maitan, alla fine

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Un libro di Maitan

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INDICE

IntroduzioneLivio MaitanAl tennine d'una lunga marcia:dal Pci al Pds:

1. Il Pci nella dinamica sociale e politica italiana

2. I fattori condizionanti internazionali

3. Da Livorno alla socialdemocrazia

@ copyrighl \ 1990,coop. me emme eilizioniRedazione: vI.Libia 174- 00199 RomaVersamenti su c/c/p n. 24957003PubbI. periodica (autorizz. Trib. di Roma 268 - 12/5/89)Stampa: Tipolito Erp -RomaPrima edizione: novembre 1990In copertina: Ingrao (1966) di Ennio Calabria

4. Erano possibilisceltealternative?

5. I protagonisti:da Togliattia Berlinguer

6. L'ultimasvolta?

7. Elogio della rivoluzione

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INTRODUZIONE

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Per il movimento operaio italiano e per il Partito comuni-sta l'ora di un bilancio complessivo non è scoccata una solavolta.

Vn bilancio si sarebbe potuto fare già nel 1948, dopo chela vittoria delle forze conservatrici alle elezioni del 18 aprileaveva sancito l'insuccesso del progetto che aveva ispirato lapolitica di unità antifascista e la strategia di democrazia pro-gressiva1. Gli stessi presupposti analitici di questa strategiaerano venuti meno.

Sul piano interno, i gruppi egemoni delle classi dominantie il loro partito, la Democrazia cristiana, erano più che maidecisi a imporre la propria scelta di ricostruire il paese dallerovine della guerra restaurando lo Stato tradizionale con isuoi apparati e i suoi modi di funzionamento e rilanciando imeccanismi classici dell'economia capitalistica: trascorso ilbreve interludio dell'emergenza, non avevano nessuna inten-zione di stabilire una sistematica collaborazione con i partitioperai associandoli al governo. Sul piano internazionale, apartire dal discorso di Churchill a Fulton sulla cortina di fer-ro (1946), le potenze imperialistiche avevano ormai lanciatola guerra fredda, facendo tramontare rapidamente le illusio-

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l In un articolo di Rinascita su cui ritorneremo, Palmiro Togliatticonstatava il fallimento del «compromesso del fronte antifascista» giànell'agosto del '46 (una periodizzazione analoga è stata abbozzata anche daPietro Secchia).

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Il restauro (1984), di Ennio Calabria

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2 Alla fine della guerra, i dirigenti del Pci negavano recisamente che sifossero creati due blocchi con relative sfere di influenza. Chi scrive, indibattiti awti come militante socialista con esponenti del Pci, si è sentitospesso trattare con qualifiche ed epiteti poco lusinghieri, per il semplicefatto di sostenere che c'era stato l'incontro di Jalta dove erano statedelineate le zone di influenza.

zione più nette che in passato nei confronti dell'Urss, masenza che si arrivasse a un riesame complessivo di analisi,prospettive e orientamenti.

C'è voluto il terremoto del 1989, preceduto dal declinoormai decennale del partito, perché ci si decidesse a rimette-re in discussione tutta un'esperienza storica.

Indipeudentemente dalle conclusioni che se ne possanotrarre, è ovvio che il bilancio necessario deve avere una di-mensione internazionale e non solo nazionale. Deve partireda una riflessione complessiva, da una ricostruzione storicache eviti le tentazioni apologetiche o giustificazionistiche. Sitratta, né più né meno, del bilancio di decenni di "costruzio-ne del socialismo" in società di transizione burocratizzate e,in primo luogo, della tragica esperienza staliniana della finedegli anni '20 e degli anni '30 e '40.

Si tratta contemporaneamente del bilancio, per non risa-lire più indietro, di oltre mezzo secolo di vicende del movi-mento operaio e dei partiti comunisti nei paesi capitalisticiindustrializzati. Le devastazioni sono state cosi profonde, ifallimenti cosi clamorosi, le contraddizioni cosi laceranti, losmarrimento ideologico e morale cosi grave, che non si pos-sono più sostenere gli argomenti di realismo politico -o pre-sunto tale - con cui si è accettato come ineluttabile, per lun-ghi decenni, il contesto dato, lanciando l'ostracismo controchiunque mettesse in dubbio analisi o prospettive, scelte tat-tiche o strategiche, metodi di direzione o di organi7.7.azione.Irisultati dell'opera dei cosiddetti "realisti" sono drammatica-mente chiari e proprio questo consente alle classi dominanti,ai loro gruppi dirigenti e ai loro intellettuali, di intonare lamarcia funebre del comunismo e del socialismo, proclaman-do la perennità dell'ordine esistente.

Per parte nostra, restiamo convinti che il crollo dello sta-linismo e la crisi senza precedenti del movimento operaiotradizionale -in Italia, in primo luogo, del Pci -non provano

ni di un accordo duraturo tra i paesi "democratici" per l'edifi-cazione di un mondo libero e pacific02. D'altra parte, nel giu-gno 1948, il primo episodio clamoroso di crisi dello stalini-smo, la rottura tra sovietici e jugoslavi avrebbe dovutostimolare un processo di riflessione critica, tanto più che sinoal giorno prima la Jugoslavia era apparsa agli occhi dei co-munisti italiani come il miglior modello, dopo l'Urss, di pae-se socialista.

Un'altra grande occasione si era presentata nel '56, dopola denuncia chruscioviana dei crimini di Stalin e l'emergeredi movimenti di massa antiburocratici in Polonia e in Unghe-ria (già tre anni prima avvenimenti analoghi avevano avutoluogo in Germania orientale). TIPci aveva subito allora unoscossone senza precedenti, con un ripensamento critico deipropri atteggiamenti passati nei confronti della direzionedell'Urss. Ma non era andato al di là di un'accettazione, in li-nea di massima, della prospettiva chrusciov'iana, cioè di unaprospettiva di autoriforma della burocrazia. E quando l'eser-cito sovietico era intervenuto in Ungheria, la tesi ufficiale erastata accolta e la repressione contro gli insorti approvataesplicitamente.

Un bilancio d'insieme, da un punto di vista nazionale einternazionale - partendo, da una parte, dall'esperienza ce-coslovacca e dal nuovo intervento sovietico, dall' altra, dallacrisi sociale e politica che scuoteva profondamente la societàitaliana, come quella di altri paesi dell'Europa capitalistica,spezzando gli equilibri relativi stabiliti dalla fine degli anni'40 -non era stato fatto neppure nel 1968-69. C'erano stateanche allora correzioni e riaggiustamenti, con prese di posi-

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affatto che movimento operaio e lotta anticapitalistica vada-no relegati tra i cimeli del passato. Restiamo convinti cheun'analisi di quella che realmente è la società contempora-nea, nazionalmente e internazionalmente, consente di indivi-duare, al di là di tutte le vicende congiunturali, non solo ilpersistere, ma addirittura l'aggravarsi delle contraddizioniintrinseche di questa società e che i prossimi decenni, in varipaesi o in varie regioni del mondo, probabilmente anche iprossimi anni, saranno segnati da crisi ed esplosioni più - enon meno -laceranti di quelle che hanno pur sempre segnato- ricordiamolo ai troppi afflitti oggi da amnesia - una partecosi grande del nostro secolo.

In tale contesto, le classi che continuano a essere oggettodi sfruttamento, di oppressione e di alienazione, la cui esi-stenza quotidiana resta subordinata agli imperativi del profit-to e i cui diritti democratici, nell'esercizio reale, si riducono aben poca cosa, non rinunceranno a rilanciare la loro lotta, aintensificarla e a generalizzarla, dandole nuove dimensioni e,partendo da esperienze vecchie e nuove, sapranno dotarsidegli strumenti politici e organizzativi necessari.

Si tratterà di un'opera estremamente ardua di ricomposi-rione e di rifondazione, o di fondazione ex novo, che non po-trà essere disgiunta da una contemporanea azione su scalainternazionale. Il bilancio del passato ne è una premessa sinequa non.

Scopo del nostro saggio è di contribuirvi ripercorrendocriticamente l'itinerario di un partito che, dopo avere svoltoper circa cinquant'anni un ruolo di assoluto primo piano, èstato investito da una crisi che lo ha indotto a rimettere in di-scussione non solo il suo passato, ma la sua stessa ragiond'essere e il suo stesso avvenire3.

1. IL PCI NELLA DINAMICA SOCIALEE POLITICA ITALIANA

Il contesto storico

3 Questo saggio riprende e rielabora, owiamente, analisi e motivi criticiavanzati in nostri libri, saggi o articoli, dal 1945 in poi, che avremooccasione di richiamare.

Nell'arco dei settant'anni trascorsi dalla sua fondazione, ilPartito comunista è stato componente essenziale e, dalla rmedegli anni '40, nettamente egemonica del movimento opera-io, con un ruolo di primo piano nella lotta politica italiana.

Per comprendere come ciò sia stato possibile, bisognapartire da un richiamo, sia pur sintetico, del quadro storicocomplessivo. In una società che aveva conosciuto uno svilup-po capitalistico diseguale e le cui istituzioni parlamentari nonconsentivano che un'espressione del tutto parziale degli inte-ressi e delle aspirazioni della grande maggioranza della po-polazione - quindi in un contesto contraddistinto da un'ele-vata eonflittualità e da ricorrenti esplosioni - il movimentooperaio aveva conosciuto una forte crescita sin dagli inizi delsecolo e si era venuto configurando un Partito socialista permolti aspetti diverso dalle classiche socialdemocrazie.

Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerramondiale, l'Italia era scossa da una crisi sociale e politica benpiù profonda di quella di altri paesi dell'Europa occidentale(eccettuata, beninteso, la Germania), con una politicizzazio-ne e radicalizzazione di vasti settori della classe operaia, di

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importanti strati contadini e di settori della stessa piccola-borghesia. Tutto ciò accentuava ulteriormente certi caratterispecifici del nostro movimento operaio e dello stesso Partitosocialista (tra l'altro, con l'emergere, oltre che di una consi-stente tendenza comunista, di una componente maggioritariamassimalista, con la relegazione in una posizione nettamenteminoritaria dei riformisti turatiani).

E' tale contesto di crisi rivoluzionaria o prerivoluzionaria,non sfruttata in senso favorevole, come sarebbe stato possibi-le nei momenti più alt~ che spiega perché proprio l'Italia siastata il primo paese a conoscere il fenomeno fascista. E laventennale dittatura mussoliniana doveva, a sua volta, influi-re sul tipo di risposte, di lotte, di mobilitazioni che si svilup-pavano una volta precipitata la crisi del regime.

Ricordiamo, per esempio che, nel marzo '43, come purel'anno successivo, si verificavano degli scioperi di massa: unfatto unico nella vicenda della resistenza antifascista nell'Eu-ropa occidentale. Questa maturazione politica di vasti settoridella popolazione, combinata al disfacimento del vecchioesercito nei giorni dell'armistizio, creava le condizioni per losviluppo di un ampio movimento clandestino e di conSistentiforze partigiane.

Senza indulgere a interpretazioni apologetiche, va detto -in secondo luogo -che proprio l'asprezza della lotta in quelperiodo e l'attiva partecipazione popolare hanno avuto unimpatto duraturo sul quadro sociale e politico dei decennisuccessivi. Cosi, tutta una fase della ricostruzione postbellicaè stata segnata da un'acuta e persistente conflittualità politi-ca e sociale, tradottasi in grandi mobilitazio~ alcune dellequali -come quella del 14 luglio 1948, dopo l'attentato a To-gliatti - con tratti addirittura insurrezionali.

E anche dopo che le classi dominanti e i loro governi era-no riusciti a imporre una ristabilizzazione relativa, il movi-mento operaio manteneva sostanzialmente le sue forze orga-

nizzate e la sua influenza, senza subire sconfitte paragonabili,per esempio, a quella subìta dalla classe operaia in Franciacon l'avvento al potere di De Gaulle e l'istaurazione della VRepubblica.

Nel 1968-69 si apriva una nuova crisi politica e sociale.Non ritorniamo sui fattori che l'hanno determinata e sullesue manifestazionil, Se in Italia non c' è stata un'esplosionerivoluzionaria concentrata come il Maggio francese, in com-penso la crisi ha investito più in profondità strutture e rap-porti sociali, istituzioni politiche, amministrative e persinogiudiziarie, e rapporti sui luoghi di produzione, con una radi-CllIi77az1onesenza precedenti. Questa crisi - ancora una vol-ta, variante eccezionale nel quadro dell'Europa capitalistica -si è prolungata, con alti e bassi, per Qltre cinque anni, con ri-lanci e sussulti nel periodo successivo.

Per sintetizzare, è in tale contesto, dalla rme della guerraalla metà degli anni '70, che il movimento operaio ha potutocostruire, rafforzare e mantenere organizzazioni politiche esindacali così forti (come pure un vasto e articolato movi-mento cooperativo), esercitare una notevole influenza sulpiano culturale, occupare solide posizioni a tutti i livelli delleistituzio~ anche se la sua componente maggioritaria restavaesclusa dal governo.

Ed è tale contesto che spiega, in ultima analisi, la crescitae il consolidamento di un partito comunista, da decenni il piùfor,te dei paesi capitalistici e in grado di evitare cadute cata-strofiche come quelle del Partito comunista francese o diquello spagnolo.

1 Tra questi fattori vanno sottolineati, in primo luogo, l'accresciuto pesospecifico della classe operaia e l'irrompere sul1ascena del1a forza politica esociale nuova costituita dal movimento studentesco (vedere a questoproposito ciò che abbiamo scritto in Pci:1945-1969: stalinismo eopportunismo, Samonà e Savelli, Roma, 1969, pp. 311 e sgg; n partito/eninista, Samonà e Savelli, Roma, 1972 e Dinarruca delle classi sociali inl/alia, Samonà e Savelli, Roma, 1976.

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Le tappe di una costruzione

Detto questo, se non si vuoi correre il rischio di una inter-pretazione meccanicistica, bisogna cogliere contemporanea-mente i fattori soggettivi che sono intervenuti, indicare piùconcretamente come il Pci abbia potuto sfruttare a suo favo-re le potenzialità delle situazioni oggettive che si sono via viadelineate. Ripercorriamo, dunque, rapidamente alcune tap-pe della sua costruzione.

