mai come ieri di stefano marino

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Mai come ieri è un romanzo ambientato a Corvegna, un piccolo paese immaginario della provincia di Torino. La vicenda viene narrata attraverso il racconto in prima persona di Michele Revelli, giornalista e scrittore cresciuto a Corvegna, di ritorno al paese natale dopo alcune vicissitudini personali che hanno portato alla separazione dalla moglie e a difficoltà professionali. Attraverso il suo punto di vista veniamo a conoscenza della sparizione di 4 persone di Corvegna: 3 adolescenti e il parroco del paese. Michele si troverà coinvolto nel difficile compito di fare chiarezza circa la dinamica degli eventi che hanno portato alla scomparsa, nonché alla ricerca di informazioni utili al ritrovamento delle persone sparite.

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STEFANO MARINO

MAI COME IERI

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Page 4: Mai come ieri di Stefano Marino

Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE

Edizioni

Mai come ieri di Stefano Marino

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l‟utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910/ 8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 978897277453 Collana BLACK & YELLOW Versione eBook http://www.ciessedizioni.it

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NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun

contributo economico all’Autore.

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE Stefano Marino nasce a Rivoli in provincia di Torino, il 16 maggio 1983. Si laurea nel 2008 in Comunicazione presso l‟Università degli Studi di Torino. „Mai come ieri‟ è il suo primo romanzo.

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A C, JP e M

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Dal 2001 a tutto il 2006, i bambini e i ragazzi al di sotto dei 18 anni scomparsi in Italia sono stati circa 7000. Nel 20 per cento dei casi i piccoli non vengono ritrovati.1

1 http://poliziadistato.it/articolo/778-Per_continuare_a_sperare

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PROLOGO

Il peso dei passi al piano di sopra fa scricchiolare le assi di legno. Una leggera nebulosa di terra e polvere si stacca dalle fessure nel pavimento, e scivola fino a posarsi tra i suoi capelli. L’umidità le entra nelle ossa, ne marcisce il midollo. Gli odori forti di chiuso, di aria stantia e di mancanza di luce. Deve essere una cantina, o qualcosa del genere. E’ sicura di essere sottoterra. Percepisce il movimento dei ratti che le corrono attorno di tanto in tanto. La corda ruvida, stretta attorno ai polsi e alle caviglie, continua a lacerarle la pelle ogni volta che tenta di muoversi. E’ immobilizzata su quella sedia da un tempo che non riesce a quantificare. Le è capitato di riuscire quasi a prendere sonno, stremata dalla stanchezza. Il senso di nausea le attanaglia la gola, le strizza lo stomaco come fosse una spugna da far sgocciolare. Dal momento in cui si è risvegliata in quel posto, bloccata in quella posizione, tutto è rimasto completamente buio. Una benda scura le copre gli occhi. Concentrandosi

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sull’udito le pare di sentir cose che non era mai stata in grado di avvertire. Ma la sottile distanza tra percezione e delirio non le permette di stabilire se le sue sensazioni siano autentiche, o se siano frutto degli ingranaggi del suo cervello che iniziano ad andare fuori asse. Ogni respiro è una fatica straziante. E’ come se il cuore le si fosse gonfiato fino a ostruire quasi del tutto le vie respiratorie. Quel cuore che nonostante tutto continua a tamburellare, colpi piccoli e frenetici. Ha ancora il volto bagnato, ma per ora ha smesso di piangere. Il dolore costante ai lati della bocca, dove le fibre di cuoio sfregano sulla carne tenera. Le passano dietro il capo, tenendole fissa una palla di plastica rigida incastrata in mezzo ai denti. Le mascelle le fanno talmente male che, se solo ci riuscisse, si spaccherebbe i denti pur di poter socchiudere la bocca.

Altri movimenti al piano di sopra, ma nemmeno una parola. Un suono violento spezza il silenzio, quando la televisione viene accesa. Il volume è troppo alto, si distinguono le musiche dei messaggi pubblicitari anche da là sotto.

E’ il segno che temeva.

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Significa che sta arrivando.

