivalutazione ed euro 8.298,14 per interessi.

Il danno complessivamente liquidabile a favore della parte attrice consiste pertanto, alla data odierna in euro

90.119,40, oltre agli interessi legali maturandi dalla data della presente sentenza fino al saldo effettivo. Le spese processuali seguono la soccombenza e, considerato il grado di difficoltà della causa ed ogni altro

elemento di determinazione, vengono liquidate come in dispositivo, previa verifica delle singole voci.

Anche le spese di C.T.U. vengono poste integralmente a carico della parte convenuta soccombente, nella misura

liquidata in corso di lite .

P. Q. M.

il giudice istruttore in funzione di Giudice Unico,

definitivamente pronunciando,

disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione,

visto l’art. 2050 c.c.,

ritenuta la responsabilità della parte convenuta JUVENTUS F.C. s.p.a. in ordine al sinistro per cui è causa,

- dichiara tenuta e condanna la parte convenuta al pagamento in favore di COLASANTE Walter della somma di

euro 90.119,40, di cui euro 76.194,45 per capitale, euro 5.626,81 per rivalutazione ed euro 8.298,14 per

interessi, oltre ad interessi legali dalla data della presente sentenza al saldo;

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- condanna la convenuta JUVENTUS F.C. s.p.a. a pagare le spese di causa che liquida in complessivi

9.450,09, di cui € 675,09 per spese, euro 1.800 per diritti, euro 6.000 per onorari ed € 975, per rimborso

forfettario delle spese generali nella misura del 12,5% ex art. 15 T.F..

- pone altresì le spese della CTU medico-legale condotta in corso di causa a carico integrale della parte

convenuta.

Così deciso in data 08.11.2004

IL GIUDICE UNICO

Sentenza redatta integralmente dal Giudice a mezzo di scritturazione elettronica e depositata ai sensi dell'art. 281

quinquies c.p.c. in data

Il Cancelliere

Sentenza pubblicata ai sensi dell’art. 133 c.p.c. in data

Il Cancelliere

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ALLEGATO 4)

Cassazione civile , sez. III, 22 aprile 2009, n. 9550

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista - Presidente - Dott. FILADORO Camillo - Consigliere -

Dott. FICO Nino - Consigliere - Dott. CALABRESE Donato - rel. Consigliere - Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere -

ha pronunciato la seguente: sentenza

sul ricorso 21074-2005 proposto da: R.P.E., elettivamente domiciliato in Roma presso la

Cancelleria CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE rappresentato e difeso dall'Avvocato ANGELONE RENATO con studio 80128 NAPOLI Via F. Blundo,

54 (Piazza Medaglie d'Oro) per procura a margine del ricorso; - ricorrente -

contro AURORA ASSIC SPA, S.S.;

- intimati - avverso la sentenza n. 7386/2004 del TRIBUNALE di NAPOLI, Sezione

Civile 12^, emessa il 26/05/04; depositata il 22/06/2004; R.G.N. 18981/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/03/2009 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per accogliere il ricorso.

Inizio documento Fatto

Con sentenza 26 maggio-22 giugno 2004 il Tribunale di Napoli rigettava l'appello proposto da R.P.E. avverso la decisione del locale giudice di pace che aveva condannato in solido i convenuti S.S. ed Aurora assicurazioni (nella rispettiva qualità di proprietario e compagnia di assicurazione dell'altra autovettura) al pagamento di L. 882.000 per i danni derivati dall'incidente stradale del (OMISSIS), dopo aver dichiarato il concorso paritario di responsabilità di entrambi i conducenti, ai sensi dell'art. 2054 c.c., comma 2. Osservava il Tribunale che la infrazione - anche grave - accertata a carico di uno dei due conducenti non dispensa comunque il giudice dall'obbligo di verificare il comportamento dell'altro conducente, al fine di stabilire se sussista - o meno - un concorso di colpa nella determinazione dell'evento dannoso. Nessuna rilevanza, tanto meno di giudicato, poteva poi attribuirsi alla sentenza

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definitiva emessa in relazione al medesimo sinistro tra altre parti. Era stato accertato che l'autovettura condotta da H.F. (di proprietà dello S.) procedeva in senso vietato (in una strada a senso unico), ma nulla era stato riferito in ordine alla condotta di guida dell'attore, se non che questi marciava nel senso di marcia consentito. Nulla era stato accertato sulla velocità dell'autovettura condotta dal R. e sulle manovre che questi aveva posto in essere per evitare l'incidente. Avverso tale decisione il R. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da tre distinti motivi. Gli intimati non hanno svolto difese.

Inizio documento Diritto

Con il primo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione dell'art. 2054 c.c., comma 2, artt. 7 e 14 C.d.S., art. 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Il giudice di appello non aveva valutato correttamente il comportamento posto in essere dal conducente dell'altra vettura, che pure marciava in senso vietato in una strada a senso unico. In pratica, avendo osservato tutte le regole stabilite dal codice della strada e dalla comune prudenza, il R. - venutosi improvvisamente a trovare di fronte una vettura che procedeva in senso inverso, in una strada angusta - non aveva potuto compiere alcuna manovra, per evitare l'incidente. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia falsa applicazione dell'art. 2054 c.c., comma 2, sotto altro profilo (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che la presunzione di cui all'art. 2054 c.c., comma 2, operasse nel senso della paritaria attribuzione di responsabilità, senza possibilità di effettuare alcuna graduazione di colpa. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la falsa applicazione dell'art. 2054 c.c., comma 2 (art. 360 c.p.c., n. 3). La presunzione di responsabilità prevista dalla norma riguarda esclusivamente il danno subito dai veicoli. La stessa, dunque, non era applicabile nel caso di specie, in cui era in discussione solo il danno subito dal conducente dell'autoveicolo. In altre parole, l'attore era un creditore solidale che domandava l'intero risarcimento del danno ad uno dei condebitori solidali. Osserva il Collegio: i tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono fondati nei limiti di seguito indicati. Occorre innanzi tutto premettere che non vi è motivo per discostarsi dal consolidato insegnamento di questa Corte, secondo il quale l'accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due convenuti non comporta il superamento della presunzione di colpa concorrente stabilito dall'art. 2054 c.c., comma 2, essendo a tal fine necessario che l'altro conducente si sia uniformato alle norme sulla circolazione. In tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, qualora resti individuato il comportamento colposo di uno dei conducenti per attribuire a lui la causa determinante ed esclusiva del sinistro, è necessario verificare anche il comportamento dell'altro conducente, per determinare se, in rapporto alla situazione di fatto accertata, gli si debba muovere un qualche rimprovero in ordine alla causazione dell'evento (Cass. 14 aprile 1997 n. 3185).

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Tanto premesso in linea generale, è da precisare, tuttavia, che la colpa esclusiva di un conducente per il danno verificatosi a seguito di scontro con altro veicolo - liberatoria, per il conducente di questo ultimo, dall'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitarlo - può risultare indirettamente dall'accertato nesso causale esclusivo tra il suo comportamento e l'evento dannoso: in questo senso Cass. 18 febbraio 1998 n. 1724. In altre parole, l'accertamento della colpa esclusiva di uno dei conducenti libera l'altro dalla presunzione della concorrente responsabilità, fissata in via sussidiaria dalla citata norma, nonchè dall'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (Cass. 11 aprile 1988 n. 2834). La prova liberatoria per il superamento della presunzione non necessariamente deve essere fornita in modo diretto, e cioè dimostrando di non aver arrecato apporto causale alla produzione dell'incidente, ma può anche risultare indirettamente tramite l'accertamento del collegamento eziologico esclusivo dell'evento dannoso con il comportamento dell'altro conducente (Cass. 23 agosto 1990 n. 8622). Tanto premesso in linea generale, con riferimento al caso di specie, va precisato che, senza adeguata motivazione, i giudici di appello hanno ritenuto la presunzione di pari responsabilità a carico dei due conducenti osservando che il R. - che pur procedeva nel senso di marcia consentito - nulla aveva dimostrato in ordine alla velocità osservata al momento dell'incidente ed alla effettuazione di manovre concrete, atte ad evitare l'incidente. In tal modo, tuttavia, ad avviso del Collegio il giudice di appello non si è affatto posto il problema - che pure avrebbe dovuto affrontare e risolvere - se, in ipotesi, data anche la gravità della infrazione compiuta dal conducente della vettura di proprietà dello S. (il quale procedeva in senso vietato di marcia in una strada a senso unico) - il comportamento posto in essere da questo conducente fosse stato causa esclusiva del verificarsi dell'incidente. Pertanto, il Tribunale è incorso nel vizio di motivazione e di violazione di norme di legge denunciato. Conclusivamente il ricorso deve essere accolto, con rinvio ad altro giudice che procederà a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.

Inizio documento P.Q.M

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Napoli in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 marzo 2009. Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2009

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ALLEGATO 5)

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ALLEGATO 5) REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI TORINO

SEZIONE 3° CIVILE riunita in camera di consiglio nelle persone dei Signori Magistrati dott. Paolo PRAT Presidente dott. Umberto SCOTTI Consigliere rel. dott. Enrico DELLA FINA Consigliere

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A nella causa civile iscritta in secondo grado al n. 628 R.G.2009, avente ad oggetto: risarcimento danni da sinistro stradale, promossa da FONDIARIA - SAI S.p.A., c.f. e p. iva 00818570012, in persona del procuratore, dott. Ivano Cantarale, come da procura speciale in autentica notarile, Notaio dott. Luigi Rogantini Picco in Firenze, repertorio n. 10836 del 23.06.2004, fascicolo n. 3722, corrente in Firenze, Piazza della Libertà n. 6, e rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Scozia, Maurizio Curti e Salvatore Nicola, presso il quale ultimo, in Torino, Via Bligny n. 0, è elettivamente domiciliata in forza di procura alle liti in calce al ricorso in appello,

e

PASSONI RODOLFO, residente in Torino, via Scapacino 23, rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Nicola, presso il quale, in Torino, via Bligny n. 0, è elettivamente domiciliato in forza di procura alle liti in calce al ricorso notificato di primo grado,

APPELLANTI

contro PUGGIONI LUCA ERMANNO, residente in Torino, via Filadelfia 149/A ed ivi elettivamente domiciliato in via Palmieri 51 presso lo studio dell’avv.Andrea Fenoglio, che lo rappresenta e difende, in forza di procura a margine del ricorso introduttivo di primo grado in data 15.6.23007,

APPELLATO- APPELLANTE INCIDENTALE UDIENZA COLLEGIALE del 5 ottobre 2009. CONCLUSIONI PER GLI APPELLANTI: “Respinta ogni contraria istanza, eccezione e difesa, - in totale riforma della sentenza n. 7866/08, depositata il 02.12.2008, emessa dal Tribunale di Torino, Sezione 4^ Civile il 27.11.2008, nella causa rubricata sotto l’R.G. n. 20278/07, non notificata, - accertato e dichiarato che le somme corrisposte dalla Fondiaria - Sai S.p.A. a Puggioni Luca Ermanno sino alla data del 10.11.2008, pari ad € 112.800,00, come meglio indicate in parte narrativa, sono congrue all’integrale soddisfo ed al ristoro del danno patito dal signor Puggioni e che la somma corrisposta dalla Fondiaria - Sai S.p.A. a Puggioni Luca Ermanno in ottemperanza all’ impugnata sentenza ammonta ad € 63.439,54, per capitale ed accessori ed € 11.597,20, per spese legali; - condannare Puggioni Luca Ermanno a restituire alla Fondiaria - Sai S.p.A. l’importo complessivo di € 75.036,74 (63.439,54+11.597,20), corrispostogli dalla Compagnia in ottemperanza all’impugnata sentenza, o minore somma determinanda dal Collegio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data del pagamento (29.12.2008) sino al saldo. Con compensazione integrale delle spese di primo grado e con vittoria delle spese di secondo grado, oltre al rimborso forfettario delle spese generali (12,5%), IVA e CPA come per legge.” CONCLUSIONI PER L’APPELLATO- APPELLANTE INCIDENTALE:

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“Voglia l’Ecc.ma Corte d’Appello, Richiamati integralmente gli atti del primo grado di giudizio; Riservato il diritto di ulteriormente dedurre e produrre; Respinte le avversarie domande, istanze, azioni ed eccezioni; Previa ammissione dei più opportuni mezzi istruttori; Previa ammissione delle prove tutte dedotte in atti e delle ulteriori ritenute opportune dall’Ecc.mo Giudicante, ivi compreso eventuale supplemento di CTU medico-legale sulla persona del signor Luca Ermanno Puggioni ovvero audizione del CTU;

Previe le più opportune declaratorie del caso; In via principale Respingere integralmente l’avversario gravame e, per l’effetto, confermare la sentenza appellata. In via incidentale Previa riforma parziale della sentenza del Tribunale di Torino, sezione IV civile, G. U. dott. Ciccarelli, n. 7866/2008, depositata in data 2 dicembre 2008, per i motivi dedotti sub C; Dichiarare tenuti e condannare il signor Rodolfo Passoni, residente in Torino, Via Scapacino, n. 23, e la Fondiaria-SAI S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in Firenze, P.zza della Libertà, n. 6, in solido e/o ciascuno per quanto di ragione, al risarcimento, in favore dell’ odierno appellato, dell’ulteriore danno biologico psichico e del relativo danno non patrimoniale da questi patito a seguito dell’occorso incidente (e non riconosciuto in prime cure) e da liquidarsi in misura non inferiore ad Euro 45.000,00 o nella veriore misura accertanda in corso di causa anche in esito all’esperenda istruttoria e/o, in via subordinata, secondo equità e salvo gravame. Il tutto oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria sulle somme dal dovuto al saldo. Confermare per il resto l’appellata sentenza. In ogni caso Con il favore delle spese e degli onorari di entrambi i gradi di giudizio.”

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso ex art. 3 legge 102/2006 depositato il 6.7.2007 Luca Ermanno Puggioni conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Torino Rodolfo Passoni e la Fondiaria SAI s.p.a. nella rispettiva qualità di proprietario e compagnia assicuratrice per la r.c.a. del veicolo Ford Fiesta, targato AB 233 YE. Il ricorrente esponeva che il giorno 1.9.2002, mentre attraversava sulle strisce pedonali la via Pietro Cossa in Torino, era stato investito dall’autovettura del Passoni, da lui stesso condotta, e aveva riportato gravi lesioni, di interesse ortopedico, odontoiatrico e psichiatrico, che avevano compromesso la sua validità fisica in misura superiore al 40%. Chiedeva pertanto la condanna dei convenuti al ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali, in questi ultimi compresi il pregiudizio biologico, morale ed esistenziale. Ritualmente costituendosi in giudizio, i convenuti Passoni e Fondiaria SAI s.p.a. riconoscevano le modalità del sinistro descritte dall’attore e contestavano le pretese avversarie unicamente in punto quantum debeatur. I convenuti eccepivano altresì la nullità della domanda per indeterminatezza degli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento delle richieste di risarcimento del danno esistenziale, del danno da interruzione del rapporto di lavoro e del danno da perdita dell’integrità estetica. I convenuti richiamavano comunque l’onere avversario di fornire rigorosa prova dei danni lamentati. All’esito del tentativo di conciliazione esperito nella prima udienza, la Fondiaria SAI riconosceva al Puggioni un ulteriore acconto di € 60.000,00, oltre alla somma già versata ante causam di € 10.600,00. La causa veniva quindi istruita mediante prove testimoniali e mediante c.t.u, affidata a un collegio di tre periti. All’udienza del 25.11.2008 l’assicuratore consegnava all’attore assegno di € 42.000,00 ed evidenziava come la somma complessivamente pagata dovesse considerarsi congrua rispetto alle lesioni subite dal Puggioni, come accertate dai C.t.u.. Dopo la precisazione delle conclusioni e la discussione della causa, il Giudice, all’udienza del 27.11.2008, decideva la controversia dando lettura del seguente dispositivo. “il Tribunale di Torino, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Puggioni Luca Ermanno nei confronti di Passoni Rodolfo e Fondiaria SAI s.p.a., con ricorso depositato il 6.7.07, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede: dichiara tenuti e condanna Passoni Rodolfo e Fondiaria SAI s.p.a., in solido fra loro, al pagamento in favore di Puggioni Luca Ermanno di € 62.519,54 (già detratto gli acconti versati), oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo; dichiara tenuti e condanna i convenuti, in solido, all’integrale rimborso delle spese del giudizio in favore di Puggioni Luca Ermanno, liquidandole in € 8.060,94, di cui € 422,94 per spese vive, € 2.638 per competenze e € 5.000 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge; pone in via definitiva le spese di CTU, liquidate come da separato provvedimento in pari data, a carico solidale dei convenuti.” La sentenza n.7866/2008 veniva depositata il 2.12.2008. Con ricorso in appello depositato il 4.3.2009 proponevano appello la Fondiaria SAI s.p.a. e Rodolfo Passoni, chiedendo, in totale riforma dell’impugnata sentenza:

• accertarsi che le somme corrisposte dalla Fondiaria - Sai S.p.A. al Luca Ermanno Puggioni sino alla data del 10.11.2008, pari ad € 112.800,00, erano congrue all’integrale soddisfo ed al ristoro del danno patito dal signor Puggioni;

• accertarsi che la somma corrisposta dalla Fondiaria - Sai S.p.A. a Luca Ermanno Puggioni in ottemperanza all’impugnata sentenza ammonta ad € 63.439,54, per capitale ed accessori ed € 11.597,20, per spese legali;

• condannarsi Luca Ermanno Puggioni a restituire alla Fondiaria - Sai S.p.A. l’importo complessivo di € 75.036,74 (63.439,54+11.597,20), corrispostogli dalla Compagnia in ottemperanza all’impugnata

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sentenza, o minore somma determinanda dal Collegio, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data del pagamento (29.12.2008) sino al saldo;

• con compensazione integrale delle spese di primo grado e con vittoria delle spese di secondo grado. Con il primo motivo di impugnazione la Fondiaria SAI e il Passoni lamentano erronea e insufficiente motivazione della sentenza in relazione alla proposta eccezione di nullità della domanda attorea, osservando che la parte attrice, soprattutto nei procedimenti governati dal c.d. “rito del lavoro” era tenuta nella predisposizione del ricorso introduttivo al rispetto di un onere particolarmente severo nella capitolazione e allegazione probatoria, che nella fattispecie non era stato soddisfatto dalle generiche allegazioni insufficienti ad esplicitare la domanda; rilevano inoltre gli appellanti che il Primo Giudice aveva esaminato l’eccezione preliminare solo con riferimento alla deduzione del danno esistenziale, trascurando i profili del danno da interruzione del rapporto di lavoro e da perduta integrità estetica, per i quali, parimenti, l’eccezione era stata sollevata. Inoltre – osservano ancora gli appellanti – il Tribunale, disattendendo precedenti giurisprudenziali dello stesso Ufficio Giudiziario, aveva affrancato la parte attrice dall’onere di indicare l’entità del quantum richiesto e financo da quello di esplicitare il procedimento attraverso il quale era arrivata ad indicare la propria richiesta, compromettendo il diritto difensivo di formulare una congrua offerta transattiva e la possibilità della determinazione della competenza per valore. Con il secondo motivo di impugnazione la Fondiaria SAI e il Passoni lamentano inesatta valutazione delle risultanze istruttorie e mancato assolvimento dell’onere probatorio incombente sulla parte attrice. In particolare, secondo la parte appellante, il Giudice non aveva tenuto conto del fatto che il sinistro era stata occasione per il Puggioni di prendere in mano la propria vita, precedentemente condizionata dal padre e di plasmarla secondo le sue esigenze; inoltre il Giudice aveva ritenuto sussistere le condizioni per l’applicazione del c.d. punto pesante nonostante la forte riduzione dell’entità del danno biologico accertata dal C.t.u. (25% comprensivo di danno dentario e con esclusione di danno psichico). Gli appellanti si lamentano, poi, che il Tribunale abbia ritenuto provata la pratica di numerosi sports (incluso il karate) sulla base delle sole dichiarazioni rilasciate dal ricorrente al C.t.u., del tutto inidonee a formare prova a suo favore; per altro verso, secondo gli appellanti, non poteva essere attribuito valore alla mancata contestazione da parte sua delle avversarie allegazioni, sia perché la contestazione era stata estesa a tutto il quantum, sia perch é la contestazione del danno esistenziale alla vita di relazione era stata formulata in modo ampio, severo, costante e preciso, sia perché la parte convenuta aveva atteso il soddisfacimento dell’onere probatorio da parte del ricorrente, sia infine perché la parte convenuta non possedeva elementi per contestare ex ante – se non cadendo nel ridicolo - le avversarie richieste afferenti alla sfera individuale e privata di un ricorrente che non conosce. Nulla, poi, era stato adeguatamente provato in ordine al rapporto di lavoro in nero svolto dal Puggioni, al cui proposito le dichiarazioni del padre erano insufficienti e inattendibili, mentre il Giudice che pur aveva ritenuto implausibile la retribuzione riferita dal padre del Puggioni, aveva poi inammissibilmente supplito alle carenze probatorie con una valutazione di carattere equitativo, priva peraltro di basi idonee. Con il terzo motivo di impugnazione la Fondiaria SAI e il Passoni lamentano erronea valutazione dei danni, con loro moltiplicazione, in violazione degli insegnamenti impartiti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le note sentenze n.26972-26975 del’11.11.2008. In particolare gli appellanti si dolgono:

• della mancata liquidazione unitaria del danno non patrimoniale: • della suddivisione del danno non patrimoniale in differenti sottocategorie; • del non più consentito ricorso alla nozione di danno esistenziale come voce autonoma; • della conseguente moltiplicazione delle poste risarcitorie attuato con la sovrapposizione al danno biologico da

invalidità permanente e al danno biologico da invalidità temporanea del danno da sofferenza (nuovo termine impiegato per ridesignare il danno morale):

• del ricorso, in buona sostanza, al vecchio e superato sistema di liquidazione dei danni non patrimoniali, che aveva poi in concreto portato alla doppia liquidazione degli stessi pregiudizi sotto diverse etichette.

Con il quarto motivo gli appellanti principali lamentano che il Tribunale abbia stravolto gli insegnamenti delle Sezioni Unite in materia probatoria, sia con riferimento alla prova presuntiva della sofferenza, sia con riferimento alle osservazioni dei C.t.u. basate sulle mere dichiarazioni di parte attrice. In particolare gli appellanti rimarcano il mancato rispetto dell’art.115 c.p.c. e dell’art .2729 c.c., soprattutto con riferimento al rilievo ascritto alla mancata specifica contestazione di generiche affermazioni attoree. Con il quinto motivo la Fondiaria SAI e il Passoni censurano l’erronea liquidazione delle spese, effettuata sulla base di una integrale ravvisata soccombenza della parte convenuta, senza tener conto della forte riduzione del quantum, della mancata contestazione dell’an debeatur, dei numerosi versamenti effettuati in corso di procedimento. Si costituiva in giudizio l’appellato Puggioni, chiedendo il rigetto dell’appello proposto e per l’effetto l’integrale conferma della sentenza di primo grado. L’appellato proponeva altresì appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, censurata per aver disatteso la sua richiesta di risarcimento del danno biologico psichico e relativo danno non patrimoniale, da liquidarsi in misura non inferiore ad € 45.000,00. In particolare l’appellante incidentale rimprovera al Giudice di non aver colto i numerosi elementi di contraddizione che inficiavano la relazione del C.t.u. dott.Anglesio, messi in evidenza dalla relazione di c.t.p. del dott.Bosco e di non aver considerato l’intero periodo di tempo successivo al sinistro sino al giudizio di primo grado (sei anni), così incorrendo in

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vizio di motivazione non surrogato dal richiamo delle conclusioni adottate dai C.t.u. che non avevano tenuto conto delle contrarie allegazioni dei consulenti di parte. All’udienza del 29.5.2009 la causa veniva rinviata per la discussione al 5.10.2009. In tale udienza le parti discutevano oralmente la causa che, sulle conclusioni definitive sopra trascritte, veniva assegnata a decisione. La Corte decideva quindi la controversia a norma dell’art.437 c.p.c., dando pubblica lettura del sotto riportato dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di appello principale. Con il primo motivo di impugnazione la Fondiaria SAI e il Passoni lamentano l’erronea e insufficiente motivazione della sentenza in relazione alla proposta eccezione di nullità della domanda attorea. Gli appellanti osservano che la parte attrice, soprattutto nei procedimenti governati dal c.d. “rito del lavoro” é tenuta nella predisposizione del ricorso introduttivo al rispetto di un onere particolarmente severo nella capitolazione e nell’allegazione probatoria, che nella fattispecie non era stato soddisfatto dalle generiche allegazioni insufficienti ad esplicitare la domanda; rilevano inoltre gli appellanti che il Primo Giudice aveva esaminato l’eccezione preliminare solo con riferimento alla deduzione del danno esistenziale, trascurando i concorrenti profili del danno da interruzione del rapporto di lavoro e da perduta integrità estetica, per i quali, parimenti, l’eccezione era stata da loro sollevata. Inoltre – osservano ancora gli appellanti – il Tribunale, disattendendo precedenti giurisprudenziali dello stesso Ufficio Giudiziario, aveva affrancato la parte attrice dall’onere di indicare l’entità del quantum richiesto e financo da quello di esplicitare il procedimento attraverso il quale era arrivata ad indicare il proprio petitum, compromettendo il diritto difensivo di formulare una congrua offerta transattiva e la possibilità della preventiva determinazione della competenza per valore. 1.1. La doglianza di parziale omessa pronuncia. Innanzitutto la Corte ritiene necessario affrontare la doglianza di parziale omessa pronuncia prospettata da parte degli appellanti principali, secondo i quali il Tribunale avrebbe omesso di considerare l’eccezione di nullità che essi avevano sollevato anche con riferimento alla richiesta di risarcimento del danno da interruzione del rapporto di lavoro e da perduta integrità estetica, per concentrare le proprie attenzioni solo sull’analoga eccezione diretta alla richiesta di risarcimento del danno esistenziale. La doglianza non ha fondamento in punto di “fatto processuale”, perché il Tribunale ha correttamente inteso la portata dell’eccezione sollevata dai convenuti (cfr svolgimento del processo, a cavallo fra le pagine 2 e 3) e ha quindi esaminato, a pagina 4, l’eccezione proposta dai convenuti anche con riferimenti ai profili del danno conseguente all’interruzione del rapporto di lavoro in atto e alla difficoltà a reperire nuova occupazione connessa alla perduta integrità estetica (nonché in relazione alla difficoltà, psicologica, nel conseguimento della patente di guida), semplicemente considerando tali petizioni risarcitorie come concorrenti profili del dedotto “danno esistenziale” e non già quali voci di danno autonome. Sul punto è chiaro il pensiero del Giudice nel primo capoverso di pagina 4: “Ulteriore profilo del dedotto danno (c.d. esistenziale) viene indicato nella interruzione….”. Non si registra quindi alcuna omissione, seppur parziale, di pronuncia, ma semplicemente una diversa classificazione delle petizioni risarcitorie. L’eccezione di nullità è stata infatti esaminata dal Tribunale con riferimento a tutte le questioni in relazione alle quali era stata sollevata dalle parti resistenti. 1.2. Il rigetto dell’eccezione di nullità del ricorso introduttivo. In secondo luogo, la Corte non ritiene che il Tribunale abbia errato nel respingere l’eccezione di nullità del ricorso introduttivo sollevata dai resistenti con riferimento alle voci di danno esistenziale (comprensive dei profili inerenti la perdita dell’occupazione lavorativa e al disagio relazionale connesso al danno estetico). E’ pur vero che la parte attrice, nei procedimenti governati dal c.d. “rito del lavoro” é tenuta nella predisposizione del ricorso introduttivo al rispetto di un onere più severo nella capitolazione e nell’allegazione probatoria rispetto ai procedimenti ordinari, dal momento che la legge processuale impone al ricorrente di provvedere non solo all’indicazione dell’oggetto della domanda e all’esposizione dei fatti ed elementi di diritto sui cui la domanda si fonda, ma anche alla compiuta e specifica articolazione di tutti i mezzi di prova di cui intende valersi, senza che siano previste ulteriori scansioni processuali per l’emendatio libelli e la formulazione di ulteriori deduzioni istruttorie, consentite solo per gravi motivi. Tuttavia la giurisprudenza – giustamente attenta alla funzione del precetto - è consolidata nel ritenere che la nullità del ricorso introduttivo per la mancata indicazione dell’oggetto della domanda (petitum), ovvero per la mancata esposizione dei fatti ed elementi di diritto che fondano la pretesa (causa petendi), possa essere ravvisata solo allorché un (doveroso) esame complessivo dell’atto non consenta l’individuazione dell’esatta portata della pretesa attorea in pregiudizio dei diritti di difesa della parte convenuta:

• “Nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancanza di determinazione dell’oggetto della doman da o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda - ravvisabile solo quando attraverso l’esame complessivo dell’atto sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa - implica una interpretazione dell’atto introduttivo della lite riservata al giudice del merito, censurabile in cassazione solo per vizi di

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motivazione.”(Cassazione civile, sez. III, 14 marzo 2008, n. 6891; conformi Cassazione civile, sez. lav., 16 gennaio 2007, n. 820; Cass. sez. lav., 31 maggio 2006 n. 13005; Cass. sez. lav., 17 marzo 2005 n. 5879).

