ma io sono danese ?

14
Storia della confusione culturale di una ragazza, al suo rientro in Danimarca, dopo un anno passato in Kenya con un programma di scambio AFS e del successivo ritorno in Kenya, che l’ha aiutata a capire la sua esperienza, completando così il suo rientro a casa. Originariamente pubblicato all’interno degli: “AFS Occasional Papers in Intercultural Learning”, No. 6, Luglio 1984. Seconda Edizione a cura di: AFS Intercultural Programs, Inc: 2008. Traduzione a cura di Monica Mannelli, Centro Locale di Bolzano.

Upload: piole-tyuri

Post on 12-Mar-2016

213 views

Category:

Documents


0 download

DESCRIPTION

storia della confusione culturale di una ragazza AFSer

TRANSCRIPT

Storia della confusione culturale di una ragazza, al suo rientro in Danimarca, dopo un anno passato in Kenya con un programma di scambio AFS e del successivo ritorno in Kenya, che l’ha aiutata a capire la sua esperienza, completando così il suo rientro a casa.

Originariamente pubblicato all’interno degli: “AFS Occasional Papers in Intercultural Learning”, No. 6, Luglio 1984.

Seconda Edizione a cura di: AFS Intercultural Programs, Inc: 2008. Traduzione a cura di Monica Mannelli, Centro Locale di Bolzano.

Quasi un quarto di secolo fa (1984) m’imbattei in un articolo in prima persona, dal titolo: Ma io, sono danese?; scritto per gli “Occasional Papers AFS sull’ Apprendimento Interculturale”, da un’ex borsista AFS originaria della Danimarca. Riguardava l’impatto che l’esperienza di scambio annuale aveva avuto su una ragazza che partecipò al programma AFS in Kenya nell’anno 1979-80. Quando lo lessi pensai fosse uno dei più onesti, sensibili e toccanti resoconti, di quel che significa entrare in contatto con una cultura drasticamente differente dalla propria, stimarla profondamente, e poi infine, dover ritornare a casa. Tutt’oggi mantengo la stessa opinione al riguardo, e quel resoconto continua ad essere rilevante addirittura per gente che non era nemmeno nata quando è stato scritto. Ho scovato l’articolo mentre cercavo del materiale da utilizzare in occasione del ri-orientamento con i miei studenti americani rientrati da simili esperienze all’estero. In quegli anni non si trovava molto materiale riguardante il rientro, né tanto meno riguardante le fasi psicologiche ed i comportamenti associati al ritorno a casa. L’articolo di Julie si rivelò uno strumento quasi perfetto per incoraggiare gli studenti sia a discutere, che a prendere seriamente le sfide affrontate durante la fase di riadattamento successiva al rientro. Per anni ho dato da leggere quest’articolo ai miei studenti. Poco importava che Julie l’avesse scritto ai tempi delle superiori, e che i miei studenti fossero universitari; né tantomeno importava che fosse ambientato in Kenya, nonostante la maggioranza di loro non avesse scelto l’Africa come destinazione. Ciò che contava veramente era che ognuno di loro poteva trovare, nell’esperienza di Julie, uno specchio che rifletteva valori ed emozioni

riguardanti il processo di riadattamento, che loro stessi avevano vissuto in prima persona. Julie è riuscita ad esprimere a parole cosa significa arrivare a comprendere ed apprezzare uno stile di vita diverso dal proprio e poi doverlo abbandonare per ritornare ad una vita in tutto e per tutto diversa, chiamata “casa”. Il suo articolo altro non è che un’eloquente meditazione su come, le prevedibili ed imprevedibili conseguenze dell’oltrepassare i confini di una cultura (e poi tornare indietro), possano cambiare il nostro modo di percepire noi stessi ed il mondo. Molto prima del fiorire della letteratura riguardante la formazione ed il cambiamento d’identità, la marginalità, il riadattamento post-rientro,e lo sconvolgimento dei valori, già eravamo in possesso di esempi riguardanti ognuno di questi temi, nel semplice, empatico e talvolta conflittuale resoconto di una ragazza europea, che, trascorso un anno in Kenya con un programma AFS, è rientrata per porsi delle domande su quella che rimane una questione irrisolta: “Ma io, sono danese?” I lettori possono ancora trarre beneficio dal considerare cosa, del suo anno all’estero, l’ha portata a porsi questa domanda…e perché Julie ritenesse che darsi una risposta avesse importanza!

Bruce La Brack, Ph.D.

Professore di Antropologia e Studi Internazionali

School of International Studies

University of the Pacific Stockton, California

10 Marzo 2008

Introduzione Ma io, sono danese? fu scritto da una ragazza che partecipò ad un programma annuale AFS in Kenya, nell’anno 1979-1980. Quando scrisse questo articolo Julie Gehl era una studentessa al terzo anno di medicina a Copenhagen, ed una volontaria attiva di AFS. Ora è oncologa e professoressa-ricercatrice clinica associata, presso l’ospedale universitario Herlev; dipartimento d’oncologia della facoltà di Scienze Sanitarie dell’Università di Copenhagen. Per via dell’efficace descrizione della sua esperienza di rientro, siamo felici di riproporre questo articolo per Intercultura nel ventunesimo secolo.

Bettina Hansel, Ph.D. Responsabile del Dipartimento

di Educazione e Ricerca Interculturale AFS Intercultural Programs, Inc.

Ma io, sono danese(?)

Julie Gehl Volontaria di AFS

Copenhagen, Danimarca

“Ma io SONO danese!” passo a parlare in danese questa volta, sperando che almeno questo la possa convincere. Ma mi ritrovo ad avere un accento insopportabile. “Ah, capisco. Ma quanto tempo, effettivamente, hai trascorso in Danimarca?” “Sedici anni, e poi ne ho trascorso uno qui.” “Come scusa?” Ripeto cercando di articolare più attentamente le mie parole. “Stai scherzando?!” Mi guarda incredula. “No, non sto scherzando, sono danese ed ho vissuto in Danimarca per sedici anni.” Quel giorno, all’aeroporto di Nairobi, stavo tornando a casa, quella casa a cui in teoria appartenevo. Il problema era che ormai là, io non appartenevo più veramente. Rivendicare il mio essere danese in qualche modo era solo una parte della verità … o meglio, se danese lo ero, sicuramente non lo ero più tanto quanto in precedenza. Non mi andava di tornare a casa. Mi sentivo già a casa in Africa. Avevo molti dubbi su quello che sarebbe successo una volta raggiunta la mia destinazione. Mi sembrava d’aver scordato la mia lingua, il mio passato, la mia cultura. Ma i miei problemi erano solo all’inizio. Avevo già iniziato a pensare a come mi sarei comportata con gli altri una volta arrivata a Copenhagen. Sarei andata incontro ad ognuno e l’avrei abbracciato. Perché è così che si fa in Danimarca – ma non è così che si fa in Kenya.