Il Partito comunista d'Italia nasce quando la fase ascen-dente rivoluzionaria è in via di esaurimento e le classi domi-nanti sono passate alla controffensiva. In questo senso, nonhanno torto coloro che, da diversi angoli di visuale e in ter-mini diversi, hanno affermato che è nato troppo tardi2. Trop-po tardi per sfruttare a vantaggio della classe operaia la crisipolitica e sociale del dopoguerra e troppo tardi per costruirein tempo uno strumento di lotta in grado di contrastare consuccesso l'ascesa del fascismo e il suo avvento al potere. Ladifficoltà era ulteriormente accresciuta dal fatto che conce-zioni e metodi di analisi prevalenti sotto la direzione bordi-ghiana ostacolavano seriamente la presa di coscienza del si-gnificato del sino allora inedito fenomeno fascista.

2 Vale la pena di richiamare qui la valutazione espressa all'inizio deglianni '30 dall'Opposizione di sinistra italiana: «Questo partito nascevatroppo tardi per portare a compimento vittorioso l'ondata rivoluzionariascatenatasi In Italia alla fine della guerra (1919-1920~, ma essorappresentava la sola garanzia di successo nella lotta per I awenire delproletariato italiano per impedire che tUtto andasse perduto, per creare lecondizioni di vittoria sulla borghesia: a condizione, però, che esso sapessedare non solo una giusta soluzione teorica ai problemi della rivoluzioneproletaria, ma di condurre una politica adeguata per portare le grandimasse ad accettare e a far proprie le soluzioni presentate dal Partitocomunista. Questa politica è ciò che mancò principalmente al nostro partitonel suo periodo di "infanzia", il periodo della direzione bordighiana»(Bollettino dell'opposizione comWlista italiana, n. 13, 19febbraio 1933).

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Ciò non toglie che il partito nasce con forze niente affattotrascurabili e che, nonostante i colpi subìti, mantiene un'or-ganinazione abbastanza consistente nei primi anni del nuovoregime, registrando addirittura un nuovo afflusso di iscrittidopo l'assassinio di Matteotti. In particolare, continua a di-sporre di una notevole influenza in alcune grandi fabbriche.Cosa ancor più importante: dopo il consolidamento della dit-tatura, è incontestabilmente la sola organizzazione politicache riesca a svolgere un'attività all'interno del paese anchenei momenti più difficili3.

Vedremo più avanti quale preL"ZOabbia pagato per gli er-rori commessi attorno al 1930. Resta che, grazie ai suoi lega-mi organici con le classi sfruttate e in primo luogo con signi-ficativi settori proletari, ai quadri che aveva formato sin dallaprima fase della sua esistenza, all'influenza anche di massaconquistata nell'emigrazione (soprattutto in Francia, ma an-che nel Belgio, nel Lussemburgo e in Svizzera), alla forza eall'autorità che gli derivavano dall'appartenenza alla Terzainternazionale e dalla rivendicazione del significato della ri-voluzione russa, il Pci - a differenza di tutti gli altri partiti omovimenti e in particolare del Partito socialista - ha potutoassicurarsi una sostanziale continuità durante tutto il venten-nio della dittatura. Ed è tale continuità che consentirà ai suoi

3 AI Congresso di Livorno, circa 60.000 iscritti avevano appoggiato lamozione comunista; a questi andavano aggiunti 35.000 voti, su un totale di43.000, della Federazione giovanile (ricordiamo che i massimalisti eranocirca 100.000e i riformisti 15.000). La corrente sindacale comunista contava288.000 aderenti nelle Camere del lavoro e 136.000 nei sindacati dicategoria. La composizione sociale del nuovo partito era proletaria al 98%.Alle prime elezioni cui partecipava, il 7 aprile 1921, otteneva 291.952voti e15 seggi (il PSI un milione e mezzo di voti e 122 seggi). Nell'autunno 1924gli iscritti erano 25.000 e alcune migliaia in più un anno dopo, mentre nel1926 non erano più che 16.000.Ricordiamo, infine, che nell'aprile 1925, alleelezioni per la commissione interna della Fiat, la lista del Pci otteneva quasilo stesso numero di voti della lista della Fiom, appoggiata dai due partitisocialisti.

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militanti, pur spesso non collegati al centro del partito, di da-re un contributo decisivo agli scioperi già ricordati della pri-mavera del '434.

E' ben nota la parte che i comunisti hanno avuto nellaResistenza e che è alla base della loro eccezionale crescita inquel cruciale biennio. Questa crescita, se è stata favorita innotevole misura dal prestigio di cui l'Urss godeva allora, èstata possibile perché il Pci è entrato nella lotta con un patri-monio di quadri e di militanti senza paragone superiore aquello di tutte le altre organizzazioni. A partire dal luglio '43,a coloro che già erano attivi in precedenza, si aggiungevanocoloro che ritornavano dalle carceri o dalle isole o rientrava-no dall'estero, un certo numero dei quali aveva fatto una pre-ziosa esperienza militare nella guerra civile in Spagna.

E' grazie a questa ossatura che il Pci potrà dare il contri-buto di gran lunga più importante al movimento clandestino,a mobilitazioni di massa come gli scioperi della primaveradel '44 e alla lotta partigiana. Registrerà in tal modo un af-flusso massiccio di nuove forze, che avranno un ruolo centra-le nella sua attività e nella sua vita interna nel corso dei de-. . .5cenm successiVi .

4 All'inizio del '43 ci sono 80 iscritti alla Fiat Mirafiori, circa 30 allaLancia, circa 60 alla Viberti, circa 70 all'Aereonautica e complessivamentecirca 1.000 iscritti nella città di Torino, quasi tutti operai. Questi datipotranno sembrare modesti rispetto agli effettivi su cui il Pci potrà contarepiù tardi. Ma chi abbia un'idea di che cosa significhi lavorare nellaclandestinità e del ruolo determinante che possono assumere in grandifabbriche, quando se ne creino le condizioni, nuclei anche molto ristretti,non può non dare una ben diversa valutazione e non comprendere il valoredel lavoro compiuto per poter arrivare alle scadenze del '43 con un similepotenziale.5 Nei 45 giorni si calcola che siano stati liberati circa 3.000 militanti e giànella seconda metà del '43 si realizzava la saldatura fra le tre "componenti":gli ex-prigionieri, i militanti dell'emigrazione e le giovani reclute (PaoloSpriano, Storia del Partitocomunista italiano, Einaudi, Torino, 1973,voI. IV,p. 344). Per i dati sugli iscritti nelle fabbriche alla fine del '43, cfr. ibidem,voI. V, pp. 225-226).

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Alla fine della guerra, il Pci ha già un'influenza prevalen-te nellia classe operaia e si colloca a un livello di poco infe-riore a quello del Partito socialista come forza elettorale6. Isuoi militanti sono in prima linea nella costruzione delle or-ganizzazioni sindacali, operaie e contadine e di altre organiz-zazioni di massa.

I rapporti di forza nell'ambito del movimemto operaioevolvono ancor più nettamente a suo favore negli anni suc-cessivi. Vedremo più avanti quale giudizio si debba dare, anostro avviso, sui suoi orientamenti e sulle sue contraddizioniin quel periodo. Qui basti ricordare che, nella misura in cui ilPSI è indebolito dalla sua inconsistenza politica e dal suo ac-centuato codismo nei confronti dei comunisti e poi dalla scis-sione di Palazzo Barberini, il Pci appare sempre di più agliocchi delle masse popolari come la sola forza in grado dicontrastare l'offensiva restauratrice delle classi dominanti ela costituzione del blocco politico e militare imperialisticodell'Alleanza atlantica. A questo proposito, due episodi sonostati indicati a giusto titolo come emblematici: la battaglia,nel parlamento e fuori, contro la firma del Patto atlantico nel'49 e la lotta democratica contro la legge elettorale truffaldi-na quattro anni più tardi.

Nella nuova fase che si apre negli anni '60 con l'avventodel centro-sinistra, quando il Psi diviene parte integrante digoverni incapaci di realizzare le stesse timide riforme abboz-zate all'inizio, il ruolo del Pci come la sola credibile forza diopposizione e come lo strumento più valido di difesa degliinteressi e dellie aspirazioni delle masse popolari non puòche rafforzarsi.

6 Il Pci otteneva, il 2 giugno 1946,4.356.686 voti contro 4.758.129 del Psi.Al momento della liberazione, cioè alla fine del periodo clandestino, intutta una parte del paese, contava 90.000 iscritti al Nord e 311.960 nel restodel paese. Al V Congresso, il primo del dopoguerra, vengono annunciati1.770.896 iscritti. Il livello più alto sarà raggiunto al VII Congresso, nel1951, con circa 2,5 milioni.

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Una contestazione di questo ruolo non si delinea che apartire dal 1968-69, con l'ascesa dei grandi movimenti dimassa operai e studenteschi. Per la prima volta nella sua sto-ria, il partito è attaccato su vasta scala alla sua sinistra. Ma,grazie alla incontestabile duttilità tattica del suo gruppo diri-gente e alle operazioni condotte con eguale duttilità - pernon dire con abile trasformismo -dai suoi dirigenti sindacali,riesce a reinserirsi nel giuoco abbastanza rapidamente, recu-perando obiettivi dei nuovi movimenti e influenzandone lar-ghi settori.

Quando il periodo più acuto della crisi politica e socialesi chiude, quando cominciano a porsi i problemi della crisieconomica nazionale e internazionale del 1974-75, di fronteai quali l'estrema sinistra è in larga misura disarmata (e an-che per questo comincia a declinare), quando le grandi mas-se si inseriscono di nuovo in una prospettiva istituzionale-elettorale, il Pci appare ancora una volta come il solostrumento efficace.

Si arriva così ai suoi successi elettorali del 1975-76,men-tre su scala internazionale giunge l'ora del cosiddetto euro-comunismo, che appare come un tentativo organico di darealle lotte e alle prospettive politiche la dimensione sovrana-zionale necessaria. E' proprio in quel momento che, con lasegreteria di Berlinguer, il Pci raggiunge il punto più altodella sua parabola.

Ricapitolando, la sua forza è dovuta, dunque, a un'azionecondotta per oltre mezzo secolo, senza vere e proprie solu-zioni di continuità. E' dovuta a un profondo radicamento so-ciale, nella classe operaia, in larghi strati contadini e in setto-ri di piccola-borghesia, moderna e tradizionale, che lafunzione politica e organizzativa obiettivamente assolta gli hapermesso di realizzare, sviluppare e consolidare. E' dovutaall'influenza molteplice esercitata nella cultura del paese,grazie a una vasta gamma di intellettuali, presenti nelle sue

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me o alla sua periferia (soprattutto su questo terreno puòsfruttare, anche se abusivamente, il prestigio di AntonioGramsci).

E' dovuta egualmente alla valorizzazione costante e prio-ritaria di quelli che, alla maniera di Lenin, erano chiamatiuna volta i "rivoluzionari di professione", cioè di uomini edonne per i quali la lotta contro la società esistente era la ra-gione stessa di vita, che erano dotati di un ammirevole spiritodi sacrificio e costituivano un elemento di forza di cui nessu-n'altra formazione politica poteva neppur lontanamente di-sporre (vedremo quali siano stati gli aspetti negativi dell'esi-stenza dell'apparato, almeno tendenzialmente, monoliticoche si è via via formato).

E' dovuta, infme, a una utilizzazione sistematica - con ri-sultati, specie nelle amministrazioni locali, per vari aspettipositivi - del quadro istituzionale in cui il peso elettorale assi-curava, come si è accennato, una presenza molto vasta.

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2. FATTORI CONDIZIONANTI INTERNAZIO-NALI: DALL'OTTOBRE 1917AL "RAPPORTOCHRUSCIOV"

Il Pci e l'Internazionale comunista

Nel sintetizzare la parabola storica del Pci abbiamo fattoastrazione, salvo qualche accenno, dai fattori condizionantiinternazionali. Ci è sembrata opportuna questa impostazionein un momento in cui pullulano ricostruzioni "storiche" a dirpoco semplicistiche, che riducdno tutto o quasi ai crimini diStalin e alle complicità di Togliatti. Ma un'analisi e una valu-tazione complessiva devono ovviamente integrare in tutta laloro portata le componenti internazionali, respingendo, alpari delle interpretazioni denigratorie, le interpretazioniapologetiche che sono prevalse per decenni e neppur oggisono state del tutto abbandonate.

Sin dall'inizio, come risulta anche dall'opera di colui cheè stato sinora il suo maggiore storico\ l'evoluzione del Pci -eprima ancora la sua stessa formazione- è stata determinatain larghissima misura dagli interventi diretti o indiretti dellaTerza internazionale. Nei primissimi anni, l'Internazionale ha

1 Paolo Spriano ha spesso tendenze giustificazionistiche, in particolare neiconfronti di Togliatti. Ma il valore del suo lavoro è provato dal fatto chefornisce materiale ed elementi che permettono di ricavare valutazioni econclusioni diverse dalle sue.

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cercato di far valere il suo peso, non senza difficoltà, per unsuperamento delle concezioni bordighiane, in particolare afavore del fronte unico proletario e di una collaborazionecon il Psi in una prospettiva di riunificazione con quella cheera stata a Livorno la tendenza dei massimalisti. Successiva-mente, gli interventi e le pressioni internazionali hanno con-tribuito alla formazione di un nuovo gruppo dirigente in rot-tura con Bordiga2. Analogamente, senza i dibattiti e leesperienze a livello internazionale non ci sarebbero state nel1926 le Tesi del Congresso di Lione, che hanno segnato unapietra miliare nell'evoluzione del partito.