La Corte ritiene quindi, in conformità all’opinione già espressa dal Primo Giudice, che l’attore avesse indicato in termini sufficientemente precisi la tipologia e la consistenza dei danni che riteneva di aver subito e che andavano a comporre il pregiudizio c.d. “esistenziale” rivendicato, che era stato riferito all’impossibilità o alla difficoltà di proseguire nella pratica delle precedenti attività sportive (in particolare il karate), alla difficoltà di reintegrarsi nei normali rapporti sociali ad un livello di normalità, alla perdita del precedente posto di lavoro, alle difficoltà di reperire una nuova occupazione, anche in relazione al pregiudizio estetico, ai disagi psicologici nell’utilizzo dell’automobile e nel conseguimento della patente di guida. Giustamente il Tribunale ha ritenuto che l’indicazione di tali circostanze consentisse ampiamente alle parti convenute di articolare le loro difese in relazione al “bene della vita” in disputa, giacché erano stati loro prospettati gli elementi costitutivi del pregiudizio dedotto. Ed in effetti i convenuti si sono adeguatamente difesi sul punto, fra l’altro argomentando, anche in relazione alle deduzioni e alle produzioni attoree, circa l’insussistenza in concreto del pregiudizio esistenziale lamentato (cfr comparsa di risposta di primo grado, pag.5). 1.3. La necessità di indicazione del quantum e del percorso logico giustificativo della quantificazione dell’importo richiesto. Infine gli appellanti sostengono che il Tribunale aveva erroneamente esonerato la parte attrice dall’onere di indicare l’entità del quantum richiesto e di esplicitare il procedimento attraverso il quale era arrivata ad indicare il proprio petitum, fra l’altro disattendendo un importante precedente giurisprudenziale dello stesso Tribunale (Sezione 4°, Aiello /FS, sentenza 6802/00 del 7.6.2000, richiamata e ampiamente citata da parte resistente). 1.3.1. Il contenuto del dovere motivazionale. Giova premettere che il Giudice non è certamente tenuto ad esaminare e a motivare analiticamente il proprio dissenso rispetto ad ogni precedente giurisprudenziale, per giunta di merito, citato dalle parti, ben potendo limitarsi ad indicare, per giunta concisamente, le ragioni di fatto e di diritto della propria decisione. E ciò anche nel regime anteriore alla recente Novella del 2009 (legge 18.6.2009 n.69) che attraverso la revisione degli artt.132 e 118 disp.att. c.p.c., con l’obiettivo evidente di incrementare la rapidità delle decisioni giudiziarie, ha ulteriormente accentuato l’esigenza di sintesi nella motivazione, accontentandosi della “succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi.” A tale onere non si è sottratto il Giudice delle prime cure, che ha sostenuto l’irrilevanza ai fini dell’esercizio del diritto di difesa dell’indicazione della somma richiesta a titolo di risarcimento e dell’iter logico che ha condotto alla sua individuazione. 1.3.2. L’onere di quantificazione del risarcimento incombente sulla parte attrice. Tale affermazione è perfettamente corretta e condivisibile, giacché in materia di responsabilità aquiliana il danneggiato soddisfa i propri oneri di formulazione della domanda giudiziale con l’allegazione del fatto illecito e del pregiudizio antigiuridico subito e con la richiesta di risarcimento del danno (che, come è noto, si risolve in un credito di valore, che trova nell’attribuzione di una somma di denaro solo la sua espressione liquidativa per equivalente), senza che sia necessaria da parte sua, a pena di invalidità della domanda, l’indicazione della precisa somma richiesta a tal fine. Inoltre l’art.14 c.p.c. presuppone e implicitamente consente la proposizione di domande di carattere indeterminato, sancendo infatti, in tal caso, la presunzione di corrispondenza alla competenza del giudice adito:

• “La disposizione dell’art. 14, comma 2, c.p.c. - la quale, in ipotesi di contestazione proposta dal convenuto circa il valore della domanda, come dichiarato o presunto ai sensi del comma 1 dello stesso art. 14, consente al giudice di decidere al riguardo ai soli fini della competenza - opera esclusivamente nei casi di controversie aventi a oggetto cose mobili diverse dal denaro, mentre nessuna utile contestazione è ammessa relativamente alle cause aventi a oggetto pagamento di somme di denaro, dovendo in queste tenersi unicamente conto della somma indicata dalla parte con specificazione numerica ovvero con parametri di riferimento. (Nella specie l’attore aveva adito il tribunale, per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti a un sinistro stradale. Benché nella citazione avesse indicato i danni patiti al mezzo di sua proprietà in lire 1.473.000, nelle conclusioni rassegnate lo stesso attore aveva richiamato, tra i danni, il fermo tecnico, nonché tutti i danni nella misura risultata di giustizia. II tribunale adito aveva dichiarato la competenza del giudice di pace. In applicazione del principio di cui sopra, in sede di reg olamento di competenza, la Suprema Corte ha dichiarato la competenza del tribunale, poiché la clausola sopra indicata - in assenza di specifica dichiarazione di contenimento - ha la portata di togliere valore, ai fini della richiesta del risarcimento richiesto, a un’indicazione di somma riferita nella narrativa dell’atto introduttivo, evidenziando - altresì - che la scelta di impostare una domanda in modo da consentire di accedere a un giudice diverso da quello cui la domanda andrebbe in realtà proposta in ragione dell’effettivo ammontare del danno subito e della somma che gli potrà essere riconosciuta per il suo risarcimento può risultare foriero di conseguenze per l’attore sul piano del diritto al rimborso delle spese processuali).”(Cassazione civile, sez. I, 5 novembre 2008, n. 26577);

• “In tema di determinazione della competenza per valore, nell’ipotesi in cui una domanda di risarcimento danni venga proposta avanti al giudice di pace con la richiesta della condanna della controparte al pagamento di un importo indicato in una somma inferiore (o pari) al limite della giurisdizione equitativa del giudice di pace ovvero della somma maggiore o minore che risulti dovuta all’esito del giudizio, la formulazione di questa seconda richiesta alternativa non può essere considerata - agli effetti dell’art. 112 c.p.c. - come meramente di stile, in quanto essa (come altre consimili), lungi dall’avere

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un contenuto meramente formale, manifesta la ragionevole incertezza della parte sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi e ha lo scopo di consentire al giudice di provvedere alla giusta liquidazione del danno senza essere vincolato all’ammontare della somma determinata che venga indicata nelle conclusioni specifiche. Ne discende che la suddetta richiesta alternativa si risolve in una mancanza di indicazione della somma domandata, con la conseguenza che la domanda, ai sensi della seconda proposizione dell’art. 14 c.p.c., si deve presumere di valore eguale alla competenza del giudice adito e che, ai sensi del comma 3 della stessa norma, in difetto di contestazione da parte del convenuto del valore così presunto, quest’ultimo rimane “fissato, anche agli effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito”, cioè nel massimo della competenza per valore del giudice di pace sulla tipologia di domande fra cui rientra quella proposta. (Sulla base di tale principio la S.C. ha ritenuto che correttamente la sentenza di primo grado fosse stata appellata ed ha disatteso il motivo di ricorso che sosteneva il mancato rilievo da parte del giudice d’appello della pretesa inappellabilità).”(Cassazione civile, sez. III, 11 luglio 2006, n. 15698).

V’è da aggiungere che le argomentazioni, pur elegantemente esposte nella sentenza 6802 del 2000 del Tribunale di Torino, citata dalle parti appellanti e ignorata dal Giudicante di prime cure, sembrano improntate a rilievi di opportunità e a considerazioni latu sensu di politica giudiziaria, senza correlarsi ad argomenti tecnico giuridici e a riferimenti normativi pregnanti. 1.3.3. Le ulteriori argomentazioni rafforzative esposte da parte appellante. Non hanno pregio, infine, le ulteriori considerazioni esposte dalle parti appellanti a sostegno della propria tesi. Da un lato, infatti, sia la mancata indicazione del quantum risarcitorio, sia la mancata disaggregazione del quantum richiesto per singole sottovoci, sia, per concludere, la mancata indicazione del percorso mentale che ha condotto alla quantificazione richiesta non risultano elementi atti a compromettere il diritto difensivo della controparte (e men che meno di una controparte professionalmente organizzata per la gestione di controversie in materia di risarcimento del danno da sinistro stradale) di formulare una congrua offerta transattiva, purché beninteso siano stati compiutamente allegati e dedotti i lineamenti caratterizzanti i pregiudizi lamentati. Né certamente potrebbe rappresentare una dimostrazione di tale difficoltà la circostanza dei versamenti risarcitori progressivamente effettuati in corso di causa ed ex adverso trattenuti in acconto (citata dalla difesa di Fondiaria SAI in sede di discu ssione orale), che appare del tutto neutra e suscettibile delle più svariate spiegazioni, comprese quelle del tutto estranee al tema della difficoltà di lettura della quantificazione del danno. Non persuade neppure l’argomentazione di parte appellante relativa alla pretesa impossibilità della preventiva determinazione della competenza per valore, sia in riferimento alla presente controversia, palesemente e senz’ombra di dubbio rientrante nella competenza del Tribunale, sia anche solo in astratto, tenuto conto dell’esistenza del criterio legale presuntivo fissato dall’art.14 c.p.c. Nella specie, poi, tutto il discorso sopra illustrato si rivela del tutto teorico, dal momento che il ricorrente aveva indicato le somme richieste a titolo risarcitorio, sia complessivamente, sia per singola voce di danno (o sottovoce o, se si preferisce, più modernamente, sintesi descrittiva di pregiudizi) prospettata e aveva mancato semplicemente di enucleare all’interno della complessiva voce o sottovoce del danno richiesto sotto l’etichetta di “esistenziale” gli importi proposti con riferimento ai vari concorrenti profili di pregiudizio esistenziale allegato (compromissione dello stile di vita, della pratica sportiva, della realizzazione attraverso il lavoro….), limitandosi a proporre una somma onnicomprensiva (€ 100.000 a tale titolo). Nessuna nullità era pertanto lecito ravvisare nella mancata valorizzazione separata dei singoli profili di pregiudizio allegato, avendo la parte istante soddisfatto i propri oneri con l’allegazione delle circostanze di fatto e la proposizione della petizione risarcitoria, oltretutto quantificata, almeno complessivamente, e quantificata inoltre anche per sommarie disaggregazioni delle varie sottovoci di sintesi del pregiudizio patito. 2. Il secondo motivo di appello principale. Con il secondo motivo di impugnazione la Fondiaria SAI e il Passoni lamentano l’inesatta valutazione compiuta in sentenza circa le risultanze istruttorie e il mancato assolvimento dell’onere probatorio incombente sulla parte attrice. 2.1. La tesi del ribaltamento esistenziale favorito dal sinistro. In particolare, secondo le parti appellanti, il Giudice non aveva tenuto conto del fatto che il sinistro era stata l’occasione per il Puggioni di prendere in mano la propria vita, precedentemente condizionata dal padre, e di plasmarla secondo le sue esigenze; inoltre il Giudice aveva ritenuto sussistere le condizioni per l’applicazione del c.d. punto pesante nonostante la forte riduzione dell’entità del danno biologico accertata dal C.t.u. (25% comprensivo di danno dentario e con esclusione di danno psichico). La prima affermazione è chiaramente inconsistente e per giunta francamente implausibile. Il fatto che dopo (e nonostante) il sinistro il Puggioni abbia “trovato il coraggio di sottrarsi al pressante controllo paterno per recarsi all’estero (Spagna)”, abbia convissuto con una ragazza brasiliana, divenuta la sua fidanzata, abbia trovato un lavoro in un supermercato, e poi sia andato a vivere con la fidanzata presso l’anziana nonna, gravemente malata, provvedendo ad accudirla, non può essere letto, come sembrano proporre le parti appellanti, con una certa disinvoltura (non rimasta esente da piccate reazioni ex adverso) e totalmente senza ombra di prova, come una conseguenza dell’incidente, quasi come un effetto positivo da considerare a titolo, per così dire, di “compensatio lucri cum damno”, se non adottando un inaccettabile criterio di causalità basato esclusivamente sul “post hoc, propter hoc”.

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Le circostanze storiche sopra menzionate rappresentano, all’evidenza, normali vicende dell’evoluzione della vita di un giovane attraverso varie esperienze di autonomia, lavoro e relazioni sentimentali e personali e non vi è nessuna ragione di pensare che non sarebbero maturate se il Puggioni non fosse stato investito e gravemente menomato nella propria integrità fisica, come è purtroppo avvenuto. Il rimprovero mosso al Giudice di non aver tenuto conto di tali circostanze, che in tesi avrebbero dovuto ispirare una riduzione della quantificazione del danno, non può pertanto essere in alcun modo condiviso. 2.2. La quantificazione percentuale del danno biologico. Le ulteriori considerazioni prospettate dalle parti appellanti in punto quantificazione del danno biologico permanente per criticare la decisione adottata dal Tribunale non appaiono pertinenti. Il fatto che le risultanze della c.t.u. esperita abbiano portato a un drastico contenimento del danno fisico con il riconoscimento di una invalidità permanente del 25 % a fronte di una richiesta attorea del 41% (comprensiva del danno dentario) e con l’esclusione della sussistenza di un danno psichico riconducibile al sinistro (ripetutamente richiesto ex adverso) non appare in alcun modo rilevante ai fini dell’opportuno apprezzamento e della liquidazione corretta del danno biologico effettivamente sussistente e semmai può in qualche modo assumere rilievo in sede di regolazione delle spese processuali. La censura in ordine alla liquidazione per così dire “basale” di € 2.500 per ogni punto di danno biologico, tenuto conto dell’età (24 anni) dell’infortunato risulta del tutto generica, mentre il valore applicato del punto appare del tutto conforme ai parametri tabellari all’epoca adottati dal Tribunale di Torino, tenuto conto delle caratteristiche del politrauma patito e del quadro clinico stabilizzato e non suscettibile di evoluzioni meliorative accertato dai C.t.u. La liquidazione basale è stata poi maggiorata dal Giudice del 20%, avvalendosi della facoltà di variazione prevista dalla tabella applicata ai fini dell’opportuna personalizzazione del risarcimento per tener conto sia dei riflessi estetici delle plurime fratture del massiccio facciale (incidenti negativamente anche sulle funzioni masticatorie), sia dei riflessi da disagio e sovraffaticamento prodotti dalle menomazioni interessanti l’arto inferiore destro nello svolgimento di attività lavorative richiedenti stazionamento eretto protratto, prolungata deambulazione e ripetuti movimenti di flesso-estensione sugli arti inferiori. La Corte osserva ancora, per amor di completezza, che nessuna contestazione (dall’una o dall’altra parte) è stata sollevata circa l’applicazione della tabella dei criteri di liquidazione del danno biologico seguita, sino alla primavera del 2009 dal Tribunale di Torino, e solo recentemente abbandonata (dal giugno 2009) per aderire alla analoga tabella elaborata dall’Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano e approvata dagli Uffici Giudiziari Lombardi (nonché applicata in ampie zone del territorio nazionale). Al proposito occorre tener presente il consolidato principio secondo cui il Giudice non incontra alcun vincolo di carattere territoriale nell’adozione dei criteri predeterminati e standardizzati per la liquidazione del danno biologico e deve semplicemente dar conto in motivazione dei parametri seguiti nel l’autoregolare il proprio potere equitativo di liquidazione (beninteso laddove ratione temporis o ratione materiae non siano stati prefissati criteri legali vincolanti per la liquidazione):

• “Nella liquidazione de danno biologico, il giudice può decidere secondo equità sulla base di una attenta analisi di tutte le circostanze del caso concreto, valutando elementi quali la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l’età, le condizioni sociali e familiari del danneggiato e l’attività da questi espletata, nonché, facendo riferimento anche a criteri predeterminati e standardizzati, come quello che assume a parametro il valore medio del punto di invalidità calcolato sulla media dei precedenti giudiziari (le cd. “ tabelle”). In quest’ultimo caso, il giudice non è vincolato all’adozione della tabella in uso presso il proprio ufficio giudiziario ma può, motivando le ragioni della sua scelta, far riferimento anche a tabelle adottate da altri uffici.”(Cassazione civile, sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20323).

2.3. La questione della pratica del karate da parte dell’attore. Lamentano inoltre gli appellanti che il Tribunale aveva ritenuto provata la pratica di numerosi sports (incluso il karate) sulla base delle sole dichiarazioni rilasciate dal ricorrente al C.t.u., del tutto inidonee a formare prova a suo favore; per altro verso, secondo gli appellanti, non poteva essere attribuito valore alla mancata contestazione da parte loro delle avversarie allegazioni, sia perché la contestazione era stata estesa a tutto il quantum, sia perché la contestazione del danno esistenziale alla vita di relazione era stata formulata in modo ampio, severo, costante e preciso, sia perché la parte convenuta aveva atteso il soddisfacimento dell’onere probatorio da parte del ricorrente, sia infine perché la parte convenuta non possedeva elementi per contestare ex ante – se non cadendo nel ridicolo- le avversarie richieste afferenti alla sfera individuale e privata di un ricorrente che non conosce. La pregressa pratica sportiva (e in particolare la pratica del karate) da parte del Puggioni è stata oggetto di considerazione da parte del Giudice nel punto 3 (“Danno da sofferenza”) del paragrafo A), dedicato al danno non patrimoniale, nel contesto di una valutazione complessiva di una serie di diversi pregiudizi: la sofferenza derivante dalla percezione costante e rinnovata nel tempo della propria inabilità fisica, la perdita delle gratificazioni lavorative, la perdita della possibilità di praticare lo sport del karate, la lunga durata della malattia temporanea e la sofferenza per le cure odontoiatriche passate e future (cfr sentenza impugnata, pag.12-13), elementi tutti che hanno indotto una valutazione della consistenza di tale pregiudizio pari ad € 48.000,00 (circa i 3/5 del danno biologico complessivo). Il punto è se il Giudice poteva considerare provata - o comunque non bisognevole di prova perché non contestata - la circostanza della pratica sportiva pregressa del karate da parte del Puggioni. 2.3.1. I principi in tema di onere della prova.

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Al riguardo occorre considerare che in tema di onere della prova le quattro sentenze gemelle 26972/26975 del 2008 sono indubbiamente rimaste nel solco del consolidato indirizzo interpretativo costantemente seguito dalla Corte di Cassazione; la Suprema Corte ha ribadito infatti il suo costante insegnamento secondo il quale è il soggetto richiedente il risarcimento del danno non patrimoniale ad essere gravato dall’onere della prova di aver subito il pregiudizio dedotto (ai sensi della regola generale in tema di fatti costitutivi contenuta nell’art.2697 c.c.). Il Supremo Collegio, peraltro, ha temperato il rigore del principio, rammentando che a tal fine il danneggiato può giovarsi di ogni mezzo di prova, non ultima la prova presuntiva, ex art.2729 c.c. , che, come la più recente giurisprudenza non si stanca di ripetere come un vero e proprio leit -motiv, non può esser vista come uno strumento ancillare e subalterno nella gerarchia delle fonti di prova ma costituisce un mezzo di pari dignità degli altri, il cui campo di esplicazione in tema di prova del danno (e in particolare in tema di reazioni soggettive e psicologiche della persona offesa) risulta invece assai ampio. Si legge infatti nella sentenza delle Sezioni Unite: “Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.” Nello stesso senso, e solo per citare alcune importanti e chiare pronunce, espressive dell’orientamento ricordato: Cassazione civile, sez. III, 3 aprile 2008, n. 8546; sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1203; sez. lav., 26 marzo 2008, n. 7871, nonché da ultimo la recentissima Cass.civ. sez.III°, 13.5.2009 n.11059 (caso “Seveso”) che ha puntualizzato che “….. la sentenza è del tutto conforme a diritto dove afferma che il danno non patrimoniale consistente nel patema d’animo e nella sofferenza interna ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza del verificarsi dell’altro secondo criteri di regolarità causale.” A tale risultato, caratterizzato dalla attribuzione dell’onere probatorio al danneggiato, la Suprema Corte perviene, in modo pressoché necessitato, per l’intento di evitare il riconoscimento di danni punitivi, reputati categoria giuridica incompatibile con il nostro ordinamento, risultato pratico in cui finirebbe con il risolversi il riconoscimento del danno per così dire in re ipsa, quale connotazione strutturalmente indissolubile dal fatto stesso della lesione del diritto. Il retro-pensiero dogmatico emerge con chiarezza, anche letterale, in alcune pronunce della Suprema Corte; ad esempio:

• “Nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseg uente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso né il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro; ne consegue che, pure nelle ipotesi di danno in re ipsa, in cui la presunzione si riferisce solo all’an debeatur (che presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit) e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale, permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario.”(Cassazione civile, sez. II, 12 giugno 2008, n. 15814; conformi sez. II, 27 ottobre 2008, n. 25849; sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20987; sez. III, 4 luglio 2007, n. 15131; sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183; sez. III, 8 novembre 2006, n. 23865).

2.3.2. L’onere di contestazione in generale. Un notevole rilievo ai fini del soddisfacimento dell’onere della prova può essere riconosciuto anche all’onere di contestazione che secondo la più moderna giurisprudenza grava sulla parte convenuta in ordine ai fatti costitutivi ex adverso allegati. A tale approdo la giurisprudenza di legittimità è pervenuta anche con riferimento al testo dell’art.167 c.p.c. (come sostituito dalla Novella del 1990) che, per vero, si limita ad esigere dal convenuto la proposizione di tutte le sue difese e la presa di posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda; a maggior ragione le stesse considerazioni debbono valere, come sono storicamente valse, con riferimento al rito del lavoro, che responsabilizza in modo ancor più penetrante il convenuto, imponendogli (con il terzo comma dell’art.416 c.p.c.) di “prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”. Tali norme, che non contemplavano espressamente alcuna decadenza o sanzione per il convenuto che avesse omesso di prender posizione in maniera precisa sui fatti affermati dall’attore ricorrente, in passato venivano tradizionalmente lette nel senso che i fatti affermati dall’attore non potessero essere ritenuti affrancati dalla prova a carico del deducente; a maggior ragione tali considerazioni valevano per il giudizio ordinario laddove non era neppure previsto l’onere di una contestazione precisa e specifica. La giurisprudenza pertanto riteneva che i fatti non controversi (esclusi dal thema probandum), fossero solo quelli esplicitamente ammessi ex adverso o almeno quelli logicamente implicati dalle difese svolte dalla controparte che avesse

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impostato le proprie difese su argomenti logicamente inconciliabili con la loro negazione; pertanto tanto il silenzio, quanto, a fortiori, la contestazione generica, non eliminavano di per sé il carattere controverso del fatto dedotto. Tuttalpiù la mancata contestazione poteva essere considerata come argomento di prova ex art.116, comma 2, c.p.c. o quale argomento integrativo nell’ambito di una più complessiva valutazione probatoria. La giurisprudenza ha mutato indirizzo a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite 23.1.2002 n.761, evolvendosi soprattutto in relazione al principio costituzionale della ragionevole durata del processo e finendo con l’assumere che la non contestazione di un fatto primario (ossia di un fatto giuridico costitutivo della fattispecie relativa al diritto azionato) dedotto dalla controparte, comporta l’espunzione di tale fatto dal novero di quelli controversi e bisognosi di prova, mentre la non contestazione dei fatti secondari (ossia le circostanze dalla cui prova sia possibile desumere la sussistenza dei fatti primari) può essere valorizzata soltanto ai sensi dell’art.116, comma 2, c.p.c. In siffatta evoluzione giurisprudenziale, l’onere di contestazione ed il correlativo corollario del dovere del Giudice di ritenere non bisognoso di prova quanto non espressamente contestato vengono considerati veri e propri principi generali che informano il sistema processuale civile, ch e poggia le proprie basi non soltanto sul tenore degli art. 167 e 416 c.p.c., ma anche e soprattutto:

• sul carattere dispositivo del processo caratterizzato da una struttura dialettica a catena, • sulla generale organizzazione per preclusioni successive che connota il sistema processuale, • sul dovere di lealtà e probità, scaturente dall’art. 88 c.p.c. (che impone a entrambe di collaborare fin dalle

prime battute a circoscrivere la materia realmente controversa, senza atteggiamenti volutamente defatiganti, ostruzionistici o solo negligenti),

• infine, sul generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 della Costituzione

In sostanza, per la moderna giurisprudenza della Suprema Corte, la non contestazione dei fatti primari li rende dimostrati in modo vincolante per il Giudice, non potendosi ritenere neutro il silenzio serbato dalla controparte sul punto. Ovviamente, peraltro, é necessario che tali fatti primari siano esposti in modo completo ed esaustivo, soprattutto quanto al c.d. rito del lavoro connotato da quel regime di circolarità fra gli oneri di allegazione, contestazione e prova, su cui pone l’accento la difesa degli appellanti:

• “L’art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti. Tuttavia, in tanto può porsi il problema della contestazione del fatto ed assumere rilievo la non contestazione - quale indice, in positivo e di per sè, di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto - in quanto l’allegazione del fatto, con tutti gli elementi costituenti il suo contenuto variabile e complesso, risulti connotata da precisione specificità, tali da renderla conforme al modello postulato dalla regola legale o contrattuale per l’attribuzione del diritto; altrimenti, il fatto resta, per ciò stesso, estraneo al potere - dovere di contestazione, atteso il collegamento con quello di allegazione (di cui costituisce riflesso processuale) posto dal citato art. 167 c.p.c., e la sua omessa deduzione (nella estensione dovuta) lo restituisce interamente al “thema probandum” come disciplinato dall’art. 2697 c.c.”(Cassazione civile, sez. I, 8 aprile 2004, n. 6936).

Pertanto la giurisprudenza ormai ritiene che l’art. 167, comma 1, c.p.c. e l’art.416, comma 3, c.p.c. abbiano introdotto (per i giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della l. n. 353 del 1990) l’onere di specifica contestazione dei fatti ex adverso esposti e impongano così al convenuto di prendere posizione su fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, con la conseguenza che tali fatti, ove non specificamente contestati, debbano essere considerati incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione (Cassazione civile, sez.trib. 24 gennaio 2007 n.1540; sez.lav.2 maggio 2007, n.10098; sez.lav. 3 maggio 2007 n.10181; sez.III 25 maggio 2007 n.12231; sez. I 15 novembre 2007 n.23638; sez.I, 27 febbraio 2008 n.5191; sez. III 21 marzo 2008 n.7697; sez. III, 25 maggio 2007, n. 12231; sez. III, 6 febbraio 2004, n. 2299; SS.UUU., 23 gennaio 2002, n. 761). Ad esempio, recentemente:

• “Il convenuto a norma dell’art. 416 c.p.c., nel rito del lavoro (e, non diversamente, a norma dell’art. 167 c.p.c., nella nuova formulazione, nel rito ordinario), nella memoria di costituzione in primo grado «deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, proponendo tutte le sue difese in fatto e in diritto ...»; nel caso in cui il convenuto nulla abbia eccepito in relazione a tali fatti, gli stessi devono considerarsi come pacifici sicché l’attore è esonerato da qualsiasi prova al riguardo ed è inammissibile la contestazione dei medesimi fatti in sede di legittimità. (Principio affermato dalla S.C. in una causa relativa al rilascio di un immobile locato in cui l’attore-locatore aveva dedotto nell’atto introduttivo del giudizio, in primo grado, di aver inviato tempestiva e formale disdetta al convenuto-conduttore e quest’ultimo non aveva eccepito alcunché in ordine a tale circostanza).”(Cassazione civile, sez. III, 3 luglio 2008, n. 18202);

• “A norma del puntuale precetto di cui all’art. 416, comma 3, c.p.c., nel rito del lavoro (come, del resto, anche nel rito ordinario, a seguito della nuova formulazione dell’art. 167 c.p.c.), il convenuto, nella memoria di costituzione in primo grado “deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, proponendo tutte le sue difese in fatto e in diritto...”. Deriva da quanto precede, pertanto, che qualora l’attore-concedente abbia esposto, nel ricorso introduttivo, che i rapporti di affitto “inter partes” hanno avuto inizio in un certo periodo (nella specie prebellico), è onere del convenuto-conduttore non limitarsi a contestare, genericamente, quanto

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affermato dall’attore, ma prendere posizione in maniera precisa, tra l’altro, circa la data di inizio del rapporto. È onere dei convenuti, infatti, opporre - offrendo al riguardo le prove del caso - che in realtà il rapporto ha avuto inizio in altra data, puntualmente, indicata nella stessa memoria e dedurre, di conseguenza che non trovava applicazione l’art. 2, lett. a), l. 3 maggio 1982 n. 203, ma altra previsione, o dedurre, alternativamente, di essere nel godimento dei fondi di proprietà dell’attrice in forza di altro, puntualmente descritto, titolo giuridico. (Nella specie, in applicazione del principio di cui sopra, la Suprema Corte, accertato che le difese del convenuto si erano esaurite nella mera generica contestazione dei fatti invocati da controparte ha affermato che correttamente i giudici del merito, sulla base di tale circostanza, nonché di tutti gli altri elementi probatori puntualmente e analiticamente indicati in sentenza, avessero ritenuto che in realtà i contratti “inter partes” erano sorti nell’epoca indicata dalla ricorrente nel ricorso introduttivo con conseguente applicabilità, alla fattispecie, della disciplina di cui al sopra ricordato art. 2, lett. a) l. 3 maggio 1982 n. 203).”(Cassazione civile, sez. III, 21 maggio 2008, n. 13081);

• “Nel caso in cui il fatto costitutivo del diritto si connoti per la concomitante ricorrenza di più circostanze, occorre che la contestazione del convenuto esplicitamente si appunti su una o più caratteristiche del fatto costitutivo complesso, essendo altrimenti priva della specificità necessaria a radicare, per un verso, l’onere dell’altra parte di offrire la prova, e, per altro verso, il dovere del giudice di procedere ad uno specifico esame. (Nella specie, rilevato che la qualità di affittuario coltivatore diretto di cui all’art. 6 della legge n. 203 del 1982 richiede sia la coltivazione del fondo col lavoro proprio e della propria famiglia sia che la forza lavorativa costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, la S.C. ha ritenuto che, a fronte dell’affermazione di chi si dichiari coltivatore diretto, rappresentando anche di essere iscritto alla relativa confederazione e di aver sempre coltivato la terra, l’affermazione del convenuto che l’attore ha l’onere di provare la sua qualità di coltivatore diretto non equivale a contestazione del fatto, risolvendosi nel generico richiamo della regola di cui all’art. 2697 c.c., inidoneo ad integrare la contestazione imposta dall’art. 167 c.p.c., nella lettura ermeneutica datane dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 761 del 2002).”(Cassazione civile, sez. III, 21 maggio 2008, n. 13079);

• “L’art. 167, comma 1 c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione in comparsa di risposta sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, dà della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato o dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti. In altri termini la mancata contestazione, a fronte di un onere implicitamente imposto dal dettato legislativo rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto e quindi rende inutile provarlo, perché non controverso.”(Cassazione civile, sez. III, 21 maggio 2008, n. 13078);

• “L’onere di specifica contestazione, introdotto, per i giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della l. n. 353 del 1990, dall’art. 167, comma 1, c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, comporta che i suddetti fatti, qualora non siano contestati dal convenuto, debbono essere considerati incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione (nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di accertamento dell’esistenza di una servitù di passaggio sul rilievo che gli attori non avevano allegato alcun fatto costitutivo del diritto stesso, senza tenere in adeguata considerazione che l’esistenza del diritto non era stata contestata dai convenuti e che l’unico oggetto del giudizio consisteva nello stabilirne l’estensione e le modalità di esercizio).”(Cassazione civile, sez. II, 20 novembre 2008, n. 27596);

• “L’art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti.”(Cassazione civile, sez. III, 5 marzo 2009, n. 5356).