Finalmente li vidi, dietro il vetro, in aeroporto. Quindici persone, con indosso cappotti pesanti e sventolanti bandiere danesi. Sarò sembrata loro forse un po’ ridicola; ero vestita diversamente dal modo a cui erano abituati e trasportavo un grosso cesto sulla testa. Trovavo estremamente difficile esprimermi in danese. Il mio accento si faceva sentire e ci sono voluti tre mesi prima che la gente smettesse di chiedermi da dove venissi. I primi giorni trascorsi a casa si rivelarono decisamente shockanti. Vedevo la mia famiglia far cose che ritenevo non si potessero fare; a scuola assistevo al susseguirsi delle più incredibili situazioni; tutto mi sembrava sotto-sopra, come in un incubo. Nessuno seguiva le regole a cui m’attenevo io. Può darsi che dato che in teoria ero rientrata a casa, in realtà pretendevo che loro s’attenessero alle mie regole. Avevo previsto di imbattermi in alcune difficoltà di riadattamento, ma certo non mi aspettavo un mondo intero di differenze tra i miei principi ed i loro. I miei erano africani, i loro danesi, il conflitto era destinato a scoppiare. “Sta’ zitta!” Il cibo mi va di traverso, tossisco e guardo mia sorella con incredulo sgomento, quasi facendo cadere il cucchiaio nella minestra. Mia sorella ha appena detto “Sta’ zitta!” a mia madre! Non credo alle mie orecchie. E’ un gesto così maleducato al punto da sembrarmi praticamente impossibile sia successo davvero. Non si può dire così tranquillamente una cosa del genere alla propria madre. Siccome sono la sorella maggiore, mi sento in dovere d’intervenire. Ma come si fa in Danimarca? Cerco di ricordarmi, ma non riesce a ritornarmi in mente. Dovrei prenderla a schiaffi? Trascinarla fuori dalla stanza e darle una sonora lezione che ricordi per tutta la vita? Ma prima ancora di avere il tempo di

muovermi, mi coglie uno shock ancora più forte. Nessun altro ha reagito a quanto appena accaduto! Un oltraggio dei più seri ha appena avuto luogo e nessuno ha battuto ciglio. Resto seduta, confusa e frustrata. Dopo tre giorni a Copenhagen, mi sentivo completamente esaurita. Le due notti passate nella mia stanza al piano interrato, dove dormivo abitualmente, mi erano sembrate due notti passate in una tomba. Il silenzio era assordante, e sembrava mortale in confronto al vivace dormitorio della mia scuola in Kenia, o alla stanza che condividevo con la mia sorella keniota durante le vacanze. I primi tre giorni furono pieni di orrori di ogni tipo; ovunque andassi le cose parevano strane. Quando fu ora di andare a letto nella “tomba” per la terza notte di seguito, non potei fare a meno di piangere, nonostante cercassi di trattenere le lacrime. Era inutile. Nessuno avrebbe potuto aiutarmi, poiché nessuno era in grado di capire perché fosse tutto così difficile. Sembrava una missione impossibile spiegare cos’era stato per me il Kenia e perché avevo l’impressione che in Danimarca si stessero comportando tutti in maniera un po’ stramba. Mio padre tentò d’aiutarmi. Sebbene non ne comprendesse completamente il motivo, fu intenerito dal fatto che dormire nel seminterrato per me rappresentasse un problema. Quindi suggerì di fare proprio come quando da piccola, di notte avevo paura: avrei dormito nella stanza dei miei. Ero così sconvolta in quel momento che acconsentii senza fiatare. Ma quando mi svegliai, il mattino dopo, mi senti ancora più fuori luogo. Che una ragazza cresciuta dormisse nella stanza dei genitori non mi sembrava proprio il caso. Avevo pensato che tornare a scuola mi avrebbe aiutata, fornendomi un po’ di compiti con cui tenere occupata la mente. Quando passai da scuola per farmi rivedere, incontrai un insegnante che conoscevo piuttosto bene. Non era affatto strano (da un punto di vista danese) che il mio insegnante mi avesse

salutato con un abbraccio e m’avesse invitata a berci una birra assieme per fare due chiacchiere sul Kenia. Sopportai l’abbraccio. Ma rifiutai la birra – la birra oltrepassava davvero ogni limite! Poi durante le lezioni, in classe, gli altri studenti urlavano, schiamazzavano, chiamavano l’insegnante per nome, dibattevano con vigore qualora non fossero d’accordo con qualcosa che l’insegnante aveva detto. Mi ci vollero due settimane per riuscire ad alzare lo sguardo dal pavimento quando parlavo ad un insegnante. Nell’annuario scolastico fui descritta come “la debole voce dall’Africa.”

*** Quando ripenso al periodo prima della partenza per il Kenya, aneddoti come questi sembrano ancora più divertenti. Da ragazzina maturai piuttosto precocemente e iniziai una personale rivolta contro i miei genitori all’incirca a 12 anni. “Sta’ zitta” è anche piuttosto tranquilla come espressione rispetto alle cose che io stessa in precedenza avevo detto a mia madre. Subito dopo aver compiuto 14 anni divenni consapevole dei parecchi problemi di questo mondo, e m’impegnai politicamente in movimenti per la pace e contro il nucleare. Non avevo paura d’impormi davanti a migliaia di persone per sostenere ciò che credevo giusto. Le autorità non mi spaventavano affatto. Lavoravo sodo scrivendo lettere a vari editori ed articoli per giornali sia locali che nazionali. Organizzavo manifestazioni, incontri, eventi e qualsiasi altra cosa facesse al caso. A scuola ero un membro attivo del consiglio degli studenti e del consiglio d’istituto e non mi frenava assolutamente l’eventualità d’entrare in conflitto coi miei insegnanti. Se qualcuno m’avesse detto che di li a due anni mi sarei infilata un’uniforme scolastica, sarei stata confinata in un collegio femminile senza la possibilità né il bisogno di prendere alcuna decisione – e che addirittura mi sarebbe piaciuto – avrei pensato fosse pazzo. Un giorno dissi al presidente dell’ufficio AFS Kenya che mi sarebbe piaciuto lavorare per