La valutazione di queste tesi è stata oggetto di discussioninella sinistra rivoluzionaria, giacché i bordighisti le hannoconsiderate come una tappa sulla via che avrebbe portatoinevitabilmente alla politica di fronte popolare e d'unità na-zionale. Si tratta, secondo noi, di un'interpretazione altret-tanto errata di quella sostenuta ufficialmente per decenni eche in fondo andava nello stesso senso, con la differenza chequello che agli occhi degli uni era negativo, era, invece, posi-tivo agli occhi degli altri. In realtà, le Tesi di Lione hannorappresentato un contributo valido di analisi della societàitaliana e della sua dinamica e di defInizione di una strategiarivoluzionaria: e l'apporto di Gramsci è stato decisivo. Nonva, tuttavia, taciuto un altro aspetto: il dibattito sulla strategiae sugli oriéntamenti politici in Italia si è svolto nel quadro,carico di ambiguità, della cosiddetta "bolscevizzazione" deipartiti comunisti. Lanciata dal V çongresso dell'Intetnazio-nale, essa corrispondeva certo a una esigenza di omogeneiz-zazione politica e di superamento di metodi di organi77.azio-

2 Neppure nel periodo antetiore alla burocratizzazione staliniana sonostati sempre evitati metodi verticistici. Proprio nel caso del Pc d'Italia, nellasessione dell' Esecutivo allargato del giugno 1923, il Comintern intervenivaper la prima volta di autorità per determinare la composizione dellaDirezione di una sua sezione (un esecutivo misto di 5 membri, 3 dellamaggioranza e 2 della minoranza).

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ne e di funzionamento ereditati dai vecchi partiti riformisti.Ma, anche per precisa responsabilità di Zinov'ev, allora pre-sidente dell'Internazionale, è stata indubbiamente un prelu-dio della burocratizzazione del periodo successivo. Nellastessa preparazione del Congresso di Lione, peraltro, eranostati usati metodi non molto democratici: a questo proposito,le lamentele bordighiane non erano prive di fondament03.

Il condizionamento internazionale ha in ogni modo as-sunto un carattere qualitativamente diverso durante i decen-ni di egemonia dello stalinismo: un dato di fatto che nessunopuò contestare. Non essendo scopo di questo saggio percor-rere tutte le vicende di quei decenni, ci soffermeremo su al-cuni momenti tra i più significativi.

Dalla svolta del 1930 ai fronti popolari

In primo luogo, ritorniamo sulla "svolta"del 1929-30,inse-rita nel cosiddetto "terzo periodo" dell'Internazionale co-

3 Al III Congresso dell'Internazionale comunista Zinov'ev ha definito labolscevizzazione come segue: «Bolscevizzazione significa per noi che ipartiti accettano quello che, in generale, era contenuto nel bolscevismo, eche Lenin ha precisato a proposito della "malattia infantile". Perbolscevizzazione dei partiti mtendiamo l'odio implacabile contro laborghesia e i capi socialdemocratici, la possibilità di tutte le manovrestrategiche contro il nemico. La bolscevizzazione è la volontà inflessibile dilottare per l'egemonia del proletariato contro i capi controrivoluzionari e icentristi, contro i pacifisti e tutte le escrescenze dell'ideologia borghese.Bolscevizzazione significa creare una organizzazione saldamentestrutturata, monolitica, centralizzata, che risolva armoniosamente efraternamente le divergenze nelle sue file. Come ha insegnato Lenin, labolscevizzazione è il marxismo in azione. E' la fedeltà all'idea della dittaturadel proletariato, alle idee delleninismo. Bolscevizzazione significa pure nonimitare meccanicamente i bolscevichi russi, ma prendere ciò che era e restaessenziale nel bolscevismo».

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munista, che prospettava crisi rivoluzionarie generalizzate abreve termine e imponeva l'abbandono della politica di fron-te unico e la denuncia dei partiti socialdemocratici come so-cialfascisti. I frutti di gran lunga più amari di queste imposta-zioni sono stati raccolti in Germania, dove l'orientamento delPartito comunista è stato un elemento non secondario dellatragica sconfitta di fronte a Hitler 4. Ma il partito italiano hafatto esso pure le spese dell'operazione, cioè di una svoltapuntualmente operata secondo le direttive moscovite.

A proposito della svolta, esiste una interpretazione, avan-zata in particolare da due uomini così diversi come GiorgioAmendola e Pietro Secchia, secondo cui in Italia sarebbe sta-ta dettata da fattori specifici e avrebbe assunto particolariforme di applicazione. C'è in questa interpretazione un noc-ciolo di verità, nella misura in cui la svolta sembrava corri-spondere a una esigenza di radicalizzazione della lotta, av-vertita in particolare dal settore più giovane' del gruppodirigente, e di rilancio del lavoro organizzato all'interno delpaese, lasciando da parte le diatribe dell'emigrazione. Va ag-giunto che certe formule staliniane, come quella del socialfa-scismo, sembravano porsi sulla stessa lunghezza d'onda diprecedenti formulazioni del bordighismo, uno dei cui motiviispiratori era consistito nel rifiuto di ogni forma di unità conil Partito socialista5.

4 l,.a polemica contro gli orientamenti staliniani del terzo periodo è stataun lei t motiv della critica trotskiana di quegli anni, la cui giustezza elungimiranza sono state quasi universalmente riconosciute, purtroppo condecenni di ritardo...5 Va aggiunto che la categoria del socialfascismo non era una pura"coperta staliniana. Al V Congresso dell'Internazionale, Zinov'ev avevauffcrmato: «Il fatto essenziale è che la socialdemocrazia è divenuta un'aladel fascismo». Pur mantenendo l'idea del fronte unico, aveva privilegiato ilfronte unico dal basso. Per parte sua, Togliatti, al Convegno di Corno,rlcollegandosi a Zinov'ev, aveva definito gli "unitari", cioè i socialistirlformisti, «un'ala del fascismo». L'atteggiamento settario nei confronti dei.ocialisti non era stato superato neppure al Congresso di Lione.

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Ciò non toglie che la svolta era stata decisa in sede inter-nazionale, in conformità con le esigenze della direzione so-vietica in quel momento, e imposta a tutti con le buone o conle cattive6.

Come controprova, ci si potrebbe porre la domanda: senon ci fosse stata la decisione dell' Internazionale, il Pciavrebbe egualmente delineato le analisi e la politica del terzoperiodo? La risposta non può che essere negativa. Difficil-mente, per esempio, senza la spinta proveniente da Mosca,l'Unità sarebbe giunta al punto di proclamare in un titolo:

«E' l'ora di passare alla violenza pro[etaria" e di aggiungere:«Dobbiamo prepararci a dare piombo al fascismo e al capitale».

Questo nell' Italia del 19307!L'argomento di Amendola e di Secchia, secondo cui la

svolta è stata la condizione del mantenimento della continui-tà con tutto quello che ne è seguito, è specioso e sin troppochiaramente apologetico. Infatti, gli stessi oppositori dellasvolta, rapidamente espulsi dal partito, non erano affattocontrari al rilancio dell'attività interna. Ma il rilancio potevaessere concepito in altro modo, senza prospettive e praticheavventuristiche e, quindi, senza le conseguenze catastrofichedegli arresti e delle lunghe detenzioni di un numero elevatodi militanti8.

6 Cfr., a questo proposito, in particolare il verbale del Comitato centraledel Pci del marzo 1930 e numerosi scritti di Alfonso Leonetti (tra i quali, inparticolare, Un comunista, Fe[trinelli, Milano, 1977,pp. 157-176).7 Nell'appello del Congresso di Colonia (1931) SI legge, tra l'altro: «glielementi di una crisi rivoluzionaria si accumulano Compito fondamentaledel partito nella situazione attuale è di tendere con tutta [a sua azione adaccelerare i[ processo di maturazione di una crisi rivoluzionaria». Il Plenumdell'InternazIonale comunista aveva parlato di una «nuova ondatarivoluzionaria che sale» e di « maturazione in certi paesi di una crisirivoluzionaria».8 Lo stesso Amendola doveva scrivere: «Bisognava prendere atto che la"svolta" non aveva raggiunto i suoi obiettivi» (Storia del Partito comunistaitaliano 1921-1943, Editori Riuniti, Roma, 1978,p. 201).

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La svolta successiva è quella che ha portato alla politicadei fronti popolari, «cambiamento brusco» (Spriano) a parti-re dall'estate 1934 (il1? agosto si firma il patto d'unità d'a-zione coi socialisti). Neppure questa volta s'è trattato di un'i-niziativa autonoma del Pci, ma di una decisione presa a Mo-sca. A partire dal momento in cui era stato costretto a con-statare il disastro della sua politica tedesca, Stalin si era co-minciato a preoccupare del pericolo di guerra rappresentatodall'avvento al potere del nazismo e si era posto il problemadi un nuovo orientamento della politica estera dell'Urss.

Questo nuovo orientamento cominciava a delinearsi ap-punto nel '34 e si concretizzava a maggio dell'anno successi-vo con una dichiarazione congiunta con la Francia di Laval.Ne discendeva per l'le la politica adottata al VII Congresso. Ipartiti comunisti si prospettavano ormai alleanze non solocoi partiti socialisti, ma anche con partiti borghesi (in Fran-cia, per esempio, col Partito radicale), senza escludere nep-pure un'eventuale partecipazione a governi di coalizione. Peruna valutazione di questa politica ci possiamo rifare allo stes-so Spriano, che non era certamente un estremista:

«La raccomandazione di favorire governi di fronte popolare _scrive - sarà ['indicazione fondamentale a cui si sacrificheranno lestesse rivendicazioni rivoluzionarie fondamentali, richieste oracome garanzia che tali governi non divengano una riedizione digoverni socialdemocratici, sostanzialmente borghesi, e poiabbandonate - come accadrà in Francia, col risultato dicompromettere gravemente [~natura popolare dei governi delfroI)te, di staccarli dalle masse» .

Ma per Stalin e la direzione del Comintern tutto questopassava completamente in seconda linea: prioritari erano gliinteressi diplomatici dell'Urss.

I dirigenti del PCI hanno sempre sostenuto che la politicaadottata durante la Seconda guerra mondiale, e successiva-

I) P. Spriano, op. cit., voI. m, p. 27.

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mente, traeva origine, in sostanza, dalla svolta dei fronti po-polari e dalle decisioni del VII Congresso dell'lc. Hanno in-sistito su questo motivo per provare la loro coerenza e il ca-rattere non congiunturale della loro strategia. Le cose nonsono così semplici, soprattutto perché c'è stato l'intermezzodel Patto russo-tedesco, che ha rappresentato una rottura dicontinuità, anche se di breve durata. Comunque sia, il richia-mo alla politica dei fronti popolari non è un argomento a fa-vore della specificità e dell'autonomia del Pci, che, al contra-rio, aveva fatto proprio, ancora una volta, un orientamentodettato dalla direzione dell'Internazionale, corrispondente ale esigenze dello Stato sovietico e del suo gruppo dirigente lO.

Da Salemo al XX Congresso

Una terza svolta, su cui si sono versati i tradizionali fiumid'inchiostro, è quella cosiddetta "di Salerno". Se a questa

lO Non affrontiamo qui un altro aspetto del problema: la linea di frontepopolare non ha avuto né poteva avere in Italia le stesse implicazionipratiche che in Francia o in Spagna. Il fronte popolare veniva prospettatocome unificazione di tutte le correnti di opposIZione al fascismo, compresauna corrente fascista critica o supposta tale. AI Comitato centrale di fineottobre del '35, Ruggero Grieco nella sua replica affermava: «Noi saremo idirigenti del fronte popolare, se sapremo saldare - come dice Ercoli -l'opposizione antifascista all'opposizione fascista». Veniva allora lanciata laparola d'ordine della «riconciliazione nazionale» e di un «programma dipace, di libertà e di difesa degli interessi del popolo italiano». Ci sidichiarava disposti a combattere assieme ai fascisti critici per larealizzazione del programma fascista del 1919. In una risoluzione di finesettembre del '36, non ci si peritava di affermare che <<isindacati fascistipossono essere uno strumento di lotta contro i padroni e perciò debbonoessere considerati come i sindacati operai nelle attuali condizioni italiane».Simili prese di posizione provocavano, come si può ben immaginare, vive etenaci polemiche nell'opposizione antifascista, con ricadute all'internostesso del partito.

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svolta ci si vuole richiamare per sostenere che sin da allora -1943-44 - il Pci aveva una prospettiva democratico-istituzio-nale e non rivoluzionario-insurrezionale, l'argomento è sen-,al . 11 M d

. h. .

z tro pertmente. a non ne enva c e m questo caso Clsia stata una scelta autonoma e specifica. Di fatto, la lineaapplicata sempre più sistematicamente a partire dal rientroin patria di Togliatti, è stata comune a tutti i partiti comunistidell'Europa occidentale - mutatis mutandis, non solo del-l'Europa occidentale - e l'iniziativa era spettata sempre alladirezione sovietica e all'ormai moritura Internazionale comu-nista12.

L'insistenza di Giorgio Amendola sul fatto che la propa-ganda di Togliatti da Radio Mosca era orientata già primadel suo ritorno verso l'unità antifascista prova esattamente ilcontrario di quello che pretende di provare lo stesso Amen-dola. Infatti, da un lato, Togliatti non era allora collegato alladirezione in Italia -praticamente inesistente in quanto orga-nismo - e non poteva quindi essere il portavoce di una lineaelaborata autonomamente dal suo partito. Dall'altro - ciò cheè ancora più importante -chiunque abbia una idea anche ap-prossimativa del funzionamento del regime sovietico agli ini-zi degli anni '40, non può credere seriamente che i suoi diri-genti mettessero a disposizione di un comunista straniero imezzi necessari, nella fattispecie una potente radio trasmit-tente, per consentirgli di esprimere le sue idee indipendente-

11 In polemiche recenti, si è preteso di cogliere una presunta incoerenzadel Pci nel fatto che durante la resistenza aveva lanciato appelliall'insurrezione. L'argomento è assolutamente pretestuoso: si trattava diuna insurrezione contro il fascismo e non per il rovesciamento delcapitalismo, e in collaborazione con tutte le forze antifasciste.12 Nella sua ultima risoluzione (15 maggio 1943), l'Internazionalecomunista affermava, tra l'altro: «Nei paesi del blocco hitleriano, il compitofondamentale degli operai, dei lavoratori e di tutti gli onesti consiste nelcontribuire alla sconfitta di questo blocco. Nei paesi della coalizioneantihitleriana, il sacro dovere delle larghe masse popolari... è di sostenerecon tutti i mezzi gli sforzi militari dei governi di questI paesi».

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mente dagli orientàmenti del Cremlino. Neppure è pensabileche Togliatti rientrasse in Italia per decisione del tutto auto-noma e delineasse al suo arrivo, di propria iniziativa, una li-nea che, sulle prime, provocava turbamento in buona partedel ~Ftito, senza che una decisione fosse stata presa in altoloeo .