E’ bene precisare che tale onere incombe solo sulla parte costituita, giacché la non contestazione, che ha per oggetto i fatti costitutivi della domanda e non quelli dedotti in esclusiva funzione probatoria, si risolve in un atteggiamento di non negazione responsabile e scaturisce dalla volontà oggettivamente risultante della parte; tale atteggiamento deve essere pertanto inequivocabile e non può ravvisarsi né in caso di contumacia del convenuto; espressamente nel senso della irrilevanza della contumacia quale atteggiamento di non contestazione: Cassazione civile, sez. lav., 28 novembre 2003, n. 18263; sez. lav., 3 maggio 2007, n. 10182; per altro verso non soddisfa l’onere di contestazione una contestazione meramente generica e formale (Cassazione civile, sez. lav., 2 maggio 2007, n. 10098). Da ultimo:

• “L’esclusione dei fatti non contestati dal “thema probandum” non può ravvisarsi in caso di contumacia del convenuto, in quanto la non negazione fondata sulla volontà della parte non può presumersi per il solo fatto del non essersi la stessa costituita in giudizio, non essendovi un onere in tal senso argomentabile dal sistema; pertanto, al convenuto, costituitosi in appello, non è precluso contestare i fatti costitutivi e giustificativi allegati dall’attore a sostegno della domanda.”(Cassazione civile, sez. III, 23 giugno 2009, n. 14623).

Occorre aggiungere che l’ultima riforma del processo civile introdotta dalla legge n.69 del 18.6.2009 ha ulteriormente rafforzato l’approdo interpretativo a cui era pervenuta la Suprema Corte, sancendo nel nuovo testo dell’art.115, 1° comma, c.p.c. – con affermazione di un principio generale - che il giudice deve porre a fondamento della decisione, oltre alle prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero, i “fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”.

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2.3.3. Particolarità circa la portata dell’onere di contestazione con riferimento alle deduzioni di fatti non comuni alla controparte. Se la parte attrice allega in citazione (o, come nella fattispecie, in ricorso) di aver subito una forte sofferenza psicologica per aver dovuto necessariamente abbandonare un amato hobby, dianzi esercitato con passione, ovvero uno sport agonistico, precedentemente praticato a eccellenti livelli, e la controparte costituita non contesta tale affermazione in comparsa di risposta, potrebbe ritenersi che l’attore sia esonerato dalla prova dell’attività precedente e delle sue reazioni negative, purché – ovviamente – l’impossibilità di dedicarsi all’hobby o di praticare lo sport risulti tecnicamente accertata. In senso contrario si obietta: a) che la parte attrice (specie laddove sia applicabile il c.d. rito del lavoro, come nella materia dei sinistri stradali, prima

della recentissima abrogazione, inefficace peraltro nei confronti dei giudizi in corso) é astretta da un onere particolarmente severo in punto capitolazione e/o allegazione probatoria;

b) che a tal fine non sarebbero sufficienti frasi del tutto generiche (qualificabili come mere considerazioni difensive); c) che sussiste una necessaria circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, sicché il

convenuto ha l’onere di contestare specificamente solo a fronte di una specifica allegazione avversaria; d) che la parte convenuta non ha normalmente modo di contestare specificamente ex ante le avversarie deduzioni che

attengono alla sfera personalissima, individuale e privata, sicché non può che limitarsi a contestare il fatto e chiedere alla controparte di fornire la prova relativa;

e) che la mancanza di una specifica contestazione, inattuabile ed inesigibile, non sottintende quindi quell’accordo tacito sulla verità del fatto, che circoscrive la res controversa in modo da vincolare il Giudice ed escludere l’applicabilità della regola dell’onere probatorio ex art.2697 c.c.

Tali considerazioni appaiono indubbiamente di estremo interesse, e stimolano una serie di reazioni e interrogativi. In particolare:

• la parte attrice nel richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale é tenuta ad allegare in modo puntuale e specifico il pregiudizio patito (indubbiamente attinente la sfera privata e personale) e quindi a capitolare i fatti storici rilevanti ai propri fini e quindi anche quelli idonei a dimostrare in via presuntiva i propri assunti circa i fenomeni psicologici?

• la natura della deduzione può esonerare il convenuto dall’onere di specifica contestazione? • poiché solo raramente il convenuto sarà in grado di controdedurre fatti specifici nel contestare le attoree

specifiche allegazioni, dovrà sempre negarle formalmente per contribuire a circoscrivere il thema probandum?

• per esempio, quindi se l’attore sostiene in atto introduttivo che prima delle lesioni di cui é stato vittima praticava a buon livello una disciplina sportiva e di averla poi dovuta abbandonare completamente, il convenuto deve prender posizione specifica anche su quel fatto, negandone, almeno, la veridicità, con la conseguenza che, in difetto, l’attore non sarà tenuto alla prova rigorosa della circostanza?

Secondo la Corte la risposta a questi interrogativi deve prender le mosse dalla risposta, sicuramente positiva, che occorre fornire al primo interrogativo, di cui non è più consentito dubitare nel quadro della risistemazione dell’intera materia del danno non patrimoniale conseguente alle quattro sentenze gemelle del 2008. Infatti è ben chiaro e indiscutibile la parte attrice nel richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale é tenuta ad allegare in modo puntuale e specifico il pregiudizio patito (che di sovente riguarda proprio la sfera privata e personale) e quindi a capitolare i fatti storici rilevanti ai propri fini. Se così è, la logica dialettica che informa il principio del contraddittorio, nella sua moderna lettura (ulteriormente rafforzata, se non altro a livello interpretativo e sistematico, dalla Novella del 2009 con le modifiche apportate all’art.115 c.p.c. con l’intento di generalizzare un principio già riconosciuto nella giurisprudenza) e i correlativi oneri delle parti di prender specifica posizione sulle avversarie deduzioni al fine di collaborare attivamente alla delimitazione del thema probandum, anche nella prospettiva superiore e pubblicistica della realizzazione di un giusto – in quanto rapido – processo ex art.111 Cost., pretendono da parte del convenuto la contestazione del fatto dedotto dall’attore, con un coefficiente di specificità parametrato a quello che caratterizza l’allegazione attorea, senza la quale il fatto, primario, dedotto va ritenuto non contestato e quindi non bisognoso di prova. Tale intima correlazione è stata accuratamente sottolineata dalla Suprema Corte nel suo più recente intervento:

• “L’art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso da controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunga il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti. Il riferito difetto di contestazione, se concerne fatti costitutivi dei diritto si coordina al potere di allegazione dei medesimi e partecipa della sua natura, sicché simmetricamente soggiace agli stessi limiti apprestati per tale potere. In altre parole, considerato che la identificazione del tema decisionale dipende in pari misura dall’allegazione e dall’estensione delle relative contestazioni, risult erebbe intrinsecamente contraddittorio ritenere che un sistema di preclusioni in ordine alla modificabilità di un tema siffatto operi poi diversamente rispetto all’uno o all’altro dei fatti di identificazione.”(Cassazione civile, sez. III, 5 marzo 2009, n. 5356).

Non è sufficiente per contrastare l’operatività del principio e le sue conseguenze, invocare, semplicemente, le norme in tema di distribuzione degli oneri probatori e quindi, in particolare, l’art.2697 c.c. Ha osservato al proposito la Suprema Corte :

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“Nel caso in cui il fatto costitutivo del diritto si connoti per la concomitante ricorrenza di più circostanze, occorre che la contestazione del convenuto esplicitamente si appunti su una o più caratteristiche del fatto costitutivo complesso, essendo altrimenti priva della specificità necessaria a radicare, per un verso, l’onere dell’altra parte di offrire la prova, e, per altro verso, il dovere del giudice di procedere ad uno specifico esame. (Nella specie, rilevato che la qualità di affittuario coltivatore diretto di cui all’art. 6 della legge n. 203 del 1982 richiede sia la coltivazione del fondo col lavoro proprio e della propria famiglia sia che la forza lavorativa costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, la S.C. ha ritenuto che, a fronte dell’affermazione di chi si dichiari coltivatore diretto, rappresentando anche di essere iscritto alla relativa confederazione e di aver sempre coltivato la terra, l’affermazione del convenuto che l’attore ha l’onere di provare la sua qualità di coltivatore diretto non equivale a contestazione del fatto, risolvendosi nel generico richiamo della regola di cui all’art. 2697 c.c., inidoneo ad integrare la contestazione imposta dall’art. 167 c.p.c., nella lettura ermeneutica datane dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 761 del 2002)”(Cassazione civile, sez. III, 21 maggio 2008, n. 13079). La Corte ritiene che, almeno in linea generale, la validità di tale principio non patisca deroga in relazione al carattere intrinseco del fatto dedotto: la regola è applicabile anche relativamente al fatto “non comune” alle parti e financo al fatto proprio e personale della parte deducente. Le norme sulla prova testimoniale (art.244 e segg.) e sulla confessione giudiziale e sull’interrogatorio formale (artt.228-232 c.p.c.) contenute nel Codice di rito (al pari di quelle contenute nel Codice sostanziale (artt.2721-2726, artt 2730-2735 c.c.) non attribuiscono alcun rilievo alla comunanza o meno alle parti del fatto dedotto. In particolare, la confessione (che il mezzo di prova dell’interrogatorio formale è preordinato a provocare) viene definita come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte; nessuna norma sostanziale o processuale correla l’efficacia della confessione e l’ammissibilità dell’interpello al carattere “proprio” del fatto che ne costituisce l’oggetto. E ciò in evidente e non casuale discrepanza dalla regola valida per il giuramento decisorio, che per la particolare rilevanza e il coinvolgimento della responsabilità penale del dichiarante, deve essere deferito su un “fatto proprio” della parte chiamata a giurare (art.2739, comma 2, c.c.), fatta salva l’ammissibilità del deferimento del giuramento de scientia (avente ad oggetto la conoscenza, propria, del fatto di un terzo: cfr Cass.24 febbraio 1995, n.2102; Cass. 4 maggio 1993 n.5163; Cass.14 febbraio 1983 n.1114; Cass.24 marzo 1979 n. 1738; Cass.23 marzo 1977 n.1138). Ciò premesso, al contempo è necessario riconoscere al convenuto la possibilità di una mera contestazione generica accompagnata dalla sollecitazione della controparte alla prova (e ciò senza conseguenze sul piano della valutazione negativa del comportamento processuale ex art.116 c.p.c.), se l’allegazione avversaria attiene ad una sfera personale, intima e riservata, presuntivamente non conoscibile, della controparte, o, comunque, in tutte quelle ipotesi in cui l’allegazione avversaria concerna un fatto proprio del deducente, non comune alla controparte, al cui riguardo egli si trovi, verosimilmente, in difetto di informazioni. In altri termini: la contestazione dell’allegazione è pur sempre necessaria, ma può essere generica, senza conseguenze processuali pregiudizievoli, se la parte non è ragionevolmente in grado di prender posizione in modo specifico sul fatto ex adverso dedotto. La contestazione generica, in tale specifica ipotesi di giustificazione, vale pur sempre contestazione, sicché il fatto genericamente contestato dalla parte impossibilitata a prender più precisa posizione, proponendo la propria “verità alternativa”, non può essere ritenuto “incontroverso”. Si tratterà semmai di valutare se sussista lo spazio per la valutazione della contestazione generica come argomento di prova ai sensi dell’art.116, 2° comma, c.p.c.; in tal senso, ad esempio, Cassazione civile, sez. II, 5 febbraio 2003, n. 1672, secondo la quale “La contestazione generica non equivale ad ammissione, da parte del convenuto, della sussistenza dei fatti affermati dall’attore, sicché essa, potendo eventualmente integrare violazione del dovere di lealtà processuale, può essere discrezionalmente valutata, attenendo al contegno della parte nel processo, come semplice argomento di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. ed essere utilizzata, in quanto tale, soltanto come elemento aggiuntivo ed integrativo rispetto alle risultanze dei veri e propri mezzi di prova.” Il Giudice, nel rispetto del suo dovere fondamentale di terzietà ed imparzialità, costituzionalmente cristallizzato nell’art.111 della Costituzione, certamente non può e non deve surrogarsi alle parti interessate nella formulazione delle contestazioni o nelle dichiarazioni di non poter contestare le avversarie deduzioni dei fatti primari, di natura non comune, giacché, così operando, finirebbe con l’interferire con lo sviluppo della dialettica del contraddittorio e con il violare il principio dispositivo. Infatti la controparte destinataria della deduzione ben può aver acquisito informazioni, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, mediante opportune indagini (e financo istruttorie private) circa i fatti non comuni rilevanti ai fini della decisione del giudizio; può decidere liberamente di accettare una avversaria deduzione come conforme al vero, ritenendo opportuna, per i più svariati motivi, la scelta di non contrastarla in giudizio; infine, specie in una materia quale quella dell’infortunistica stradale, in cui la controversia risarcitoria è necessariamente preceduta da una richiesta stragiudiziale finalizzata a consentire alla impresa assicuratrice r.c.a. la valutazione delle pretese del danneggiato e la formulazione di una offerta, può aver acquisito ante causam congrui elementi per determinarsi in ordine al fatto dedotto. Tutto vero; e tuttavia, allorchè venga in discussione fra le parti la natura dell’allegazione del fatto primario non specificamente contestato, prima di diagnosticare la “relevatio ab onere probandi”, il Giudice non potrà esimersi dal valutare la plausibilità e l’attendibilità delle ragioni esposte dalla controparte per giustificare il proprio atteggiamento processuale di contestazione solo generica (al cui riguardo, in difetto di un preciso riscontro normativo, non sembra possibile configurare un meccanismo di decadenze o preclusioni nell’ambito del processo). 2.3.4. La contestazione nel caso concreto.

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Nella fattispecie a giudizio, di per sé il fatto dedotto aveva natura primaria, perché lo svolgimento dell’attività sportiva del karate, asseritamente reso impraticabile dai postumi delle lesioni subite, sostanziava la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale in parte qua proposta dal Puggioni a tale titolo; non si trattava cioè di un fatto secondario allegato in funzione probatoria, ma del fatto principale stesso (sia pur rappresentante una frazione del pregiudizio allegato e di cui veniva richiesto il ristoro). Viene in considerazione, a questi effetti, l’importante distinzione fra fatti primari e fatti secondari: il fatto primario, che configura un vero e proprio elemento costitutivo del diritto fatto valere, a differenza del fatto secondario, deve essere dedotto in giudizio già con l’atto introduttivo. Una importante conferma circa il rilievo di tale distinzione può essere colta nel moderno orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di rilevanza della non contestazione dei fatti da parte del convenuto, che appunto differenzia le conseguenze della non contestazione del fatto principale e del fatto secondario:

• “In materia di prove, l’onere del convenuto, previsto dall’art. 416 c.p.c. per il rito del lavoro, e dall’art. 167 c.p.c. per il rito ordinario, di prendere posizione, nell’atto di costituzione, sui fatti allegati dall’attore a fondamento della domanda, comporta che il difetto di contestazione implica l’ammissione in giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva funziona probatoria, la non contestazione costituis ce argomento di prova ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c.” (Cassazione civile, sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5191).

La circostanza di cui si discute non era però stata allegata dall’attore con sufficiente chiarezza e specificità, a cavallo fra le pagine 14 e 15 del ricorso introduttivo, allorché il Puggioni aveva affermato di essere stato un promettente atleta di karate e aveva richiesto il ristoro del danno non patrimoniale connesso alla impossibilità/difficoltà di proseguire la pratica dell’attività sportiva. Da un lato, occorre rilevare che tale circostanza non era stata indicata fra quelle offerte a prova nella parte propriamente deduttiva (capi da 1 a 30) del ricorso introduttivo, ma, con tecnica obiettivamente insidiosa (perché potenzialmente idonea a sorprendere l’attenzione dell’avversario) era stata inserita, in non raccomandabile promiscuità, nella parte argomentativa in diritto, pur attenendo ad una allegazione di fatto. Tale rilievo non è sfuggito alle argomentazioni della difesa appellante che, anche nel corso della discussione orale, ha stigmatizzato la confusione fra allegazione /deduzione del fatto e considerazione di carattere argomentativo (cfr ricorso in appello, pag.5). In secondo luogo, l’allegazione in questione, a tutto concedere, aveva un carattere assai vago e indeterminato (… il signor Puggioni era un promettente atleta di karate….”) in quanto atteneva ad una generica pratica di tale arte marziale, senza predicare alcunché di specifico, puntuale e pregnante, tale da connotare in modo significativo, anche indirettamente, lo stile di vita e la personalità del ricorrente. Diversamente avrebbe probabilmente ragionato questa Corte se il Puggioni avesse con chiarezza dedotto di praticare da un certo numero di anni l’attività sportiva, avesse fornito indicazioni sul tempo dedicato al suo esercizio, avesse precisato i risultati ottenuti e le qualifiche conseguite, avesse dato atto dei luoghi frequentati per l’allenamento e per l’attività agonistica, elencando cioè una serie di dati sicuramente a sua conoscenza e in sua disponibilità (oltretutto, almeno potenzialmente, suscettibili di riscontro ex adverso). E’ quindi pur vero che le parti convenute, dopo aver riconosciuto la responsabilità (esonerando la controparte dalla prova del c.d. “an debeatur”), hanno circoscritto la contestazione dell’avversaria domanda al solo “quantum”, senza provvedere alla contestazione specifica dell’avversaria allegazione relativa al karate (come hanno viceversa fatto, selettivamente, ad esempio, in tema di danno da interruzione del rapporto di lavoro, entrando nel merito delle avverse deduzioni) e senza neppure prendere posizione sulla circostanza, negandola formalmente, ovvero immediatamente protestando la propria incapacità di controdedurre per la natura del fatto (non comune alle parti) e pretendendo ex adverso per tale ragione la prova rigorosa. E’ pur vero, cioè, che i convenuti non hanno affrontato l’argomento, limitandosi ad una generica e onnicomprensiva dichiarazione, come “contesta la domanda (unitamente alle deduzioni, alle allegazioni ed alle produzioni del ricorrente) sotto il profilo del quantum debeatur”, che rappresenta, nell’ambito della moderna concezione dialettica del processo, mera clausola di stile, inidonea a soddisfare l’onere di contestazione specifica e pure il più limitato onere di contestazione generica del fatto su cui il convenuto non si ritiene in grado di controdedurre; val la pena di ricordare che la già citata sentenza n.5356 del 2009 della Suprema Corte ha qualificato “l’assunto di aver “impugnato e contestato la domanda formulata dalla controparte perché infondata in fatto e diritto” come “una affermazione difensiva assolutamente generica”. La deduzione avversaria, se di vera e propria deduzione si può parlare, era però assai generica e poteva correlarsi soltanto ad una generica pratica sportiva, di rilievo non particolarmente qualificato e non significativamente incidente sulle abitudini e sullo stile di vita, e in ultima analisi, sulla personalità del ricorrente. Per altro verso, anche in considerazione della mancanza nell’allegazione di qualsiasi riferimento a fatti suscettibili di controllo e verifica, almeno potenziali, il contegno processuale delle parti convenute appare pienamente giustificato e non valeva ad espungere la circostanza dal thema probandum, tenuto conto del necessario coordinamento del principio di non contestazione con il principio di “vicinanza della prova” (secondo il quale l’onere della prova deve essere ripartito, oltre che secondo la descrizione legislativa della fattispecie sostanziale controversa, con l’indicazione dei fatti costitutivi e di quelli estintivi o impeditivi del diritto, anche secondo il principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità del mezzo, riconducibile all’art. 24 cost., che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge rendendone impossibile o troppo difficile l’esercizio: Cassazione civile , sez. lav., 16 marzo 2009, n. 6344; Cassazione civile, sez. lav., 25 luglio 2008, n. 20484; Cassazione civile , sez. lav., 25 luglio 2008, n. 20484, Cassazione civile, sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2308, Cassazione civile, sez. III, 9 novembre 2006, n. 23918, Cassazione civile, sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651).

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Si deve quindi ritenere, come è stato puntualmente segnalato anche in dottrina, che la specificità richiesta alla contestazione vari in funzione della prossimità al fatto e della sfera di conoscenza e disponibilità del soggetto chiamato a contestare. Merita un cenno l’interessante passaggio di Cass.civ. sez.lav. 15 aprile 2009 n.8933, che ha espresso la “necessità che la contestazione assuma carattere di specificità (cfr. Cass. n. 85/2003), dovendosi la contestazione generica, in presenza di fatti ritualmente allegati dalla controparte in modo preciso e puntuale, equiparare alla mancanza di contestazione, per potersi assegnare alla contestazione un effettivo rilievo processuale solo ove vengano con la stessa richiamate circostanze fattuali a tal fine pertinenti e significative.” e ha sottolineato altresì la “condivisibile osservazione (cfr.Cass. n. 10759/2004) che l’adempimento da parte del ricorrente - lavoratore dell’onere di individuare con precisione nel ricorso i fatti allegati, necessario al fine di consentire un’efficace contestazione di essi da parte del convenuto - datore di lavoro, va valutato tenendo conto anche della concreta possibilità del datore di lavoro di avere conoscenza specifica dei fatti allegati, talvolta maggiore rispetto alla conoscenza del lavoratore, t rattandosi di fatti attinenti all’organizzazione aziendale” Il Primo Giudice non poteva quindi ritenere ai fini del danno da sofferenza che il Puggioni avesse praticato in precedenza lo sport del karate, almeno con quell’impegno e quella dedizione tali da influire significativamente sulle abitudini e sullo stile di vita, come invece ha fatto, assumendo che le dichiarazioni al proposito esplicitate nell’atto introduttivo dal Puggioni non erano state in alcun modo contestate dai convenuti. L’affermazione, insidiosa e generica, contenuta nel ricorso, relativa ad un fatto assai vago e non controllabile, era stata infatti contestata genericamente dalle controparti che non erano in grado di prendere al riguardo una più specifica posizione oppositiva, prospettando al loro verità alternativa. Per altro verso, le parti appellanti hanno ragione nel ribattere al rilievo del Primo Giudice (pag.13) che ha preso in considerazione le dichiarazioni rilasciate dal Puggioni al dott.Anglesio in sede di c.t.u. e nel sottolineare che le dichiarazioni pro se rese dalla parte interessata al Consulente tecnico di ufficio non possono formare prova a suo favore se vertono su fatti storici obiettivi favorevoli al dichiarante, estranei al tema proprio dell’indagine peritale ed ai compiti del consulente, quand’anche operante in funzione percipiente, perché incaricato dal Giudice non solo di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche di accertare i fatti stessi (ipotesi nella quale la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova: Cassazione civile, sez. un., 4 novembre 1996, n. 9522; conformi Cass.civ. sez.III 26 gennaio 2007 n.24620; sez.II 28 febbraio 2007 n.4743; sez.III 23 febbraio 2006 n.3990; sez.III 7 dicembre 2005 n.27002; sez.III 22 maggio 2005 n.13401). Diversamente opinando, sarebbe sin troppo facile alla parte interessata eludere l’onere probatorio dichiarando semplicemente al Consulente quanto invece avrebbe dovuto provare ex art.2697 c.c., in contrasto con il principio generale della inidoneità della dichiarazione favorevole alla formazione della prova (che trova eccezionale deroga nella regola della inscindibilità della confessione di cui all’art.2734 c.c.). Sulla base di tali considerazioni la Corte provvederà alla riduzione della componente complessiva del danno da sofferenza considerata dal Giudice di primo grado nella liquidazione del danno non patrimoniale per tener conto della quota attribuita in riferimento allo specifico pregiudizio da sofferenza morale per la perdita della possibilità di praticare lo sport del karate. A parere della Corte, nell’ambito della complessiva attribuzione di € 48.000,00 in moneta attualizzata al maggio 2008 (e poi soggetta a devalutazione alla data del sinistro e quindi a nuova rivalutazione con progressivo corredo di interessi, secondo la corretta impostazione metodologica seguita in sentenza, conforme all’insegnamento impartito dalle Sezioni Unite con sentenza n.1712 del 1995), la quota da defalcare può essere congruamente fissata in € 8.000,00, in moneta attualizzata e comprensiva di interessi attribuiti sull’importo rivalutato con riferimento alla data del dispositivo della sentenza (27.11.2008), mentre il residuo importo di cui al § A), p.3, resta attribuito al Puggioni in forza dei profili di pregiudizio ulteriori considerati. 2.4. La questione della perdita del rapporto di lavoro in nero. Gli appellanti aggiungono che nulla, poi, era stato adeguatamente provato in ordine al rapporto di lavoro in nero svolto dal Puggioni, al cui proposito le dichiarazioni del padre erano insufficienti e inattendibili, e si dolgono del fatto che il Giudice, che pur aveva ritenuto implausibile la retribuzione riferita dal padre del Puggioni, aveva poi inammissibilmente supplito alle carenze probatorie con un ragionamento equitativo, privo di basi idonee. La contestazione – alla luce delle argomentazioni e dei riferimenti prospettati - sembra rivolta al risarcimento del danno patrimoniale, accordato dal Giudice, sub B) “DANNI PATRIMONIALI”, punto 3 “Lucro cessante da perdita del lavoro”, a pagina 14, piuttosto che alla concorrente considerazione del pregiudizio morale per l’interruzione dell’attività lavorativa, effettuata dal Giudice in sede di liquidazione del danno “da sofferenza”, al punto 3 del paragrafo A) “DANNI NON PATRIMONIALI” a pagina 12. La Corte non condivide la censura articolata nell’atto di proposizione del gravame. Come si è detto in precedenza, le parti convenute avevano contestato, selettivamente e in modo specifico, le circostanze relative al danno da interruzione del lavoro, rimarcando quanto ora ribadito circa la mancata dimostrazione (men che meno documentale) della data di inizio e di cessazione del rapporto, della mansioni svolte, dell’orario e della paga. E tuttavia occorre considerare che il Primo Giudice:

• ha ragionevolmente ed equilibratamente considerato che la parte attrice avesse fornito la prova dello svolgimento di un lavoro in nero, precario ed occasionale, reputato, per stessa ammissione attorea, insufficiente a radicare una fondata aspettativa di un reddito futuro stabile e costante;

• ha considerato attendibile la deposizione del padre Roberto del Puggioni circa lo svolgimento dell’attività presso l’Agenzia Di Perna, che non può essere considerata totalmente falsa e compiacente, in difetto di prova alcuna in tal senso, tenuto conto altresì che nulla impediva alle controparti di

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svolgere le opportune indagini di riscontro ed eventualmente di far valere il principio di acquisizione probatoria ex art.245 c.p.c. per ottenere comunque la deposizione del teste Marcello Di Perna, se ritenuta auspicabile (giacché la testimonianza de qua era stata ammessa dal Giudice e tacitamente rinunciata da parte ricorrente)

• non si è affatto contraddetto, laddove ha giudicato inattendibile la deposizione nel generico riferimento alla somma mensile di 1.800 €, sproporzionata alle caratteristiche del lavoro svolto e delle mansioni affidate, circoscrivendo prudenzialmente, fra l’altro in modo assai equilibrato, l’ammontare del presumibile reddito ritratto in una somma rientrante alla stregua di nozioni di comune esperienza nei compensi usuali per un lavoro “in nero” non particolarmente qualificato;

• ha prudentemente delimitato – nel contesto della effettuata liquidazione equitativa - l’ambito temporale del reddito futuro pregiudicato in un orizzonte assai circoscritto (sei - otto mesi), al cui proposito le parti appellanti non possono dolersi (come apparentemente fanno, pag.12, primo cpv, atto di appello) dell’arbitrarietà della valutazione sulla base della quale il Tribunale ha comunque ritenuto di non dilatare ulteriormente la previsione.