AFS un giorno. Lui mi rispose: “No, no, Julia, sei troppo delicata per farlo”. Non posso criticarlo per il suo giudizio però – mi conosceva solamente nella mia “versione keniota”. Mi resi conto che il drastico mutamento del mio comportamento ed i miei principi non erano che il risultato del periodo trascorso in Kenya. Gli aspetti della mia vita in cui avevo subito il cambiamento maggiore riguardavano le relazioni tra adulti e bambini, autorità e sottoposti, e in particolare uomini e donne. In Kenia i due sessi vivono praticamente in due mondi a sé, e la distanza tra queste due realtà è enfatizzata ulteriormente dal rapporto uomo - donna. Dall’altro lato però, le relazioni tra sorelle e tra donne in generale, sono molto più forti che in Danimarca. Per questa ragione il mio soggiorno in Kenia m’ha fatto sviluppare un’identità femminile molto più marcata, che si è poi riflessa nei miei comportamenti con le persone in Danimarca. Sapevo essere sicura di me e aperta nel relazionarmi con le donne, ma diventavo piuttosto timida in presenza di uomini. Se ero cambiata così tanto durante il mio soggiorno in Kenia, era perché avevo cercato di integrarmi il più possibile nella loro cultura e società. In effetti ero andata oltre, quasi al punto di rinnegare la mia stessa nazionalità. La ragione per cui sentii la necessità d’arrivare a questo punto – a parte l’abissale differenza tra le due culture – era il colore della mia pelle. Il razzismo si trova un po’ dappertutto nel mondo, ma in un paese come il Kenia, che fino a poco tempo fa ha subito il decennale colonialismo Europeo, ha un ruolo centrale. Il razzismo in Africa è strettamente collegato alle ingiustizie economiche presenti in tutto il continente. Quando il problema è che i ricchi – solitamente bianchi – sfruttano e opprimono i poveri – tipicamente neri – allora la lotta di classe ed il razzismo finiscono col sovrapporsi e mescolarsi. È come se ci fossero due gruppi di persone: la comunità bianca e la comunità africana, ed un

muro invisibile che le separi. Ci sono alcuni Africani nella comunità bianca e alcuni bianchi nella comunità africana, ma si tratta di mosche bianche. L’entità di questa divisione mi fu subito chiara in due modi. Primo, mi resi conto quanto inusuale fosse per la gente che io, una bianca, non stessi con la comunità bianca. Secondo, realizzai quanto fosse gravemente diffusa tra i bianchi, la mancanza di comprensione della cultura e dell’eredità africane. In Kenia ho trovato due mondi all’interno di una sola nazione. Uno basato sull’eredità africana, e l’altro una versione importata della tradizione europea. Attività comuni e consuete di uno di questi due mondi, non avevano assolutamente luogo all’interno dell’altro, per via di differenze economiche e culturali. Naturalmente i due gruppi si sono scontrati anche politicamente fino a tempi recenti. Può sembrare strano – sembrò strano a me all’inizio – che i due gruppi non siano integrati meglio. Ma la comunità bianca vede le sue radici saldamente ancorate alla tradizione coloniale, e non sembra interessata ad un cambiamento. Addirittura molti cooperatori allo sviluppo s’identificano con la comunità bianca. Arrivano in Africa con un bagaglio culturale che, dal punto di vista economico e sociale, è molto più vicino alla comunità bianca che non a quella africana, e tendono quindi a farsi inglobare dalla prima. Appena uno s’inserisce nella comunità bianca, automaticamente è molto facile che venga alienato da parte della comunità Africana. E poiché le occasioni in cui le due comunità si confrontino ad un livello positivo ed egualitario sono molto scarse, la possibilità di abbattere il muro tra le due rimane molto effimera. Così come i nodi non si formano senza motivo, allo stesso modo non si slegano di sicuro da soli! Un errore molto diffuso in occidente è la credenza che il colonialismo sia finito, gli aiuti umanitari di sostegno allo sviluppo iniziati, e che la povertà sia in diminuzione. La realtà è che il Terzo Mondo è più povero che mai e lo sfruttamento di queste aree è entrato in una fase ancora più efficiente. Un

altro errore è credere che le barriere razziali siano state abbattute. La verità è che molti cooperatori allo sviluppo finiscono per comportarsi come i colonizzatori di un tempo; sotto l’influenza degli altri bianchi in Kenia, diventano anche loro piuttosto razzisti. Infatti ogni bianco che mette piede in Kenia deve aspettarsi d’essere classificato in un ruolo piuttosto stereotipico… finché egli stesso non è in grado di dimostrare che quel ruolo non gli si addice. E questa, è spesso un’impresa non da poco. Sebbene questo stato di cose fosse enfatizzato quasi quotidianamente durante il mio soggiorno in Kenia, mi ci vollero comunque quasi tre mesi per realizzare completamente quanto estreme fossero le divisioni tra le due parti. Forse ero riluttante a riconoscere fino a che punto arrivavano le impressioni stereotipate che gli Africani avevano dei bianchi. O forse semplicemente non riuscivo a credere che il comportamento di molti Kenioti bianchi, nei confronti della comunità africana, fosse così disgustoso come in realtà era. Comprendere tutto ciò fa si che un exchange student bianco, in Kenia, si ponga una serie di domande. Da che parte stare? Se provi ad identificarti con la comunità africana, il colore della tua pelle ti tradirà. Fino a che punto vuoi arrivare per cercare di dimostrare la tua appartenenza alla comunità africana? Come, esattamente, pensi di spiegare alla gente che non dovrebbero trarre conclusioni solo guardandoti in faccia (o al colore della tua faccia)? Integrarsi è possibile? E fino a che punto? Come accade alla maggior parte degli exchange students, partii per il Kenia spinta da una forte motivazione a comprendere la cultura e le tradizioni africane. Per ciò la domanda “Da che parte stare?” trovò praticamente subito risposta. L’ambiente in cui fui inserita mi permise di perseguire questo mio obiettivo. Fui abbinata ad una famiglia africana di Nairobi, anche se trascorsi la maggior parte del mio anno in un collegio femminile, in una città chiamata Eldoret, 300 km a nordovest di Nairobi.