Più in generale, neppure la scelta della via nazionale alsocialismo può essere rivendicata come un'espressione dioriginalità e di autonomia. Basti ricordare che lo stesso Sta-Iin, prima dell'inizio della guerra fredda, aveva ventilato lapossibilità di vie diverse al socialismo in una conversazionecon una delegazione del Partito laburista e, poco dopo, in unincontro con il dirigente del Pc cecoslovacco Gottwald, e chevari dirigenti di partiti comunisti se ne erano fatti eco.

Va aggiunto che, dopo la formazione del Cominform nel-l'anno 1947 e dopo le critiche da parte di Zdanov, nella riu-nione costitutiva, al Pci e al Pcf, sospettati di cedimenti op-portunistici, il partito si riadattava rapidamente al nuovoclima e, pur senza mutare sostanzialmente la sua politica _

cosa che gli stessi sovietici non avrebbero voluto -metteva lasordina sul tema delle vie nazionali al socialismo: un temadestinato ad essere rilanciato solo nove anni dopo, al Con-gresso del '5614.

Questo congresso è stato, in realtà, un'altra pietra miliarenella storia del Pci: sono i suoi testi - e non quelli degli altritre congressi che lo avevano preceduto dopo la fine della

13 La drammatica esperienza della Grecia è una conferma a contrariodell'ispirazione g:enerale della linea dei partiti comunisti. Infatti, Stalincondannava esplicitamente i movimenti che si erano prodotti in quel paesee che avevano contrapposto forze partigiane e truppe britanniche.14 Nel luglio '48 Togliatti dichiarava: «La guida non può essere che pertutti una: nel campo della dottrina è il marxismo-leninismo, nel campo delleforze reali è il paese il quale è già socialista e nel quale un partitomarxista-Ieninista temprato da tre rivoluzioni e da due guerre vittoriose hala funzione dirigente».

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guerra1S - che hanno sistematizzato la concezione della «viaitaliana al socialismo». Questa sistematizzazione era statapreparata da orientamenti precedenti. Ma anche in questaoccasione la spinta decisiva è venuta dai dirigenti del Pcus.C'era stato infatti, nel febbraio dello stesso anno, il XX Con-gresso, in cui Chrusciov aveva avanzato la prospettiva di unpassaggio al socialismo per via pacifica, istituzionale, neipaesi capitalisti industrializzati.

E' sulla scia di Chrusciov - cui Togliatti faceva esplicitoriferimento nella sua relazione introduttiva - che venivanoelaborati idee e orientamenti dell'VIII Congresso. Più in ge-nerale, è dopo il famoso Rapporto dello stesso Chrusciov suicrimini di Stalin e il disgelo nell'Urss che il partito inaugura-va, con assai cauto gradualismo e non senza contraddizioni,un processo di revisione critica - parziale -dello stalinismo edel suo stesso passato.

Tra la svolta di Salerno e il Congresso del '56 si era pro-dotto un avvenimento cui abbiamo già accennato e che dove-va pesare sulle sorti del movimento comunista: la rottura traMosca e la direzione jugoslava, nel giugno 1948.La direzionedel Pci non esitava un solo istante: dimenticando tutto quelloche aveva detto e scritto sulla Jugoslavia e su Tito, si associa-va senza riserve alla furibonda campagna antijugoslava, con ilricorso ai motivi e agli epiteti classici dello stalinismol6.

Con pari sollecitudine, quando, dopo la morte di Stalin,Chrusciov andava a Canossa riconoscendo l'errore commes-

15 II primo Congresso del dopo~erra, il V, ha avuto luogo negli ultimigiorni del 1945 e nei primi giorni del 1946; il secondo, il VI, nel 1948 e ilterzo, il VII, nel 1951. Per il carattere particolare del V Congresso cfr.Archivio Pietro Secchia, 1945-1973, Annali Feltrinelli, Milano, 1979,p. 212.16 Chi scrive si trovava in quel momento a Venezia ed era in contatto condirigenti della Federazione comunista. L'annuncio radiofonico in tardaserata della rottura dell'Urss con la Jugoslavia provocava nel partito unareazione di sgomento. Ma il mattino successivo, all'apertura della sedeprovinciale, il ritratto di Tito era già sparito!

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so, si allineava di nuovo sullc scelte ùi Mosca. Reagiva allostesso modo nel novembre '56, approvanùo l'intervento so-vietico in Ungheria.

Prassi organizzativa staliniana

All'epoca dei processi di Mosca, la campagna antitrotski-sta era lanciata anche in Italia, dove il movimento trotskistanon esisteva (i pochi militanti erano quasi tutti nell'emigra-zione). Questa campagna si svolgeva pure nelle prigioni e alconfrno: coloro che non condividevano la linea del partito oanche solo certi suoi aspetti (a maggior ragione, la linea delPcus e del Comintern), erano attaccati duramente, isolati ed

espulsi con metodi sommari ~il caso più clamoroso è statoquello di Umberto Terracini)1 .

Dopo Lione (1926), per due decenni, c'è stato un solocongresso (Colonia, 1931), in cui non si è avuto nessun dibat-tito sulla svolta dell'anno precedente, che pure aveva portatoall'espulsione di quasi la metà dell'Ufficio politico. Né va di-menticato che il Pci ha accettato senza battere ciglio, nel1939, lo scioglimento del suo Comitato centrale da parte del-la direzione staliniana dell'Internazionale e la creazione aMosca di un "centro ideologico" o di "riorganizzazione", conla designazione di un segretario non solo senza consult-azione, ma addirittura all'insaputa generalel9.

Questa misura non aveva le conseguenze tragiche di mi-sure analoghe, o ancor più gravi, nei confronti di altri partiticomunisti, come, per esempio, il Partito comunista polacco,distrutto letteralmente. Ma non poteva che aggravare la crisidi direzione di quel periodo; ci si può chiedere legittimamen-te se, con una soluzione più democratica di questa crisi, ilpartito non avrebbe potuto affrontare in condizioni sensibil-

Come vedremo più avanti, il Pci ha subìto meno profon-damente di altri partiti comunisti il processo di stalinizzazio-ne nel suo funzionamento organizzativo. Ma ciò non significache non sia stato fondamentalmente staliniano anche da que-sto punto di vista.

In realtà, non ha conosciuto, per esempio, un dibattito in-terno democratico che per un periodo molto limitato, neiprimi anni della sua esistenza 17.Successivamente, lo stessopassaggio all'attività clandestina favoriva l'affermarsi di ten-denze verticistiche con il crearsi di rigidi compartimenti sta-gni. Sino alla fine degli anni '20, le discussioni continuavano,ma si limitavano a organismi di direzione sempre più ristrettie ricostituiti per cooptazione. Già nella battaglia contro latendenza bordighiana, prima e dopo Lione, si faceva ricorsoa misure disciplinari di stile burocratico. All'inizio degli anni'30, la crisi provocata dalle divergenze sulla svolta segnava unaltro passo in avanti in senso negativo: i minoritari eranoespulsi per direttissima e iniziava nei loro confronti una cam-pagna denigratoria senza esclusione di colpi.

17 Va detto che neppure Bordiga aveva, per parte sua, una concezionemolto democratica del funzionamento del partito. La sua idea era che,invece che di centralismo democratico, sarebbe stato preferibile parlare dicentralismo organico. Non si trattava di una questione puramenteterminologica, se Bordiga si dichiarava favorevole a «una disciplina di tipomilitare». La sinistra bordighiana era, peraltro, favorevole a un massimo dicentralizzazione dell'Internazionale.

18 Secondo certe testimonianze di ex-confinati, gli ex-membri, specie negliultimi anni, sarebbero stati trattati correttamente dai loro compagni disventura rimasti nel partito. Non abbiamo ragione di dubitare di questetestimonianze. Ma ne esistono altre, più numerose, che vanno in sensocontrario: coloro che erano usciti dal partito, o ne erano stati espulsi, eranovittime di vere e proprie campagne persecutorie. Atteggiamenti simili sonostati abbastanza diffusi anche durante la resistenza (per esempio, neiconfronti dei militanti di Stella Rossa a Torino e di Bandiera Rossa aRoma).19 Questo segretario era Giuseppe Berti.

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mente più favorevoli la cruciale scadenza della guerra20. Nel-la fase aperta dalla crisi e dalla caduta del fascismo si svilup-pavano nel partito vive discussioni, che però restavano stret-tamente limitate ai gruppi dirigenti, di fatt9 ai due centri diMilano e Roma, senza nessuna partecipazione dei quadri,per non parlare dei militanti di base21.Al rientro di Togliatti,dopo il consiglio nazionale che aveva approvato la svolta diSalerno, la linea era imposta senza andare troppo per il sotti-

le: per riprendere le parole di ~riano, «era la fine di un re-gime di più libera discussione» .

In seguito, si diffondeva in forme sempre più smaccate ilculto di Togliatti, mentre le decisioni più importanti restava-no riservate a un gruppo ristretto di massimi dirigenti. Quan-do c'erano punti di vista diversi, erano discussi in questo nu-cleo senza portarli a conoscenza non solo dei militanti, maneppure degli altri organismi di direzione.

Pietro Secchia, che pure ha sempre avuto del centralismodemocratico una concezione più vicina a quella stalinianache a quella leniniana, in una lettera a Togliatti del novembredel '54, ha descritto in questi termini i processi decisionalivigenti:

«Dal 1945 ad oggi, molte decisioni su questioni assai importanti perl'orientamento politico del partito e per la sua azione pratica sonostate prese individualmente; è accaduto anche che non si discutesseprima che fossero prese, ma che si discutesse dopo.Ed anche quando se n'è discusso prima, la discussione è statacondotta con tale rapidità e in forma tale che la personalità aveva ilpeso schiacciante e gli interventi degli altri non servissero che a dirdi sì, ad approvare la proposta».

20 Lo stesso Amendola, il cui libro è pur costantemente intriso digiustificazionismo, deve scrivere: «Il Pci giungeva alla prova della guerra ingravi condizioni di debolezza organizzativa e di confusione politica» (op.cit., p. 369).21 Cfr. P. Spriano, op. cit., voI. V, p. 79.22 Op. cit., vol. V, p. 326.

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I

Sempre secondo Secchia, vari compagni avevano dichia-rato a un certo momento che il Comitato centrale «non erache un'assemblea di attivisti convocata di tanto in tanto perimpartire delle direttive» 23.

Le cose cambiavano solo molto parzialmente dopo il XXCongresso, nonostante gli accesi dibattiti, a tutti i livelli, svol-tisi nel corso del 1956.

Nello stesso periodo berlingueriano, non veniva affattomeno il funzionamento verticistico. Alcune delle prese di po-sizione e delle decisioni cruciali di quel periodo (l'enuncia-zione del compromesso storico prima e poi l'abbandono del-la politica di unità nazionale) erano prese senza discussionepreliminare nella stessa direzione e a maggior ragione nelComitato centrale24.

In realtà, le vecchie concezioni e i vecchi metodi non sa-ranno abbandonati che negli anni '80. Ciò non comportava,tuttavia, una reale democratizzazione, bensì piuttosto la so-stituzione dei metodi staliniani e post -staliniani con metodipiù tipici di partiti socialdemocratici.

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23 Archivio Pietro Secchia, 1945-1973, Feltrinelli, 1978, p. 673. Un giudiziosostanzialmente analogo, anche se espresso in termini piu vellutati, è quellodi Pietro Ingrao, in Le cose impossibili, Editori Riuniti, Roma 1990, p.76.24 Luciano Lama ha affermato che, pur essendo membro della direzionedel partito, aveva letto su Rinascita le tesi di Berlinguer sul compromessostorico e appreso da l'Unità che si passava alla politica di alternativademocratica (Intervista sul partito, Laterza, Bari,1982).

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3. DA LIVORNO ALLA SOCIALDEMOCRAZIA

Le contraddizioni dei partiti staliniani

Abbiamo accennato all'importanza del Congresso del '56nell'evoluzione del Partito comunista. Cerchiamo ora di sin-tetizzare questa evoluzione da un punto di vista più generale.Il Pci rappresenta il caso-limite di un fenomeno politico dicui era difficile intuire la possibilità sino aIfa metà degli anni'50: la trasformazione di un partito sorto come partito rivolu-zionario in rottura con il riformismo e divenuto poi un parti-to staliniano, in un partito neoriformista di tipo socialdemo-cratico1.

Ritorniamo innanzitutto sulla nozione di partito stalinia-no. Negli anni '30 e '40 i partiti comunisti staliniani hannosviluppato una specifica ideologia, cioè una loro concezionedella società socialista e dei suoi tratti distintivi, come pureuna loro concezione del partito e del suo funzionamento, deirapporti tra partito e organi77azioni di massa, del ruolo dellacultura, ecc. Questa ideologia ha subito periodicamente mu-tamenti e riadattamenti. Ma ciò che ha caratterizzato fonda-

1 Per la precisione, Trotsky aveva indicato la tendenza dei partiticomunisti a trasformarsi in partiti comunisti nazionali, riformisti oneoriformisti, già alla vigilia della guerra, in particolare in un articoloscritto dopo gli accordi di Monaco (cfr. L. Trotsky, Guerra e rivoluzione,Mondadori, Milano, 1973,pp. 38-40).

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mentalmente questi partiti non è stata tanto un'ideologiaquanto l'accettazione del ruolo egemonico dell'Urss, "patriadel socialismo", del suo partito unico e del suo capo incon-testato. In altri termini, è stata la subordinazione - tramite ilComintern sinché è esistito e poi con altri meccanismi2 - de-gli interessi e dei bisogni del movimento operaio dei singolipaesi agli interessi e alle esigenze dello Stato sovietico, con-cretamente della sua casta dominante.

E' a causa di questa subordinazione che hanno cessato diessere dei partiti rivoluzionari nel senso più preciso del ter-mine. Hanno, tuttavia, mantenuto una differenziazione gene-tica rispetto ai partiti riformisti di tipo socialdemocratico, lacui deformazione opportunistica e burocratica era stata de-terminata essenzialmente dai condizionamenti economici,sociali e politici derivanti dal loro inserimento nel quadro enei meccanismi istituzionali della società capitalistica.