La porta davanti a lei si apre lentamente, picchiando contro il muro a fine corsa. Inizia a tremare e a gemere. A mordere forte la pallina di plastica dura. A scarnificarsi le caviglie nel tentativo di allentare la presa delle funi. Passi che scendono le scale, regolari e senza fretta. Assuefatta dal puzzo dello scantinato, avverte forte il suo odore avvicinarsi. Lo conosce, ma non riesce ad associarlo a un volto. I passi tacciono, e tutto resta immobile per un istante. Le sembra di svenire, ma è solo uno svarione che la illude, lasciandola inchiodata alla sedia.

Poi la mano coperta da un guanto in lattice le sfiora la pelle del viso. Lo strattone per ritrarsi dal contatto le fa scricchiolare la base del collo. Sente il lattice aderire alla sua pelle, fare pressione su di essa, scivolare lungo la guancia, sopra l’orecchio destro. Insinuarsi tra i capelli dietro al capo. Quando le slaccia la fibbia della museruola in cuoio, il lamento che le esce dalla bocca è rauco e sibilante, come quello di un tisico. Aspira lunghe boccate di paura, dimenandosi sempre più frenetica sulla

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sedia. Supplica bisbigliando, come se fosse una litania, una preghiera rivolta a un Dio che non è mai esistito.

“Ti prego. Ti prego. Ti prego, ti prego lasciami. Ti prego”.

Qualcosa di tiepido e metallico le si avvicina alla bocca. Scuote rabbiosamente la testa per lo spavento. I capelli bagnati per l’umidità e il sudore la frustano impietosi. Sente l’oggetto metallico cozzare sul pavimento. Davanti a lei, un lungo sospiro. Il rumore di un corpo che si piega a raccogliere ciò che è caduto. Non riesce a smettere di sbraitare, nonostante il dolore. I suoi sussurri sono diventati grida isteriche.

“Ti prego voglio andare a casa, ti prego lasciami”.

La mano in lattice le afferra con decisione il mento, puntando con pollice e indice ai lati della bocca, che rimane aperta e leggermente rivolta verso l’alto. Una sostanza vischiosa le scivola tra le labbra. Non fa in tempo ad accorgersi che si tratta di cibo. Sputa facendo esplodere tutta l’aria raccolta nei polmoni. Le grida accompagnate dalle lacrime vengono spezzate da una serie di singhiozzi.

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Percepisce la presenza della figura davanti a sé, senza riuscire a vederla. Poi la mano di lattice le torna sul capo. Le afferra i capelli dietro alla nuca e tira. Nel momento in cui il movimento le fa spalancare la bocca, la pallina di plastica è di nuovo in mezzo ai suoi denti. Le fibbie di cuoio a tormentarle le guance. Si dimena con forza, come se fosse posseduta. L’urlo soffocato dalla plastica, quando la mano le stacca i capelli dalla cute.

I passi si allontanano. Le scale, la porta, la televisione torna a tacere.

Un conato di vomito le risale l’esofago, il liquido acido filtra attraverso i denti dopo averle imbrattato il palato. Al primo barlume di lucidità, prima di tornare in uno stato di semi incoscienza, si chiede se sia possibile morire di paura. Se lo augura dal profondo, perché preferirebbe andarsene per sempre, piuttosto che vivere tutto questo per un altro istante.

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SABATO

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Le molle del materasso scricchiolano sotto il peso del mio risveglio. Un fascio di luce attraversa la stanza e va a illuminare il muro sulla parete opposta alla finestra, la vernice bianca mi restituisce il bagliore offuscato dritto in faccia. Mi sorprendo qualche istante dopo, nuovamente sull‟orlo della sonnolenza, e ricaccio in bocca parte della bava che sta inumidendo il cuscino. Il sibilo dentro l‟orecchio è lontano, ma acuto. Gli ingranaggi del mio cervello riprendono lentamente a muoversi, rievocando i ricordi offuscati della sera precedente. Il solo pensiero del vino che mi scivola in gola, mi procura il primo senso di nausea. Mi passo entrambe le mani sul viso, come se mi stessi sciacquando la faccia. Il senso di fastidio è acutizzato dalla consapevolezza di dover abbandonare il materasso sfondato, le coperte ruvide e troppo spesse e dover, in qualche modo, cominciare una giornata. Osservo questa stanza che è stata mia per molto tempo, da ragazzo, ma alla quale non riesco più ad appartenere. Ricordo il lungo addio che le diedi una quindicina di anni prima, soffermandomi sulla soglia con la maniglia in mano, nel tentativo di rievocare tutti i ricordi legati a quelle quattro mura, che avrei voluto