In sintesi: • non è vero che non vi era riscontro probatorio anche minimo, perché v’era la deposizione del padre

Roberto, non smentita da alcuna fonte di prova; • non è vero che non vi è stata motivazione, perché il Tribunale ha esemplarmente dato conto dei

parametri della liquidazione equitativa effettuata; • non è vero che il rapporto di lavoro in nero non era stato provato; • non è vero che si ignoravano le mansioni perché erano state riferite dal padre; • volantinaggio e lavoro impiegatizio non sono mansioni fra loro inconciliabili, specie con riferimento ad

un rapporto precario e occasionale in una realtà aziendale modesta, in cui non è infrequente l’affidamento al lavoratore occasionale di mansioni assai variegate e promiscue.

2.5. La tesi della confessione giudiziale della disoccupazione al momento del sinistro da parte del ricorrente. Le parti appellanti nel corso della discussione orale hanno insistito sul fatto che il Puggioni avrebbe confessato al C.t.u. di essere disoccupato al momento del sinistro, circostanza questa che faceva prova contro di lui, confutando la contraddittoria allegazione, accreditata dal Primo Giudice, circa la sussistenza di una occupazione lavorativa, sia pure “in nero”. Innanzitutto la Corte ritiene che il rimprovero al Giudice di non aver dato ingresso alla prova legale vincolante, costituita da una dichiarazione confessoria giudiziale proveniente dalla parte, che impediva, a vari effetti, e cioè sia ai fini del danno patrimoniale da lucro cessante, sia ai fini del danno non patrimoniale da sofferenza, di considerare l’occupazione lavorativa addotta dal Puggioni concreti un vero e proprio motivo di impugnazione che avrebbe dovuto essere proposto, a pena di decadenza ed inammissibilità, con l’atto di proposizione del gravame. Infatti è del tutto consolidato l’orientamento secondo cui la formulazione dei motivi di appello, che a pena di decadenza e di inammissibilità deve essere contenuta nell’atto di impugnazione (atto di citazione o ricorso in appello per l’appello principale, comparsa di risposta recante appello incidentale per l’appello incidentale), non può essere validamente effettuata con scritti processuali successivi e in particolare con la comparsa conclusionale, ossia con lo scritto defensionale, che ai sensi degli artt.352 e 190 c.p.c., è destinato ad illustrare le difese già svolte e a confutare le contrapposte argomentazioni (Cassazione civile, sez. III, 14 marzo 2006, n. 5478; conformi Cass. 7 dicembre 2004 n. 22970; Cass. 16 luglio 2004 n. 13165), e non invece a conformare il contenuto del giudizio di appello e tantomeno, come è accaduto nella fattispecie in sede di argomentazioni illustrative orali all’udienza di discussione. Pertanto è jus receptum che la comparsa conclusionale non può introdurre la proposizione di un motivo di appello non contenuto nel primo atto difensivo, anche se ovviamente negli scritti conclusionali alla parte è consentito validamente sviluppare, con argomentazioni più articolate, sia in fatto, sia in diritto, le censure già proposte. Da ultimo, sul punto:

• “In tema di processo di appello, in ossequio al principio del “tantum devolutum quantum appellatum” di cui all’art. 342 c.p.c. - il quale importa non solo la delimitazione del campo del riesame della sentenza impugnata ma anche l’identificazione, attraverso il contenuto e la portata delle censure, dei punti investiti dall’impugnazione e delle ragioni per le quali si invoca la riforma delle decisioni – i motivi debbono essere tutti specificati nell’atto di appello (con cui si consuma il diritto di impugnazione). Restano, pertanto, precluse nel corso dell’ulteriore attività processuale sia la precisazione di censure esposte nell’atto di appello in modo generico, che la possibilità di ampliamenti successivi delle censure originariamente dedotte. (Nella specie il giudice di primo grado aveva affermato che le opere realizzate dal convenuto non erano a distanza legale rispetto alla proprietà dell’attore. Con l’atto di appello il convenuto aveva dedotto che in realtà i manufatti preesistevano all’immobile dell’attore. Atteso che unicamente in sede di comparsa conclusionale l’appellante aveva eccepito che il Ctu aveva accertato che solo alcuni, dei manufatti da esso concludente posti in essere non erano a distanza legale, il giudice di appello ha ritenuto inammissibile tale censura. In applicazione del principio di cui sopra la Suprema Corte ha confermato la pronuncia del giudice di appello).”(Cassazione civile, sez. II, 8 maggio 2008, n. 11406);

• “In tema di processo di appello, in ossequio al principio del tantum devolutum quantum appellatum di cui all’art. 342 c.p.c., il quale importa non solo la delimitazione del campo del riesame della sentenza impugnata ma anche l’identificazione, attraverso il contenuto e la portata delle censure, dei punti investiti dall’impugnazione e delle ragioni per le quali si invoca la

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riforma delle decisioni, i motivi debbono essere tutti specificati nell’atto di appello (con cui si consuma il diritto di impugnazione), sicché restano precluse nel corso dell’ulteriore attività processuale sia la precisazione di censure esposte nell’atto di appello in modo generico, che la possibilità di ampliamenti successivi delle censure originariamente dedotte. Il principio della specificità dei motivi di appello o postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, finalizzata a inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che la sorreggono. È indispensabile, pertanto, che l’atto di appello contenga tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione, senza la possibilità di rinviare l’esposizione delle argomentazioni in un momento successivo del giudizio o, addirittura, alla comparsa conclusionale, essendo l’atto di appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo d’impugnazione.”(Cassazione civile, sez. III, 23 febbraio 2006, n. 4019; conformi Cass.civ. sez.II, 23.5.2006 n.12140; sez.III, 23.2.2006 n.4019; sez.I, 11.1.2006 n.394).

Tracciare l’esatta linea di demarcazione fra mera argomentazione illustrativa di una censura già proposta e proposizione di una censura nuova sino ad allora trascurata non è sempre agevole; nel caso specifico, tuttavia la Corte non nutre dubbi, poiché le parti appellanti solo in sede di discussione finale hanno attirato l’attenzione su di un mezzo di prova le cui risultanze avrebbero esercitato una influenza dirimente e determinante in ordine ad un punto specifico della controversia, di cui non v’è traccia alcuna nell’atto di impugnazione. Ciò esimerebbe dal rimarcare in punto di merito:

• che il Puggioni già in sede di interrogatorio libero aveva formulato dichiarazioni in ordine alla propria attività lavorativa al momento del sinistro;

• che non esiste alcuna dichiarazione formale e verbalizzata e sottoscritta del Puggioni nel senso ipotizzato; • semplicemente nel paragrafo dedicato all’anamnesi lavorativa il C.t.u. dott. Massazza annota sinteticamente

“Al momento del fatto disoccupato”, senza neppure riferire le precise parole che il periziando avrebbe pronunciato, e quindi trae una sintesi personale valutativa del tutto compatibile con la tesi dell’irrrilevanza ai fini di causa di una attività lavorativa, precaria e in nero, del genere di quella allegata da parte dell’attore, considerazione valutativa ripetuta a pagina 11 in punto “conclusioni” (“Al momento del fatto il sig.Puggioni era disoccupato…”);

• con ogni probabilità, come si desume dal verbale delle operazioni peritali allegato alla relazione (dove è stata apposta l’annotazione “non in attualità di lavoro” nello spazio prestampato dedicato all’incapacità lavorativa temporanea), il C.t.u. si era interessato all’argomento nella mera prospettiva dell’incidenza delle lesioni sulla capacità lavorativa temporanea e sul reddito del ricorrente;

• al contrario, dalla relazione del C.t.u., dott.Anglesio, che ha specificamente interrogato il Puggioni sul punto, risultano le dichiarazioni del ricorrente relative al lavoro presso l’agenzia pubblicitaria come addetto alla segreteria e al volantinaggio, per circa due anni, sino all’incidente (cfr pagg.8-9);

• una ambigua affermazione di carattere valutativo proveniente dal C.t.u., senza prova di corrispondenza ad una specifica dichiarazione formalizzata del ricorrente e di contenuto del tutto controvertibile, priva dei caratteri indispensabili a configurare una contra se pronuntiatio, non può certo smentire le formali deduzioni contenute nel ricorso, le dichiarazioni espresse dal ricorrente in sede di interrogatorio libero, nonché le specifiche e dettagliate dichiarazioni riferite dall’altro C.t.u., che aveva approfondito il punto, ritenuto giustamente di interesse tecnico ai fini della sua indagine, e financo le risultanze probatorie non confutate.

3. Il terzo motivo di appello principale. Con il terzo motivo di impugnazione la Fondiaria SAI e il Passoni lamentano erronea valutazione dei danni, con loro indebita moltiplicazione, in violazione degli insegnamenti impartiti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le note sentenze n.26972-26975 dell’11.11.2008. In particolare gli appellanti si dolgono:

• della mancata liquidazione unitaria del danno non patrimoniale; • della suddivisione del danno non patrimoniale in differenti sottocategorie; • del non più consentito ricorso alla nozione di danno esistenziale come voce autonoma; • della conseguente moltiplicazione delle poste risarcitorie attuato con la sovrapposizione al danno biologico da

invalidità permanente e al danno biologico da invalidità temporanea, del danno da sofferenza (nuovo termine impiegato per ridesignare il danno morale):

• del ricorso, in buona sostanza, al vecchio e superato sistema di liquidazione dei danni non patrimoniali, che aveva poi in concreto portato alla doppia liquidazione degli stessi pregiudizi sotto diverse etichette.

La Corte non condivide le censure rivolte dagli appellanti alla sentenza impugnata, che per comodità argomentativa vanno affrontate previa suddivisione in due distinti ordini di prospettazione. Da un lato, infatti, occorre considerare le censure rivolte – in linea pregiudiziale e per così dire dogmatico/concettuale - alla pronuncia per aver violato i principi della liquidazione unitaria del danno non patrimoniale compiutamente articolate dalle Sezioni Unite nelle celeberrime quattro sentenze gemelle del 2008. Dall’altro, è necessario verificare se la parte appellante abbia ragione nel dolersi, in concreto e in punto di fatto, della duplicazione delle poste risarcitorie, accertando se effettivamente il Tribunale abbia ristorato due volte gli stessi pregiudizi; a tal proposito, in sede di discussione orale, i difensori degli appellanti hanno diffusamente recriminato sul fatto che il Giudice delle prime cure, eccessivamente preoccupandosi del rischio di non risarcire il danno patito dal Puggioni nella sua integralità, sia incorso nel rischio opposto, risarcendo il pregiudizio oltre la sua effettiva portata.

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3.1. I principi in tema di allegazione e domanda del risarcimento del danno non patrimoniale dopo le sentenze delle Sezioni Unite 26972-26975/2008. E’ assai difficile indicare un’altra sentenza che abbia alimentato nella comunità degli “operatori del diritto” la stessa forte attesa della sua emanazione e abbia successivamente generato un così intenso dibattito e pure così vivaci polemiche come le pronunce gemelle n.26972-26975 del 14.11.2008 delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione. Molti l’hanno apprezzata per lo sforzo ricostruttivo nella configurazione dell’intero istituto del danno non patrimoniale, ricondotto a sistematica unità; molti altri l’hanno interpretata come l’emblema di una svolta restauratrice e conservatrice, repressiva di quella più pregnante tutela dei diritti della personalità insuscettibili di riconduzione ad una logica “reddituale”, prepotentemente richiesta dalla società civile, invitando ad una accanita “resistenza” morale contro il suo messaggio; non è mancato tuttavia, pur nell’ambito di tale schieramento, anche chi ha colto nelle pieghe della pronuncia segni di importanti riconoscimenti di principio. In una prospettiva più tecnica, molti considerano la sentenza come una sorta di summa in cui si debbano trovare tutte le risposte, come se essa avesse fatto tabula rasa di tutte le esperienze precedenti; altri (e tali voci di perplessità non mancano anche all’interno del Supremo Collegio: cfr, ad esempio, Cassazione, Sez.III, 29191 del 12.12.2008) cercano di sottolinearne la natura di provvedimento pur sempre giurisdizionale, ancorché autorevolissimo, sforzandosi di circoscriverne efficacia e portata, anche al fine di evitare la prospettazione di questioni di legittimità costituzionale originate dall’enunciazione di un “diritto vivente” pedissequamente plasmato sulla base di una interpretazione letterale e restrittiva di passi della sentenza. Nell’opera di corretta interpretazione dell’insegnamento delle Sezioni è necessario tener presente due principi fondamentali, forse anche ovvi, ma che occorre non perdere mai di vista, ossia:

• che la 26972/2008 è pur sempre una sentenza e non una fonte normativa, sicché non si registra alcun fenomeno di jus superveniens;

• chi ha ragione secondo i principi innovatori della 26972/2008 aveva ragione anche prima e chi ha torto aveva torto anche prima, perché la pronuncia non modifica l’ordinamento, ma lo interpreta e lo chiarisce;

• che tuttavia il comprensibile disorientamento provocato alle parti giustifica l’erogazione di almeno due “misure protettive” del protagonista della lite per così dire “sorpreso a metà del guado”, ovvero:

§ una interpretazione elastica e non formalistica della sua domanda giudiziale calibrata sull’interesse concretamente perseguito, così come emergente dagli atti processuali interpretati secondo ragionevolezza e buona fede,

§ l’apprezzamento di giusti motivi ai fini della compensazione (totale o parziale) delle spese di lite ai sensi dell’art.92 c.p.c., tenuto conto dell’influenza causale che possono aver avuto sulla genesi della lite importanti riferimenti giurisprudenziali superati dalla pronuncia delle Sezioni Unite sopravvenuta in corso di causa.

La sentenza 26972/2008 (come le sue tre “gemelle”) ha indubbiamente ricondotto ad unità il concetto di danno non patrimoniale, riclassificando le varie categorie ben conosciute da dottrina e giurisprudenza a mere sottovoci di rilevanza meramente descrittiva. “2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata…………….. 2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costit uito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale. E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale. In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte Costituzionale………. 3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specif ici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).”

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Che cosa significa, dal punto di vista strettamente processuale, la derubricazione di una voce di danno a sintesi descrittiva di un pregiudizio, classificabile nell’ambito del più ampio genus del danno patrimoniale? Al proposito meritano un cenno alcuni interessanti spunti giurisprudenziali. Una pronuncia del 24.11.2008 della Corte di Appello di Perugia, di poco successiva all’intervento delle Sezioni Unite, osserva persuasivamente: “Stando alla nuova impostazione unitaria del danno non patrimoniale dettata dalle Sezioni Unite (Cassazione Civile, SS.UU., 11.11.2008, n. 26972), nessuno spazio sembra essere riservato, sul piano liquidatorio alle voci di pregiudizio “degradate”. Peraltro, tale “degradazione”, se ben si è inteso il senso dell’ “arresto”, rileva unicamente sul piano nominale. E’ da ritenere, invero, dato certo ed inoppugnabile che ai fini liquidatori tutti i pregiudizi devono venire in rilievo, al fine di garantire il risarcimento integrale, essendo stato ribadito che il giudice deve”procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando anche le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”. Se pure “la parte del leone” è riservata al danno biologico, al danno biologico stesso è attribuita la “capacità di ricomprendere (con il corredo di una contabilizzazione riferita alle pieghe ripercussionali concretamente determinatesi), il pregiudizio morale e quello esistenziale”. Le Sezioni Unite (Cassazione Civile, SS.UU., 11.11.2008, n. 26972), dunque, non hanno determinato una deminutio di tutela, bensì una visione prospettica di questa diversa.” Analogamente il Tribunale di Milano con sentenza 5.3.2009 n. 3047 ha sostenuto: “Nell’ambito del danno non patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. Di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere. In ogni caso, laddove il giudice abbia liquidato il danno biologico e le sofferenze conseguenti non residua spazio per il risarcimento di ulteriori pregiudizi esistenziali, perché tutti già ricompresi in quelli già liquidati, risultando altrimenti certa la duplicazione risarcitoria del medesimo danno.” Una recente applicazione dei principi in materia di sintesi descrittive si può cogliere nella pronuncia della Cassazione, III° Sezione Civile del 22.4.2009, n. 9549 in tema di rapporti fra danno estetico e danno biologico: “Nel quinto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 c.c., 32 Cost. e vizio di motivazione, il ricorrente lamenta la mancata personalizzazione del danno biologico, per la presenza del danno estetico. Questo motivo è fondato. Il giudice d’appello ha, sì considerato il danno estetico componente del danno biologico, ma non ha ritenuto, senza offrirne adeguata motivazione, di dover considerare la compromissione estetica nella valutazione di tale danno, quale fissata dal primo giudice, né personalizzato detta liquidazione del danno biologico, per effetto dell’esatto inglobamento anche della componente estetica.” La risposta più attendibile all’interrogativo delineato è che la riconfigurazione delle varie voci di danno come mere sintesi descrittive colloca l’onere dell’esposizione del pregiudizio patito sul versante dell’allegazione dei fatti costitutivi della domanda giudiziale più che su quello della formulazione delle conclusioni sottoposte al Giudice. Prima della pronuncia 26972 del 2008 era opinione generalmente condivisa nella giurisprudenza di merito che quelle relative al danno biologico, al danno morale, al danno c.d. esistenziale determinato da una significativa alterazione peggiorativa dello stile di vita, fossero domande distinte, seppur ricondotte ad un identico fatto lesivo; in conseguenza dovevano essere proposte in modo chiaro ed inequivoco con l’atto introduttivo della domanda giudiziale (atto di citazione, comparsa di risposta contenente la domanda riconvenzionale, atto di citazione per chiamata di terzo). Non era quindi possibile per la parte che aveva richiesto il risarcimento di una di queste voci avanzare in corso di causa (con memorie istruttorie, in sede di precisazione conclusioni o addirittura con gli scritti conclusionali) la richiesta del risarcimento di una voce diversa, senza incorrere nel divieto di mutatio libelli (sanzionato anche d’ufficio nel rito processuale civile riformato dalla Novella del 1990 e successive modifiche ed integrazioni). Occorre infatti tener presente che il rispetto delle regole sancite dal Codice in tema di preclusioni e decadenze legate alla rigida scansione delle fasi processuali che caratterizza l’impianto della Novella del 1990 (al fine di evitare il “riavvitamento” su sé stesso del meccanismo processuale, anche in funzione dell’obiettivo pubblicistico di un processo rapido e perciò “giusto” - cfr art.111 Cost. e art.6 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali) è soggetto al controllo officioso da parte del Giudice nella totale ininfluenza dell’atteggiamento adottato dalle parti, tantomeno tacitamente e implicitamente (Cassazione civile sez. I, 7 aprile 2000, n. 4376; sez. II, 24 maggio 2000, n. 6808; sez. I, 26 agosto 2004, n. 16993; sez. I, 27 maggio 2005, n. 11318; sez. III, 11 novembre 2005, n. 22900; sez. III, 18 aprile 2006, n. 8938). La riconduzione ad unità della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (rispetto alla quale le singole voci precedentemente note e normalmente utilizzate nella prassi forense si configurano come mere sintesi descrittive dei pregiudizi lamentati) sembra agevolare il compito delle parti che soddisfano l’onere della proposizione della domanda con la richiesta di ristoro del danno non patrimoniale. E tuttavia v’è da aggiungere che tale domanda, per non incorrere nei difetti di genericità e indeterminazione ex artt.163 n.3. e n. 4 c.p.c. ovvero 414 n.3 e 4 c.p.c. (che come è noto, esigono che l’atto di citazione contenga “la determinazione della cosa oggetto della domanda” e “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni.”) deve e, sin dall’inizio, ossia dal momento della sua proposizione, essere accompagnata da una allegazione, almeno sommaria, dei pregiudizi patiti, sia pur suscettibile di miglior precisazione in corso di causa (almeno nei procedimenti non soggetti al c.d. rito del lavoro, la cui applicabilità alla materia dell’infortunistica stradale, sancita dalla legge 102 del 2006, è stata recentemente abrogata dalla legge n.69 del 2009), specie sotto il profilo dell’esposizione degli obiettivi di prova.

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Sin dall’atto introduttivo infatti la parte interessata dovrà richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale ed esporre le sintesi descrittive dei pregiudizi a cui intende riferirsi (prospettando cioè un pregiudizio attinente la compromissione della validità psico -fisica a causa di postumi permanenti medicalmente accertabili, ovvero una sofferenza morale, transeunte o duratura, ovvero una lesione grave di diritti costituzionalmente tutelati), che non potrebbero essere introdotte in un momento successivo grazie alla comune riconduzione ad unica “etichetta”, per la violazione del contraddittorio che ne conseguirebbe. Il problema riguarda tuttavia la soddisfazione di quell’onere di allegazione dei fatti primari che la parte deve assolvere per la proposizione di una domanda sufficientemente determinata. Quanto al “regime transitorio” (con ciò intendendo – in linea di pura considerazione oggettiva - la fase in cui la giurisprudenza é chiamata ad esaminare domande formulate prima dell’intervento delle Sezioni Unite) quid juris nell’ipotesi in cui la parte abbia richiesto il risarcimento delle singole sintesi descrittive, utilizzando così le formule espressive tradizionalmente invalse? Il problema è forse più accademico che reale, dal momento che la gran parte degli atti giudiziari risulta confezionato, alla stregua delle tralaticie ripetizioni dei formulari, con la richiesta del “risarcimento dei danni tutti, patrimoniali e non, subiti in conseguenza…..”. Peraltro se la parte avesse richiesto solo il risarcimento del danno biologico, ovvero del danno morale, ovvero del danno esistenziale da lesione di valori costituzionalmente tutelati (richiedendo in sostanza il risarcimento della “sintesi descrittiva”), non vi é alcun ostacolo al riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale richiesto in modo improprio, con attribuzione di un compendio unitariamente liquidato secondo i nuovi criteri inaugurati dalle Sezioni Unite. A tale risultato si perviene senza difficoltà alla luce del principio fondamentale in tema di principio dispositivo “jura novit curia: narra mihi factum, dabo tibi jus” e del conseguente potere-dovere del Giudice di interpretare la domanda giudiziale, procedendo alla sua corretta qualificazione giuridica, anche a prescindere dai nomina juris erronei o mancanti prospettati dalla parte, purché nell’ambito dei fatti costitutivi tempestivamente allegati:

• “Il giudice ha il potere - dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio tra le parti. (Cassazione civile, sez. II, 17 luglio 2007, n. 15925);

• “Al giudice compete soltanto il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire, anche in difformità rispetto alla qualificazione della fattispecie operata dalle parti, il “nomen iuris” al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il giudice stesso può interpretare il titolo su cui si fonda la controversia e anche applicare una norma di legge diversa da quella invocata dalla parte interessata, ma, onde evitare di incorrere nel vizio di ultrapetizione, deve lasciare inalterati sia il “petitum” che la “causa petendi”, senza attribuire un bene diverso da quello domandato e senza introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto.”(Cassazione civile, sez. II, 28 maggio 2007, n. 12402; cfr anche Cassazione civile, sez. lav., 12 maggio 2006, n. 11039; sez. I, 12 aprile 2006, n. 8519; sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322; sez. III, 28 luglio 2005, n. 15802; sez. lav., 13 dicembre 2005, n. 27428).

L’attività di qualificazione e interpretazione della domanda è svincolata dai criteri ermeneutici relativi all’interpretazione dei contratti, non trattandosi di rinvenire una comune intenzione delle parti; si pone comunque un problema di tutela dell’affidamento della controparte, che assume concreta pregnanza alla luce del fondamentale principio del contraddittorio. Per esempio, nella ampia messe di pronunce:

• “Ai fini dell’interpretazione della domanda giudiziale - che comunque costituisce un apprezzamento di fatto, come tale riservato al giudice del merito - non sono applicabili i criteri ermeneutici dettati in campo contrattuale dall’art. 1362 c.c. poiché non esiste una comune intenzione delle parti da individuare, ma soprattutto perché, quale che sia la soggettiva intenzione della parte, uno dei fondamenti della regola di corrispondenza tra chiesto e pronunciato posta dall’art. 112 c.p.c. deve essere individuato nel rispetto del principio del contraddittorio, garantito solo dalla possibilità per il convenuto di cogliere l’effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti e di svolgere dunque una effettiva difesa.”(Cassazione civile, sez. III, 6 luglio 2001, n. 9208);

• “In riferimento al principio di necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, pur dovendosi affermare che al giudice spetta il potere di dare qualificazione giuridica alle eccezioni proposte, tuttavia tale potere trova un limite in relazione agli effetti giuridici che la parte vuole conseguire deducendo un certo fatto, nel senso che la prospettazione di parte vincola il giudice a trarre dai fatti esposti l’effetto giuridico domandato.” (Cassazione civile, sez. II, 12 ottobre 2007, n. 21484).

Ben vero – peraltro - non dovrebbe essere possibile per questa via (ossia riconducendo le sintesi descrittive dei pregiudizi effettivamente lamentati alla categoria unitaria del danno non patrimoniale) pervenire al riconoscimento di pregiudizi diversi da quelli originariamente allegati e richiesti, in sostanziale violazione del principio del contraddittorio. In altre parole, la corretta riqualificazione giuridica da parte del Giudice non può rivelarsi strumento per aggirare l’onere di allegazione rimasto insoddisfatto (ossia, per dirla nel modo più chiaro possibile, partendo dalla richiesta di risarcimento di alcune specifiche voci di pregiudizio, non è corretto risalire in via interpretativa alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale e poi ridiscendere sino al riconoscimento di voci di pregiudizio non patrimoniale diverse da quelle originariamente richieste). Le stesse regole dovrebbero valere alla luce dei principi generali sopra esposti, anche per il caso in cui il ricorso alle tradizionali categorie di danno sia effettuato in atti confezionati dopo la pronuncia della Suprema Corte 26972/2008; con minor dose di comprensione il Giudice non potrà anche in questo sottrarsi al ministero della interpretazione e

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qualificazione giuridica della domanda (oltretutto in prospettiva “conservativa”, ut magis valeat quam pereat) e ravvisare una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale con riferimento alle singole sintesi descrittive effettivamente allegate. Può giovare all’orientamento l’esame di una serie di casi in cui la Cassazione ha dettato, direttamente o indirettamente, dei criteri per la corretta qualificazione giuridica delle domande giudiziali in tema di danno non patrimoniale. In una più risalente decisione la Corte di Cassazione ha ricondotto ai poteri di interpretazione della domanda che competono al Giudice del merito la determinazione se la richiesta di risarcimento di un danno estetico con ricadute sulla vita di relazione integrasse o meno la richiesta di indennizzo di un danno non patrimoniale o patrimoniale:

• “Se il danno biologico si configura per definizione come scevro da connotazioni patrimoniali il suo contenuto è nondimeno: quantitativamente, più o meno ampio, secondo l’entità dell’evento lesivo della integrità fisica; minimo, evidentemente, in caso di modesta lesione, e, al contrario, massimo nei casi di particolare gravità; qualitativamente diverso, in rapporto alla zona del corpo, interessata (danno agli organi della deambulazione, auditivi, visivi, all’apparato della riproduzione...); limitato alla sfera del soggetto offeso, ovvero esteso alle relazioni di costui con terzi; in altri termini, solo personale o anche interpersonale, e si qualifica, nel secondo caso, come danno alla vita di relazione, poiché la lesione dell’integrità fisica viene ad incidere direttamente, nell’ambito dei rapporti sociali (sessuali, ricreativi...) del soggetto. La stessa menomazione fisica può, poi, integrare nel contempo danno alla vita di relazione e danno patrimoniale nel caso in cui abbia altresì prodotto conseguenze del genere; come nel caso dell’attrice la quale, in un incidente, abbia riportato una deturpazione al volto, che le impedisca, o le renda più difficoltosa, la continuazione della sua attività professionale: ed è, evidentemente, questione di interpretazione della domanda accertare se essa sia stata proposta per l’uno o per l’altro titolo e, nel caso di domanda avanzata per entrambi è, poi, compito del giudice di merito, ad evitare indebiti arricchimenti, determinare l’ammontare complessivo del risarcimento in misura effettivamente rispondente alla entità del danno globalmente verificatosi. Non è dunque esatto che il danno alla vita di relazione possa, o non, coincidere con il danno biologico, secondo i casi: al contrario, è la compromissione della sfera interpersonale del soggetto, leso nella integrità fisica, ad integrare, secondo i casi, il solo danno biologico (come danno alla vita di relazione) od anche quello patrimoniale.”(Cassazione civile, sez. III, 16 aprile 1996, n. 3564).

Dell’ipotesi inversa si è invece occupata la decisione della Cassazione civile, sez. I, 20 dicembre 2006, n. 27285, secondo la quale:

• “Non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice di merito, che abbia esercitato il doveroso compito di definire e qualificare la domanda proposta dalla parte - senza essere in ciò condizionato dalla formula adottata dalla parte medesima e tenuto conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate in corso di causa - e si sia, quindi, nel pronunciare su di essa, attenuto ai limiti della domanda come interpretata. (Sulla base di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione del giudice d’appello che, dopo aver qualificato la domanda come azione di risarcimento del danno patrimoniale - e non di danno morale, come preteso dal convenuto - dipendente da un pregiudizio arrecato alla credibilità professionale dell’attore, ha affermato che tale danno era stato correttamente accertato e liquidato, ai sensi dell’art. 2043 c.c., dal giudice di primo grado)”.