Sintetizzati questi elementi di caratterizzazione, va im-mediatamente aggiunto che gli interessi e le esigenze dellaburocrazia sovietica non potevano essere la componenteesclusiva della politica di un partito comunista, quanto menodi un partito che avesse superato le dimensioni del gruppo dipropaganda stabilendo legami reali con strati sociali e movi-menti di massa. Entravano in azione due altri fattori: la ne-cessità di tener conto, per l'appunto, dei bisogni dei movi-menti in cui si era inseriti, e gli interessi dei gruppi dirigenti edegli apparati nazionali non necessariamente coincidenti conquelli dello Stato e del partito sovietico. A seconda delle fasi,i tre fattori agivano e si combinavano in misura diversa.

2 Riferendosi al {leriodo successivo allo scioglimento del Cominform,Luigi Longo ha scntto: «Il Pc dell'Urss restava il punto di riferimento, la"gerarchia" da rispettare anche nella nuova dinamica del movimentocomunista. Da questo punto di vista, la logica della Terza internazionalesopravvisse (ed ebbe nel 1948 una sua nuova e particolare esplicitazionenell'Ufficio d'informazioni), condizionando il comportamento di tutti oquasi i partiti comunisti» (Opinioni sulla Cina, Milano, 1977).

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Nel caso del Pci, questa diversità può essere colta conmaggiore evidenza. Negli anni '30, il primo fattore era digran lunga prevalente, da tutti i punti di vista (aiuti materiali,forza derivante al partito dal fatto di apparire come il rap-presentante di un movimento mondiale guidato dal primoStato "socialista" della storia, ecc.). Ma, a partire dal momen-to in cui ha cominciato a crescere, ad acquistare una consi-stente base di massa per divenire poi organizzazione egemo-nica nel movimento operaio, il peso degli altri due fattoriaumentava progressivamente.

Il punto di svolta era rappresentato dagli avvenimenti del'56: da allora, gli interessi "nazionali" tendevano a prevaleresui condizionamenti internazionali, anche se il legame conl'Urss non era affatto spezzato (lo sarà completamente solooltre vent'anni dopo). Anche quando Stalin è morto e sepol-to e ben pochi si azzardano ormai a prendere le difese dellostalinismo, quando l'Urss non appare più come un modellodi socialismo e la sua direzione è contestata dai gruppi diri-genti burocratici di altri paesi, oltre che da forze rivoluziona-rie, il cordone ombelicale è mantenuto perché il riferimentoai "paesi socialisti" e al "movimento comunista" ~uò esserevalorizzato come un elemento di forza del partito .Quando,però, la politica di Mosca rischia di avere gravi conseguenzenegative per la sua stessa battaglia -come accade con l'inva-sione della Cecoslovacchia o con l'intervento nell' Afghani-stan -, il Pci non esita a prendere le distanze con dichiarazio-ni di esplicita condanna.

In realtà, la contraddizione fondamentale, intrinseca, deipartiti staliniani - e del Pci tra di essi - è esistita sin dalla se-

conda metà degli anni '20 e ancor più dall'inizio degli anni'30: dovevano subire il condizionamento determinante delladirezione dell'Urss tramite l'Internazionale burocratizzata,ma, se volevano agire effettivamente e costruirsi non poteva-no fare astrazione dal loro contesto nazionale. Per tutto unperiodo, la contraddizione è stata più potenziale che attualeed era difficile individuarla o coglierne tutta la portata; que-sto tanto più che, quando già operava direttamente, come nelcaso della Cina, le parti in causa erano interessate a non farlaemergere alla superficie e a riasconderla dietro rituali formu-le politico-ideologiche ben ben poco corrispondenti alla pra-tica reale4.

Solo dopo l'aperta esplosione della crisi dello stalinismo ele vicende degli anni '50 e '60, sulla base delle testimonianzedi protagonisti ancora in vita o di studi storici, si è venuti aconoscenza di quello che prima poteva essere tutt'al più in-tuito, cioè che la contraddizione aveva agito sin dall'inizioprovocando conflitti e lacerazioni, al di là delle proclamazio-ni unanimistiche.

Il 1956, sia per la portata effettiva degli avvenimenti siaper il suo valore simbolico, segna uno spartiacque. In parti-colare per il Pci, la contraddizione si configura ormai in ter-mini diversi: è la contraddizione di un partito che non è piùda decenni un partito rivoluzionario e cessa di essere un par-tito classicamente staliniano, ma non è un partito socialde-mocratico, continua a rifiutare esplicitamente di essere defi-nito. tale e non può agire coerentemente come riformista nelcontesto di una società in cui pure ha acquisito un peso spe-cifico notevole. Qui va colta, in ultima analisi, la ragione del-

3 Ancora nel 1968 si poteva le~ere in una relazione di Enrico Berlinguer:«NGi siamo e resteremo un partito intemazionalista; siamo e resteremo inun movimento nel quale c'e l'Unione Sovietica, altri paesi socialisti, nelquale c'è Cuba, c'è il Vietnam e vogliamo mantenere aperta la prospettivacon la Cina,).

4 L'esempio più pertinente è quello della Cina degli anni '30, quando ladirezione maoista ha applicato una linea sensibilmente diversa da quelladegli altri partiti comunisti e agito indipendentemente dal Comintem, pursenza differenziarsi ideologicamente e senza mai esprimere pubbicamente ilminimo dissenso (anzi, participando all'esaltazione di Stalin e dell' Urss,patria del socialismo).

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la sua incapacità di realizzare gli obiettivi strategici che si eraprefissati e di sormontare gli ostacoli che le classi dominanticontinuano a frapporre alla sua assunzione a forza di gover-n05.

La nuova fase è contraddistinta da sviluppi diversi e inparte contrastanti, su cui non possiamo dilungarci. Basti indi-care il comune filo conduttore: ormai, la politica del Pci nonè più condizionata - se non parzialmente o indirettamente -dalla politica dell'Urss e del cosiddetto movimento comuni-sta, peraltro in via di progressivo sfaldamento, ma fondamen-talmente da fattori nazionali. A ciò contribuisce il declino delprestigio dell'Urss e del "mondo socialista" e della loro forzad'attrazione, per non parlare del crollo irrimediabile del mitostaliniano. Ma l'essenziale non è questo.

Origini e fasi di una socialdemocratizzazione

II riformismo socialdemocratico tradizionale si era svilup-pato soprattutto nel decennio, o nei decenni, prima dellaguerra mondiale 1914-18, che avevano segnato nell'Europaoccidentale e centrale una crescita economica e una relativastabilità delle istituzioni democratico-borghesi. In tale conte-sto - in cui non si producevano crisi rivoluzionarie o prerivo-luzionarie, nonostante l'esplodere a volte di aspri conflitti so-ciali e politici - era logico che il movimento operaio puntasse

5 Per queste analisi e valutazioni, ci permettiamo di rinviare al nostrolibro Teoria e politica comunista nel dopoguerra. Schwan, Milano, 1959,ripreso e sviluppato in Pci: 1945-1969: stalinismo e opponunismo, Samonà eSavelli, Roma, 1969. Contrariamente ad analisi sviluppate successivamente,scrivevamo allora: «il Pci non può né potrà essere un partito riformista».L'ipotesi non si è rivelata giusta, crediamo, soprattutto per la diversaevoluzione del contesto internazionale.

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sul conseguimento di conquiste parziali (economiche, socialie politiche). Proprio i successi, anche limitati, su questo ter-reno erano alla base dello sviluppo dei partiti socialisti, deisindacati e di altre organizzazioni di massa.

Ma si innestava contemporaneamente, per usare una ter-minologia peculiare del marxismo rivoluzionario, una dialet-tica delle conquiste parziali. Nella misura in cui strati semprepiù larghi di classi sfruttate, grazie alle loro lotte e alla loroorganizzazioni, ottenevano non trascurabili miglioramentidelle loro condizioni di vita e una serie di diritti democratici,si preoccupavano di non mettere a repentaglio quello cheavevano acquisito e tendevano, quindi, più o meno consape-volmente, a subordinare alla difesa e ampliamento delle con-quiste parziali la prospeuiva di una lotta rivoluzionaria per ilrovesciamento del capitalismo.

Soprattutto questa era la base oggettiva dello sviluppo delriformismo e la ragione della sua influenza persistente, nono-stante le sconfitte catastrofiche subite in momenti cruciali daipartiti che vi si ispiravano.

L'Italia del secondo dopoguerra, dopo il primo difficileperiodo di ricostruzione, ha conosciuto un boom economicoprolungato senza precedenti nella sua storia e un processo dimodernizzazione che, nelle forme in cui si è realizzato, nonera stato previsto da nessuno. Questa crescita avveniva in uncontesto di relativa stabilità politica e nel quadro di istituzio-ni parlamentari più avanzate non solo di quelle dell'Italiaprefuscista, ma anche di quelle di altri paesi dell'Europa oc-cidentale 6. In linea generale, pur mantenendo certe sue spe-cificità - in primo luogo, quella del Mezzogiorno - la società

~,II

l'~ 6 Non condividiamo certo le esaltazioni acritiche della Costituzione del

'47, ma è indubbio che, sul piano della democrazia capitalistica, è, conquella tedesca di Wcimar del 1919, tra le più avanzate. Nell'Italia deldopoguerra, in linea di principio, i diritti democratici, in primo luogoelettorali, sono stati garantiti piu e non meno che altrovc.

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I -

italiana diveniva sempre più omqgenea al resto dell'Europacapitalistica, checché ne pensino tutti coloro che della suapresunta arretratezza hanno fatto, e magari continuano a fa-re, un cavallo di battaglia, sia sul piano delle analisi sia suquello della strategia politica.

Grazie al conseguente rafforzamento del peso specificosociale della classe operaia e, più in generale, dei lavoratoridipendenti, si creavano così le condizioni di lotte operaie epopolari per rivendicazioni economiche importanti e nonmeno importanti diritti democratici. Di fatto, lotte a diversilivelli si sviluppavano pressoché senza interruzioni e, non dirado, con concreti risultati; d'altra parte, i partiti operai, e inprimo luogo il Partito comunista, conquistavano solide posi-zioni nelle istituzioni, divenendo forza di governo in numeronotevole di città, di province e anche di regioni. Tale conte-sto si è prolungato per decenni e non è stato modificato so-stanzialmente neppure dalla crisi sociale e politica della finedegli anni '60 e degli inizi degli anni '70. Constatazione cheva sottolineata: si tratta di un arco di tempo assai più ampiodi quello in cui avevano agito i partiti riformisti prima del '14,per non parlare del periodo tra le due guerre.

E' perfettamente spiegabile, dunque, che un partito cheormai dalla metà degli anni '30 aveva rinunciato a ogni pro-spettiva e strategia rivoluzionaria e non dava più da tempo aisuoi quadri e ancor meno ai suoi militanti la formazione cheaveva dato loro agli inizi, che considerava la Costituzione re-pubblicana come il quadro necessario e sufficiente dellatransizione al socialismo e prospettava questa transizione perlIapprossimazioni successive", fosse portato ad agire sempredi più come un partito riformista, diventando alla rme unpartito di tipo socialdemocratico.

Non ripercorriamo qui tutte le fasi di un processo che,prima di giungere a conclusione, si è sviluppato per oltre tredecenni7. .

Ci limitiamo ad abbozzare sinteticamente una periodizza-zione (che, come tutte le periodizzazioni, comporta inevita-bilmente elementi di arbitrarietà e di schematismo) :

I) Una fase che va dal XX Congresso all'agosto 1968. E'la fase in cui viene avanzata, sia pure in forma parziale e nonsenza gravi reticenze, una critica dello stalinismo e si tenta didefInire i contorni di una democrazia socialista presentatacome obiettivo finale. Il legame con l'Urss sussiste e non so-no affatto scomparse tendenze giustificazionistiche. Ma nel-l'agosto 1968, quando le truppe del Patto di Varsavia pongo-no fine alla primavera di Praga, che il Pci aveva accolto confavore, c'è per la prima volta una condanna aperta.

II) Una fase che potremmo defInire berlingueriana, dall'i-nizio degli anni '70 alla "strappo" seguito al colpo di Stato delgenerale Jaruzelski. Il partito prende defInitivamente le di-stanze dall'Urss e dai "paesi socialisti", dopo aver riconosciu-to esplicitamente l'appartenenza dell' Italia alla Nato. Lo faper rendere credibile, sul piano interno, prima il progetto dicompromesso storico e successivamente la politica di unitànazionale e di alternativa democratica e, sul piano interna-zionale, il progetto eurocomunista. Il motivo conduttore, daun punto di vista teorico, è quello della terza via o della terzafase, con uno sforzo persistente di differenziazione, su que-sfo terreno, dalla socialdemocrazia.

III) La fase di cui sono simbolo due congressi post- ber-lingueriani, il XVII e il XVIII, che prendono atto del falli-mento del progetto eurocomunista, peraltro verificatosi giàprima che si esaurisse la fase precedente, e rinunciano alla

7 Lo abbiamo fatto, per parte nostra, oltre che in volumi già citati, inDestino di Trockij, Rizzoli, Milano, 1979.

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terza via e a ogni differenziazione strategica rispetto alle so-cialdemocrazie (in primo luogo, rispetto a quelle che si por-tano ad esempio come interlocutrici privilegiate). Il Pci siproclama "parte integrante della sinistra europea", cercandodi stabilire una collaborazione con la stessa Internazionalesocialista (la Fgci, per parte sua, entra a titolo consultivo nel-l'Internazionale giovanile socialistal

Non è forse superfluo richiamare a questo punto i trattidistintivi dei più tipici partiti socialdemocratici:

nando azione parlamentare e azione delle organizzazioni dimassa e privilegiando la prima rispetto alla seconda;

-una prospettiva di razionalizzazione e "democratizzazio-ne" della società esistente;

-una prospettiva di trasformazione dei rapporti interna-zionali, soprattutto tramite le organiz7.azioni esistenti (tra ledue guerre, la Società delle nazioni e, attualmente, le Nazioniunite), allo scopo di ridurre gli armamenti e garantire la pa-ce, senza per questo mettere in discussione gli orientamentidi fondo della politica estera dei rispettivi paesi;- una concezione di costruzione e consolidamento delmovimento operaio in funzione del peso nelle istituzioni e inconvergenza con l'azione di sindacati impegnati nella coge-stione e di cooperative rispettose dei meccanismi del siste-ma;

- una concezione per cui il partito funziona sempre di piùcome uno strumento elettorale e le scelte del movimentooperaio sono decise non tanto dai militanti organizzati quan-to dai vari centri o gruppi di pressione (gruppi parlamentari,amministrazioni locali, gruppi dirigenti dei sindacati e dellecooperative, intellettuali organizzatori della cultura ecc.).