Grazie ad una cara amica, Sarah, che proveniva da un’area rurale, divenni famigliare con gli usi e costumi della sua tribù e di quella particolare regione del Kenia. Per quanto riguarda invece la questione: “Fino a che punto vuoi arrivare...?” cercai di fare il possibile, con tutti i mezzi che avevo, per dimostrare la mia appartenenza alla comunità africana. Ovviamente non ho mai dichiarato né ho mai alluso al fatto d’esser fiera d’esser Europea (atteggiamento molto comune tra la comunità bianca). Avevo una tale repulsione dei bianchi in Kenia che alla fine mi ritrovai ad affermare più o meno il contrario: cominciai a descrivere i Danesi e la Danimarca in terza persona. Ad esempio, anziché dire “Si, in Danimarca mangiamo un sacco di patate” dicevo “Si, mangiano un sacco di patate in Danimarca”. La lingua è un elemento molto importante al fine della tua identificazione con una comunità piuttosto che con l’altra. L’inglese parlato tra i membri della comunità africana ha un accento particolare, ed è praticamente impossibile sentirlo parlare tra i bianchi. Feci perciò di tutto per far suonare il mio inglese il più keniota possibile, arricchendo il mio vocabolario di termini e sintassi presi dallo Swahili. In più menzionavo spesso i nomi che mi erano stati dati dalla tribù Kalenjin: Chepkius (nata troppo presto); e dalla tribù Luo: Adhiambo (nata nel pomeriggio). I miei amici africani mi aiutavano molto presentandomi agli altri dicendo: “Questa è Julia, viene dalla Danimarca, ma è africana”. Forse ciò che ti fa veramente scoprire per come sei, è il modo in cui t’inserisci nell’ambiente. La gente fa caso a come ti muovi, con che gente giri, se sembri a tuo agio, o hai un’aria disgustata da quello che t’accade attorno mentre cammini per strada. Aiuta molto fare cose che un Europeo non farebbe mai. Ho suscitato parecchie risate cercando di tenere in equilibrio un cesto sulla testa, trasportando bimbi africani sulla schiena, lavandomi e andando a raccogliere le messi con gli altri africani. Anche il mio tentativo di ballare le danze tradizionali, ha fatto spesso sorridere.

La mia amica Sarah ed io una volta andammo a trovare delle persone nell’area da cui lei proveniva: una zona montuosa del Kenia. Quando arrivammo cercai di imitare tutto ciò che faceva lei per esser sicura di comportarmi correttamente. Quando porsi la mia mano ad un’anziana signora, la nonna di casa, successe qualcosa di inaspettato. Come è abitudine nella loro tribù, prima di porgerle la mia mano avevo stretto la mano sinistra attorno al polso destro, in segno di rispetto. Evidentemente non si aspettava un tale gesto, iniziò a piangere e continuò a stringermi calorosamente la mano per un bel po’. È stata una sensazione magnifica poter restituire a quella donna un po’ di quell’autostima che altri le avevano rubato. Ma allo stesso tempo è stato terribile cominciare a comprendere la dimensione e la malvagità di quello stesso furto. C’è voluto un po’ prima che i miei compagni di classe capissero che ero veramente interessata a conoscere il loro background culturale. Ricordo ancora vividamente la sera che Sarah mi guardò e mi disse: “No, non mi piacciono i bianchi, specialmente gli Inglesi, ma tu sei a posto.” Quando accadde erano già quattro mesi che andavo a scuola; fu l’inizio di qualcosa di fantastico. Finalmente aveva capito che volevo avvicinarmi alla sua cultura, diventare parte della sua comunità e che non consideravo né lei né la sua comunità inferiori in alcun modo. Avevo scelto da che parte stare e la mia scelta era stata riconosciuta. Un giorno camminavo con un cesto sulla testa nell’area residenziale di Nairobi dove viveva la mia famiglia ospitante. Alcune donne africane sedute sul marciapiedi mi salutarono mentre passavo di là. “Dove vai?” mi chiesero. “Vado a casa di Onyango” risposi in Swahili. Risero. “Ma tu dove vivi?” mi chiesero. “A casa di Onyago”

Risero di nuovo e mi spiegarono che forse il mio Swahili non era troppo corretto. Una persona come me non avrebbe mai detto che vive nella casa di Onyago. “Il mio Swahili è più che corretto”, spiegai. “Vivo con la famiglia Onyago. Non sono stata a casa per un po’ perché ero in collegio.” Ma non mi hanno mai creduta. Dal loro punto di vista ciò che avevo appena spiegato non era plausibile: le ragazze bianche non vivono con le famiglie nere: impossibile! Il confronto era sempre presente – sul bus, per strada, nelle case da tè, in cucina a casa. Non mi sono mai veramente abituata agli sguardi fissi su di me, ai bambini che mi toccavano i capelli. Mi resi conto che non sarei mai potuta scomparire nella massa. Capii che non ci sarebbe mai stato modo per la gente di capire automaticamente per cosa mi battevo e perché ero in Kenia. Ma dall’altro lato scoprii di poter arrivare molto lontano nel rapporto con alcune persone che m’avevano accettata come persona e non come mzungu (bianca). Ed imparai come far capire in fretta alla gente che forse era il caso di non giudicarmi superficialmente, ma conoscermi più da vicino, poiché forse, ero diversa dagli altri bianchi. La maggior parte degli Africani, all’inizio, era scettica nei miei confronti, proprio come io avevo imparato ad essere piuttosto scettica nei confronti degli altri bianchi… a meno che non fossero in grado di dimostrarmi d’essere diversi dalla gran parte degli altri bianchi del Kenia. (La prima volta che incontri un tipico Keniota bianco può rivelarsi uno shock. Probabilmente ti chiederà se vuoi il tuo primo drink prima o dopo il tramonto – come una volta mi chiese, come prima domanda, una cooperatrice allo sviluppo danese incontrata sul treno – o peggio, inizierà a spiegarti quanto può rivelarsi duro avere a che fare con gli Africani). Ho degli amici bianchi in Kenia e nutro sentimenti molto affettuosi nei loro confronti. Forse la ragione per cui ho degli amici bianchi in Kenia è perché ho imparato a distinguere abbastanza in fretta le due diverse categorie di bianchi, e mi sono tenuta alla