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portare via con me, sigillare in uno spazio da sottrarre al logorio del tempo dentro la mia testa. Convinto che non ci sarei tornato mai più. Il mio armadio di ciliegio che mi sembrava massiccio e indistruttibile, è oramai cibo per le termiti. Sulla scrivania, sotto la finestra, è andato accumulandosi uno spesso strato di polvere: la scrivania sulla quale sono stato gobbo sui libri per intere giornate. La stessa sulla quale ho scritto i primi articoli per il giornale locale. Cerco l‟abat jour con il braccio, prono, con la faccia affondata nel cuscino. Poi ricordo che mio padre l‟ha portata in camera sua, dopo aver rotto la propria. L‟ultima cosa che avrebbe potuto immaginare era che tornassi. Rinuncio e mi rivolto ancora. Quando sollevo il busto, la nausea mi riempie la bocca e ho la sensazione che qualcuno mi stia puntando i pollici sulla fronte, premendo come per trapassarmi il cranio. Mi lascio cadere ancora una volta nel dolce oblio del materasso. Il display della radiosveglia sottolinea che dovrei essere in piedi già da un pezzo. Non per un motivo preciso, ma almeno per fare presenza. Il biasimo negli occhi di mio padre, ogni mattina che mi ritrova in queste condizioni, è sufficiente a

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farmi ancora sentire il ragazzino che si svegliava troppo tardi, che aveva troppo tempo libero per ubriacarsi e bighellonare invece di lavorare, che anche se le pagelle prima e i voti degli esami poi, gli confermavano la mia eccellenza sui banchi di scuola, per lui non era abbastanza. Non era cattiveria, ma la sua testa era orientata al materiale. Tutto ciò che si allontanava troppo dalla concretezza, lo battezzava come superfluo, se non addirittura dannoso. Se non fosse stato per mia madre non sarei nemmeno andato all‟Università. E non sarei mai diventato un giornalista. Non che il percorso fosse stato necessariamente il migliore tra tutte le strade possibili, ma sarebbe stato diverso. Prima che tutto si accartocciasse sopra, sotto e dentro, era quello che pensavo di volere, tutto ciò che mi ero abituato a desiderare. Il senso di vuoto torna a bucarmi la testa, in maniera ancora più efficace dei postumi della sbornia. E‟ il momento di alzarsi. Abbasso le coperte, spingendole verso il fondo del letto con le piante dei piedi. Mi muovo indeciso nella penombra, fino ad afferrare la maniglia. Il marmo freddo del corridoio mi da un po‟ di sollievo. Sento provenire dalla cucina il

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rumore della caffettiera che sta portando a termine il proprio lavoro, ma con il naso tappato non riesco a sentire l‟aroma. Faccio fatica a non chiudere gli occhi e sbando a destra e a sinistra. Non mi sento ancora pronto. A metà corridoio mi infilo nel bagno e chiudo la porta a chiave. Sento una voce, intuisco che è rivolta a me, ma non sono abbastanza lucido da coglierne le richieste. Accendo la luce della specchiera, quindi apro l‟acqua della doccia. Un‟ombra, esile e colorata, appare dietro la porta a vetri. Colpisce la parete opaca con un anello di metallo, provocando un tintinnio fastidioso che mi fa serrare le mascelle per la rabbia. La voce dice qualcos‟altro, ma l‟acqua scrosciante nel box doccia accanto a me ne distorce il suono. E poi non c‟è peggior sordo di chi non vuole ascoltare. Cerco la mia immagine nello specchio, ma il riflesso beffardo mi restituisce un uomo di mezza età con i capelli brizzolati e arruffati, la barba di una settimana. Sopra alle occhiaie, due fessure, una leggermente più stretta dell‟altra, nascondono quasi del tutto le iridi verde scuro. Vorrei mettere a fuoco questo individuo, ma senza occhiali posso cogliere solamente un‟immagine indefinita.