I partiti socialdemocratici hanno stabilito e mantenutotradizionalmente legami molteplici con vasti strati della so-cietà. Ma la loro debolezza intrinseca è consistita nel fattoche la rappresentanza di questi strati è stata esercitata setto-rialmente e parzialmente, nei casi peggiori in forme addirit-tura corporative.

Questa è la conseguenza di un'ottica di adattamento allasocietà esistente e di abbandono di ogni impostazione antica-pitalistica. Proprio per questo, se le socialdemocrazie hannoavuto e hanno tuttora un peso considerevole e un ruolo ege-monico in molti paesi dell'Europa capitalistica, se hannosvolto un'innegabile funzione nella conduzione di battaglieche hanno consentito loro di strappare conquiste parziali a

-una concezione gradualistica della transizione verso unanuova società (sinché questa prospettiva finale viene mante-nuta);

- una concezione metastorica della democrazia (la demo-crazia come valore universale permanente, al di là delle for-me storiche concrete di società) e un'accettazione, in praticae in teoria, del quadro esistente delle democrazie parlamen-tari o presidenziali capitalistiche;

-una strategia di conquiste parziali da conseguire combi-

8 Dirigenti del Pci si sono preoccupati a più riprese di definire ladifferenza tra Pci e partiti socialdemocratici. Il piÙ delle volte si è trattato didefinizioni mutevoli e del tutto parziali, se non fittizie. Nel settembre 1978Berlinguer ha affermato che «il tratto comune delle socialdemocrazie restache rinunciano a lottare per uscire dal capitalismo e per trasformare le basidella società in senso socialista» e circa due anni dopo, in una intervista aRepubblica ha s{>iegato che «i socialdemocratici si sono preoccupati moltodegli operai, del lavoratori organizzati nei sindacati, ma poco o nulla deimarginali, dei sottoproletari e delle donne". Quanto alla terza via e allaterza fase, ecco come lo stesso Berlinguer ne ha illustrato la differenza nelgennaio 1982: «Terza via è una specifica posizione in rapporto ai modelli ditipo sovietico da una parte e alle esperienze di tipo socialdemocraticodall'altra. La formulazIOne terza fase si riferisce, Invece, all'esperienzastorica e, dunque, alle due precedenti fasi di sviluppo conosciuto eattraversato dal movimento operaio europeo. E' pero evidente che laricerca della terza via non sarebbe possibile se non ci fosse una terza fase ese noi non ritenessimo possibile avanzare su di essa». Dove si vede come sipossa dare l'impressione di un tutto coerente combinando a una prima unaseconda cscogitazione.

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Un paradosso storico

Da un lato, infatti, il sistema capitalistico mondiale -gra-zie anche al fatto che le orgllni7'7-azionioperaie più forti ri-nunciavano a contestarlo e gli consentivano di superare in-denne i momenti critici (come la crisi dell'immediatodopoguerra e quella del 1968-75) - riusciva prima ad acqui-stare un nuovo dinamismo con l'onda lunga ascendente dicirca un quarto di secolo, poi a vincere in larga misura la bat-taglia delle ristrutturazioni nella prima metà degli anni '80,assicurando cosi una relativa stabilità istituzionale ai paesiindustrializzati dell'Europa occidentale e dell'America delNord, oltre che al Giappone.

Dall'altro, le società di transizione burocratizzate, incapa-ci di introdurre riforme sostanziali, entravano in una fase incui le loro direzioni diventavano un freno assoluto e non piùrelativo alla crescita e all'orgllni7'7.a7ionedelle forze produtti-ve e le loro istituzioni erano in rotta di collisione con i biso-gni e le aspirazioni di strati crescenti della società, motivoper cui si avviavano rapidamente verso un catastrofico decli-no.

Tutto questo non poteva non avere profonde ripercussio-ni sull'azione e sulla presa di coscienza della stessa classe la-voratrice e sulle sue orgllni7'7.a7ionipolitiche e sindacali, so-prattutto se si tiene conto che le controtendenze nonriuscivano, tranne che per br;eviperiodi e anche allora par-zialmente, ad affermarsi e a consolidarsi (il rapido declinodelle formazioni di estrema sinistra degli anni '60 e '70 era unriflesso di questo limite). E non poteva che rafforzare la ten-denza del Pci ad avvicinarsi e poi a identificarsi alle socialde-mocrazie, tendenza la cui prima origine - lo abbiamo visto -risaliva alla svolta del 1935.

Ma, se vogliamo usare questa espressione, il paradossostorico consiste nel fatto che il Partito comunista si trasformain un partito di tipo socialdemocratico in un' epoca in cui lepiù grosse e rappresentative socialdemocrazie sono cosa ben

vantaggio delle forze sociali su cui si appoggiano, hanno avu-to la responsabilità di sconfitte decisive di queste stesse for-ze.

Già alla metà degli anni '60 era chiaro che il Pci operavasempre di più come un partito neoriformistic, inserito nelquadro istituzionale, con una prospettiva prevalentementeelettorale, e puntava essenzialmente sul rafforzamento distrumenti tradizionali come le ~mmini!:trazionilocali, i sinda-cati e le cooperative. Era nella logica di una simile evoluzio-ne che la percentuale degli iscritti si restringesse rispetto aquella degli elettori; che l'adesione non comportasse un co-stante impegno militante, ma solo una partecipazione limita-ta a certe occasioni; che il peso degli elementi piccolo-bor-ghesi e degli intellettuali soverchiasse quello degli operai edegli altri iscritti di estrazione popolare; che l'attività nelle.fabbriche non andasse. al di là delle campagne elettorali odell'appoggio a certe lotte sindacali; che i giovani costituisse-ro una componente sempre più marginale, in una organizza-zione priva di ogni carica ideale in senso anche solo generi-camente rivoluzionario. A maggior ragione, questo identikitda partito socialdemocratico è applicabile al Pci della rmedegli anni '70 e della prima metà degli anni '80.

Questa trasformazione, di cui abbiamo indicato le radicistrutturali, al di là delle scelte soggettive dei gruppi dirigenti,va situata più concretamente in un evolvere della situazionenazionale e internazionale che, per molti aspetti, non era fa-cile ipotizzare non solo alla fine della guerra, ma neppure al-la fine degli anni '50.

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diversa da quello che erano state alloro apogeo. Partiti so-cialdemocratici "storici" - anche se troppi tendono oggi aignorarlo o a dimenticarlo - avevano già assolto un ruolo disalvatori del sistema capitalistico in momenti critici del pri-mo dopoguerra e, tra le due guerre, per riprendere l'espres-sione del Léon Blum del fronte popolare, avevano gestito le-almente il capitalismo come ministri e capi del governo.

Ma la novità degli ultimi decenni, anticipata, per ragionispecifiche, dalla socialdemocrazia svedese, è che partiti so-cialdemocratici hanno assunto la direzione di paesi capitali-stici per periodi prolungati e, in certi casi, sono divenuti ad-dirittura lo strumento principale di gestione del sistema. E' ilcaso dello Stato spagnolo, dove dall'inizio degli anni '80 laborghesia non è stata in grado di esprimere un proprio parti-to egemone e si è affidata, non a torto dal suo punto di vista,al Psoe di Felipe Gonzalez, e, in misura diversa, della Fran-cia, diretta da dieci anni da un presidente socialista.

Si è avuto così, in primo luogo, un mutamento della stessacomposizione sociale di questi partiti: sono ancora in grandemaggioranza lavoratori salariati i loro elettori, ma non i loroiscritti e ancora meno i loro quadri, e i loro gruppi dirigentisono in stragrande maggioranza di origine piccolo-borghese,se non addirittura borghese. In secondo luogo - cosa ancorapiù importante - questi partiti si sono invischiati sempre piùinestricabilmente negli apparati statali e IImministrativi co-me pure negli organismi economici, pubblici e privati (non èaffatto vero che questa sia una prerogativa solo del Psi cra-xiano).

Così la loro contraddizione principale si è venuta configu-rando in termini diversi: da una lato, se non vogliono smarri-re completamente la loro identità e perdere la loro base so-ciale - o più volgarmente la loro clientela elettorale - nonpossono ignorare del tutto gli interessi e le rivendicazionidella classe operaia, di altri strati popolari e di settori picco-

lo-borghesi colpiti, direttamente o indirettamente, dall' ondalunga di ristagno; dall'altro, come gerenti del potere o candi-dati "responsabili" a questa gestione, accettano un quadro dicompatibilità sempre più rigido, impegnandosi a imporre ailoro stessi elettori il fardello delle politiche di costanti ri-strutturazioni, di forsennate centralizzazioni e concentrazionie di austerità (naturalmente a senso unico).

Il Pci non è ancora investito in pieno da questa contraddi-zione per il fatto stesso di essere stato escluso dal governodall'ormai lontano 1947. La sua contraddizione è consistitanel fatto di avere avanzato per decenni una sua prospettivariformista senza essere in grado di tradurla in pratica (e la-sciando al Psi la possibilità di apparire più concreto, appuntoperché giudicato maggiormente in grado di ottenere qualchesia pur modesta misura riformista).

Ma ha cominciato a pagare a sua volta il prezzo della suaimpostazione soprattutto al momento dell'unità nazionale,quando ha appoggiato governi democristiani e si è assunto,in prima persona o tramite i suoi esponenti sindacali, un ruo-lo di freno delle lotte, facendo propria la politica di austerità.Dopo l'abbandono dell'unità nazionale, non ha mutato quali-tativamente il suo atteggiamento, nella misura in cui vuoleapparire come candidato credibile alla gestione del governo,disposto a rispettare compatibilità - e incompatibilità - delregime esistente. In questo senso, è investito a sua volta dallacontraddizione tipica della socialdemocrazia contempora-nea, smarrendo, ancor più dei socialdemocratici, la propriaidentità.

E' in questo contesto che, sotto l'impatto degli aweni-menti internazionali del 1989,Achille Occhetto si è lanciatonel suo giuoco d'azzardo, aprendo la crisi più grave dellalunga storia del partito.

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4. ERANO POSSmU..ISCELTE ALTERNATIVE?

In un momento critico per il futuro dell'attuale partito co-munista e, più in generale, del movimento operaio, ci si puòporre legittimamente la domanda: le scelte che sono statefatte, nazionalmente e internazionalmente, nel corso di set-tant' anni, erano le uniche possibili, oppure se ne sarebberopotute fare delle altre ottenendo risultati ben diversi?

Diciamo subito che non acccettiamo la classica obiezione:la storia non si fa coi "se" e riscriverla sulla base di ipotesinon verificabili è un'operazione perfettamente oziosa. Dalpunto di vista politico, accettare che tutto quello che è acca-duto dovesse inevitabilmente accadere significa aderire a unasorta di fatalismo giustificazionistico e precludersi ogni pos-sibiltà di riflessione critica e autocritica. Ma l'obiezione nonregge neppure dal punto di vista storico.

E' sin tropo ovvio che una ricostruzione storica deve pre-occuparsi soprattutto di cogliere gli awenimenti nella lorointima connessione, di spiegame la genesi e di individuamela dinamica. Ma questo non significa ignorare che, in situa-zioni date, esistono sviluppi possibili diversi, diverse poten-zialità, di cui una ricostruzione esauriente non può non tene-re conto se si vogliono analizzare le situazioni in tutti i loroaspetti e, ancor più, valutare protagonisti il cui agire non erameccanicisticamente predeterminato.

Questo problema di metodo si è posto per quanto riguar-da l'evoluzione dell'Unione Sovietica a partire dalla metà de-

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gli anni '20 e per l'insieme del movimento internazionale co-munista. Noi abbiamo sempre rifiutato, partendo da indica-zioni analitiche concrete e con concrete argomentazioni, l'i-dea secondo cui la burocratizzazione era inevitabile, da cuipuò logicamente discendere una giustificazione dello stalini-1smo.

Respingiamo egualmente una interpretazione analoga nelcaso specifico del Pci e, più in generale, del movimento ope-raio italiano.

Notiamo che dirigenti di questo partito hanno ventilato apiù riprese l'ipotesi di un corso diverso degli awenimenti,qualora scelte diverse fossero state fatte da parte di forze chevi erano coinvolte. Per es., nella sua Intervista sull'antifasci-smo2, Giorgio Amendola, riferendosi alla situazione alla vigi-lia dell'awento del fascismo, non si è peritato di affermare:

«Se le forze del movimento operaio avessero avuto la capacità difare una politica di unità con le forze democratiche; se avesserofavorito la formazione di un governo Nitti, è evidente che si potevafare qualche altra cosa» (p. 47).

Secondo esempio: parlando delle possibilità esistenti allafine della guerra e in particolare della politica di De Gasperi,Togliatti ha scritto:

«La grande borghesia possidente, lasciata a sé non potevaricostruire se non in quel modo, perché questo corrispondeva allasua natura di c1a;se. Ma era possibile ottenere che si procedesse in. modo diverso'?» .

La risposta è che era possibile che una parte importantedelle classi dominanti si alleasse con i partiti operai e impe-disse alla grande borghesia di fare il buono e il cattivo tempo.

1 Per quanto ci riguarda, abbiamo affrontato questa tematica in varieintroduzioni a edizioni italiane delle opere di Trotsky, oltre che, peresempio, in Irotsky, oggi, Einaudi, Torino, 1958e in Destino di Irockij, cito2 Laterza, Bari, 1976.3 Rinascita, ottobre 1955.

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Non aver fatto questa scelta è stato, secondo Togliatti, l'erro-re di De Gasperi. Tale motivo era stato avanzato già nell'a-gosto del '46 in un articolo, già citato e su cui ritorneremo,nel quale si parlava di due «prospettive possibili» della poli-tica di blocco antifascista4.