larga da quella più disgustosa. C’era un limite entro il quale potevo tollerare le loro descrizioni dei miei amici africani, ma non oltre. No, non potevo pretendere d’essere africana. Non è possibile evitare del tutto le conseguenze dell’essere bianca, in un paese come il Kenia. Non si può oltrepassare del tutto oltre le enormi barriere culturali. D’altro canto però c’è una differenza abissale tra il vivere nella comunità bianca adottando la strategia del “più Europeo possibile nonostante l’ambiente”, ed il livello di integrazione che un non-Africano all’interno della comunità africana può potenzialmente raggiungere. A tale proposito è opportuno dire che mettersi in una condizione di parità con l’altra cultura è un buon punto di partenza. E questo è esattamente ciò che ti fornisce un’esperienza di scambio con AFS – La possibilità di metterti alla pari con un nuovo ambiente culturale. Cercare d’integrarsi nella comunità Africana significa iniziare ad abbattere il muro tra le due culture. E questo si può benissimo definire un contributo alla lotta contro i pregiudizi ed il razzismo – che va esattamente a braccetto con la missione di AFS. Ciò che va inteso, comunque, è che un’opportunità come questa può andare praticamente sprecata se l’organizzazione che la sponsorizza non fornisce agli studenti gli strumenti necessari ad analizzare la loro esperienza in prospettiva, e non li aiuta ad utilizzare quest’esperienza per andare oltre i confini della propria cultura. È riconosciuto che il programma di scambio non è il fine ultimo, bensì il mezzo. Per me il fine non è comunque solamente la consapevolezza, ma anche il dedicarsi e partecipare attivamente alla risoluzione dei problemi incontrati durante lo scambio. Lavorare per la pace attraverso i programmi di scambio è un’idea brillante, ma perché allora non sfruttarla appieno? È come seminare un campo di grano e poi non prendersene cura – e poi magari pretendere

d’aver dato un enorme contributo a risolvere il problema della fame nel mondo. Ci sarà del grano che magari crescerà comunque anche su un campo trascurato, ma basterà appena per chi l’ha seminato. Dovremmo puntare più in alto. Ecco perché le orientations, e il supporto ai partecipanti fornito dall’organizzazione è d’importanza fondamentale; non solo prima, ma durante l’esperienza nel paese ospitante e dopo il rientro a casa.

*** Vivere tra due diverse culture, in un certo qual modo, è come vivere avendo due diverse personalità. Devi viverne una alla volta e questo produce una serie di problemi quando passi da una all’altra, per lo meno le prime volte. Divenni una persona diversa dopo esser stata in Kenia per un po’, e cambiai nuovamente – non senza un forte stress emotivo - una volta rientrata in Danimarca. Alcuni anni prima ero rientrata in Danimarca dopo aver trascorso un anno in Canada. Durante la mia permanenza avevo frequentato una scuola canadese, mi ero fatta degli amici canadesi, ma trovai piuttosto facile mantenere la mia nazionalità e cultura anche nel nuovo ambiente. Certo, mi sentivo influenzata dalla nuova cultura in cui mi trovavo, ma non sentivo l’esistenza di alcun conflitto tra le due. Tornare a casa in Danimarca non fu un gran problema, certo dovetti comunque riadattarmi un pochino allo stile di vita danese. Dovetti abituarmi alla gente che si stancava a sentire le mie storie ed impressioni sul Canada. Ma cambiamenti che avevo subito erano tutti piuttosto innocui. Mi ero limitata a maturare un po’ grazie al confronto con altri stili di vita, con amici provenienti da altri ambienti culturali, e grazie alla necessità di dovermela cavare in un’altra lingua. Ma quando invece venne il momento di lasciare il Kenia, i miei valori ed il mio comportamento erano mutati profondamente. Lasciare il Kenia fu come se mi fosse strappato via un pezzo di cuore. Certo, si lasciano pezzi di cuore un po’ ovunque nel corso di una vita, questo c’è da aspettarselo. Ma quel pezzo era troppo grande perché potessi starne senza. Non potevo

semplicemente riprendermi e andarmene via sorridendo, come avevo fatto quando era stato il momento di lasciare il Canada. Le cose non andavano a posto, non diventavano più chiare, semplicemente condividendo con gli altri le mie storie e le mie impressioni sul Kenia. La realtà è che non parlavo molto del Kenia, poiché non mi sentivo in grado di spiegare agli altri Danesi cosa fosse veramente il Kenia. La differenza tra i due mondi mi sembrava così abissale, che l’impresa sembrava impossibile. Circa tre mesi e mezzo dopo il mio rientro dal Kenia, il primo maggio 1980, me ne stavo in Faelledparken, il grande parco in cui si erano riuniti centinaia di migliaia di Danesi, per festeggiare la festa internazionale del lavoro. Improvvisamente divenne chiaro che le mie radici ed il mio futuro appartenevano alla Danimarca. Mi resi conto che avrei dovuto ritrovare la mia identità danese se volevo dare un senso alla mia vita. Ma mi resi anche conto che la mia esperienza in Kenia era ancora un capitolo aperto, un libro ancora incompiuto. Non potevo semplicemente chiuderlo e rimetterlo sullo scaffale. Non potevo pretendere di rivestirmi della mia identità danese, non appena rientrata dal Kenia, come fosse stato un semplice capo di vestiario lasciato a casa. Se non fossi stata la prima studentessa non americana ad andare in Kenia, forse avrei avuto qualcuno con cui parlare. Se ci fossero stati altri Danesi o Europei ad aver vissuto la mia stessa esperienza, forse avrei avuto la possibilità di confrontarmi con qualcuno che capisse i sentimenti con cui dovevo vedermela ogni giorno. Se a quel tempo AFS Danimarca avesse organizzato un incontro di ri-orientation per studenti che rientravano dall’emisfero sud, probabilmente ne avrei tratto non poco beneficio. E se la mia esperienza in Kenia non fosse stata cosi emotivamente coinvolgente (e stravolgente), le mie emozioni, i miei pensieri, e le mie esperienze dopo il rientro forse non avrebbero giocato un ruolo tanto importante.