Con altra pronuncia, “storicamente” assai importante e pur salutata in dottrina come una sorta di “altolà” al proliferare del “danno esistenziale”, la Suprema Corte era addivenuta ad una lettura elastica ed estensiva della richiesta di ristoro del “danno morale”, suscettibile di includere anche il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente qualificati, con singolare inversione del rapporto di genere e specie:

• “La circostanza che l’attore si sia limitato a domandare il risarcimento dei “danni morali”, senza ulteriori specificazioni, non comporta di per sè la volontà di abdicare al risarcimento degli ulteriori e diversi danni non patrimoniali eventualmente patiti (segnatamente, i pregiudizi non patrimoniali costituiti dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti), a meno che tale volontà non sia chiaramente ricavabile in via interpretativa dal contesto dell’atto di citazione.”(Cassazione civile, sez. III, 15 luglio 2005, n. 15022).

Con la recente pronuncia della sez. III, 28 novembre 2007, n. 24745, la Suprema Corte si è premurata di ricondurre all’originaria domanda risarcitoria generica di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, “iure proprio” e “iure successionis”, che era stata originariamente proposta, l’attività di specificazione compiuta in corso di causa delle singole “voci” di danno:

• “In caso di illecito da circolazione stradale, non possono essere qualificate domande nuove le specificazioni delle singole componenti del danno subìto formulate, nel corso del giudizio d’appello, dai congiunti conviventi della vitt ima tenendo conto del diritto giurisprudenziale vivente, anche al fine di resistere ai motivi di gravame della parte appellante, una volta che la domanda originaria sia comprensiva di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, “iure proprio” e “iure successionis”. Nel caso di illecito da circolazione con lesioni mortali, i parenti stretti e conviventi della vittima possono proporre le pretese risarcitorie per tutti i danni, patrimoniali e non, “iure proprio” e “iure successionis”, senza che sia necessario indicare il “nomen” della voce di danno, posto che si tratta di danni ingiusti in relazione ai quali i danneggiati hanno l’onere della prova del fatto storico plurioffensivo e del danno ingiusto, lasciando poi al giudice di valutare la consistenza del danno secondo il principio del risarcimento integrale del danno reale, iuxta alligata et probata.”(Cassazione civile, sez. III, 28 novembre 2007, n. 24745).

La stessa sentenza 26972 dell’11.11.2008 delle Sezioni Unite, dopo la parte comune dedicata alla questione di particolare importanza, in sede di esame specifico dei motivi di ricorso si è dovuta occupare della corretta qualificazione giuridica e interpretazione della domanda dell’attore. Questi, menomato dalla perdita di un testicolo, aveva richiesto solo in appello il risarcimento del “danno esistenziale” connesso alla difficoltà nella vita sessuale determinate dalla lesione permanente; ciò gli era valso da parte della Corte territoriale la sanzione di inammissibilità per la proposizione di domanda nuova in violazione dell’art.345, 1° comma, c.p.c.

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In sede di legittimità il ricorrente rimarcava di aver già in primo grado dedotto le circostanze di fatto relative allo specifico pregiudizio, chiedendone il ristoro con riferimento a diverse etichette o voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale). Le Sezioni Unite hanno accolto il ricorso, alla luce del fondamentale potere-dovere del Giudice di procedere alla qualificazione giuridica della domanda a prescindere dal nomen juris erroneamente invocato, purché sia stata tempestivamente effettuata dalla parte interessata l’allegazione dei fatti costitutivi. Così si esprime il Supremo Consesso: “Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d’appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado. Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricomprese nella nozione di danno esistenziale, all’epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell’atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali. Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni). …….Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono. Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell’aspetto concernente i rapporti sessuali, allorchè dipenda da una lesione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell’integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno “esistenziale” (punto 4.9). Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209 del 2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato”. Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13). Nella specie, in primo grado, l’attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell’attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l’appello, l’attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005 [rectius: 1995]). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove. La decisione non è corretta. La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell’attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del “danno esistenziale” subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l’attuale ricorrente s’era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all’epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe. La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall’appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell’ambito del danno biologico.” Recentemente (dopo la decisione delle Sezioni Unite) la 3° Sezione Civile della Cassazione con la sentenza 13.1.2009 n. 458 ha mostrato elasticità interpretativa della domanda in tema di danno c.d.”tanatologico” affermando che:

• “Il danno cd. “tanatologico” o da morte immediata va correttamente ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso, nella sua nuova e più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita. Tale sofferenza può correttamente essere qualificata come danno morale e non come danno biologico terminale, attesane la inidoneità, nel caso di specie (l’intervallo di tempo tra l’incidente e la morte fu di tre giorni), ad integrare gli estremi di quella fattispecie di danno non patrimoniale.”

Una pronuncia molto interessante sul punto é stata emessa l’11.2.2009 con il n.3359/2009 da parte della 3° Sezione della Corte di Cassazione, in sede di ricorso per revocazione avverso la pronuncia n.12957 del 2007 della stessa Corte. Nella fattispecie i ricorrenti si dolevano (fondatamente, quanto al profilo rescindente) dell’omessa pronuncia su di una parte dell’originario motivo di ricorso che atteneva alla richiesta di corresponsione del “danno esistenziale da lesione del rapporto parentale o anche da irreversibile compromissione della qualità della vita, oppure definibile come attentato alla serenità domestica”, la cui prospettazione era sfuggita al primo esame della Corte, che si era erroneamente concentrata solo sulla contestuale richiesta del danno biologico jure proprio richiesto dai congiunti della vittima (verosimilmente perché tratta in inganno dalla letterale qualificazione del motivo che impropriamente proponeva una sorta di sovrapposizione fra il danno biologico e le altre forme di pregiudizio sopra indicate). Tanto premesso quanto al “rescindente”, la Corte, in sede “rescissoria”, ha richiamato i noti orientamenti delle Sezioni Unite, puntualizzando che “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata

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configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita é percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complessivo pregiudizio.”. Quindi la Corte ha formulato una importante precisazione: ossia che non si può certo sostenere che in tutti i processi pendenti (id est : nelle pronunce anteriori alla sentenza delle Sezioni Unite del 2008) tutte le liquidazioni del “danno morale” debbano essere riferite al pregiudizio costituito dal “danno morale soggettivo transeunte” e che pertanto non coprano la voce di pregiudizio relativa al c.d. “danno da perdita della relazione parentale”, sì da essere necessariamente rinnovate ed integrate. Al contrario la Corte afferma come “ dato di oggettivo rilievo” l’assunto che i giudici del merito nel liquidare il danno morale hanno quasi sempre tenuto conto sia della durata del pregiudizio, sia di quanto lo determina. “In definit iva – finisce con l’affermare la Corte – “nelle ipotesi di liquidazione del danno morale ai superstiti da morte del congiunto (ma l’enunciazione é applicabile ad ogni liquidazione del danno morale soggettivo da reato), per stabilire se le sentenze precedentemente emesse siano in linea con i principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite n.26972 del 2008, occorre considerare se la avvenuta liquidazione del danno non patrimoniale sia o no comprensiva anche del tipo di pregiudizio derivante dalla lesione del (diritto al) rapporto parentale. Soccorre a tal fine la motivazione della sentenza e, in difetto di esplicite considerazioni, l’entità delle somme liquidate.”. Il ragionamento si colloca nello stesso solco disegnato da una delle quattro sentenze gemelle del novembre 2008, ossia la 26973/08, che nell’affrontare, dopo la lunga premessa comune, le peculiarità della concreta fattispecie, ebbe modo di confrontarsi con analogo problema. I ricorrenti infatti lamentavano il mancato riconoscimento del “danno da rottura del vincolo familiare”, ossia del danno da perdita della relazione parentale, quale figura di danno non patrimoniale distinta rispetto al danno biologico ed al danno morale soggettivo. Il Giudice di appello aveva rigettato la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dagli attori per la rottura del vincolo familiare, sul rilievo che si tratta di “voce” già considerata dal Giudice di primo grado sotto il profilo del danno biologico e del danno morale sofferto jure proprio dai congiunti, opinando che l’accoglimento della pretesa darebbe luogo ad una duplicazione risarcitoria, in particolare con riferimento al danno morale, per la liquidazione del quale il giudice aveva tenuto conto dell’età della vittima, del grado di parentela, delle particolari condizioni della famiglia, della convivenza e dell’intensità del legame affettivo. Le Sezioni Unite hanno condiviso la decisione impugnata, osservando al proposito: “La decisione è corretta. Il giudice di primo grado ha ravvisato sia la sussistenza del danno biologico sofferto iure proprio dai genitori, determinato dalla degenerazione in patologia della sofferenza determinata dalla perdita del figlio, per il quale ha utilizzato il sistema di liquidazione tabellare, sia la sussistenza del danno morale, palesemente discostandosi dal ristretto ambito tradizionale del danno morale soggettivo, del patema d’animo transeunte. Ha infatti tenuto conto di tutti gli elementi che, secondo le successive sentenze che ammettono il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale (n. 8827 e n. 8828/2003), devono essere considerati per la liquidazione di tale danno (età della vittima, grado di parentela, particolari condizioni della famiglia, convivenza, intensità del legame affettivo), ed ha proceduto a consistente liquidazione del danno, palesemente esorbitante quella spettante per il mero danno soggettivo da patema d’animo transeunte. La decisione è stata condivisa dalla corte d’appello, che ha rilevato il rischio della duplicazione del risarcimento del medesimo danno, qualora alla liquidazione del danno morale, nell’ampia accezione considerata dal primo giudice, si fosse aggiunta quella del danno da perdita del rapporto parentale. Decisione esatta, perché in linea con i principi enunciati da queste Sezioni unite in sede di esame della questione di particolare importanza al punto 4.9.” Anche in questa ipotesi la Suprema Corte ha diagnosticato la sottovoce di danno non patrimoniale concretamente risarcita sulla base dei criteri di valutazione adottati dal Giudice di merito e dell’entità degli importi liquidati, considerati “esorbitanti” per il ristoro di un danno meramente passeggero. Il danneggiato è tenuto a formulare l’allegazione almeno nei suoi tratti che caratterizzano la specifica sintesi descrittiva, nell’atto introduttivo, salve le successive precisazioni e puntualizzazioni e le offerte di prova del pregiudizio. In altri termini, nell’atto introduttivo (atto di citazione, comparsa di risposta con proposizione della domanda riconvenzionale) deve essere contenuta la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale e la sommaria prospettazione descrittiva del pregiudizio, suscettibile di essere precisata, integrata ed offerta a prova nelle attività processuali successive. Nel rito del lavoro non è previsto un siffatto spazio per le emendationes e il ricorso introduttivo pertanto deve necessariamente contenere la prospettazione dei pregiudizi, non suscettibile di ulteriori allegazioni di ampliamento. Occorre quindi considerare alcune specifiche problematiche processuali in tema di domande di risarcimento del danno non patrimoniale che caratterizzano il giudizio di impugnazione (e in particolare il giudizio di appello), rese ancor più attuali e avvincenti dalle criticità di una situazione transitoria che, come in tutti i momenti epocali di evoluzione giurisprudenziale, sorprende e disorienta le parti dei giudizi in corso, talora sospingendole a frettolosi e discutibili aggiustamenti di tiro per cercare di rimediare ad una evoluzione sfavorevole, tal’altra inducendole a recuperi “postumi”, per cercare di sfruttare i vantaggi di una evoluzione favorevole. E’ doveroso tuttavia precisare, per non perdere di vista l’esatta portata e i limiti della questione in analisi, che ci si trova pur sempre di fronte ad una, autorevolissima, pronuncia giurisprudenziale proveniente dal massimo organo giurisdizionale – custode della nomofilachia - in sede di interpretazione del diritto positivo. E quindi le sentenze gemelle del 2008 sentenze sono e sentenze restano, limitandosi ad interpretare il complesso del diritto vivente in tema di presupposti e limiti della risarcibilità del danno non patrimoniale, senza determinare alcun fenomeno di jus superveniens in corso di causa. Id est: chi ha diritto di pretender qualcosa in forza dell’interpretazione accreditata dalla sentenza delle Sezioni Unite, lo aveva anche prima, ancorché la giurisprudenza prevalente non glielo riconoscesse; e viceversa, chi non ha diritto di pretender

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qualcosa in forza dell’interpretazione accreditata dalla sentenza delle Sezioni Unite, non lo aveva neppure prima, ancorché la giurisprudenza prevalente glielo riconoscesse. E’ quindi necessario ribadire che i riassestamenti conseguenti allo “scossone” giurisprudenziale non possono riguardare il merito delle decisioni e tuttalpiù possono giustificare una certa elasticità nell’interpretazione “contestualizzatrice” delle domande e un certo tasso di comprensività nella regolazione delle spese di lite, per tener conto alla luce del fondamentale principio di causalità (di cui il criterio di soccombenza è mero elemento rivelatore) dell’influenza esercitata sulla proposizione di una certa domanda degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti al momento della sua proposizione. E’ ben noto che l’art.345, 1° comma, c.p.c. vieta, a pena di inammissibilità rilevabile d’ufficio, la proposizione di domande nuove nel giudizio di appello, con incisiva misura apprestata a garanzia dell’effettività del doppio grado di giurisdizione di merito. E’ evidente pertanto che lo spazio consentito alle parti per gli adattamenti conseguenti alla pronuncia delle Sezioni Unite è solamente quello delle attività ri-definitorie o ri-classificatorie sotto il profilo terminologico di pretese comunque da ritenersi già avanzate in primo grado all’esito di una corretta lettura della domanda giudiziale, condotta, sulla base dell’interpretazione della richiesta rivolta al Giudice e dell’accertamento dell’interesse concretamente fatto valere, senza vincolo scaturente dalle espressioni letterali usate, ma con la debita attenzione alla reale portata della domanda di tutela, non disgiunta dal fondamentale rispetto del diritto della controparte al contraddittorio. V’è peraltro da dire che una lettura molto ampia ed elastica della onnicomprensiva richiesta risarcitoria dei danni tutti patrimoniali e non, connessi ad un fatto illecito, quale quella accreditata dalla recente Cass.civ. sez. III, 28 novembre 2007, n. 24745, sopra illustrata, può indubbiamente favorire gli attori nell’opera di riadattamento classificatorio nella fase transitoria. 3.2. La problematica del danno non patrimoniale alla luce della specifica materia delle impugnazioni. In materia di impugnazioni occorre tener ben presente il principio fondamentale della formazione progressiva del giudicato a cui deve essere ben coordinata l’applicazione nel caso concreto dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale autorevolmente insegnati dal Supremo Collegio. Ai sensi dell’art.329, 2° comma, c.p.c. l’impugnazione parziale importa acquiescenza delle parti alle parti della sentenza non aggredite con l’impugnazione. Inoltre la parte appellante ha l’onere di proporre, con l’atto di impugnazione, specifici motivi di critica nei confronti della ratio decidendi della sentenza impugnata. E’ ormai consolidata la definizione dei motivi specifici di appello ex art.342 c.p.c. quali ragioni della critica rivolta dall’appellante alle motivazioni addotte dal giudice di primo grado, ragioni che debbono essere potenzialmente dotate dell’attitudine alla confutazione logica o giuridica del fondamento della decisione. Tale definizione può essere saldamente ancorata all’insegnamento delle Sezioni Unite impartito con la fondamentale decisione del 29.1.2000 n.16, secondo cui “I motivi di appello sono specifici, nel senso voluto dalla prima parte del previgente art. 342 c.p.c., se si traducono nella prospettazione di argomentazioni, contrapposte a quelle svolte nella sentenza impugnata, dirette ad incrinarne il fondamento logico - giuridico.” La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente puntualizzato che:

• l’indicazione dei motivi di appello richiesta dall’art. 342 c.p.c. non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello;

• al contrario, è sufficiente una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza;

• l’onere della specificazione dei motivi di appello non può però ritenersi assolto mediante la mera riproposizione della domanda ovvero dell’eccezione decisa in senso sfavorevole dal giudice di primo grado;

• i motivi di gravame in cui si articola la doglianza debbono essere idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata;

• ciò vale anche nel caso in cui la sentenza di primo grado sia impugnata “nella sua globalità”; • nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il

diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve perciò sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa, che contrasti e confuti le ragioni addotte dal primo giudice;

• a tal fine non è peraltro sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, comunque, con la motivazione della sentenza impugnata;

• l’articolazione delle censure deve infatti adattarsi alla maggiore o minore specificità nel caso concreto della motivazione di primo grado, dovendo quindi assumere il maggior coefficiente di specificità quanto più precisa e specifica sia la motivazione addotta dal Primo Giudice (Ex plurimis: cfr Cassazione civile, sez. III, 13 luglio 2007, n. 15733; sez. III, 11 giugno 2007, n. 13676; sez. I, 5 giugno 2007, n. 13175; sez. III, 18 aprile 2007, n. 9244; sez. I, 1 febbraio 2007, n. 2217; sez. III, 11 ottobre 2006, n. 21745; sez. I, 11 ottobre 2006, n. 21816 ; sez. I, 19 settembre 2006, n. 20261; sez. I, 19 settembre 2006, n. 20261; sez. III, 24 marzo 2006, n. 6630; sez. III, 14 marzo 2006, n. 5445; sez. III, 16 dicembre 2005, n. 27727; sez. I, 24 novembre 2005, n. 24834; sez. II, 14 novembre 2005, n. 22906; sez. I, 20 ottobre 2005, n. 20287).

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I principi in tal modo “distillati” dalla giurisprudenza del Supremo Collegio sono chiari almeno in linea di principio, anche se la loro corretta applicazione ai singoli casi concreti implica necessariamente un certo, ineliminabile, tasso di discrezionalità interpretativa. In sintesi, secondo il diritto vivente, l’appello si configura come impugnazione di merito di carattere devolutivo, caratterizzata quale “revisio prioris instantiae” ed innescata dall’articolazione di una critica specifica, puntuale, pertinente e mirata, che deve essere rivolta alle ragioni della decisione di primo grado, per la cui proposizione non è sufficiente la (pur necessaria) formulazione delle conclusioni sottoposte al giudice di secondo grado, che ripropongano in tutto o in parte quelle già rivolte al giudice di primo grado (c.d. “parte volitiva”), ma è altresì richiesta, a pena di inammissibilità del gravame, l’esposizione delle censure indirizzate alla motivazione della sentenza di primo grado (“parte argomentativa”). Talora in giurisprudenza viene in considerazione il carattere di “pertinenza” del motivo di impugnazione, che non corrisponde, invero, ad un separato requisito, ma rappresenta piuttosto un elemento costitutivo della specificità, che si esprime nella correlazione fra motivazione e censura: in tanto il motivo è pertinente in quanto si riferisca alla motivazione e la contrasti. Il parametro di specificità esige poi l’ulteriore requisito dell’articolazione, tanto più dettagliata e minuziosa quanto più dettagliata e minuziosa é la motivazione (ed ovviamente, a contrario, si accontenta di una articolazione tanto più generale e complessiva, quanto più generale e complessiva é la motivazione). A tal proposito il metro di valutazione dell’ammissibilità del motivo è la sua potenziale attitudine alla confutazione del ragionamento del primo giudice (ossia la sua attitudine distruttiva). In altre parole, il giudice di appello per valutare se il motivo sia pertinente e specifico (e quindi ammissibile) deve procedere alla seguente operazione di verifica concettuale, chiedendosi: se fosse vero quanto afferma l’appellante, il fondamento (fattuale, logico, giuridico, scientifico, equitativo) della decisione di primo grado verrebbe meno? Solo se la risposta a tale interrogativo è positiva, il motivo di impugnazione in appello può dirsi specifico e pertinente, e quindi ammissibile. Ora, può verificarsi – ed anzi spesso si verifica - che a fronte di una richiesta di risarcimento di danni di natura non patrimoniale (normalmente, nella prassi forense anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2008, scomposta in una serie di voci o categorie: danno morale, danno biologico, danno da lesione qualificata di interessi costituzionalmente protetti, danno esistenziale) il Giudice di primo grado si sia pronunciato in senso favorevole al richiedente, spesso in modo selettivo, accogliendo alcune di queste pretese, all’epoca considerate quali categorie autonome di danno e non quali mere sintesi descrittive di pregiudizi riconducibili a matrice unitaria, e respingendone altre. Nessun problema se l’impugnazione dell’una o dell’altra parte ha investito la stessa tecnica di liquidazione del danno non patrimoniale seguita dal Giudice delle prime cure, criticata proprio per aver proceduto ad una frammentazione di un pregiudizio da apprezzarsi unitariamente (il che, evidentemente, innesca l’effetto devolutivo sui criteri liquidatori seguiti ed impedisce il passaggio in giudicato di parti della sentenza). Parimenti nessun apprezzabile problema sembra possibile scorgere se, in un modo o nell’altro, l’impugnazione ha aggredito tutte le varie voci di danno oggetto di considerazione da parte del Giudice di primo grado. E’ infatti evidente che pure in questo caso il Giudice di appello potrà riconsiderare l’intera materia del danno non patrimoniale nel rispetto delle indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite e così addivenire, valutato ogni motivo di censura ed ogni elemento istruttorio, all’equa liquidazione, unitaria, dell’intero danno non patrimoniale. Quid juris allorché invece l’impugnazione abbia investito, per iniziativa dell’una o dell’altra parte, solo alcune delle voci isolatamente considerate dal Primo Giudice? Il fondamentale principio della formazione progressiva del giudicato, che si traduce nella funzione devolutiva dell’appello, modernamente inteso, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, quale “revisio prioris instantiae” e che soprattutto costituisce espressione dell’ancor più fondamentale principio dispositivo (“ne eat judex ultra petita partium”), impone di ritenere che si sia formato il giudicato interno sulla liquidazione alla frazione di risarcimento pertinente alla sottovoce o “sintesi descrittiva” non costituente oggetto di impugnazione. Analogo ragionamento, viceversa e mutatis mutandis, vale per l’ipotesi opposta in cui l’impugnazione proposta dalla parte condannata al risarcimento riguardi solo alcune delle sottovoci o sintesi descrittive oggetto di considerazione. In effetti, in tutta la giurisprudenza del 2009 della Suprema Corte in tema di danni non patrimoniali, oltre al costante riferimento alle sentenze gemelle del 2008 delle Sezioni Unite, si registra la precisa puntualizzazione dell’ambito della devoluzione conseguente alla proposizione delle impugnazioni da parte degli interessati. Giova poi tener presente che la sentenza delle Sezioni Unite ha provveduto ad una risistemazione dogmatica e concettuale dell’intera materia del danno non patrimoniale, ma non ha certo negato ed anzi ha espressamente riconosciuto, l’astratta configurabilità di certe tipologie di pregiudizio, precedentemente considerate, per ragioni storiche legate al loro progressivo e graduale riconoscimento, come categorie autonome, propugnando una valutazione liquidazione unitaria dell’intero complesso di pregiudizi ravvisabili e con essa il risarcimento del “danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.” Peraltro è la stessa sentenza a scolpire l’inderogabile principio della necessaria integralità e completezza del risarcimento, allorché rammenta che: “Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

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E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.” Quindi se il Giudice ha risarcito non integralmente il pregiudizio effettivo ed è ormai passata in giudicato la decisione che ne ristora una parte (decisione rispetto alla quale le parti hanno prestato la loro discrezionale e insindacabile acquiescenza), la proposizione rituale dell’impugnazione per conseguire il ristoro della frazione di pregiudizio non risarcito, dovrebbe condurre ad una pronuncia integrativa del risarcimento del danno non patrimoniale avuto riguardo alla quota di pregiudizio accertato come sussistente e non ristorato dalla sentenza di primo grado. Una importante indicazione in questo senso è possibile cogliere proprio da una delle quattro sentenze gemelle dell’11.11.2008 delle Sezioni Unite, la 26974/2008, nella parte dedicata all’esame dello specifico ricorso, dopo l’illustrazione della questione di particolare importanza (ossia del contenuto comune delle quattro decisioni). In quella controversia i congiunti della vittima primaria, a cui era stato accordato il risarcimento del “danno morale”, lamentavano l’omessa pronuncia della Corte di appello sulla loro parallela richiesta di risarcimento del “danno esistenziale”, nella fattispecie individuato nell’improvviso e radicale mutamento delle loro condizioni di vita e dall’essersi trovati in una grave situazione di indigenza, a cui la Compagnia assicurativa non aveva posto rimedio, ritardando il versamento dell’indennizzo. I ricorrenti sottolineavano a tal fine che non era configurabile una duplicazione di poste risarcitorie e mettevano in risalto la diversità dei due pregiudizi dedotti (l’uno indennizzato e l’altro ignorato). Le Sezioni Unite con la sentenza 26974/2008, dopo aver riaffermato i principi generali enunciati circa la questione di particolare importanza, hanno accolto il motivo, cassando la sentenza di merito, e hanno invitato il Giudice di rinvio a considerare che il c.d. “danno esistenziale” non costituisce categoria autonoma di danno non patrimoniale e che con il risarcimento del “danno morale” era stato in realtà risarcito il “danno non patrimoniale da perdita del congiunto” mentre lo sconvolgimento dell’esistenza subito dai familiari rappresentava solo uno degli aspetti del complesso pregiudizio, sicché si poneva in realtà solo una questione di “adeguatezza della liquidazione”, che doveva essere riesaminata anche sotto il profilo di pregiudizio ignorato. Un cenno merita anche la recente pronuncia della 3° Sezione della Corte di Cassazione del 13 gennaio 2009, n. 479, che ha ribadito la prioritaria necessità della liquidazione integrale del risarcimento ed ha accolto il motivo di censura che stigmatizzava il mancato riconoscimento del danno morale (nella fattispecie negato dal Giudice del merito per l’accertamento solo presuntivo della responsabilità del danneggiante) pur essendo stato riconosciuto il risarcimento del danno biologico conseguente alle lesioni subite dalla vittima: “Merita accoglimento il quarto motivo, in cui si deduce la violazione di legge (art. 2059 c.c.) per la mancata liquidazione del danno morale contestuale alle lesioni gravi. Sul punto la Corte di appello (ff. 8 e 9 della sentenza) si limita a confermare la decisione del tribunale che ha escluso la risarcibilità del danno morale nel caso di colpa presunta. La Corte delibera la decisione nell’aprile del 2003, anteriormente alla svolta delle sentenze della 3^ sez. civile nn. 7281, 7282, 7283 del 12 maggio 2003, che affermano il principio evolutivo, secondo cui alla risarcibilità del danno non patrimoniale non osta il mancato accertamento della colpa dell’autore del danno, se essa, come nei casi di cui all’art. 2054 c.c. debba ritenersi sussistere in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa (come appare nel caso di specie) il fatto sarebbe qualificabile come reato. Questo orientamento, consolidato da sentenze successive conformi, da ultimo appare confermato nel punto 2.10 della motivazione della sentenza delle SU civili n. 26972 del 11 novembre 2008. Pertanto il giudice del rinvio é vincolato al rispetto del seguente principio di diritto: la parte che ha subito lesioni gravi alla salute nel corso di un incidente stradale, ha diritto al risarcimento integrale del danno ingiusto non patrimoniale (nella specie dedotto come danno morale), che deve essere equitativamente valutato tenendo conto delle condizioni soggettive della vittima, della entità delle lesioni e delle altre circostanze che attengono alla valutazione della condotta dello autore del danno, ancorché vi sia l’accertamento del pari concorso di colpa ai sensi dell’art. 2054 c.c., comma 2.” Molto interessante, seppur non risolutiva, appare sul punto la recente decisione delle Sezioni Unite n. 3677 del 16.2.2009, che richiama i principi di Cass.26772/2008 e ricorda che il risarcimento del danno non patrimoniale è ammesso allorché il fatto illecito costituisca reato, oppure (in dipendenza di una interpretazione costituzionalmente orientata) allorché sussista un vulnus ad un diritto della persona. In tale decisione le Sezioni Unite osservano che il danno esistenziale (inteso come pregiudizio alle attività non remunerative della persona) costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale che non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato ed escludono espressamente il cumulo (senza nulla dire sulla possibilità di integrazione). Per esempio, anche se la Suprema Corte rileva che “Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato”, riprendendo analoghe considerazioni già anticipate da Cass.15022/2005, qualora il Giudice di primo grado, come nel caso considerato, abbia inteso ristorare con l’attribuzione dei danni morali solo il danno soggettivo c.d. “transeunte” (secondo un iter argomentativo influenzato da ragioni storiche e ormai superato), il Giudice di appello cui sia devoluta solo la richiesta di ulteriore ristoro del danno da perdita del rapporto parentale (che egli ritenga, diversamente dall’opinione del Primo Giudice, provato) non potrà che addivenire a quella pronuncia integrativa del risarcimento del danno non patrimoniale avuto riguardo alla sopra citata quota di pregiudizio, accertato come sussistente e non ristorato. Del resto, già nella citata Cass.15022 del 2005 il Supremo Collegio aveva ammesso il cumulo del danno morale soggettivo “transeunte” e del danno non patrimoniale costituzionalmente qualificato da lesione della relazione parentale, ammonendo solamente di non sovrapporre i risarcimenti, con deprecabile duplicazione, allorché le tabelle adottate dall’Ufficio Giudiziario fossero state revisionate consolidando nel c.d. “danno morale” anche la quota relativa alla seconda lesione.