Ancor più interessante è ricordare che la linea definitadal gruppo dirigente comunista è stata contestata in varie oc-casioni e a vari livelli e che sono state proposte o abbozzatescelte diverse, anche se non diametralmente opposte.

Non ritorneremo qui su episodi noti e già richiamati co-me le opposizioni e le resistenze manifestatesi al momentodella svolta del 1929-30, che avevano coinvolto non solo tremembri dell'Ufficio politico -Pietro Tresso, Alfonso Leonet-ti e Paolo Ravazzoli - ma lo stesso Antonio Gramsci e altridirigenti, allora nelle carceri fasciste, come Umberto Terra-ClDJ.

Critiche e opposizioni vi sono state anche in seguito alPatto russo-tedescco del '39, che aveva creato il più profon-do smarrimento nelle file del partito. Terracini aveva assuntodi nuovo una posizione critica, che gli era costata - parados-salmente quando l'U rss era già stata attaccata dai nazisti -l'espulsione dal pàrtito.

Più pertinente, nel quadro di questo saggio, ci sembra unrichiamo alle resistenze, alle critiche e alle vere e proprie op-posizioni emerse tra il 1943 e il 1945 e, per certi aspetti, nelperiodo successivo.

L'unità antifascista: riseIVe e opposizioni

La politica di unità antifascista aveva sollevato obiezioni erigetti già prima del 25 lugli05. La stessa politica di collabo-razione con gli altri partiti nei Comitati di liberazione nazio-nale (Cln) durante la resistenza non è stata accettata senzaopposizioni ed è stata oggetto di diverse interpretazioni. Ciòavveniva non solo tra militanti di base, vecchi e nuovi, ma al-lo stesso livello di direzione, con una differenziazione tra ilnucleo installato nel Centro-Sud e il nucleo del Nord, più di-rettamente legato alla resistenza e al movimento partigiano.

Amendola cerca di individuare un comune denominatoredi questi atteggiamenti, indicando una sorta di «sovrapposi~zione, non criticamente meditata, della linea di unità nazio-nale elaborata dall'le a partire dal VII Congresso sulla vec-chia visione di un'azione diretta per l'instaurazione delladittatura del proletariato» 6.L'osservazione ci sembra sostan-zialmente giusta, come è giusta la valutazione delle differen-ziazioni a proposito del ruolo dei Cln

All'impostazione di chi accettava una limitazione di que-sto ruolo all'elaborazione e all'applicazione di una politicacomune a tutti i partiti che vi appartenevano, si contrappone-va l'idea che bisognava puntare sulla presenza determinantenei Cln stessi delle organizzazioni di massa o espresse dallabase, con lo scopo di «assicurare una reale egemonia dellacla6se operaia».

4 Al metodo di giudicare l'opera di protagonisti tenendo conto dialternative possibili, fa ricorso anche Giulio Andreotti a proposito di DeGasperi: «Se fosse mancata allora una collaborazione tra Dc e Pei possiamodire che l'Italia avrebbe avuto o un dominio di quest'ultimo o il protrarsiper almeno un decennio dell'occupazione militare» (De Gasperi e il suotempo, Milano, 1956).

5 Per resistenze alla base, si veda quanto scrive, per esempio, P. Spriano(op. ciL, vol. IV, p. 225). Lo stesso autore riferisce di rcticenze o criticheaperte al1a prospettiva di col1aborazione nazionale, in particolare aproposito di un messaggio radiofonico di Togliatti (op. cit, voI. V, pp.121-123 e 133-131). In certe regioni meridionali, non pochi militantiavevano considerato un tradimento la nuova linea del partito (v. interventodi Velio Spano al V Congresso).6 G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma, 1974,p.109.

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«Spinta alIe sue estreme conseguenze -scrive Amendola - questalinea, pur giusta nelIe sue premesse democratiche, portava tuttaviaalIa rottura dei On, e a una contrapposizione col governo di Romae con gli alIeati. Era una linea che si muoveva nella direzioneindicata dagli Jugoslavi. E l'esempio jugoslavo era motivoricorrente di discussione fra di noi» (pp. 340-341).

Per parte sua, Spriano parla di una linea Longo-Secchia,secondo cui si sarebbe dovuto «fare dei Cln organismi di po-tere operaio», «accentuarne le caratteristiche democratichee trasfromare il criterio di rappresentanza paritetica in quel-lo della rappresentanza sulla base di una direzione effettivadelle masse». Lo scopo doveva essere, in ultima analisi, «lapresa del potere» da parte della resistenza prima dell'arrivodegli eserciti alleati. Ciò sarebbe stato decisivo per l'indirizzopolitico e lo sviluppo futuro del popolo italiano»7.

Correnti o sensibilità di opposizione alla linea di unità an-tisfascista e di collaborazione con i partiti della borghesia so-no emerse a più riprese nel Partito socialista8. Prima dei 45giorni era esistito addirittura un movimento separato, ilMup9, in cui avevano una parte preminente uomini come Le-

lio Basso, Lu~lULUU..i:tllu\..Lurrado Bonfantini. Ma anchedopo la confluenza del Mup nel partito unificato, denomina-to appunto Psiup, alcuni mantenevano la loro opposizione.Lelio Basso usciva addirittura dal partito, su posizioni per al-cuni aspetti simili a quelle del movimento romano di Bandie-ra Rossa.

Per quanto riguarda più direttamente l'area del Pci, grup-pi e movimenti in aperta dissidenza sorgevano in varie città.Per esempio, a Torino, era attivo dall'inizio del '43 il gruppoStella Rossa, che ha avuto a un certo momento 2.000 aderen-ti (contro i 5.000 della Federazione comunista)10. Un altrogruppo si formava a Legnano attorno a Mauro e Carlo Vene-

goni, mentre a Napoli si organizzava nersino, per un breveperiodo, una Federazione concorrente .

Ma il fenomeno più rilevante è stato quello della forma-zione a Roma del Movimento comunista d'Italia (BandieraRossa). Fondato durante i 45 giorni in seguito alla fusione divari gruppi preesistenti, questo movimento ha conquistatosubito una larga influenza nelle borgate e, alla fine del '43,contava probabilmente un numero di militanti superiore aquello della Federazione del Pci, che aveva 1.700-1.800iscrit-ti (il suo giornale avrebbe tirato più de l'Unità). Alla libera-zione di Roma sarebbe arrivato ad avere addirittura 6.000iscritti, di cui 1.000nella sola borgata di Torpignattara12.

Il motivo ispiratore comune di questi gruppi o movimentiera il rifiuto della politica di unità nazionale, accompagnato

7 P. Spriano, op. cit., voI. V, pp. 372-373.8 E' sotto l'influenza di elementi di sinistra che il Psiup ai primi di ottobredel '43 si pronunciava contro la colIaborazione con i partitI borgltesi e perun «saldo blocco di forze incrolIabilmente repubblicane» e criticava i«compromessi colIaborazionistici e patriottardi del Pci».9 In un articolo del primo agosto '43 Basso definiva in questi termini laconcezione del Mup sul partito nuovo da costruire: <<I)essere libero dalpeso delIe vecchie tradizioni, pur senza rinnegarle, del Psi; 2) esserecostruito democraticamente dal basso; 3) lottare per una soluzionesocialista su scala europea; 4) lottare per la conquista inte~\'Itle del poterepolitico distruggendo l'apparato borgltese; 5) considerarsI membro delIanuova Internazionale che sarebbe sorta dalIe rovine della Seconda e dellaTerza internazionale; 6) superando la limitazione del movimento socialistacome organizzamone del proletariato industriale, dovrà organizzare tutte leforze del lavoro (operai, contadini, tecnici, impiegati, professionisti eintellettuali, che sono sfruttati dal capitalismo e non sfruttano il lavoroaltrui»> (Cfr. P. Spriano, op. cit., voI.V, p. 233).

lO Cfr., oltre che P. Spriano (op. cit, voI. IV, p. 145), il libro di RaimondoLuraglti, il movimento operaio torinese durante lo resistenza, Einaudi, Torino1958, passim.11 Questa federazione era sorta in contrapposizione ai funzionari centrali ei suoi animatori -tra i quali Enrico Russo, Ennio e Libero Villone,MarioPalermo - erano contro l'alleanza con i partiti borgJtesi e per unfunzionamento democratico del partito.12 Cfr. Silverio Corvisieri, Bandiera Rossa nella resistenza romana, Samonàe SaveIli, Roma 1968.

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dall'esigenza di un funzionamemto democratico del partito.Nelle loro fIle si univano vecchi militanti, formati alla scuoladegli anni '20 e '30, e giovani, per cui l'opposizione al fasci-smo assumeva contemporaneamente la dimensione di unalotta contro la società capitalista. Erano alimentati non soloo non tanto da una differenziazione sul piano ideologico,quanto dalle conseguenze pratiche della scelta del partito. Illoro tallone di Achille era l'assenza di una visione strategicacomplessiva, dovuta, in sostanza, a un'analisi sbagliata dell'e-voluzione del Pci e soprattutto della politica dell'Unione So-vietica.

Il caso più chiaro è quello di Bandiera Rossa che, pur la-sciando trasparire a volte qualche motivo vagamente trotski-steggiante, si rifaceva all'Urss come paese del socialismo eallo stesso Stalin senza nessuna riflessione critica. Peggio: incerti casi rimproverava al Pci e a Togliatti di essere in con-trasto con gli orientamenti dei dirigenti sovietici, che avreb-b lin

.1 ' .13

ero prospettato una ea nvo UZlOnana .Vale la pena di ricordare che la tesi secondo cui la linea

del Pci sarebbe stata in contrasto con quella del Pcus e diStalin è stata parzialmente riesumata negli anni '50 dal grup-po, esso pure effimero, di Azione comunista.

A proposito della posizione di Stalin, un episodio signifi-cativo: durante una visita a Mosca, Secchia aveva espressodinnanzi a lui alcuni apprezzamenti critici sulla linea applica-ta dal partito, ma con risultato negativo. Infatti, Stalin si di-chiarava esplicitamente d'accordo con Togliatti.

E' questa fondamentale inconsistenza che rendeva inevi-tabilmente precaria l'esistenza di questi gruppi e finiva per

ondannarli a una rapida sparizione: tanto più che il Partitocomunista, dopo averli attaccatti, il più delle volte, nel piùclassico stile staliniano, accusandoli di essere agenti del ne-mico, manovrava abilmente per recuperarli14.

Una considerazione analoga vale per un personaggio permolti versi singolare come Lelio Basso, che ha alternato criti-che sia alle posizioni del Pci, sia a impostazioni staliniane,aun'accettazione opportunistica delle une e delle altre, che,all'inizio degli anni '50, lo ha condotto persino a giustificarele condanne di processi infami come quello contro Léiszl6Rajk. Circa quindici anni dopo, Basso riprendeva sostanzial-mente il suo giudizio del '43-44, parlando di una «vera occa-sione storica mancata», e aggiungendo:

«La posta in giuoco era grossa: si trattava, in ultima istanza, didecidere se l'Italia postbellica avrebbe dovuto veramente essere"nuova" e quindi In rottura con il precedente ordinamentomonarchico-fascista, costruita dal basso sulla base della volontà edell'iniziativa popolare liberamente esplicantesi, o se viceversaavrebbe dovuto esprimersi su una linea di continuitàgiuridico-politica con il vecchio Stato, e quindi legittimando tutto ilpassato e risolvendosi di fatto nella restaurazione dall'alto. Lesinistre finirono per sacrificare allo sfono bellico ogni altraesigenza, accettando tutta una serie di compromessi successivi, chefacilitarono la restaurazione delle vecchie strutture e delle vecchiefone sociali». La responsabilità di tutt~ questo incombevasoprattutto sulla «famosa svolta di Togliatti» .

Si può accettare la valutazione critica come punto di par-tenza, ma, come si vede, il discorso sull'alternativa è tutt'altroc]te preciso e, comunque, non rimette in discussione la sceltafondamentale dell'inserimento nel quadro del sistema. Lastessa ambiguità persisterà, mutatis mutandis, nelle posizioni

13 Cfr. per esempio, gli articoli comparsi su Bandiera Rossa e la risoluzionedel Convegno di Napoli (gennaio 1945), che proclamava l'identitàLenin-Stalin e accusava Togliatti di non applicare la linea del «comunismointernazionale e di Stalin» (cfr. anche l'opuscolo La via maestra, deldicembre 1944).

14 Il grosso del Movimento comunista d'Italia si scioglie nel 1947, entrandoin maggioranza nel Pci (nel quale, però, alcuni dei suoi dirigenti nonsaranno accettati). Un piccolo gruppo si è mantenuto fino al 1949. Unodegli esponenti più noti, Francesco Cretara, doveva aderire più tardi allaQuarta Internazionale.15 L Basso, Il Psi, Nuova Accademia, Milano, 1958, p. 248.

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che Basso assumerà più tardi sui problemi della strategia. 16operata .

Orientamenti che vanno in direzione analoga a quelladelle posizioni già menzionate sono state formulate da Ro-dolfo Morandi, che le ha sintetizzate in particolare in un arti-colo comparso nei giorni della liberazione. Affrontando asua volta il problema del ruolo dei Cln, Morandi scriveva:

«L'autorità suprema dello Stato non può essere oggirappresentata ed espre~ che da una conferenza generale deiComitati di liberazione» .

E successivamente doveva impostare la prospettiva diquelle che si chiamavano allora le "riforme di struttura", intermini ben diversi da quelli prevalenti: secondo lui, questeriforme dovevano essere concepite come «guida di un'azioned'urto e altrettante forme di frattura del sistema». Ma questeenunciazioni subivano la stessa sorte di altre: restavano cioèaccenni, indicazioni molto generali, senza alcuna concretiz-zazione o senza inserirsi in una critica più generaIe dell'azio-ne del movimento operaio nazionale e internazionale.

Pietro Secchia e Umberto Terracini

Tra coloro che hanno prospettato, a scadenze importanti,impostazioni e orientamenti diversi da quelli della maggio-ranza del gruppo dirigente, merita di essere ricordato PietroSecchia.

Il fatto che le sue posizioni critiche siano state esplicitate

16 A questo proposito, si veda la nostra valutazione critica in n movimentooperaio in una fase critka, cit., pp. 141-146.17 Avanti, 28 aprile 1945.