Per ritornare a casa, in Danimarca, dal Kenia, mi ci sono voluti due anni e mezzo – ed un nuovo viaggio in Kenia. Poiché avevo bisogno di quel qualcosa che mi aiutasse a comprendere cosa fosse accaduto nel corso del mio anno laggiù. Quali cambiamenti avevo subito semplicemente crescendo e quali invece erano da ricondurre alla mia permanenza in Kenia? Quali caratteristiche della mia personalità si erano già delineate prima della mia esperienza con AFS, e quali invece ne erano una conseguenza? Quali delle emozioni provate in Kenia avevano a che fare col Kenia stesso, e quali col mio avere 16 anni? Molto importante fu anche il mio sogno di apportare il mio contributo al dialogo Nord – Sud del mondo, e allo sradicamento del razzismo. Nello specifico, mi stava molto a cuore ciò che l’aiuto allo sviluppo offerto dai Danesi riusciva concretamente a fare nel Terzo Mondo. Sebbene in Kenia avessi incontrato alcuni coordinatori allo sviluppo motivati e assennati, il numeroso gruppo dei buoni a nulla conosciuti, mi fece pensare che forse chi avesse bisogno di aiuto allo sviluppo fossero proprio le agenzie reclutanti dei paesi “sviluppati”! Ero molto amareggiata a causa della scarsa sensibilità di queste agenzie, della loro poca adeguatezza alla situazione, e soprattutto dal loro mirare ad obiettivi ben diversi dal benessere del paese ricevente. Volevo denunciare questi problemi ad alta voce, per iscritto, cominciare a smuovere qualcosa. Ma non riuscivo. Io, che in passato avevo scritto così tanto e parlato cosi spesso, non riuscivo a far arrivare agli altri nemmeno il più semplice dei messaggi. Mi sentivo in dovere nei confronti di AFS, della mia famiglia ospitante, dei miei amici africani; sentivo il dovere di fare qualcosa. Lavorare nel gruppo di dialogo Nord-Sud di AFS Danimarca fu utile a chiarirmi alcuni aspetti politici della questione, ma c’erano ancora troppe emozioni, opinioni, esperienze che restavano irrisolte. Le mie dita inciampavano sui tasti della macchina da scrivere, e gli occhi mi si riempivano di lacrime quando tentavo di spiegare il Kenia ai miei amici danesi. Ciò che mi mancava era un rapporto emotivamente equilibrato con la mia esperienza. Non ero assolutamente in

condizione di riuscire ad organizzare le mie emozioni e le mie conoscenze in maniera strutturata e razionale. Potevo discutere di queste cose solo con me stessa. Fu solo dopo il mio ritorno in Kenia che riuscii ad utilizzare la mia prima esperienza laggiù in maniera costruttiva.

*** Sono le 4.30 di mattina. Sono seduta e aspetto nella luce soffusa dell’aeroporto di Nairobi. Laura, anche lei un’ ex studentessa AFS, è con me. Per entrambe questo è un sogno divenuto realtà. Anche lei sembra aver lasciato un pezzo del suo cuore qui in Kenia nel corso della sua permanenza qui, tre anni fa. Laura è americana; m’ha raggiunta a Copenhagen, in modo da poter viaggiare assieme verso il Kenia. All’alba una figura minuta avvolta in un cappotto viene verso di noi. È la mia amica Sarah. Si è fatta tutta la strada fino a qui, dalla scuola dove insegna, per incontrarci – un viaggio durato quasi una notte intera. Dobbiamo tornare indietro con lei immediatamente, perché le hanno dato solo un giorno libero. È magnifico rivederla viva ed in salute! Aspettiamo la luce del giorno ed in qualche modo arriviamo in centro a Nairobi. Attorno a noi c’è un esplosione di colori. I fiori, i vestiti, le persone – gli odori, i suoni, tutto è nuovo, ma allo stesso tempo familiare, Passo dall’ufficio di mio padre ospitante per un salutino veloce, prima di prendere il bus per Eldoret. Prendiamo tutte e tre posto vicino al conducente …una scelta non così saggia, come ci rendiamo conto subito. Il conducente è piuttosto spericolato e mentre attraversiamo la scarpata lungo la Rift Valley siamo tutte un po’ nervose. Improvvisamente una sensazione provata tre anni prima si rifà viva. La vita qui può finire piuttosto inaspettatamente, senza alcun preavviso. È una sensazione che si prova non appena ti accorgi che, dovesse andare storto qualcosa, probabilmente un

aiuto non si troverà esattamente dietro l’angolo. Non ci sono cabine telefoniche ogni 200 metri. Non c’è nessun 118 o altro numero a tre cifre che tu possa comporre nella speranza che un unità di soccorso venga a raccoglierti, ovunque tu sia, e per di più a gratis. Molti dei veicoli utilizzati in Kenia per il trasporto pubblico potrebbero rompersi da un momento all’altro, il che significherebbe l’interruzione immediata di questo racconto. Così mi torna in mente la scoperta, fatta tre anni prima, di come in Kenia, nel momento del bisogno, tu possa fare affidamento solo sulla famiglia e sugli amici; mentre al contrario in Danimarca, puoi sempre contare sui tuoi diritti garantiti dalla società. In Danimarca tu sei responsabile per te stesso, i tuoi figli e i tuoi possedimenti; a tutto il resto ci pensano le numerose istituzioni che operano sotto l’ala di “Mamma Danimarca”, altrimenti conosciuta come Stato Sociale. Quando la gente invecchia, può scegliere d’andare a stare in apposite strutture per anziani. Le ragazze madri – così come gli studenti, i disoccupati e gli anziani – possono ottenere aiuti finanziari dallo stato. In Kenia invece è la famiglia a prendersi cura degli anziani, così come dei figli di ragazze che ancora devono completare gli studi. Studenti, disoccupati e anziani dipendono tutti da famiglia e amici per un aiuto finanziario. Sono estremamente consapevole del fatto d’aver imparato qualcosa di importante sull’amicizia e sulla partecipazione alla vita familiare. Ho visto coi miei occhi cosa significa essere responsabili per qualcuno, in una comunità in cui non c’è nessuna istituzione a cui si possa delegare parte di quella responsabilità. Mentre siamo sedute sull’autobus, fuori inizia a piovere a dirotto. La strada fangosa è sempre più impervia; molti bus si sono già impantanati. Dobbiamo raggiungere Eldoret prima di notte, se vogliamo riuscire a prendere un bus che ci permetta di proseguire. Ce la faremo? La pioggia tropicale è una bella grana: scende giù a litri, lava completamente chiunque in un istante e trasforma il cielo in un deprimente telo grigio. Ma alla fine si