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Probabilmente è meglio così, non penso proprio di essere io quel tizio. L‟ombra colorata dietro la porta a vetri è sparita. Apro il cassetto degli asciugamani e cerco a tentoni quello più morbido, invano. Tiro fuori il primo della pila e lo appendo accanto al box doccia. L‟acqua bollente ha creato una leggera coltre di vapore, che sarebbe comunque stata sufficiente a disorientarmi, se quel bagno non fosse stato il mio per anni. Mi abbandono sotto il getto d‟acqua, lasciando che il calore mi ricopra la pelle di macchie rossastre. Esco facendo bene attenzione ad asciugarmi come si deve all‟interno del box, per non gocciolare sulle piastrelle del bagno, infrazione delle regole che causerebbe un‟altra regressione al mio stato di ragazzino sbadato. Passo una mano sullo specchio, ritagliando un semicerchio dalla superficie appannata. Il volto che ritrovo è leggermente migliore rispetto a quello visto prima, ma non per questo decente. Man mano che mi asciugo, il cerchio alla testa torna a stringersi, le tempie a pulsare. Mi lego l‟asciugamano in vita per coprire le parti basse. Giro la chiave nella toppa, cercando di fare il minor rumore possibile, abbasso la maniglia e sono di

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nuovo in corridoio. Torno in camera a piccoli passi, limitato dall‟asciugamano che mi stringe alle caviglie. La biancheria pulita mi concede un breve istante di sollievo. Indosso il primo paio di pantaloni che trovo buttato sulla sedia e tiro fuori una camicia da dentro l‟armadio, perché quella della sera prima è accartocciata sul pavimento, ancora mezza abbottonata. Aspiro un‟ampia boccata d‟aria che mi provoca un‟altra fitta alle tempie. Mentre ripercorro il corridoio, avvicinandomi alla sala da pranzo, sento il rumore di una mano che fruga nella scatola dei cereali. Mia figlia è seduta al tavolo della cucina, con una tazza di caffèlatte colma di corn flakes sotto il naso. Quando mi vede varcare l‟arco che separa il corridoio dalla sala, mi rivolge uno sguardo annoiato, bloccandosi per un istante con il cucchiaio a mezz‟aria. La sua pelle chiara la rende una figura eterea nello spazio pieno di luce. I capelli rossi restituiscono dei riflessi biondi attraverso i raggi del sole. Il luccichio dell‟anello che le buca la narice destra mi costringe a socchiudere gli occhi. Mi sento impacciato e, come sempre, colpevole.

“Buongiorno”. Riesco a farfugliare.

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“Perché prima non mi hai risposto?” Il tono non promette niente di buono.

“Perché, mi hai chiamato? Ero sotto la doccia e non ti ho sentita”.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché non riesci a non dirmi bugie? Cosa ti costa dirmi la verità?”

La tattica del finto tonto ha fatto cilecca, come al solito. Ma perseverare è diabolico.

“Infatti, perché dovrei dirti una bugia? Non ti ho sentita, stavo entrando in doccia”.

“Ancora!” Il tono è tra l‟isterico e l‟esausto. Devo chiudere questa conversazione al più presto.

“Adesso stai esagerando, volevo solo farmi una doccia”.

“Ecco bastava questo!”

“Non ti ho risposto perché non volevo che mi rompessi i coglioni mentre ero ancora mezzo addormentato. Punto”.

“Ehi, non parlare male!” Il rimprovero mi è uscito più falso delle parole di Giuda.

Marta lascia cadere il cucchiaio nella tazza, gli schizzi di latte e cioccolata si spargono per tutto il tavolo e sulla sua maglietta colorata

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con stampe floreali. Solleva le mani con i pugni serrati all‟altezza della bocca, come volesse darsi un cazzotto da sola e spaccarsi i denti.

“Aarg! E‟ incredibile! Che rabbia mi fai venire, che rabbia”. Rimango interdetto dal volume della sua voce. Apro bocca per replicare, ma mi sorprendo nel non riuscire a pensare a nulla di sensato. Mi sento in difetto e tendo spontaneamente a mettermi sulla difensiva, senza capire quanto questo atteggiamento possa diventare snervante per le persone che ho intorno. Marta torna con lo sguardo sulla sua tazza di latte, ma non ha ancora finito.