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Del pari, anche se la Suprema Corte ha ammonito che “Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.”, allorché il Giudice di primo grado abbia liquidato alla vittima di lesioni colpose il danno biologico e il danno morale “standard”(secondo i criteri precedentemente diffusi sulla base di un rapporto percentuale) e questi rivendichi in appello un maggior danno non patrimoniale connesso alla sopravvenuta impossibilità di praticare una specifica attività sportiva, ricreativa o artistica dianzi coltivata con passione ed applicazione, l’oggetto del giudizio devoluto al Giudice di secondo grado attiene solo alla quota di pregiudizio asseritamente non risarcito. Anche in questo caso il Giudice di appello, convinto dell’inadeguatezza equitativa del riconoscimento, non potrà che integrare il risarcimento per equivalente, senza mettere in discussione quelle parti della sentenza che non siano state messe in discussione dalle parti contendenti. A tali principi si è recentemente attenuta la Corte di Appello di Torino (sezione III° Civile) in una controversia risarcitoria (El Basyony/Fondiaria SAI e Beltrutti, sentenza 8.5.2009, proc.n.925 r.g.2008) in cui la vittima di un sinistro stradale aveva ottenuto dal Giudice di primo grado una certa somma a titolo di risarcimento del danno biologico subito in conseguenza delle lesioni patite e dei postumi invalidanti permanenti residuati ed un’altra somma a titolo di risarcimento del danno morale subito, calcolata (secondo la consuetudine giurisprudenziale invalsa prima dell’intervento delle Sezioni Unite) in una percentuale della somma liquidata a titolo di danno biologico (nel caso il 37,5%); entrambe le parti avevano impugnato la decisione in punto liquidazione del danno morale, contestando con specifici motivi la misura percentuale del danno morale in rapporto all’entità del danno biologico; con contrapposte argomentazioni l’attore sosteneva che tale percentuale doveva essere ragguagliata almeno al 50% del danno biologico, mentre il convenuto riteneva che dovesse essere ridotta al 25%. In un caso del genere, le considerazioni sopra esposte portano a ritenere che non possa rimettersi in discussione la somma liquidata a titolo di danno non patrimoniale – componente danno biologico e che il Giudice dell’appello debba semplicemente dirimere la controversia sul quantum debeatur a titolo di risarcimento della componente di sofferenza morale, stabilendo l’entità del corretto indennizzo. 3.3. Il rispetto del canone della liquidazione unitaria nel caso concreto. Tanto premesso in linea teorica e generale, al fine di affrontare funditus per la prima volta l’argomento delle tecniche di risarcimento del danno non patrimoniale dopo la pronuncia delle Sezioni Unite del 2008, la Corte ritiene opportuno ritornare alla concreta materia della fattispecie a giudizio. Nella specie il Tribunale ha pienamente rispettato il canone della liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, provvedendo alla attribuzione a tale titolo della somma onnicomprensiva di € 113.259,83, attualizzata in moneta dell’epoca del sinistro (e poi corredata di rivalutazione e interessi). Il Tribunale ha semplicemente adempiuto al dovere di motivazione, indicando in maniera analitica e scrupolosa i vari pregiudizi oggetto di risarcimento, tenendo di volta in volta in considerazione le richieste e le deduzioni della parte attrice, nell’ottica doverosa e assolutamente prioritaria del risarcimento integrale del danno. Recentemente la Suprema Corte ha avuto cura di sottolineare, con estrema forza, decidendo un drammatico caso che l’unitarietà della liquidazione non affranca il Giudice dal rispetto dell’obbligo motivazionale in riferimento alle singole poste che lo compongono:

• “In relazione ad un fatto illecito costituente anche fatto reato continuato per atti di libidine in danno di minore, la valutazione unitaria del danno non patrimoniale deve esprimere analiticamente l’iter logico ponderale delle poste (sinteticamente descritte e tipicizzate in relazione agli interessi o beni costituzionali del minore lesi) e non già una apodittica affermazione di procedere ad un criterio arbitrario di equità pura, non controllabile per la sua satisfattività. La posta del danno morale deve essere dunque comparata a quella del danno biologico, e non è detto a priori che il danno morale sia sempre e necessariamente una quota del danno alla salute, specie quando le lesioni attengano a beni giuridici essenzialmente diversi, tanto da essere inclusi in diverse norme della Costituzione. Al contrario, il danno morale potrà assumere il valore di un danno ingiusto più grave, in relazione all’attentato alla dignità morale del minore ed alla compromissione del suo sviluppo interrelazionale e sentimentale.”(Cassazione civile , sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530).

Analogamente: • “Nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del

lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (art. 32 e 37 cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo reg olati "ex ante" da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, in controversia in tema di demansionamento, accertato il nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato depressivo del lavoratore, aveva riconosciuto il danno biologico e il danno morale nell’ambito del danno non patrimoniale, applicando correttamente - al di là delle singole espressioni utilizzate - il sistema bipolare introdotto nel sistema

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ordinamentale in materia risarcitoria e, quindi, fondando la liquidazione dei danni di cui erano risultati provati l’esistenza e il collegamento causale con l’illegittima condotta datoriale).”(Cassazione civile , sez. lav., 12 maggio 2009, n. 10864).

Che poi le singole “sottovoci” o “sintesi descrittive” dei vari pregiudizi allegati ed accertati siano state indicate come “voci” di danno è questione meramente terminologica che non inficia in alcun modo la sostanza di una decisione, pienamente rispettosa dei parametri fondamentali della giurisprudenza delle Sezioni Unite. Infatti il Tribunale:

• non ha risarcito danni non richiesti, non dedotti e non allegati ; • ha liquidato unitariamente il danno non patrimoniale; • ha considerato tutti i profili del danno non patrimoniale dedotto; • ha dato conto, scrupolosamente ed analiticamente, delle ragioni per cui ogni singola sottovoce è stata

considerata nell’importo complessivo del danno non patrimoniale risarcibile. 3.4. La considerazione del “danno esistenziale” come voce autonoma. Né possono fondatamente dolersi le parti appellanti della considerazione del “danno esistenziale” come voce autonoma. Infatti il Primo Giudice non ha affatto liquidato autonomamente il “danno esistenziale” (e per vero neppure l’ha menzionato) e si è limitato a dar specificamente conto, nell’ambito della complessiva liquidazione del danno non patrimoniale delle ragioni per cui doveva essere riconosciuta una componente del c.d. “danno da sofferenza”; né, per giunta e per le ragioni sopra esposte, sarebbe consentita una mera lagnanza di carattere terminologico circa il nomen juris utilizzato che prescinda dal concreto contenuto della tipologia di pregiudizio effettivamente preso in considerazione e ristorato. Si noti, fra l’altro, che se il Giudice di primo grado, dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, ha omesso opportunamente di riferirsi alla categoria del “danno esistenziale”, sia la parte attrice, sia le stesse parti convenute, avevano etichettato, prima della pronuncia delle Sezioni Unite in tal modo alcune delle prospettazioni risarcitorie (cfr comparsa di risposta Fondiaria SAI di primo grado, pag.6, laddove non si dissente dalla qualificazione giuridica ex adverso proposta del danno come esistenziale, ancorché si reputino insufficienti le allegazioni poste a suo sostegno). 3.5. Il danno da sofferenza. Gli appellanti stigmatizzano nelle loro difese inoltre l’ingiustificato ricorso alla nozione di “danno da sofferenza”, sostanzialmente riproduttivo della vecchia figura di “danno morale”, superata dalla concezione accolta dalle Sezioni Unite (cfr ricorso in appello sub 3, pag. 12 e 14). E’ innegabile che la risistemazione della materia effettuata dalle pronunce delle Sezioni Unite ha finito con l’incidere su prassi e tecniche liquidatorie consolidate, suscitando gravi problemi di assestamento e ingenerando dubbi di non facile soluzione, specie con riferimento al tema scottante della sovrapposizione del danno morale al danno biologico. Al riguardo nelle vivaci discussioni degli studiosi e degli operatori pratici circolano sostanzialmente due opinioni contrapposte. Da una parte si sostiene, con specifico riferimento ad alcuni passaggi, inequivocabili e “trancianti” della sentenza delle Sezioni Unite del 2008, che in sede di liquidazione del nuovo danno non patrimoniale, in caso di lesioni dell’integrità psico -fisica della persona non è più possibile riconoscere una componente di danno morale in aggiunta al danno biologico e che al contempo per la liquidazione del danno biologico (almeno nei settori in cui è stata codificata una tabella unica nazionale) si devono obbligatoriamente rispettare i parametri fissati per legge, salvi i modesti aggiustamenti quantitativi in percentuale consentiti (20% per le micropermanenti di cui all’art.139 Cod.ass.ni; 30% per le invalidità superiori al 9% di cui all’art.138 Cod.ass.ni, allo stato non ancora corredato dell’apposita tabella unica nazionale). Una autorevole dottrina, invocata da parte appellante anche nel corso della discussione orale, ha illustrato la portata della sentenze delle Sezioni Unite affermando che rientra nel concetto di danno biologico ogni sofferenza fisica o psichica provata dalla vittima e ricordando con note parole della Suprema Corte che “determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale [...], sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”. Da altre parti invece si denunciano una serie di incongruenze nella decisione delle Sezioni Unite, suscettibili di pesanti ricadute consequenziali; si sottolinea innanzitutto la preminente necessità, contestualmente riconosciuta dalla stessa Suprema Corte, del risarcimento “integrale” del danno non patrimoniale; si pone in risalto il contrasto fra la derubricazione a mera “sintesi descrittiva” o “sottovoce” del danno non patrimoniale operata con riferimento al “danno biologico” e la sua esplicita definizione e consacrazione normativa attuata nel 2005 dagli artt.138 e 139 del Codice delle assicurazioni; si stigmatizza infine l’incoerenza dell’operazione ex adverso propugnata, che finisce con l’attribuire alla morente categoria autonoma del danno biologico la residua energia per soffocare, per così dire, sul letto di morte, il pregiudizio contestualmente patito sul piano dell’integrità morale dalla vittima della lesione fisica. Alcuni per esempio, hanno osservato che l’impossibilità di far rientrare anche il danno morale nell’ambito degli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni, discende dal fatto che il danno morale tutela la dignità umana (ex artt. 2, 3 Cost.), diversamente dal biologico ex art. 32 Cost. e riguarda il “sentire” e non il profilo dinamico – relazionale, a cui fa riferimento il Codice delle assicurazioni; poiché, all’epoca di redazione del Codice delle assicurazioni, il danno morale era sempre separato da quello biologico, non potrebbe ritenersi che il Legislatore del 2005 abbia fatto riferimento ad uno scenario normativo - giurisprudenziale in cu i il danno biologico assorbiva il morale.

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In questo contesto è facile immaginare che uno degli sbocchi dell’insoddisfazione degli interpreti possa essere rappresentato dalla proposizione di una questione di illegittimità costituzionale, prospettata con riferimento al “diritto vivente” (ex plurimis, da ultimo: Corte Costituzionale 30.1.2009 n.20; 25.7.2008 n.302; 2.7.2008 n.242; 20.6.2008 n.226; 16.5.2008 n.147; 14.5.2008 n.130; 24.4.2008 n.124; 11.4.2008 n.96; 14.3.2008 n.64.), così come rappresentato dal recente indirizzo inaugurato dalle Sezioni Unite. Prima di pervenire a tale approdo interpretativo occorre però riflettere sul fatto che il concetto di danno morale mira a salvaguardare l’integrità morale della vittima, bene giuridico presidiato dall’art. 2 della Costituzione in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, nonché al Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008, n. 130, che tutela la dignità umana come la massima espressione della sua integrità morale e biologica (così come ricordato anche dalla già citata sentenza della Cass. civ., sez. III, del 12 dicembre 2008, n. 29191), mentre il danno biologico attiene all’efficienza biopsichica del danneggiato, o tuttalpiù alla salute in generale (e quindi comprende i riflessi negativi esercitati dalla patologia nella vita della vittima). Appare necessario inoltre, fin da subito, precisare che anche l’orientamento dottrinale invocato dalle parti appellanti come loro autorevole referente, non nega in assoluto diritto di cittadinanza alla nozione di “sofferenza morale causata dalle lesioni”, ammettendo de plano che la sofferenza resta un danno, e che come tale sia risarcibile se derivante da una lesione della salute o comunque da un fatto di reato, ma mira, piuttosto, ad escludere che il medesimo pregiudizio (la sofferenza) possa essere liquidato due volte, dapprima a titolo di danno biologico e quindi a titolo di danno morale, sicché delle particolari sofferenze causate dall’infortunio il Giudice dovrebbe tenere conto non liquidando una posta di danno aggiuntiva rispetto al danno biologico, ma adeguatamente personalizzando la liquidazione di quest’ultimo. Giova alla corretta comprensione del problema il rammentare che in passato il Giudice, nel liquidare il danno non patrimoniale, era solito “cumulare” la voce di danno biologico a quella del danno morale, e attraverso la sommatoria delle due categorie giungeva a al ristoro integrale del pregiudizio. Tale tecnica, del tutto consolidata prima ancora che nell’esperienza giudiziaria, nella prassi amministrativa delle compagnie assicuratrici, era rimasta del tutto estranea alla accanita disputa sul tema del danno esistenziale, che riguardava invece la configurabilità di una “terza voce” di danno non patrimoniale, senza mettere in discussione la configurabilità del pregiudizio “morale” in aggiunta a quello “biologico”. E’ in questo contesto che si è registrato l’intervento del Legislatore con il Codice delle assicurazioni private (decreto legislativo 7.9.2005, n. 209) che con gli artt. 138 e 139 ha descritto un danno biologico, comprensivo degli aspetti c.d. “dinamici” o “relazionali”, in termini di “lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.” Importante novità della disciplina del Codice delle assicurazioni è rappresentata dall’introduzione della tabella unica nazionale per la liquidazione del danno biologico, sia sotto il profilo della previsione dell’incidenza percentuale delle varie menomazioni, sia sotto il profilo del valore pecu niario da attribuire ad ogni singolo punto alla luce dei coefficienti di variazione in dipendenza dell’età del soggetto leso; tale disciplina è stata dettata sia per le lesioni di non lieve entità superiori ai nove punti percentuali (sia pure con disposizione programmatica ancora priva della indispensabile tabella applicativa), sia per le lesioni di lieve entità (pari o inferiori al 9%), così sostituendo le previsioni e i valori di cui alla legge n.57 del 2001 e successive modifiche, relativamente alle cosiddette “micro permanenti”. La normativa del Codice fissa con l’art.138 per le macropermanenti e con l’art.139 per le micropermanenti i valori utilizzabili per la liquidazione, contemplando la possibilità di un aumento massimo rispettivamente del 30% per le macropermanenti e del 20% per le micropermanenti (art.138, comma 3, e art.139, comma 3) in presenza di una rilevante incidenza della menomazione su specifici aspetti dinamico -relazionali personali. I limiti legali al risarcimento del danno alla salute previsti dal Codice delle assicurazioni, ut supra quantitativamente differenziati a seconda della natura della lesione (micropermanente o macropermanente), non suscitavano peraltro un particolare interesse, prima delle pronunce delle Sezioni Unite del 2008, sia perché erano collegati al sistema di calcolo del danno affidato a tabelle nazionali (al momento sussistente per le sole c.d. “micropermanenti”), sia e soprattutto perché nessuno aveva sostenuto - e forse nemmeno pensato - che le limitazioni risarcitorie sopra indicate si applicassero anche al danno morale. Da più parti ci si è interrogati, tenuto conto della valenza costituzionale del risarcimento del danno alla persona, alla luce del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione e del principio della necessaria integralità del risarcimento, circa il rischio di illegittimità costituzionale dell’introduzione di limitazioni massime al risarcimento del danno alla persona, che non appaiano ragionevolmente giustificate da un interesse pubblico di rilievo costituzionale. Almeno in linea di principio non sembra da escludersi la sussistenza di un apprezzabile interesse pubblico all’introduzione di un limite legale massimo del risarcimento, al fine di stabilizzare il mercato assicurativo e soprattutto di garantire una certa “uniformità” dei risarcimenti sul territorio nazionale ed una loro minima prevedibilità da parte degli operatori del settore. Il riconoscimento astratto dell’ammissibilità dell’introduzione di soglie-limite, di per sé non contrastante con la Costituzione, non significa però che il Legislatore non debba rispettare congrui parametri di ragionevolezza per introdurre le soglie. E’ in tale scenario che matura il sospetto di incostituzionalità delle norme di cui agli 138 e 139 Codice delle assicurazioni ove le stesse fossero reinterpretate alla luce del “nuovo” art. 2059 c.c., così come ri-concepito dalle Sezioni Unite. Il più logico percorso ermeneutico, che sembra incontrare il favore delle prime risposte da parte della giurisprudenza di merito (cfr in termini vari, ad esempio: Trib. Catanzaro, sez. I civile, sentenza 15 marzo 2009; Tribunale Milano, sez. V

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civile, del 19 febbraio 2009 n. 233428; Tribunale di Bologna, sez. III, sentenza 29 gennaio 2009; Tribunale Nola, sez. II, 22 gennaio 2009, Tribunale Rovereto, 2 marzo 2009; Tribunale Palermo, sez. III civile, sentenza 3 giugno 2009), consiste nell’interpretare, in modo costituzionalmente orientato, gli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni nel senso che le soglie limite ivi contemplate (la prima delle quali al momento ancora non operativa) non si riferiscono alle voci (sottovoci o sintesi descrittive) di danno diverse dal biologico, così selezionando quella che fra le varie interpretazioni possibili della normativa non si pone in rotta di collisione con la Costituzione. Un importante elemento di novità, che collabora efficacemente all’orientamento sistematico, va poi individuato nel recentissimo intervento del Legislatore a sostegno della categoria del danno morale. L’art.5 del D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 (recante il “Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell’articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 24410”) introduce criteri legali per la determinazione dell’invalidità permanente, disponendo:

• che la percentuale d’invalidità permanente (IP) riferita alla capacità lavorativa, sia attribuita scegliendo il valore più favorevole tra quello determinato in base alle tabelle per i gradi di invalidità e relative modalità d’uso approvate, in conformità all’articolo 3, comma 3, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, con il D.M. 5 febbraio 1992 e successive modificazioni, e il valore determinato in base alle tabelle A, B, E ed F1 annesse al decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915;

• che la percentuale del danno biologico sia determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri applicativi di cui agli articoli 138, comma 1, e 139, comma 4, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, e successive modificazioni;

• che la determinazione della percentuale del danno morale sia effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all’evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico;

• che la percentuale di invalidità complessiva, che in ogni caso non può superare la misura del cento per cento, sia data dalla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa e la percentuale del danno biologico.

Sembra difficile ritenere, oltretutto in un contesto interpretativo perlomeno contrastato, che l’espressa considerazione normativa di una ipotesi specifica in cui il danno morale si sovrappone al danno biologico, suoni come eccezionale e ingiustificata deroga e non già come ragionevole riconferma di un principio generale in una materia specifica. Deve ritenersi, pertanto, che l’esclusione della possibilità di liquidare autonomamente la voce del “danno morale” quale categoria descrittiva, non comporti, tuttavia, l’irrilevanza di tale sottovoce ai fini della quantificazione del “danno non patrimoniale” subito dalla vittima dell’illecito, al fine di garantire un ristoro “integrale” del pregiudizio sofferto. Tale linea ermeneutica è stata, del resto, fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità successiva alle sentenze gemelle (Cass. 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. 13 gennaio 2009, n. 379; Cass., SS.UU., 14 gennaio 2009, n. 557), che ha affermato che l’integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, è bene tutelato dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008 n. 190, sicché il giudice deve valutare tale voce di danno a fini risarcitori, sia che esso si produca contestualmente al danno alla salute sia che si realizzi indipendentemente da esso, stante la diversità, l’autonomia e la rilevanza costituzionale del bene protetto. In tempi recentissimi si è registrato un altro pronunciamento della Corte di Cassazione (Sezione III°- sentenza 20 maggio 2009, n. 11701) sul tema, con cui è stato ribadito il diritto del danneggiato al risarcimento del pregiudizio da sofferenza morale, non assorbito dalla presenza di un pregiudizio biologico medicalmente accertato, da apprezzare equitativamente e senza automaticità proporzionali nel contesto di una valutazione integrata e complessiva del danno non patrimoniale. La Suprema Corte ha così censurato la sentenza di merito per non aver provveduto ad un completo ristoro del danno non patrimoniale, componente morale: “….nel secondo motivo si deduce error in iudicando e vizio della motivazione in punto di liquidazione del danno morale. Il motivo è fondato, ed in vero nella parametrazione di tale danno, che si pone in relazione ad un fatto reato di lesioni colpose, il giudice adotta un parametro in automatico pari ad un terzo del danno biologico, senza però considerare il periodo di inabilità temporanea, così violando il combinato disposto degli art. 2043, 2059 e 2056 del codice civile, secondo il regime vigente al tempo del fatto (omissis), senza considerare il divieto del criterio automatico, più volte ribadito da questa Corte (e vedi ora Cass. SS Unite, punto 3.4.1 per la valutazione del danno morale in presenza di reato; e punto 4.8 per il risarcimento integrale del danno e punto 4.9 per il divieto di duplicazioni). Il periodo di invalidità temporanea totale o parziale è invero espressamente considerato dalla definizione del danno biologico da micropermanente, come componente fisica, nel testo dell’art. 139 secondo comma del codice delle assicurazioni; definizione che le sezioni unit e menzionate considerano come generale e valida, essendo espressione di una interpretazione giurisprudenziale consolidata, oltre che di una interpretazione autentica ma ricognitiva del codice delle assicurazioni (cfr. ancora punto 2.13 delle sezioni unite citate). Ne segue che risulta evidente la valutazione riduttiva e illogica compiuta dai giudici dell’appello, sia in relazione alla valutazione del danno morale soggettivo, come sofferenza e dolore, considerando il fatto reato ed il tempo della inabilità, restando fermo il divieto dell’automatismo anche per la liquidazione delle micropermanenti e dei danni morali consequenziali che restano estranei alla definizione complessa del danno biologico, che vincola anche i giudici tenuti ad applicarla per tutte le sue componenti a prova scientifica e personalizzanti.” In numerose pronunce del 2009 la Cassazione, lungi dal voler “annichilire” la posta o sottovoce del “danno morale”, l’ha espressamente considerata sia pure quale componente del complessivo danno non patrimoniale; viene quindi enunciato

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che la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico e unitario danno non patrimoniale (cfr Cassazione civile , sez. III, 13 gennaio 2009, n. 469; Cassazione civile, sez. III, 22 giugno 2009, n. 14551; Cassazione civile, sez. III, 30 aprile 2009, n. 10123; Cassazione civile, sez. III, 19 febbraio 2009, n. 4053). Allo stesso modo le stesse Sezioni Unite hanno ricondotto il danno morale e quello esistenziale alla voce generale del danno non patrimoniale(Cassazione civile, sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3677). Il riconoscimento nell’ambito della generale liquidazione del danno non patrimoniale di una componente di pregiudizio morale, per giunta espressa in misura percentuale rispetto al danno biologico, è stato convalidato dalla Suprema Corte, purché, almeno sinteticamente, personalizzato: “Per la vittima dell’incidente stradale è legittima la quantificazione del danno morale nella misura di metà del danno biologico, ma solo a patto che il risultato ottenuto risultato ottenuto sia "personalizzato", cioè ragguagliato al caso concreto. La personalizzazione del danno può consistere anche in una stringata ma logica motivazione che si limita a definire "ampiamente satisfattiva" la quantificazione ottenuta (confermata, nella specie, la liquidazione del danno morale nella misura della metà del danno biologico permanente: la motivazione che si risolve nel definire del tutto soddisfacente la quantificazione effettuata, sia pure "sintetica", risulta sufficiente a giustificare la scelta del giudice del merito).”(Cassazione civile, sez. III, 15 luglio 2009, n. 16448). Nella sentenza dell’11 giugno 2009, n. 13530, già richiamata, la III° sezione civile della Cassazione, dopo aver ricordato che la decisione delle Sezioni Unite pone “un duplice scudo di tutela per i diritti umani fondamentali, sia da illecito aquiliano che da illecito contrattuale, e pertanto tale filonomachia [rectius: nomofilachia]si conforma alla grande tradizione europea del riconoscimento e concreta tutela civile e giurisdizionale dei diritti fondamentali (che la Carta di Nizza ed il Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 152, impongono agli Stati della Unione)” ha enunciato, fra l’altro, il seguente principio di diritto: “….in relazione ad un fatto illecito costituente anche fatto reato continuato per atti di libidine in danno di minore, la valutazione unitaria del danno non patrimoniale deve esprimere analiticamente l’iter logico ponderale delle poste (sinteticamente descritte e tipicizzate in relazione agli interessi o beni costituzionali del minore lesi) e non già una apodittica affermazione di procedere ad un criterio arbitrario di equità pura, non controllabile per la sua satisfattività. La posta del danno morale deve essere dunque comparata a quella del danno biologico, e non è detto a priori che il danno morale sia sempre e necessariamente una quota del danno alla salute, specie quando le lesioni attengano a beni giuridici essenzialmente diversi, tanto da essere inclusi un diverse norme della Costituzione. Al contrario (come nella fattispecie in esame) il danno morale potrà assumere il valore di un danno ingiusto più grave, in relazione all’attentato alla dignità morale del minore ed alla compromissione del suo sviluppo interrelazionale e sentimentale. Nel caso in cui da fatti umani delittuosi, compiuti a fini di libidine sessuale, sulla persona di una minore, di anni nove, ma capace di intendere e volere, ed il risarcimento sia chiesto dalla medesima unicamente sotto il profilo del danno morale e del danno biologico permanente, le poste non patrimoniali devono essere unitariamente risarcite, sulla base di una valutazione ponderale analitica compiuta dal giudice del merito, che deve considerare il diverso peso dei beni della vita compromessi: il bene della libertà e della dignità umana della minore, compromessi dagli atti di corruzione ad opera di un adulto che agiva con dolo ed in circostanze di minorata difesa, ed il bene della salute psichica, gravemente compromessa in una fase fondamentale della crescita umana e della formazione del carattere e della disponibilità al relazionarsi nella scuola e quindi nella vita sociale. La regula iuris della unitarietà del danno non patrimoniale, affida al giudice un obbligo giuridico di completa ed analitica motivazione giuridica per la ponderazione delle voci di danno giuridicamente rilevanti, tanto più quando vengono in esame varie e contestuali lesioni di diritti umani. Non può stabilirsi a priori il maggior valore del danno biologico rispetto al danno morale, proprio perchè questo ultimo non è soltanto pretium doloris, ma anche la risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana, di cui tanto si discute per l’autodeterminazione delle scelte di vita e di fine vita. La prudenza e la coscienza sociale del giudice terrà conto dunque della gravità e della serietà delle lesioni, che hanno decisamente superato la soglia della tolleranza, per colpire beni essenziali della persona di un minore innocente, con una valutazione unitaria coerente e personalizzante. Questa è la lezione delle Sezioni Unite che tutti i giudici debbono applicare.” Occorre infine considerare, quale concorrente elemento di valutazione che l’Osservatorio per la giustizia civile di Milano e i vari Tribunali del Distretto Lombardo hanno recentemente approvato le “Nuove tabelle 2009 per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione alla integrità psico-fisica e dalla perdita del rapporto parentale, documento di particolare importanza perché le tabelle del c.d. danno biologico del Tribunale di Milano costituiscono da tempo il punto di riferimento della maggior parte dei Tribunali Italiani, in mancanza di una tabella del c.d. “punto unico nazionale”. Le nuove tabelle milanesi si caratterizzano per la constatazione della inadeguatezza dei valori monetari finora utilizzati nella liquidazione del cosiddetto danno biologico per risarcire anche aspetti del danno non patrimoniale e per la conseguente proposta di liquidazione congiunta del danno non patrimoniale derivante dalla lesione permanente o temporanea dell’integrità psico -fisica della persona suscettibile di accertamento medico -legale (sia nei suoi risvolti anatomo-funzionali, sia nei suoi profili relazionali-medi ovvero peculiari) e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di “dolore” o di “sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in riferimento ad un dato tipo di lesione Ciò comporta la liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati come c.d. “danno biologico standard”, “personalizzazione per particolari condizioni soggettive del danno biologico” e “danno morale”. La nota peculiare della tabella milanese, recentemente accolta anche dalla giurisprudenza del Tribunale di Torino (sentenza 4.6.2009) è che la componente di sofferenza soggettiva viene inserita e conglobata nel valore di liquidazione medio del punto, soggetto poi alle variazioni quantitative relative alla gravità della lesione e all’età della vittima; è prevista comunque la possibilità di una personalizzazione con applicazione discrezionale di una variazione percentuale da collegare alle particolarità del caso concreto. E’ abbastanza chiaro che l’Osservatorio Milanese si è preoccupato non solo di adeguarsi alle indicazioni provenienti dalle Sezioni Unite in tema di liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, ma anche e soprattutto:

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• di preservare la liquidazione del pregiudizio morale da sofferenza/dolore in aggiunta al danno biologico medicalmente accertato;

• di offrire ai contendenti (vittime dei sinistri e uffici liquidazioni delle Imprese assicuratrici e loro consulenti e difensori) i criteri, astratti e teorici, per prefigurare, almeno in linea di massima, in sede stragiudiziale la liquidazione “standard”, quale strumento di prevenzione di quello sbocco contenzioso della vertenza che una scrupolosa aderenza al sacrosanto principio della personalizzazione “caso per caso” rischierebbe di finire con l’alimentare.