quieta e nonostante qualche problema ed alcune fermate non previste, riusciamo comunque ad arrivare a Eldoret poco prima del crepuscolo. Corriamo lungo la strada che porta a Kapsabet e per un pelo riusciamo a salire su un matatu che aspettava giusto un altro paio di passeggeri prima di partire. (Un matatu è un furgoncino con due panche e coperto con un telone. Un altoparlante che passa musica Swahili è solitamente una caratteristica tipica di un vero matatu. Si tratta di veicoli privati; il proprietario assume un conducente ed un bigliettaio che si occupino del furgoncino. Rappresentano un modo abbastanza economico di viaggiare ovunque, poiché raggiungono più o meno tutte le aree, anche quelle scarsamente popolate.) Lasciamo il matatu nella piccola città in cui Sarah insegna alla scuola secondaria; ci sono alcuni negozietti ed un ufficio postale. Quest’area del Kenia è molto verde e fertile. Mentre ci avviciniamo a casa di Sarah, una bimba di circa cinque anni viene verso di me correndo e mi salta in braccio, costringendomi a lasciar cadere tutto ciò che trasportavo con me. Si tratta della figlia dell’insegnante con cui Sarah divide casa. Raramente ho visto un bambino così felice e estroverso. Per via della pioggia e del freddo, Sarah inizia a subito preparare la cena sul jiko, un piccolo fornelletto portatile, che funziona a carbone. Sebbene sia piuttosto tardi e noi siamo molto stanche, è fantastico stare a chiacchierare sedute attorno alla lampada ad olio. Chepchumba, la bambina, siede sulle mie cosce e così, parliamo del più e del meno – non conta che io non capisca una parola di quello che mi dice nella sua lingua tribale. Il giorno seguente accompagniamo Laura a Kapsabet, sempre con il matatu. Una volta li ci dividiamo, ed io e Sarah torniamo indietro. In Kenia è buona abitudine accompagnare gli ospiti per almeno parte del loro viaggio di ritorno verso casa. La ex famiglia ospitante di Laura vive a Kendu Bay, a sud del lago Victoria, per cui l’attende ancora un viaggio bello lungo.

Non vedevo l’ora di rincontrare la famiglia di Sarah. La sua famiglia ha un piccolo terreno con due case, lontano qualche chilometro dalla città dove Sarah insegna. Una casa è per Sarah ed i suoi genitori, l’altra per il fratello. (Quando il figlio maschio più grande di una famiglia raggiunge l’età adulta, costruisce una casa per sé e per i suoi fratelli minori, e vi vivono tutti insieme finché non si creano a loro volta una famiglia. Le figlie femmine invece, restano a casa dei genitori finché non si sposano.) Essendo Sarah l’unica femmina in casa, possiamo godere di parecchio spazio tutto per noi. Le pareti di fango e tutto ciò che le circonda sono magnifici esempi di come utilizzare al meglio il materiale a portata di mano. È una sensazione fantastica ritrovarmi nuovamente nella fumosa cucina di Sarah, mentre il tè bolle sul fuoco, le fiamme producono un leggero bagliore tutto attorno alla stanza, e gli occhi degli altri brillano nella vicina oscurità. Sento il profumo del tè e del legno che brucia. Sento le conversazioni degli altri mescolarsi al sottofondo della pioggia battente sul tetto. Mi ritorna alla mente che il tè in Kenia si fa mettendo a bollire latte ed acqua in parti uguali, e aggiungendo poi zucchero e foglie di tè quando inizia a bollire. È un lavoro da donna. Sembra che più i ragazzi crescano, più esitino a varcare la soglia della cucina. L’esistenza di un mondo, che appartenga solo ad uno dei due sessi, era un’idea completamente nuova per me la prima volta che venni in Kenia. Ma mi piace l’intimità e la sicurezza che ne scaturiscono – si tratta di quel tipo di intimità e di sicurezza che nascono quando dei membri di uno stesso gruppo collaborano tutti assieme allo svolgimento di un dato compito. Dopo aver passato tre settimane con Sarah parto per andare a trovare la famiglia ospitante di Laura, a Kendu Bay. Sarah mi accompagna fino a Kisumu, una cittadina sul lago Victoria. Troviamo un pullman per Kendu Bay, e parto per un viaggio lungo cinque ore. Come al solito il bus è pieno di gente. Qualcuno vestito bene – si tratta probabilmente di qualche impiegato di città

che ha ottenuto un permesso e ne approfitta per andare a visitare la famiglia. Qualcun altro che sta andando al mercato con verdura e polli da vendere, e molti altri ancora con in braccio o sulle ginocchia dei bambini. Quando arriviamo a Kendu Bay, sono sorpresa dal fatto che Laura non sia venuta ad accogliermi. Dopo qualche istante vedo che continua a non arrivare, e allora mi metto seduta ad aspettare. In Kenia s’impara che le cose non accadono mai rispettando una tabella precisa, e sedersi un attimo, magari approfittandone per riflettere sulla vita, non fa poi così male. In quell’istante un ragazzino si avvicina a me e mi porge un biglietto. È da parte di Laura. Non è qui oggi, arriverà domani. Devo seguire il ragazzino che mi guiderà verso casa. Raggiungiamo la casa dopo una lunga camminata, e passo il resto del pomeriggio in compagnia di svariati altri ospiti, poiché né Laura, né suo padre ospitante sono a casa. Mi guardo attorno e noto il piccolo soggiorno dalle pareti di fango e l’angolino in cui è stato sistemato il letto di Laura, separato da una parete e con un telo dalla camera dei suoi. Quando Joram, il padre ospitante di Laura, arriva, subito dopo il tramonto, sono molto contenta di rivederlo. Mi spiega che Laura è andata a trovare sua sorella, ed il suo bimbo appena nato; e che non sarà di ritorno prima di domani. In Kenia è maleducazione lasciare una famiglia che si è andati a trovare, senza fermarsi almeno per un pasto. Soprattutto se è da tanto tempo che uno è assente, deve assolutamente fermarsi in visita per un po’. Quindi capisco perfettamente perché Laura non rientrerà prima di domani. E allo stesso modo mi ritorna in mente l’imbarazzo da me causato tre anni prima qui in Kenia, quando per la prima volta andavo in visita a casa di altre persone; in Danimarca è buon educazione rifiutare un invito a cena se non conosci bene la famiglia. Laura rientra il giorno successivo. Quella sera Joram, Laura ed io parliamo di un sacco di cose. Joram è molto interessato a sentirmi parlare del sistema scolastico danese, delle