“Prova a cominciare dalle piccole cose. Almeno da quelle”. Recupera il cucchiaio dalla tazza, poi si alza spingendo la sedia all‟indietro, con un gesto brusco e rumoroso. Strappa un pezzo di carta Scottex e se lo passa sul vestito, senza curarsi del tavolo e del pavimento.

“Ecco, adesso è rimasta macchiata!” Sembra essere l‟ultimo sbuffo di collera. Mi avvicino ingobbito ai fornelli e sollevo il coperchio della caffettiera per vedere se è rimasto un po‟ di caffè. Niente.

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“Avanza un po‟ di caffè per me?”

“Era proprio quello”.

“Cosa?”

“Era quello che ti volevo chiedere, se solo ti fossi degnato di rispondermi, prima. Volevo chiederti se dovevo fare il caffè anche per te, o se tornavi a letto”.

Alzo lo sguardo sull‟orologio. Le undici sono ormai passate da una ventina di minuti. Sto per aprire la bocca, ma mi accorgo da solo che qualsiasi cosa io possa dire ora peggiorerebbe le cose. Preferisco tenere il becco chiuso, mettere la caffettiera sotto l‟acqua per farla raffreddare, quindi svitarla e svuotare il macinato vecchio nel cestino dell‟immondizia. Il silenzio è rotto solo dallo scricchiolare dei cereali che vanno in frantumi sotto le mascelle di Marta e dal rumore di passi sempre più vicini, provenienti dalle scale. La chiave gira nella toppa e fa scattare la serratura. Qualche istante dopo un uomo sulla settantina ci guarda immobile dalla soglia della cucina. Stringe in mano un cesto di vimini, colmo di ortaggi. La canottiera sporca di terra e i pantaloncini troppo corti e a vita alta, lasciano in bella vista la sua pelle olivastra. Il

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viso coriaceo, madido di sudore, è in ombra sotto il cappello di paglia. Rimane qualche istante a prendere fiato, annusando il litigio che aleggia tuttora nell‟aria. Non sono ancora riuscito a prendere il caffè e il peso degli occhi che mi biasimano senza che abbia fatto nulla sale a quattro. Si avvicina a Marta e le passa una mano tra i capelli ricci. Lei si volta e gli sorride triste. Si scambiano uno sguardo di intesa, ignorandomi completamente. Eccomi qui, fuori dalla cornicetta felice. Sono lo spettatore indesiderato, ma non mi posso lamentare. Cerco di fare buon viso a cattivo gioco.

“Papà, prendi un caffè con me?”

“No grazie”. La sua voce è neutra, non sembra essere in vena di ramanzine.

“Ti senti meglio?” Ramanzine no, ma inquisizione sì.

“Meglio di quando?”

“Meglio di ieri sera quando sei rientrato. Hai fatto un casino della Madonna. Come uno che non si regge in piedi”.

Devo aver sbattuto contro la cassapanca in corridoio.

“Non volevo accendere la luce, per non svegliarvi”.

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Non mi sono ancora abituato a giustificare le mie azioni, ma ci sto lavorando.

“Lo stai facendo di nuovo!” Marta è tornata sul terreno di gioco. “Non ce la fai proprio”. Sono un bambino sgridato dai genitori. “Ho sentito l‟odore di vino appena sei entrato nella stanza. Ti è rimasto addosso da ieri sera”.

Tento l‟ennesima inutile difesa. “Non posso nemmeno bere un paio di bicchieri senza prima avvisare?”

“Certo che puoi”. La voce di mio padre è la stessa che mi spiegava come mantenere l‟equilibrio sulla bicicletta. Marta completa i pensieri del mio vecchio. “Ma non cercare di nasconderlo, se ti presenti la mattina in questo stato”. Vorrei mandarli entrambi a fare in culo, gridare e uscire dalla stanza sbraitando, sbattere la caffettiera sul pavimento spaccando le piastrelle lucide. I focolai di rabbia che mi si accendono dentro vengono presto sopiti dal mio costante senso di colpa. Svuoto il filtro della caffettiera, rimettendo il caffè nella scatola di latta dalla quale lo avevo prelevato. Ripongo la caffettiera in ordine sul lavandino, respiro una lunga boccata di pazienza.