Non vi può pertanto esser dubbio della persistente rilevanza risarcitoria del pregiudizio all’integrità morale della persona, anche in caso di lesione dell’integrità biologica, quale conco rrente profilo di pregiudizio nel contesto di una liquidazione unitaria e tuttavia dettagliatamente personalizzata e motivata del danno non patrimoniale. Il problema, attuale e scottante, è se operino al riguardo le soglie massime di cui agli artt.138 e 139 del Codice delle assicurazioni (ovviamente per i fatti illeciti soggetti a tale disciplina). In dottrina – come segnalano gli appellanti principali - si è sostenuto che nel caso di danno alla salute provocato da sinistri stradali, e che abbia avuto esiti permanenti non superiori al 9 per cento, la fissazione della misura del risarcimento ad opera direttamente della legge, con la ricordata circoscritta possibilità di aumentare il relativo importo non oltre il 20%, impone di considerare la sofferenza causata dalle lesioni nella liquidazione del danno biologico, evitando la duplicazione risarcitoria di affiancare alla liquidazione del danno biologico quella del pregiudizio un tempo definito danno morale, suscettibile quindi di valutazione solo come fattore di personalizzazione della liquidazione del danno biologico nell’ambito dell’aumento del 20%. La stessa dottrina (salvo poi dubitare della ragionevolezza costituzionale dell’entità della soglia) ritiene che analoga limitazione varrà anche per i danni con postumi superiori al 9%, non appena sarà emanato il decreto di approvazione della tabella delle invalidità e del valore monetario dei relativi punti, previsto dall’art. 138 del Codice delle assicurazioni relativamente alle c.d. macropermanenti, co n l’unica differenza della soglia limite fissata ex lege nel 30%. La Corte non ritiene corretta tale lettura di norme di diritto positivo elaborate in un contesto storico e sistematico che si riferiva al solo danno alla validità biologica medicalmente accertato, e non già al pregiudizio all’integrità morale della persona. Ogni residuo dubbio é peraltro dissipato dalla necessità di adottare una lettura costituzionalmente orientata della normativa del Codice delle assicurazioni che ne assicuri, oltre che l’aderenza alla sua origine storica e funzione sistematica, la compatibilità con i valori costituzionali. Tale compatibilità sarebbe sicuramente pregiudicata dall’introduzione di un tetto percentuale vincolante al risarcimento dell’integrità morale della persona, fra l’altro irrazionalmente collegato all’entità del danno biologico; vi possono essere lesioni assai lievi che cagionano un forte trauma alla persona che le subisce (si pensi alla ferita non grave, ma impressionante, esemplificata in dottrina), vi possono essere fatti illeciti che provocano un trauma morale molto più consistente di quello fisiologico ( si pensi al caso degli abusi sessuali su cui è intervenuta la citata sentenza 13530/2009 della Cassazione). Tutte le predette argomentazioni sono state esposte per amor di completezza perché la problematica innescata dalla esistenza di soglie- limite (alla quota di danno biologico e non già al danno non patrimoniale complessivamente considerato, comprendente la quota relativa alla sofferenza morale) si profila attuale solo per le “micropermanenti” derivanti da sinistro stradale. Nella presente controversia, che si riferisce ad una macropermanente del 25%, in difetto di approvazione della tabella unica nazionale, il danno alla validità psico -fisica della persona deve essere tuttora liquidato secondo criteri equitativi ex artt.2056 e 1226 c.c., senza che vengano in rilievo limitazioni massime alla soglia del risarcimento, sicché la considerazione dei profili di pregiudizio morale che si accompagnino al pregiudizio biologico trova ingresso senza difficoltà di sorta, purché, ovviamente siano evitate indebite duplicazioni risarcitorie. Nel corso della discussione orale la difesa degli appellanti, citando un’opinione dottrinale, ha sostenuto che il pregiudizio personale che può giustificare un appesantimento della liquidazione del danno biologico deve essere rappresentato da fattori anomali e inusuali, perché qualunque menomazione fisica o psichica incide sulla vita di relazione e genera sofferenza, e di questa incidenza - per così dire normale - già tengono conto i barémes elaborati dalla medicina legale. Gli appellanti hanno quindi addotto l’esempio (reputato analogo alla fattispecie di causa) delle ustioni al volto, da cui residuano cicatrici discromiche, opinando che il naturale imbarazzo patito dalla vittima, ogni qual volta gli sia presentata una nuova persona, sia già necessariamente stato considerato nel baréme medico -legale che ha stabilito il grado di invalidità permanente determinato da sfregi permanenti del viso, con la conseguenza che il tenerne conto una seconda volta, sotto le vesti di personalizzazione del risarcimento, comporterebbe una duplicazione risarcitoria (da escludersi invece tutte le volte in cui in conseguenza della menomazione siano derivati al danneggiato ulteriori concreti pregiudizi alla vita di relazione, quali l’abbandono da parte della fidanzata o l’allontanamento da un circolo). Tutta la tesi parte dal principio che la valutazione medico legale della menomazione tenga già conto dei riflessi morali standard, il che non solo non è dimostrato ma contrasta con la definizione normativa del danno biologico in termini oggettivi legati all’efficienza della persona, suscettibile di accertamento medico legale, e semmai ulteriormente apprezzabile in relazione alle particolari condizioni soggettive del danneggiato che accentuino l’incidenza della menomazione su certi aspetti della vita di relazione. E’ pur vero che nell’ambito delle c.d. “micropermanenti” la persistente configurabilità di una concorrente frazione di pregiudizio morale, meritevole di risarcimento e non riconducibile al limitato aumento percentuale consentito dalla legge (che diversamente interpretata si esporrebbe al vizio di costituzionalità), presuppone pur sempre la dimostrazione, anche

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presuntiva, di una apprezzabile sofferenza morale della vittima, diversa e ulteriore rispetto alla sofferenza connaturata alla lesione temporanea e permanente dell’integrità psico -fisica, in sé e per sé considerata; ciò non esclude affatto la risarcibilità di una quota di pregiudizio morale e solamente ne rende più disagevole l’allegazione e la prova (e forse anche - ma il rilievo è ovviamente metagiuridico - nuoce all’efficienza del sistema sotto il profilo della prevedibilità ex ante delle liquidazioni risarcitorie nell’ottica della deflazione del contenzioso giudiziario). In ogni caso, il problema, per ora, non si pone con riferimento alle macropermanenti, quale quella di cui qui si discute. 3.6. Il controllo circa la duplicazione in concreto del risarcimento dei profili del pregiudizio dedotto. Si è detto supra che occorreva verificare se la parte appellante abbia ragione nel dolersi, in concreto e in punto di fatto, della duplicazione delle poste risarcitorie, accertando se effettivamente il Tribunale abbia ristorato due volte gli stessi pregiudizi. Tale doglianza non ha fondamento, dovendosi escludere qualsiasi rilevante duplicazione delle poste risarcitorie, eccezion fatta per uno specifico aspetto, concretamente irrilevante, su cui infra. Il Tribunale infatti ha considerato la voce, o sottovoce, o sintesi descrittiva “danno biologico da invalidità temporanea” (ossia i profili di pregiudizio attinente alla temporanea compromissione della salute fisio-psichica dell’attore) ed ha considerato la voce, o sottovoce, o sintesi descrittiva “danno biologico da invalidità permanente” (ossia i profili di pregiudizio attinente alla definitiva compromissione della salute fisio-psichica) prendendo in esame per l’adeguata personalizzazione i riflessi dei postumi sull’esercizio delle varie attività relazionali. Il Tribunale ha poi considerato nell’ambito della voce, o sottovoce, o sintesi descrittiva “danno da sofferenza” gli aspetti di sofferenza intima e psicologica collegati sia alle lesioni, sia ai loro postumi, distinguendo, del tutto correttamente, fra la compromissione della validità fisica e la sofferenza morale derivante dalla percezione, costantemente rinnovata di tale invalidità; tale valutazione non integra duplicazione per le ragioni esposte in chiusura del paragrafo precedente, in ordine alla diversa natura dei profili che vengono in scena. Si rifletta – aggiunge la Corte – che se anche tale distinzione, come una parte della dottrina ritiene, non meritasse consenso e non si potesse così distinguere fra la lesione della validità biologica e la sofferenza intima conseguente alla percezione della lesione, non per questo la sentenza impugnata sarebbe incorsa nella stigmatizzata duplicazione per la semplice (ed assorbente) ragione che il Primo Giudice ha motivatamente ritenuto che tale ultima sottovoce (sofferenza intima conseguente alla percezione della lesione) non fosse ricompresa nella frazione di risarcimento che intendeva attribuire a titolo di danno biologico. Il Tribunale ha infine riconosciuto il danno patrimoniale da lucro cessante senza sovrapporlo alla quota di sofferenza morale attribuita a titolo di ristoro del danno da sofferenza per l’interruzione del rapporto lavorativo, inteso come sofferenza morale per l’offesa alla sfera individuale derivante dalla compromissione di una attività realizzatrice della personalità. A parere della Corte, il Tribunale è effettivamente incorso in una duplicazione, peraltro ininfluente, perché attinente alla questione già esaminata con parziale accoglimento del gravame relativa al karate. Il Tribunale aveva infatti già considerato il pregiudizio alle attività sportive in sede di valutazione dell’incidenza della lesione sugli aspetti dinamico relazionali rifluenti nel danno biologico (cfr pag.8, punto 1, in sede di affermazioni generali sui riflessi oggettivi della lesione; pag.11, in sede di aumento percentuale del 20%, laddove parrebbe che il Tribunale abbia considerato a tal fine anche l’incidenza dei postumi su sports e attività fisiche in genere). In sede di liquidazione del pregiudizio da sofferenza morale il Primo Giudice ha preso in esame anche la sofferenza per la perdita della possibilità di praticare numerosi sport e in particolare il karate. Le due valutazioni, l’una basata sul profilo, meramente oggettivo, dell’incidenza delle lesioni sulla possibilità di pratica sportiva, l’altra basata sul profilo, eminentemente soggettivo, delle ricadute sullo stile e sulle abitudini di vita dell’interessato, non sarebbero in contrasto a patto che vi fosse stata una adeguata deduzione da parte dell’attore circa l’importanza della pratica sportiva nelle sue abitudini e nel suo complessivo sistema di vita, in una parola in quel che si potrebbe definire il suo modo di essere, per evitare il ricorso, ideologicamente pericoloso e giuridicamente ambiguo, all’aggettivo “esistenziale”. E tuttavia per le ragioni tutte espresse nel § 2.3.2. siffatta deduzione è del tutto mancata per la genericità e indeterminazione dell’allegazione attorea, sicché anche sotto questo profilo il risarcimento del danno da sofferenza relativo alla pratica del karate avrebbe dovuto comunque essere espunto. 4. Il quarto motivo di appello principale. Con il quarto motivo gli appellanti principali lamentano che il Tribunale abbia stravolto gli insegnamenti delle Sezioni Unite in materia probatoria, sia con riferimento alla prova presuntiva della sofferenza, sia con riferimento alle osservazioni dei C.t.u. basate sulle mere dichiarazioni di parte attrice. In particolare gli appellanti rimarcano il mancato rispetto da parte del Giudice dell’art.115 c.p.c. e dell’art.2729 c.c., soprattutto con riferimento al rilievo ascritto alla mancata specifica contestazione di generiche affermazioni attoree. Per quanto riguarda la questione del rilievo ascritto dal Giudice alla mancata specifica contestazione delle allegazioni attoree nonché alle dichiarazioni rese dal Puggioni in sede di operazioni peritali, la Corte ha già esposto le proprie opinioni nel corso del precedente § 2.3. 4.1. La prova presuntiva della sofferenza.

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Quanto alla prova della sofferenza “derivante dalla percezione costante e rinnovata nel tempo della propria inabilità fisica”, il Giudice ha ritenuto che la stessa potesse considerarsi dimostrata in via presuntiva, così riprendendo le più diffuse considerazioni esposte nel corso del punto 3.2., a pagina 9, con cui ha osservato che nei casi di lesione fisio-psichica di una certa gravità, normalmente destinata a durare a lungo, spesso per tutta la vita del danneggiato, la sofferenza (pur ontologicamente distinta dalla sottovoce “danno biologico”) connessa alla perdurante percezione della menomazione, a differenza della sofferenza derivante dall’impossibilità di agire come in precedenza, può ritenersi normalmente provata in via presuntiva, giacché secondo l’id quod plerumque accidit. Tale opzione appare alla Corte perfettamente corretta e rispettosa delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità, che, come si è precedentemente ricordato, pur attribuendo al soggetto richiedente il risarcimento del danno non patrimoniale l’onere della prova di aver subito il pregiudizio dedotto, gli riconosce la possibilità di giovarsi di ogni mezzo di prova, non ultima la prova presuntiva, ex art.2729 c.c. Si legge infatti nella sentenza delle Sezioni Unite: “Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.” O ancora, solo per citare alcune importanti e chiare pronunce, espressive dell’orientamento ricordato:

• “In tema di risarcimento del danno ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso. In tal caso, costituendo il danno morale un patema d’animo e, quindi, una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte non è accertabile con metodi scientifici e, dall’altra, come per tutti i moti dell’animo,solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, non escludendosi, però, che, il più delle volte, esso possa essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito impugnata che aveva omesso di valutare, quali elementi idonei alla integrazione del presupposto per la liquidazione del danno morale in favore dei genitori, le gravissime lesioni invalidanti subite dal figlio minorenne, trattandosi di circostanza che, anche da sola, si sarebbe potuta considerare decisiva ai fini della configurabilità del patema d’animo).”(Cassazione civile, sez. III, 3 aprile 2008, n. 8546 );

• “In conseguenza della morte di persona causata da reato, ciascuno dei suoi familiari prossimi congiunti è titolare di un autonomo diritto per il conseguente risarcimento del danno morale, il quale deve essere liquidato in rapporto al pregiudizio da ognuno individualmente patito per effetto dell’evento lesivo, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto, rimanendo, per converso, esclusa la possibilità per il giudice di procedere ad una determinazione complessiva ed unitaria del suddetto danno morale ed alla conseguente ripartizione dell’intero importo in modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto. Ai fini di tale valutazione, l’intensità del vincolo familiare può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la ritenuta prova dell’esistenza del menzionato danno morale, in assenza di elementi contrari, e, inoltre, l’accertata mancanza di convivenza del soggetto danneggiato con il congiunto deceduto può rappresentare - come nella specie - un idoneo elemento indiziario da cui desumere un più ridotto danno morale, con derivante influenza di tale circostanza esclusivamente sulla liquidazione dello stesso.”(Cassazione civile, sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1203);

• “Il diritto del lavoratore al risarcimento per la dequalificazione subita può essere dimostrato in giudizio facendo ricorso a tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento; fra questi assume un rilievo fondamentale la prova per presunzioni, attraverso cui, dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) è possibile, attraverso un prudente apprezzamento, risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.”(Cassazione civile, sez. lav., 26 marzo 2008, n. 7871).

Da ultimo la recentissima Cass.civ. sez.III° 13.5.2009 n.11059 (caso “Seveso”) puntualizza che “Per il resto la sentenza è del tutto conforme a diritto dove afferma che il danno non patrimoniale consistente nel patema d’animo e nella sofferenza interna ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza del verificarsi dell’altro secondo criteri di regolarità causale.” 4.2. I mezzi di prova. Il rigore astratto dell’onere della prova incombente sul danneggiato si attenua infatti notevolmente in via pratica allorché, dopo che l’attore ha fornito la prova del fatto antigiuridico lesivo, la prova delle ulteriori conseguenze produttive del danno

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non patrimoniale (normalmente afferenti alla sfera intima e psicologica del soggetto leso), possa essere ritratta alla stregua delle regole che disciplinano la prova presuntiva ai sensi dell’art.2729 c.c. E’ noto che il Giudice, secondo prudenza, può ricavare la prova presuntiva del fatto ignoto (obiettivo di prova) da fatti noti, purché gli elementi indiziari utilizzati siano gravi, precisi e concordanti. Poiché il fatto ignoto - obiettivo di prova è costituito normalmente da un atteggiamento psicologico, i fatti noti da provare ai fini del ragionamento indiziario saranno quelli dai quali sia possibile ragionevolmente e verosimilmente inferire, secondo id quod plerumque accidit , il fatto ignoto ed intimo. Per esempio, chi intenda provare che un certo soggetto abbia molto sofferto per la perdita di un congiunto, finirà con l’affidarsi a tutta una serie di elementi di fatto normalmente utili ad autorizzare l’operazione deduttiva per inferenza: per esempio, offrendo a prova che il soggetto ha smesso di frequentare gli amici per uscite conviviali, non pratica più gli sports e gli hobbies a cui si dedicava in precedenza, si reca molto spesso al cimitero, ha abbandonato gli studi….. Per quel che riguarda il danno propriamente biologico (categoria questa che non è possibile abbandonare, nonostante la derubricazione operata dalla sentenza 26972/2008 a sottovoce o sintesi descrittiva nell’ambito della più vasta nozione di danno non patrimoniale, stante il suo espresso riconoscimento normativo con gli artt.138 e 139 del d.lgs 209 del 2005, che lo definiscono come “lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”) è evidente che la prova dovrà essere fornita in via preferenziale, ma non strettamente necessaria, attraverso la consulenza tecnica medico legale ( cfr il sopra ricordato passo della sentenza 26972 del 2008). Un notevole rilievo ai fini della prova può essere riconosciuto anche all’onere di contestazione che secondo la più moderna giurisprudenza, consolidatasi nel primo decennio del 21° secolo, grava sulla parte convenuta in ordine ai fatti costitutivi ex adverso allegati: valgono al proposito le considerazioni antea esposte nel corso del § 2.3. Allorchè la circostanza controversa dedotta attiene a fenomeni psicologici registrati nel foro intimo della parte, la prova da offrire atterrà normalmente alle manifestazioni esterne e alle reazioni percepibili nell’interagire sociale. La natura del fenomeno permette però di non disconoscere totalmente valore alle deposizioni, de relato actoris, che siano rese verosimili dall’attendibilità del “relatore” e dalla collocazione, storicamente contestualizzata, della loro formulazione. E’ in effetti ben noto che la deposizione “de relato ex parte actoris”, di per sé sola, non possiede alcun valore probatorio, nemmeno indiziario, ma può assurgere a valido elemento di prova, solo allorché sia suffragata da circostanze oggettive e soggettive ad essa estrinseche o da altre risultanze probatorie acquisite al processo che concorrono a confortarne la credibilità.

• “La deposizione “de relato ex parte actoris”, da sola, non ha alcun valore probatorio, nemmeno indiziario, ma può assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata da circostanze oggettive e soggettive a essa estrinseche o da altre risultanze probatorie acquisite al processo che concorrono a confortarne la credibilità, le quali, quindi, devono avere adeguata consistenza ed essere congruamente esaminate dal giudice di merito nel loro rilievo e nella loro funzione. Vanno distinti i testimoni “de relato actoris “ da quelli “de relato in genere”: i primi depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto medesimo che ha proposto la domanda giudiziale, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non sul fatto oggetto dell’accertamento, che costituisce il fondamento storico della pretesa; gli altri testi, quelli “de relato in genere”, depongono invece su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni si presenta attenuata, perché indiretta, ma ciononostante può assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragano la credibilità. Quando, poi, la testimonianza ha ad oggetto dichiarazioni rese a una parte contro sé medesima, non si tratta di deposizione “de relato”, bensì di prova testimoniale della confessione stragiudiziale, che può essere appunto dimostrata anche per testimoni, entro il limite segnato dall’art. 2735, comma 2, c.c. “(Cassazione civile sez. I, 3 aprile 2007, n. 8358; cfr inoltre Cassazione civile, sez. I, 19 maggio 2006, n. 11844. in senso sostanzialmente conforme cfr. Cass. 8 febbraio 2006 n. 2815; Cass. 18 maggio 1996 n. 4618).

Una notevole agevolazione probatoria può essere accordata anche da quella giurisprudenza, che, ancora recentemente, ritiene immanente il danno morale alla commissione di un fatto di reato, ancorché accertato con le tecniche probatorie proprie del giudizio civile.

• “Il risarcimento dei danni non patrimoniali spetta in ogni caso in cui il danneggiato sia stato leso nei suoi diritti anche costituzionalmente protetti, qual è il diritto all’integrità personale, sulla base dell’oggettiva e astratta corrispondenza dell’illecito alla fattispecie di reato, anche a prescindere dall’esistenza e dalla prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa.”( Cassazione civile, sez. III, 13 giugno 2008, n. 15997).

In motivazione: “Risulta infatti che la C. ebbe a riportare lesioni personali, in conseguenza del sinistro, lesioni che obiettivamente configurano la corrispondente figura di reato. Il Tribunale non ha tenuto conto della consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui il risarcimento dei danni non patrimoniali spetta in ogni caso in cui il danneggiato sia stato leso nei suoi diritti anche costituzionalmente protetti, qual è il diritto all’integrità personale, sulla base dell’oggettiva ed astratta corrispondenza dell’illecito alla fattispecie di reato, anche a prescindere dall’esistenza e dalla prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa (cfr., da ult imo, Cass. civ., Sez. 3^, 19 novembre 2007 n. 23918; Cass. civ. Sez. 3^, 1 giugno 2004 n. 10489.” Resta infine da considerare l’aspetto forse più importante, ossia l’aiuto che la parte gravata dall’onere probatorio può ricevere da considerazioni legate alla comune esperienza e al normale svilupparsi e concatenarsi dei fatti umani: ed è al proposito che le riflessioni generali sopra articolate si saldano strettamente al tenore della fattispecie a giudizio, perché il

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Tribunale Torinese ha fatto puntuale applicazione di tali regole d’esperienza per sovvenire la posizione probatoria della parte attrice. Può infatti ritenersi che un certo grado di sofferenza psicologica, poniamo “x”, scaturisca normalmente nella persona colpita dall’evento traumatico “y” e che pertanto possa essere automaticamente presunto grazie alla prova del fatto noto-lesione e del contesto di riferimento. Tale automatismo presuntivo, pur vicino – da un punto di vista pratico - alla teorica del danno in re ipsa e alla categoria dei “danni punitivi”, se ne distingue per un essenziale passaggio concettuale che rispetta le scansioni della necessità di prova incombente al danneggiato. Sembra in effetti difficile negare:

• che una persona che subisca la frattura traumatica di un arto subisca, al di là del pregiudizio meramente biologico, così come definito dal Codice delle assicurazioni, anche un trauma psicologico, uno spavento, uno sconvolgimento conseguente alla percezione della propria integrità violata;

• che un genitore che perda tragicamente il figlio provi una intensa sofferenza intima connessa al lutto; • che una persona onesta che si veda additare sulle pagine di un giornale come un delinquente agli occhi della

pubblica opinione patisca una sofferenza connessa al sentimento di vergogna e al timore di perdere l’altrui considerazione.

La giurisprudenza della Suprema Corte in diversi casi – e non solo con riferimento al tema del danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo - ha dato spazio all’applicazione di tali principi di semplificazione probatoria. Per esempio, sulla base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza, deve ritenersi che la privazione di tale rapporto presuntivamente determini ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull’assetto degli stabiliti e armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno di esso, rispetto ai terzi, nei comuni rapporti di vita di relazione:

• “Ritenuto che il danno esistenziale consiste nel pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, arrecato al fare areddituale del soggetto passivo, costretto ad alterare le proprie abitudini ed i propri assetti relazionali ed a sottostare a scelte di vita diverse dalle precedenti quanto all’ espressione ed alla realizzazione della sua personalità anche nel mondo esterno, ne deriva che, qualora, per fatto illecito di terzi, s’abbia a perdere uno stretto congiunto, il venir meno del rapporto affettivo (e/o di convivenza) determina in via presuntiva gravi effetti negativi, più o meno prolungati nel tempo, sia sull’assetto dei consolidati ed armonici rapporti intradomestici, sia sui rapporti dei superstiti con i terzi estranei al nucleo familiare, nel quadro e nell’ambito della vita di relazione, fermo restando che l’onere di provare il contrario e di vincere così ogni valutazione presuntiva incombe sulla controparte convenuta per il risarcimento. Incombe allora alla parte, in cui sfavore opera la presunzione, dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (ad esempio, situazione di mera convivenza forzata, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi, coniugi in realtà separati in casa ecc.). (Nella specie, in applicazione del riferito principio con riferimento a un sinistro stradale, in esito al quale il dante causa degli attori aveva perso la vita, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia del giudice del merito che aveva attribuito, per la perdita del congiunto, un risarcimento ulteriore, di trenta milioni di lire per ogni componente del nucleo familiare superstite. Detto giudice, in particolare, incontestato il fatto base della normale e pacifica convivenza del nucleo familiare, costituito dal defunto, dalla consorte e dai due figli maggiorenni, il cui armonico svolgimento trovava sintomatica conferma nella circostanza che uno dei figli svolgeva anche attività lavorativa con il padre e che della costituita società faceva parte anche la rispettiva moglie e madre, era pervenuto a una tale conclusione sulla base della sola allegata circostanza che la morte del loro stretto congiunto aveva comportato per i superstiti una alterazione dell’equilibrio mentale riflettentesi sotto il profilo della difficoltà di partecipazione all’attività quotidiana e della demotivazione rispetto alla vita).”(Cassazione civile, sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546 );

• “Non sussiste alcun ostacolo alla risarcibilità del danno non patrimoniale in favore dei prossimi congiunti del soggetto che sia sopravvissuto a lesioni seriamente invalidanti. Atteso il suo contenuto di sofferenza interiore e patema d’animo che, come tale, non può essere accertato con metodi scientifici, né provato in modo diretto, se non in casi eccezionali, il danno morale dei prossimi congiunti deve essere accertato anche sulla base di indizi che consentano di pervenire a una sua prova presuntiva.” (Cassazione civile, sez. III, 14 giugno 2006, n. 13754);

• “In tema di danno morale, e di risarcimento dovuto ai parenti della vittima, non è necessaria la prova specifica della sua sussistenza, siccome la prova può essere desunta anche solo in base allo stretto vincolo familiare; ai fini della valutazione del danno morale conseguente alla morte del prossimo congiunto, quindi, l’intensità del vincolo familiare può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la prova dell’esistenza del menzionato danno morale, in assenza di elementi contrari, mentre l’accertata mancanza di convivenza dei soggetti danneggiati con il congiunto deceduto può rappresentare soltanto un idoneo elemento indiziario da cui desumere un più ridotto danno morale.”(Cassazione civile, sez. lav., 22 luglio 2008, n. 20188).

Merita di essere ricordata anche la pronuncia della Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584, resa in tema di danno da emotrasfusione, secondo la quale “È meramente apparente la motivazione con cui il giudice di merito abbia negato il risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita di un familiare, richiesto “iure proprio” dai prossimi congiunti di un soggetto che, a seguito di emotrasfusioni e dell’assunzione di emoderivati, era stato contagiato da infezione da Hiv poi degenerata in Aids con esiti letali, sulla base del solo rilievo del difetto di prova di ulteriori pregiudizi.” In motivazione le Sezioni Unite, dopo aver riaffermato il principio dell’onere probatorio incombente sul danneggiato, hanno peraltro accollato a costui la necessità di prova solo di alcuni elementi integrativi ad colorandum:

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“Quanto al danno non patrimoniale subito dai congiunti ture proprio per la perdita della rispettiva madre e moglie, è meramente apparente la motivazione di rigetto della domanda del risarcimento sotto il solo rilievo del “difetto di prova di ulteriori pregiudizi”. E’ vero che la mera titolarità di un rapporto familiare non può essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, in termini di automatismo o anche solo di notorio, occorrendo di volta in volta verificare l’intensità oltre all’attualità del legame affettivo e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione con il congiunto, fino a comprometterne lo svolgimento, secondo un accertamento rimesso ai poteri esclusivi del Giudice del merito (e ciò sia sotto il profilo del c.d. danno morale soggettivo che del danno da perdita del rapporto parentale) (Cass. 04/11/2003, n. 16525). Esso, quale tipico danno conseguenza, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, potendosi tuttavia ricorrere a valutazioni prognostiche e presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi fomiti dal danneggiato, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti, la compromissione delle esigenze di questi ultimi (Cass. 15/07/2005, n. 15022). Nella fattispecie pur avendo gli attori fornito la prova del rapporto di parentela in linea retta e di coniugio, dell’età di tutte le parti e del rapporto di convivenza, la corte di appello non ha preso in considerazione tali elementi. Pertanto, in relazione a queste censure di vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, nella parte in cui ha rigettato l’appello in merito al danno patrimoniale e biologico richiesto iure hereditatis ed al danno patrimoniale e non patrimoniale richiesto iure proprio per il decesso della B., il motivo di ricorso va accolto.” Ovvero in tema di danno non patrimoniale alla persona giuridica:

• “Anche per le persone giuridiche, il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri; sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale “in re ipsa” - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione - una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla ragionevole durata del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non sussistano, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalla ricorrente.”(Cassazione civile, sez. I, 2 luglio 2008, n. 18153).