stufe a gas usate in Danimarca, e di qualsiasi cosa danese, in generale. Gli piace fare il paragone tra quello che gli racconto io, e quello che Laura gli ha detto in precedenza riguardo agli Stati Uniti. Sembra un tantino scettico. Deve essere difficile per lui immaginarsi questi mondi così diversi, che noi possiamo descrivergli solo a parole. Dopo un po’ passiamo a parlare dell’arrivo di Laura in Kenia, tre anni prima. Joram ci racconta che all’epoca aveva avuto delle enormi difficoltà a capire l’accento americano di Laura per tutti i primi tre mesi. E ricorda anche come Laura scoppiò a piangere quando per la prima volta vide la capanna di fango che le avrebbe fatto da casa per un anno intero; per non parlare della prima volta che vide uno scarafaggio arrampicarsi lungo la parete vicina al suo letto! Ma io ho visto Laura camminare per strada e fermarsi a salutare la gente, chiacchierare con loro in Luo, la lingua locale. Chiunque può notare come sia amata e benaccetta qui. So che se è tornata a questa casetta di fango, è perché qui si sente a casa. Laura ed io andiamo a letto, portando con noi la piccola lampada ad olio che qualcuno ha ricavato da una lattina. Abbiamo già condiviso questo letto umido in passato, e quindi sappiamo bene che per starci entrambe dobbiamo metterci in centro, schiena contro schiena. Siamo abbastanza avvezze a dormire ferme immobili senza cambiare posizione. In Kenia ci si deve ben presto abituare a dividere il letto con qualcuno: in molte case ci sono più persone che letti. Ma non è così male come cosa, soprattutto se fa freddo o se sei una ragazzina che è stata appena mandata in collegio e vuoi dormire vicina alla tua migliore amica. Quando mi sveglio, Laura è già sveglia e sta lavando i piatti; mi porta dell’acqua per lavarmi. Non è pulitissima poiché viene da un pozzo lontano due chilometri. Infatti se ci infili mezzo dito già non riesci più a scorgerne l’unghia tanto è torbida l’acqua. L’acqua potabile invece viene da un barile che raccoglie l’acqua piovana quando scende dal tetto. L’acqua è preziosa qui, poiché si tratta di una regione molto arida. Le risorse

naturali sono davvero scarse, e perfino gli aiuti umanitari. Si sta rivelando davvero difficile il tentativo di far riemergere la regione dalla povertà, dato che i vari problemi riguardanti l’educazione, la salute, e la fame sembrano influenzarsi l’un l’altro in maniera negativa. Passata una settimana, Sarah ci raggiunge a Kendu Bay, così che tutte e tre possiamo dirigerci verso est assieme. Ci alziamo alle 4 di mattina e c’incamminiamo lungo la strada principale, verso la nostra destinazione, che raggiungiamo all’alba, intorno alle 6.30. Laura ed io andremo a trovare un amica sulla città costiera di Mombasa; mentre Sarah tornerà a casa ad insegnare. Dopo un’intera giornata di viaggio raggiungiamo Nakuru, dove prendiamo il treno di mezzanotte per Nairobi. Viaggiamo in terza classe, che è aperta a chiunque. Come al solito è piuttosto affollata e siamo fortunate a conquistare due posti a sedere – ma solo perché mettiamo un bimbo a dormire sul mio zaino e l’altro in braccio a me. Sono colpita dal pensiero che non mi sarei mai accontentata di un simile compromesso la prima volta che arrivai in Kenia, tre anni fa. Innanzitutto sarei stata troppo timida ed incerta per prendere l’iniziativa di invitare un bimbo che non conoscevo a sedersi sulle mie gambe. Ma soprattutto, certe cose semplicemente non si fanno in Danimarca. In Kenia al contrario, sia genitori, che bimbi, accettano, anzi, s’aspettano che altre persone tengano in braccio i bambini altrui, sugli autobus, sui matatu o sui treni affollati. I bambini sono responsabilità di tutti. Posso solo immaginare cosa succederebbe a Copenhagen se su un bus prendessi un bimbo sulle mie gambe e dicessi ai genitori: “Non è un problema, lo tengo io”. È molto probabile che resterebbero shockati. Sia Sarah che io ci prendiamo la malaria dopo essere state a Kendu Bay. Qui la malaria è tenuta nella stessa considerazione di un’influenza in Danimarca. Ci sono molte cose che vengono prese molto sul serio in Danimarca, ma che sono prese con molta filosofia qui: ad esempio il tempo – orari,

scadenze, la possibilità o meno di passare un ora chiacchierando davanti ad una tazza di tè. Preoccuparmi di meno cose e di cose diverse è stata una lezione molto importante per me. Dopo tutto, che senso ha farsi venire un’ulcera per la preoccupazione di dover mandare in tempo un articolo da pubblicare negli “Occasional Papers sull’Apprendimento Interculturale”? Dopo tutto se tu e la tua famiglia state bene ed avete abbastanza da mangiare, chi si può lamentare? Laura ed io trascorriamo una nottata tranquilla sul treno per Mombasa. Parliamo delle emozioni provate tornando in Kenia, e chiacchieriamo dei vecchi tempi. Sembra che per entrambe l’anno trascorso in Kenia sarebbe rimasto incompleto senza questo viaggio di ritorno. Troppi fili erano stati lasciati a penzolare quando, improvvisamente, siamo state catapultate su quell’aereo che ci ha riportate da dove venivamo. Non sarebbe stato possibile, per me, tornare in Kenia con nessun altro a parte Laura. Ho degli amici danesi con cui viaggerei quasi ovunque, Europa o Nord America, ma non in Kenia. Tentare di essere contemporaneamente danese e keniota mi avrebbe lacerata. Un altro Danese avrebbe assistito ai miei strani cambiamenti e probabilmente non sarebbe stato in grado né di capirli, né di accettarli prontamente. Naturalmente passare un po’ di tempo con la mia famiglia ospitante a Nairobi, ha rappresentato il giusto modo di concludere il mio viaggio. È stato meraviglioso rivederli. Il momento d’impacchettare i bagagli e andare a prendere Laura (che era rientrata a Kendu Bay) però è arrivato presto. Sento che sei settimane sono state sufficienti a rivedere tutte le persone che sono importanti per me, ma non abbastanza, poiché il mio affetto nei loro confronti è troppo grande. Fossi rimasta più a lungo, forse non sarei più ripartita. Ma per come stanno le cose ora, devo restare in Danimarca per un po’, vivere con le persone che conosco qua. Devo finire l’università di medicina. Devo lavorare per ciò in cui credo. Ma ci sarà sempre un po’ di Kenia da qualche parte, dentro di me.