In tema di danno non patrimoniale da protesto cambiario la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente accentuato la tecnica di semplificazione probatoria, pervenendo di fatto al riconoscimento del danno in re ipsa:

• “In tema di risarcimento danni, il protesto cambiario, conferendo, di fatto, pubblicità all’insolvenza del debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un’ottica commerciale-imprenditoriale, ma si risolve in una più complessa vicenda di indubitabile discredito tanto personale quanto patrimoniale, così che, ove illegittimamente sollevato, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno patrimoniale “in re ipsa” anche sotto il profilo della lesione dell’onore e della reputazione del protestato, a prescindere dai suoi interessi commerciali.” (Cassazione civile, sez. III, 20 marzo 2008, n. 7495; cfr anche Cassazione civile, sez. I, 30 agosto 2007, n. 18316;sez. I, 28 giugno 2006, n. 14977).

Oppure in tema di danno alla reputazione: • “Una volta accertata la sussistenza del reato di diffamazione, il danno morale “sub specie” di lesione alla reputazione è in re

ipsa e nessuna prova deve dare l’attore della risonanza negativa della pubblicazione nell’opinione pubblica.”(Cassazione civile, sez. III, 8 novembre 2007, n. 23314; cfr anche Cassazione civile, sez. lav., 13 aprile 2004, n. 7043).

Merita un cenno anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da eccessiva durata del processo ai sensi della legge 24.3.2001 n.89. Nelle sentenze n.1339 (soprattutto) e 1340 del 26.1.2004 la Suprema Corte (seppur pesantemente influenzata in quel contesto dalla inderogabile necessità di suffragare una linea giurisprudenziale che evitasse all’Italia una responsabilità da infrazione alla Convenzione, dopo la sentenza 27.3.2003 Scordino e altri/Italia), ebbe modo di osservare che:

• la Corte di Strasburgo è solita liquidare il danno non patrimoniale alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, anche solo in via presuntiva, in modo pressoché automatico una volta accertata la violazione del termine ragionevole di durata;

• tuttavia, anche in presenza di tale orientamento, il danno non patrimoniale non può ritenersi insito, quale danno in re ipsa, nella mera esistenza della violazione, come del resto prevede la stessa Convenzione, il cui art.41 considera l’eventualità dell’attribuzione dell’indennizzo;

• non è quindi accettabile la teoria del c.d. “danno-evento” ed anche il danno non patrimoniale viene in considerazione quale conseguenza della violazione, ma a differenza del danno patrimoniale si riscontra normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa (per la prima affermazione del principio: Cass. 8.8.2002 n.11.987);

• è quindi normale che l’anomala lunghezza del processo produca nella parte coinvolta patema d’animo, ansia e sofferenza morale, che ne costituiscono conseguenze normalmente ricorrenti, e che quindi non bisognano di prova alla stregua dell’ id quod plerumque accidit ;

• possono peraltro verificarsi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali debbono essere escluse o perché il protrarsi del giudizio corrisponde ad un interesse della parte, o è comunque destinato a produrre conseguenze percepite dalla parte come favorevoli, ovvero in presenza di una situazione di piena consapevolezza della parte istante dell’infondatezza o della inammissibilità delle proprie pretese;

• la legge 89/2001 non è quindi in contrasto con la CEDU, dovendosi parlare, quanto al danno non patrimoniale, non già di danno in re ipsa, ma di prova del danno di regola in re ipsa, suscettibile di smentita nella situazione concreta, proprio perché conseguenza normale ma non necessaria e automatica.

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4.3. Considerazioni conclusive. Un tentativo di sintesi all’attualità dello stato della giurisprudenza potrebbe essere abbozzato secondo il seguente schema: 9. il nostro ordinamento non riconosce danni punitivi; 10. il danneggiato che richiede il risarcimento del danno non patrimoniale è quindi gravato dall’onere della prova delle

conseguenze negative da lui dedotte, pur attinenti la sua sfera intima e psicologica; 11. non ricorre l’onere probatorio per i fatti primari specificamente allegati in atto introduttivo e non contestati

specificamente ex adverso nella comparsa di risposta; 12. la contestazione dell’allegazione è pur sempre necessaria, ma può essere generica, senza particolari conseguenze

processuali pregiudizievoli, se il convenuto non è ragionevolmente in grado di prender posizione in modo specifico sul fatto ex adverso dedotto, attinente ad una sfera personale della controparte, al cui riguardo egli si trovi, verosimilmente, in difetto di informazioni;

13. per il soddisfacimento dell’onere probatorio il danneggiato può ricorrere alla prova presuntiva, nel rispetto dei criteri fissati in via generale dall’art.2697 c.c.;

14. la prova del fatto intimo e psicologico potrà quindi essere fornita attraverso la prova di fatti storici oggettivi che, secondo il comune modo di intendere e di pensare, si accompagnano e si correlano al fatto psicologico ignoto, obiettivo di prova;

15. non è necessaria una prova rigorosa neppure di tali fatti- indizio quando la sofferenza psicologica costituisce una conseguenza normale dell’evento lesivo nel contesto noto e la parte attrice si è limitata ad allegare una sofferenza standard, ossia non deviante dalla normalità;

16. in tal caso, se il danneggiato allega e prova il fatto lesivo in un contesto noto e pacifico, non è necessaria la prova neppure dei fatti storici indizianti se la richiesta attiene al risarcimento del pregiudizio psicologico standard, che può essere accordata, per così dire, di default , in difetto di prova di circostanze atte a dimostrare l’inesistenza del normale pregiudizio.

In quest’ottica sarà il convenuto a dover dimostrare le specifiche ragioni per cui, ad esempio, il marito non ha sofferto particolarmente per la perdita della moglie, da cui si intendeva separare per l’intollerabilità della convivenza, ovvero che i figli si erano già progressivamente assuefatti alla previsione del decesso del genitore, affetto da grave e incurabile malattia, deceduto improvvisamente per altra causa. Il punto è ben tratteggiato nella già citata sentenza 13546 del 2006 laddove la Corte ha osservato “Provato il fatto-base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, è allora da ritenersi che la privazione di tale rapporto presuntivamente determina ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull’assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione. Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es., situazione di mera convivenza “forzata”, caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà “separati in casa”, ecc.).Non si tratta infatti, diversamente da quanto lamentato dalla odierna ricorrente, di un’ipotesi di presunzione iuris et de iure.” 4.4. Considerazioni finali sul punto. Per le ragioni sopra ricordate la Corte ritiene che il Tribunale di Torino abbia rispettato i principi generali sopra menzionati in tema di prova del danno non patrimoniale ( e in particolare del danno da sofferenza) e che la sentenza impugnata, con le limitate eccezioni sopra indicate, non meriti pertanto censura. 5. Il quinto motivo di appello principale. Con il quinto motivo la Fondiaria SAI e il Passoni censurano l’erronea liquidazione delle spese, effettuata sulla base di una integrale ravvisata soccombenza della parte convenuta, senza tener conto della forte riduzione del quantum, della mancata contestazione dell’an debeatur, nonché dei numerosi versamenti effettuati in corso di procedimento. La censura non può essere accolta. Le parti appellanti attribuiscono rilievo al mancato integrale accoglimento della domanda attorea sul quantum, circostanza questa che non comporta soccombenza reciproca; nella fattispecie la riduzione attuata della domanda pur significativa, non appare esorbitante; gli appellanti trascurano poi completamente di considerare il fatto che il Giudice nel rispetto dell’art.6 della tariffa professionale, ha avuto cura di considerare il valore di causa con riferimento all’importo effettivamente liquidato. A nulla rileva la mancata contestazione dell’an debeatur, comportamento processuale leale ma doveroso, vista la fondatezza nel merito della domanda attrice. Quanto, infine, agli acconti erogati, la censura ignora la specifica e corretta motivazione adottata dal Tribunale che ha segnalato, proprio al fine di negare una compensazione parziale delle spese:

• sia il fatto che l’assicuratore ante causam non aveva corrisposto che un modestissimo acconto di € 10.600,00,

• sia il fatto che l’acconto più consistente era stato versato solo in corso di causa e solo a seguito della proposizione dell’istanza per l’erogazione di una provvisionale da parte attrice;

• sia il fatto che in ogni caso, nonostante l’ulteriore versamento effettuato solo all’udienza di discussione, l’attore restava pur sempre ulteriormente in credito per consistente importo (assunto questo che resiste anche alla variazione del quantum scaturente dal parziale accoglimento del gravame).

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6. Il motivo di appello incidentale. L’appellato Puggioni, per parte sua, ha proposto appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, che censura per aver disatteso la sua richiesta di risarcimento del danno biologico psichico e del relativo danno non patrimoniale, da liquidarsi in misura non inferiore ad € 45.000,00. In particolare l’appellante incidentale rimprovera al Giudice di prime cure di non aver colto i numerosi elementi di contraddizione che inficiavano la relazione del C.t.u. dott.Anglesio, messi in evidenza dalla relazione di c.t.p. del dott.Bosco e di non aver considerato l’intero periodo di tempo successivo al sinistro sino al giudizio di primo grado (sei anni), così incorrendo in vizio di motivazione non surrogato dal richiamo delle conclusioni adottate dai C.t.u. che non avevano tenuto conto delle contrarie allegazioni dei consulenti di parte. La doglianza non persuade. Il Giudice di prime cure ha recepito le conclusioni attinte dal Collegio peritale, escludendo la sussistenza di un danno biologico psichico sulla base dell’approfondita analisi condotta dal C.t.u. dott. Anglesio e in particolare evidenziando che i problemi psichici presentati tuttora dal ricorrente (disturbi dell’emotività e affettività, difficoltà nelle relazioni, lentezza e incoerenza di eloquio) e pur configuranti effettivamente una forma patologica, dovevano considerarsi preesistenti al fatto e non ad esso consequenziali. In tale prospettiva il Giudice, seguendo l’opinione degli esperti dell’Ufficio, è pervenuto a collegare siffatte patologie al previssuto del Puggioni, e in particolare alla precoce morte della madre, al rapporto conflittuale con il padre, al rifiuto verso la nuova compagna di costui, escludendo che le conseguenze delle lesioni abbiano attivato nell’attore dinamiche di sviluppo o aggravamento dei sintomi emotivi e comportamentali. L’appellante si limita a contrapporre alla valutazione del C.t.u. quella del proprio perito di parte, senza evidenziare peraltro alcuna incongruenza logico -scientifica suscettibile di essere valorizzata dal Giudice, quale peritus peritorum quale significativo elemento di inidoneità persuasiva della relazione tecnica del Consulente d’ufficio Il Giudice dovrebbe quindi disattendere l’opinione motivata del proprio Consulente semplicemente perché il consulente fiduciario dell’attore non è d’accordo con lui. Risulta altresì incomprensibile la tesi esposta successivamente dall’appellante incidentale circa la mancata omessa considerazione del completo periodo di tempo successivo al sinistro prima del giudizio di primo grado; il C.t.u. ha esaminato il Puggioni nel 2008 e quindi ben dopo il sinistro e quindi ha tenuto conto di una situazione ormai evoluta, contrariamente a quanto allegato dall’appellante. Il Puggioni si duole poi di contraddittorietà e incongruenze nel parere peritale che neppure evidenzia e soprattutto trascura completamente di considerare l’elemento portante della motivazione addotta dal C.t.u. e dal Giudice, che si sono ben guardati dal negare la sussistenza delle patologie psichiche ed hanno invece ritenuto la loro preesistenza al sinistro ( e conseguentemente la non ravvisabilità del nesso di causalità). 7. Conseguenze. In conseguenza del parziale accoglimento del gravame principale (cfr § 2.3.4. e per quanto di ragione § 3.6.) il risarcimento spettante a Lu ca Ermanno Puggioni va ridotto dell’importo di € 8.000,00 (espresso in moneta attualizzata e comprensivo di interessi alla data del 27.11.2008);. La somma risarcitoria indicata nella sentenza di primo grado, già indicata dal Primo Giudice previa detrazione degli acconti versati alla data della sua pronuncia, va ridotta alla minor somma complessiva di € 54.519,54 (sempre previa detrazione degli acconti versati dalle parti convenute alla data del 27.11.2008), oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo. In conseguenza, a fronte della prova fornita dalla Fondiaria SAI di aver pagato tutto il proprio ulteriore debito espresso nella sentenza di primo grado (cfr docc.5, 6 e 7¸ ex adverso non contestati) Luca Ermanno Puggioni deve essere condannato a restituire al solvens Fondiaria SAI s.p.a. la somma di € 8.000,00 con interessi legali dal 27.11.2008 al saldo; ciò, dal momento che gli interessi legali su tale importo dal 27.11.2008 erano coperti dall’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado e sono stati quindi pagati da Fondiaria SAI sino al 29.12.2008 e che da tale data è dovuta la restituzione di quanto versato, secondo le regole dell’indebito; non compete ovviamente la richiesta rivalutazione monetaria perché il debito da restituzione non ha natura di valore. 8. Le spese processuali. La soccombenza reciproca ingenerata dal rigetto dei contrapposti gravami giustifica la compensazione delle spese processuali ai sensi dell’art.92 c.p.c.. L’appello incidentale del Puggioni è stato infatti integralmente rigettato, mentre l’appello principale del Passoni e di Fondiaria SAI, largamente prevalente nell’economia della lite, sia per importanza economica sia per peso giuridico preminente delle questioni implicate, è stato accolto solo in misura assai limitata. La disposta compensazione rinviene inoltre adeguata giustificazione in considerazione dalla novità e delicatezza delle questioni giuridiche trattate implicate dalle recenti pronunce delle Sezioni Unite del 2008, emesse solo in corso di causa, che hanno esercitato un impatto, innegabilmente sconvolgente, sugli orientamenti pregressi: Inoltre è questa la prima volta in cui tali questioni (peraltro caratterizzate da profili non sempre immediatamente riconducibili a inequivoche interpretazioni della Suprema Corte, come conferma il frequente riferimento dell’una e dell’altra difesa alle opinioni della dottrina più autorevole, peraltro divisa) vengono affrontate maniera approfondita da questa Corte di appello di Torino.

P.Q.M.

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La Corte d’appello, definitivamente pronunciando; respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione; in parziale accoglimento dell’appello principale interposto dalla Fondiaria SAI s.p.a. e da Rodolfo Passoni e in parziale riforma della sentenza n. 7866/2008 del 27.11-2.12.2008, emessa dal Tribunale di Torino; riduce l’importo della condanna di Rodolfo Passoni e della Fondiaria SAI s.p.a., in solido fra loro, al pagamento in favore di Luca Ermanno Puggioni,a titolo di risarcimento danni, alla minor somma complessiva di € 54.519,54 (già detratti gli acconti versati alla data della pronuncia della sentenza di primo grado), oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo; per l’effetto,

dichiara tenuto e condanna Luca Ermanno Puggioni a restituire alla Fondiaria SAI s.p.a. la somma di € 8.000,00 con

interessi legali dal 27.11.2008 al saldo effettivo; respinge l’appello incidentale interposto da Luca Ermanno Puggioni avverso la sentenza n. 7866/2008 del 27.11-2.12.2008, emessa dal Tribunale di Torino; dichiara integralmente compensate le spese processuali del giudizio di secondo grado. Così deciso nella camera di consiglio del 5 ottobre 2009 dalla Terza Sezione Civile della Corte d’Appello di Torino il Consigliere estensore dott.Umberto Scotti

il Presidente dott.Paolo Prat

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Allegato 6)

Cassazione civile , sez. III, 25 luglio 2008, n. 20427

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo - Presidente - Dott. MAZZA Fabio - Consigliere -

Dott. FINOCCHIARO Mario - rel. Consigliere - Dott. CALABRESE Donato - Consigliere - Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere -

ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da:

P.G., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Regina Margherita n. 278, presso l'avv. FERRARO Marco, che la difende

unitamente all'avv. Gaetano Greco, giusta delega in atti; - ricorrente -

contro Comune di Cerignola, in persona del sindaco pro tempore M. V., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Mazzini n. 112,

e, successivamente, in Via Verona n. 9, presso l'avv. Stefania Riccardo, difeso dall'avv. MARINO G. Gianni, che lo difende giusta

delega in atti; - controricorrente -

e contro A.Q.P. s.p.a. - Acquedotto pugliese;

- intimata - avverso la sentenza del tribunale di Foggia, sezione distaccata di

Cerignola, n. 71/04 dell'8 marzo 2004 (R.G. 392/02); Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23

aprile 2008 dal Relatore Cons. Dott. Mario Finocchiaro; Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SALVI Giovanni, che ha concluso chiedendo il rigetto del proposto ricorso.

Inizio documento Fatto

Il 27 agosto 1996 il trattore agricolo Lamborghini (OMISSIS), di proprietà di P.G. e condotto da P.D., mentre transitava per la (OMISSIS) del comune di (OMISSIS) è sprofondato in un avvallamento creatosi per il cedimento, al passaggio del veicolo stesso del manto stradale. Esposto quanto sopra, con atto 6 marzo 1997 P.G. ha convenuto in giudizio, innanzi al giudice di Pace di Cerignola il comune di Cerignola, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti.

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Costituitosi in giudizio il comune ha negato la propria legittimazione passiva rispetto alla domanda attrice, atteso che responsabile della manutenzione della sede stradale era esclusivamente l'Ente Autonomo Acquedotto Pugliese di cui ha chiesto e ottenuto la chiamata in causa. Costituitosi in giudizio anche il terzo chiamato lo stesso ha resistito alla avversa pretesa deducendone la infondatezza. Svoltasi la istruttoria del caso, con sentenza 12 dicembre 2001 il giudice di pace di Cerignola ha rigettato la domanda attrice, compensate le spese. Gravata tale pronunzia in via principale dalla soccombente P., e in via incidentale dal Comune di Cerignola, nel contraddittorio anche dell'Acquedotto Pugliese s.p.a. che ha chiesto la conferma della sentenza del primo giudice, il tribunale di Foggia, sezione distaccata di Cerignola con sentenza 8 marzo 2004 ha rigettato sia l'appello principale che quello incidentale, con condanna dell'appellante principale al pagamento delle spese di lite, in favore delle controparti. Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, P.G.. Resiste, con controricorso il Comune di Cerignola. Non ha svolto attività difensiva in questa sede l'Aquedotto Pugliese s.p.a..

Inizio documento Diritto

1. Dalla istruttoria espletata, ha affermato il giudice di secondo grado, confermando la pronunzia del giudice di pace, non è emersa la fondatezza degli assunti attorei in quanto non è stato adeguatamente comprovato che il cedimento del manto stradale fosse effettivamente avvenuto al passaggio del veicolo della attrice, atteso, da un lato, che il teste P.D. era incapace a testimoniare, in quanto conducente del veicolo al momento del sinistro e, pertanto, titolare di un interesse che avrebbe potuto legittimare la sua partecipazione al giudizio, dall'altro, che nulla emerge dalla dichiarazione del teste C. nè dalla documentazione in atti e dalla espletata consulenza tecnica. 2. La ricorrente censura la riassunte sentenza denunziando: da un lato "violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3", atteso che "la ricorrente ha fornito tutte le possibili prove legali ad essa spettanti, tese alla dimostrazione dell'accadimento", tenuto presente che al momento del sinistro non era presente alcun altro oltre il P.D., conducente del trattore e marito della ricorrente (primo motivo); - dall'altro "violazione e falsa applicazione degli artt. 2051 e 2043 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3", tenuto presente che l'ente proprietario della strada, aperta al pubblico transito, è - al di là di ogni considerazione - tenuto a mantenere la stessa in condizioni che non costituiscano per l'utente, che fa ragionevole affidamento sulla sua apparente regolarità, una situazione di pericolo, e che la Pubblica Amministrazione, comunque, quale ente proprietario della strada, risponde dei danni cagionati all'utente di questa, ai sensi dell'art. 2051 c.c., anche con riguardo ai beni demaniali, ivi compresi quelli del demanio stradale (secondo motivo); - da ultimo "insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5", attesa la assoluta insufficienza delle ragioni invocate dal tribunale di Foggia per rigettare l'appello

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(terzo motivo). 3. I tre motivi, intimamente connessi e da esaminare congiuntamente, sono fondati, e meritevoli di accoglimento, alla luce delle considerazioni che seguono. 3.1. La giurisprudenza costante di questa Corte ha per lungo tempo ritenuto che la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., ha base: - nell'essersi il danno verificato nell'ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa; - nella esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi. In applicazione di tali principi, giusta una risalente giurisprudenza, con riguardo a danni subiti da utenti di strade aperte al pubblico transito, anche se, eventualmente, a pagamento, non trova applicazione la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia ex art. 2051 c.c., nei confronti della pubblica amministrazione, proprietaria della strada (ovvero, in caso di strade a pagamento, del concessionario della medesima), trattandosi di beni la cui estensione non consente una vigilanza ed un controllo idonei ad evitare l'insorgenza di situazioni di pericolo. Si afferma, pertanto: - da un lato, che il danneggiato può agire per il risarcimento soltanto in base al principio del neminem laedere sancito dall'art. 2043 c.c., alla cui stregua l'ente proprietario della strada aperta al pubblico transito è tenuto a far sì che essa non presenti per l'utente una situazione di pericolo occulto (cosiddetta insidia o trabocchetto), caratterizzata congiuntamente dall'elemento obiettivo della non visibilità e da quello subiettivo della non prevedibilità dell'evento (in questo senso, tra le tantissime, ad esempio, Cass. 4 dicembre 1998, n. 12314, nonchè Cass. 7 ottobre 1998, n. 9915; Cass. 25 giugno 1997, n. 5670; Cass., sez. un., 23 aprile 1997, n. 3567; Cass. 28 aprile 1997, n. 3630); - dall'altro, che la parte danneggiata, in presenza di un fatto storico qualificabile come illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c., ha l'onere della prova degli elementi costitutivi di tale fatto, e, per l'effetto, della esistenza dell'insidia non visibile e non prevedibile, del nesso di causalità, del danno ingiusto e della imputabilità soggettiva, mentre l'ente pubblico, preposto alla sicurezza degli utenti della strada e detentore del dovere di vigilanza sulle modalità di realizzazione e di conservazione della strada, ha l'onere di dimostrare o il concorso di colpa dell'utente, o la presenza di un caso fortuito che interrompe la relazione di causalità tra l'evento ed il comportamento colposamente omissivo dell'ente stesso (In questa ottica ad esempio,Cass. 6 luglio 2006, n. 15383; Cass. 30 luglio 2002, n. 11250; Cass. 24 gennaio 1995, n. 809 tra le tantissime). 3.2. A fronte del suddetto orientamento giurisprudenziale tradizionale, che individua nell'art. 2051 c.c., un caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della responsabilità sarebbe pur sempre il fatto imputabile dell'uomo (nella specie del custode), che è venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza perchè la cosa non produca danni a terzi, la maggioranza

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della dottrina recente e la più attenta giurisprudenza di questa Corte regolatrice - che a parere di questo collegio merita ulteriore conferma - ritiene che il comportamento del responsabile è estraneo alla fattispecie e fa quindi giustizia di quei modelli di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta o meno, parlando in proposito di caso di responsabilità oggettiva. La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia - pertanto, si afferma - ha carattere oggettivo e, perchè possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d'altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Deriva da quanto precede che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell'inizio del rapporto di custodia (In questo senso, ampiamente, da ultimo, Cass. 19 febbraio 2008, n. 4279, nonchè tra le altre, Cass. 10 marzo 2005, n. 5326; Cass. 10 agosto 2004, n. 15429). Pertanto, atteso che la responsabilità per danni ha natura oggettiva,in quanto si fonda sul mero rapporto di custodia, cioè sulla relazione intercorrente fra la cosa dannosa e colui il quale ha l'effettivo potere su di essa (come il proprietario, il possessore o anche il detentore) e non sulla presunzione di colpa, restando estraneo alla fattispecie il comportamento tenuto dal custode, deve concludersi che perchè sorga la responsabilità del "custode" occorre, da un lato, che il danno sia prodotto nell'ambito del dinamismo connaturale del bene, o per l'insorgenza in esso di un processo dannoso, ancorchè provocato da elementi esterni, e, dall'altro, che la cosa, pur combinandosi con l'elemento esterno, costituisca la causa o la concausa del danno. L'attore, pertanto, deve offrire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e l'evento lesivo nonchè dell'esistenza di un rapporto di custodia relativamente alla cosa, mentre il convenuto deve dimostrare la esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso di causalità, cioè il "caso fortuito", in presenza del quale è esclusa la responsabilità del custode (Cass. 29 novembre 2006, n. 25243). "Caso fortuito" che deve essere inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purchè detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. 19 febbraio 2008, n. 4279; Cass. 10 marzo 2005, n. 5326; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11264; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1947).

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3.3. Applicando i riferiti principi ai danni causati da bene in custodia della Pubblica Amministrazione e in uso alla generalità, la più recente giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che il giudice, ai fini dell'imputabilità delle conseguenze del fatto dannoso, non può arrestarsi di fronte alla natura giuridica del bene o al regime o alle modalità di uso dello stesso da parte del pubblico, ma è tenuto ad accertare, in base agli elementi acquisiti al processo, se la situazione di fatto che la cosa è venuta a presentare e nel cui ambito ha avuto origine l'evenienza che ha prodotto il danno, sia o meno riconducibile alla fattispecie della relativa custodia da parte dell'ente pubblico. Ove tale accertamento risulti compiuto con esito positivo, la domanda di risarcimento va giudicata in base all'applicazione della responsabilità da cosa in custodia, dovendo valutarsi anche l'eventuale concorso di colpa del danneggiato ai sensi dell'art. 1227 c.c. (Cass. 8 agosto 2007, n. 17377). Non diversamente, in altra occasione, si è osservato che la responsabilità civile da custodia ex art. 2051 c.c., non rimane in modo automatico esclusa in ragione dell'estensione della rete viaria e dell'uso da parte della collettività, che costituiscono meri indici dell'impossibilità di un concreto esercizio dei poteri di relativo controllo e di vigilanza, la cui ricorrenza va verificata caso per caso dal giudice del merito, giacchè, laddove l'esercizio ne risulti in concreto impossibile rimane esclusa la sussistenza dello stesso rapporto di custodia, e, conseguentemente, la configurabilità della relativa responsabilità (Cass. 26 settembre 2006, n. 20823). 3.4. In sintesi, agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico trans ito in linea generale, è applicabile l'art. 2051 c.c., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, essendo peraltro configurabile il caso fortuito in relazione a quelle provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nonostante l'attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere (Cass. 29 marzo 2007, n. 7763. Analogamente, Cass. 2 febbraio 2007, n. 2308). In altri termini va quindi superata la giurisprudenza di questa Corte che - sul presupposto che l'art. 2051 c.c., prevede una presunzione di responsabilità del custode - afferma che l'art. 2051 c.c., è applicabile nei confronti della P.A. per le categorie di beni demaniali quali le strade pubbliche solamente quando, per le ridotte dimensioni, ne è possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l'insorgenza di cause di pericolo per gli utenti (Cass. 26 settembre 2006, n. 20827; Cass. 12 luglio 2006, n. 15779; Cass. 6 luglio 2006, n. 15383). Deve affermarsi, in particolare, il diverso principio secondo cui la responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto cui la si imputa abbia con la cosa un rapporto definibile come di custodia. Perchè questo rapporto ci sia è necessario che il soggetto abbia e sia in grado di esplicare riguardo alla cosa un potere di sorveglianza, il potere di modificarne lo stato e quello di escludere che altri vi apporti modifiche. Ora, passando all'ente pubblico e alle strade aperte al traffico, è certo che l'ente proprietario si trova in questa situazione.

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In particolare, una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa (e l'onere probatorio di tale dimostrazione grava, palesemente, sul danneggiato), è comunque configurabile la responsabilità dell'ente pubblico custode, salvo che questo ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno. L'ente proprietario, non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si determina non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada ma in maniera improvvisa atteso che solo questa ultima (al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto) integra il caso fortuito previsto dall'art. 2051 c.c., quale scriminante della responsabilità del custode. 4. Atteso quanto sopra è evidente - come anticipato sopra - che il proposto ricorso deve essere accolto, non essendosi il giudice a quo attenuto ai principi di diritto sopra esposti. Il giudice del merito infatti, pur essendo incontroverso che il trattore di proprietà della P. è sprofondato in un avvallamento della strada di proprietà del comune di Cerignola, ha rigettato la domanda proposta dalla P. contro questo ultimo sul rilievo che erano carenti prove in ordine al fatto che il manto stradale fosse crollato a causa del peso del trattore, non potendosi escludere, al contrario, che l'avvallamento esistesse già prima e che nonostante fosse ben visibile tale cioè da non integrare una insidia o trabocchetto il conducente non lo avesse evitato, facendo applicazione dell'art. 2043 c.c., e escludendo - sia pure per implicito - la possibilità di esaminare gli argomenti difensivi hinc - inde sotto il profilo di cui all'art. 2051 c.c. (disposizione, come evidenziato sopra, da ritenersi riferibile anche alla Pubblica Amministrazione quanto alle strade aperte al pubblico transito di cui la stessa è custode). All'accoglimento del ricorso, per il profilo in questione, segue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa, per nuovo esame, al tribunale di Foggia, in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvedere, altresì, sulle spese di questo giudizio di legittimità.

Inizio documento P.Q.M

LA CORTE accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa per nuovo esame, anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità, al tribunale di Foggia in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 23 aprile 2008. Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2008