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Isolo in sede storica, quando Secchia era stato da tempoemarginato, non ne sminuisce la portata intrinseca, soprat-tutto dal punto di vista che qui ci interessa.

Secchia aveva assunto una posizione particolare già allafine degli anni '20, quando, assieme a Longo, aveva rappre-sentato una "tendenza" di giovani che respingevano una cor-rezione di linea giud,icata opportunista: contro l'adozionedella parola d'ordine dell'Assemblea costituente erano favo-revoli a mantenere quella precedente di "rivoluzione popola-re per un governo operaio e contadino".

E' partendo da questa critica che Secchia accettava conentusiasmo la "svolta", di cui poteva considerars~ almeno inparte, un precursore. L'accentuazione che ne dava e l'inter-pretazione difesa a spada tratta anche quarant'anni dopoavevano una tonalità particolare: secondo lui, l'essenziale erache il partito impegnasse di nuovo il massimo delle sue forzenella costruzione all'interno del paese e soprattutto da que-sto punto di vista gli sembrava condannabile la critica deglioppositori (a nostra conoscenza, ha sempre sorvolato sul fat-to che tra questi andavano annoverati molti detenuti e lostesso Antonio Gramsci)18.

Il suo giudizio coincideva, dunque, in larga misura, conquello di Giorgio Amendola, che, pur riconoscendo l'erro-neità dell'analisi che era stata fatta e il non raggiungimentodei risultati sperati, ha giustificato anche nel suo libro del1978 la condanna dei "tre", giudicando la svolta feconda perla.successiva crescita del partito.

Esempio da manuale di quel giustificazionismo di cuiAmendola è stato uno dei campioni, anche quando si era as-sunto la parte - in larga misura illusionistica - dell'iconocla-

18 Secondo Terracini, la prospettiva di un possibile ritorno al «metododemocratico», cioè di una prospettiva opposta a quella della svolta, «erapacifica nelle idee comuni degli ospiti di Regina Coeli».

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sta, deciso a infrangere tabù tradizionali e a sollevare que-stioni che altri preferivano evitarel9.

In più occasioni, Secchia è ritornato sulla situazione nel-l'ultima fase della guerra e nell'immediato dopoguerra. E'soprattutto a proposito in quel periodo che, secondo lui, ilpartito avrebbe potuto e dovuto assumere una linea diversada quella effettivamente assunta.

«Non penso affatto - scrive per esempio nel 1958 -che nel 1945 sipotesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era occupato daglianglo-americani ecc. Condivido pienamente l'analisi fatta dalpartito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto. Ma si trattavadi puntare di più sui movimenti di massa, di difenderemaggiormente certe posizioni e di fare qualcosa di serio e dipositivo quando eravamo al governo. Inoltre gli anglo-americani aun certo momento se ne sareb}3ero andati e noi avremmo dovutopuntare maggiormente i piedi» .

E in uno scritto del 1971 precisa:

«Già nel corso della resistenza ed in particolare alla vigiliadell'insurrezione il contrasto tra il Pci, le forze di sinistra e quellemoderate s'era manifestato in pieno, chiaramente, specienell'assetto da darsi allo Stato, sul tipo di democrazia da attuare.L'attacco ai Cln, quali nuovi organismi di potere, quali pilastriportanti della nuova democrazia, fu deciso e netto e dopo laliberazione non trovò adeguata risposta ed energica difesa neppureda parte nostra. Si cedette di fronte al ricatto, mancò la fiducianella possibilità di gettare le fondamenta di un nuovo Stato, dicreare uno Stato che non fosse quello prefascista;2~i ebbe timoredello scontro e del profilarsi della situazIOne greca» .

La stessa valutazione è espressa, anche se in termini piùproblematici, in un altro testo:

«Si tratta di esaminare se con opera più decisa e più ampie lotteunitarie delle masse lavoratrici non era possibile Impedire quellache poi si è chiamata la "restaurazione del capitalismo", il ritorno aldominio dei gruppi monopolisti e dei grandi industriali, se non erapossibile un'azione unitaria più decisa e conseguente per portareavanti il rinnovamento economico, politico e sociale del paese, perriformare le sue strutture e realizzare un rc~ime di verademocrazia. Ed è in questo senso che tutti i partiti antifascisti,nessuno escluso, dovrebbero approfondire lo studio con unospirito autocritico che :ù'rescinda, per quanto possibile, dalpatriottismo di partito...» .

Un errore particolarmente grave, all'origine di «moltedebolezze», sarebbe stato, sempre secondo Secchia,

<d'aver considerato la Dc un partito democratico-popolarerappresentante gli interessi dei contadini, dei ceti medi e delleclassi lavoratrici. Che la Dc avesse una base ed una influenza dimassa non cambia fondamentalmente il carattere, la natura diclasse e la ~unzlpne che ha assolto da dopo la liberazione in poiquesto partito» .

Un altro motivo della critica sccchiana riguarda l'impo-stazione delle lotte operaie. Così, riferendosi al periodo1947-1948,Secchia ritiene che

19 Amendola si è avventurato nella stesura di una storia del Partitocomunista che, c'è appena bisogno di dirlo, non regge neppurelontanamente al confronto con quella di Spriano. Proprio in questo libro, èdel tutto trasparente il suo giustificazionismo anche per quanto riguarda lostalinismo (nel 1978!). Scandalosa la giustificazione dei processi di Mosca,che, secondo l'autore, «non intaccarono l'autorità di Stalin, se egli poté, conuna decisione personale, promuovere una così rapida concentrazione divolontà per il raggiungi mento dell'obiettivo che aveva indicato» (op. ciL, p.307).20 Archivio Secchia cit., p. 192.21 P. Secchia, il PCI e la guerra di liberazione, 1943-1945, Annali Feltrinelli,Milano, 1971, p. 581.

«nella politica sindacale e di mobilitazione delle larghe masse -sl?e~i.e2.figrandicentri industriali-si sarebbe potuto e dovuto farediplu» .E altrove scrive: «Non v'è dubbio che vi è stato un ritardo neldifendere con ampie IRtte generali le commissioni interne e lalibertà nelle fabbriche» .

Altri rilievi toccano punti più specifici. Per esempio, Sec-chia non è d'accordo sul voto del Pci favorevole all'elezione

22 Ibid., p. 1061.23 Archivio Secchia cit., p. 583.24 Ibid., p. 427.25 Ibid., p. 268.

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alla presidenza di Giovanni Gronchi nel 1955e non nascondeil suo scetticismo sulla parola d'ordine del controllo demo-cratico dei monopoli26.Al momento della lotta contro la leg-ge elettorale truffaldina (1953) critica l'atteggiamento, a suomodo di vedere, troppo moderato di Togliatti, che avrebberivelato «ancora una volta una concezione parlamentaristi-ca»Zl.

Si tratta, complessivamente, di critiche non irrilevanti,mosse sistematicamente, per così dire, da sinistra. Ma rap-presentano, in realtà, più che una vera e propria alternativa,un progetto di applicazione più dura, meno conciliante, dellastrategia complessiva del periodo considerato. Ciò è confer-mato senza possibilità di equivoci dal fatto che Secchia si di-chiara d'accordo sull'obiettivo centrale, la "democrazia pro-gressiva", sia pure, ripetiamolo, in una versione più radicale.

anche dopo il XX Congresso, non si è peritato di scrivereche l'Urss

«deve essere al centro del movimento comunista, perché, ci piacciao no, per la funzione che obiettivamente assolve, l'Unione Sovieticaè alla testa, all'avanguardia del mondo socialista".

Contemporaneamente, ha continuato a difendere unaconcezione, in ultima analis~ staliniana dell'unità del movi-mento comunista29.

Abbiamo accennato alle posizioni di Umberto Terracininel 1929-30e in occasione del Patto russo-tedesco del 193930.In un suo documento dell'autunno 1941, Terracini delineavaper il periodo che avrebbe seguito la sconfitta del fascismouna prospettiva diversa da quella abbozzata già allora daipartiti comunisti:

«Lo sbocco della resistenza - scrive - non poteva essere ilsocialismo, ma doveva essere una democrazia nuova, progressiva,con le nuove istituzioni direttamente rappresentative delle massepopolari, con quegli o~anismi di potere che in parte erano già sortidurante la resistenza» .

«E' da 'prevedersi che in un tale quadro (specialmente nei paesisconfitti, Germania ed Italia, nei quali la disfatta in se stessa -prima ancora dell'effettivo affermarsi di una nuova autorità -spezzando l'apparato compressore della dittatura darà l'avvio adun tumultuoso processo di riorganizzazione di vecchi e nuoviraggruppamenti politici), è da prevedersi che la lotta politica sisvilupperà con ritmo accelerato, determinando una polarizzazionedi forze progressivamente accelerata verso posizioni inconciliabili,quelle stesse forze inizialmente e confusamente riunite su unaprimordiale piattaforma democratica. E maturerà, forse in pochimesi, una situazione rivoluzionaria, capace di respingere ancora

Ma il limite di Secchia consiste non tanto e non solo nelsuo modo di affrontare i problemi strategici sul piano nazio-nale, quanto nel non avere mai fatto, neppure negli ultimi an-ni della sua vita, i conti con lo stalinismo. Per quanto riguar-da gli anni '30, per esempio, non ha mai rettificato in alcunmodo gli argomenti con cui aveva giustificato allora l'accetta-zione dei processi di Mosca, né si è sforzato di cogliere le ra-dici e la dinamica degli avvenimenti nell'Urss. Peggio ancora:

29 Op. cit, p. 429. E' singolare che nello stesso periodo in cui scriveva ilpasso citato, Secchia facesse riferimento a Cours Nouveau di Trotsky aproposito del «problema di rigenerazioni e di rinnovamento dei partiticOl)1unisti» (p. 434). In precedenza aveva citato passi da 1905 e da Larivoluzione tradita dello stesso autore (pp. 300-301).30 Le posizioni di Terracini sono illustrate soprattutto in due suoi libri, Lasvolta, La Pietra, Milano, 1975, e Al bando del panito, La Pietra, Milano,1976. A pro.I?0sito del Patto russo- tedesco, Terracini insisteva sul fatto chebisognava dIStinguere tra le legittime esigenze dell'Urss come Stato e gliorientamenti del movimento comunista internazionale. Più tardi sosteneva,contro la tesi ufficiale, che per i paesi capitalistici la guerra restava unaguerra imperialista, nonostante l'interesse che l'Urss aveva a stabilireun'alleanza con loro.

26 Ibid., pp. 267 e 269.27 1bid., p. 237.28 Ibid., p. 585. A nostra conoscenza, neppure successivamente Secchia harimesso in discussione la linea generale del partito. Le riserve espresse -con cautela e più indirettamente che direttamente - sulla via italiana alsocialismo appaiono tutt'al più ideologiche, senza implicazioni sul pianodella strategia politica.

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una volta i partiti borghesi all'aperta reazione. Ma allora il risultatodella lotta dipenderà dalla capacità delle forze rivoluzionarie, dalmodo col quale avranno saputo sfruttare il rapido tempo di libertà,dall'abilità con la quale avraW10 saputo manovrare tatticamentenella fluidità della situazione» .

e dello scioglimento del Partito comunista polacco e sostene-va in un articolo che il Pci doveva adoperarsi per eliminare lecause e le conseguenze dello stalinismo.

Circa vent'anni più tardi, al XIV Congresso, criticava ladefinizione che veniva data della Dc, che non era presentatacome un partito a egemonia borghese. Ma nessuna di questeprese di posizione lo hanno portato a una contestazione dellalinea generale del partito, alcune delle cui premesse eranoformulate da Terracini in forme addirittura estremizzate34.Neppure si può dire che abbia dato un val!do contributo allacritica dello stalinismo35.

Nel ricorso contro la sua espulsione (febbraio 1943), riba-diva precisando:

«Ritengo che la formazione del primo governo postfascista sfuggiràall'influenza diretta delle forze proletarie, e proprio perciò la lottapolitica si svilupperà tosto con ritmo accelerato, determinando unarapida polarizzazione verso posizioni inconciliabili di quelle stesseforze inizialmente riunite su di una primordiale piattaformademocratica borghese Fra l'altro noi dovremo immediatamenteimpostare un'azione - con programma a contenuto non solopolitico in senso stretto, ma economico-sociale avanzato - permquadrare le masse, secondo le esperienze del 1919-21 (consigli difabbrica) e 1925-26 (comitati contadini di unità), in organismi chepossano e servire alla loro mobilitazione per le lotte dirette efunzionare come nuclei primordiali di un governo rivoluzionario.Così, sfruttando al massimo i margini della demq~razia borgheserestaurata, noi ci foggeremo le armi per superarla» .Qui sono indicati, in sintesi, elementi validi di una linea

alternativa su cui torneremo. Sta di fatto, però, che Terracinirinunciò a sviluppare la sua intenzione: meno d'un anno do-po, in una lettera a Togliatti non esitava a esprimere «pienoconsenso alla linea del partito» e ribadiva tale atte~amentoin un'altra lettera scritta poco prima della liberazione33.

Più tardi, Terracini esprimeva in varie occasioni opinionidiverse da quelle del gruppo dirigente. Per esempio, in unaintervista del '47, attirava l'attenzione sui pericoli che sareb-bero derivati da una divisione del mondo in due blocchi, pro-vocando immediatamente una sconfessione pubblica da par-te della segreteria. Subito dopo il XX Congresso, sollevava alComitato centrale il problema dell'eliminazione di Bela Kun

Quali alternative?

Alternative possibili sono state, dunque, delineate a quasitutte le scadenze cruciali della storia del partito. Ma s'è trat-

31 U. Terracini,AI bando del partito, cit., p. 44.32 Ibid., p. 126.33 12 aprile 1945: «La linea del partito è la mia linea, senza riserve; e senzariserve ne è la mia disciplina» (p. 185).

34 Per esempio, al VII Congresso (aprile 1951), respingendo la tesi dellaCostituzione come un compromesso, sosteneva che «se per ipotesi assurda,nel 1946, si fosse dato al Pci il compito di redigere, esso solo, laCostituzione della repubblica..., nella sua linea generale e nei suoi principifondamentali, essa sarebbe sortita per l'appunto quale oggi l'abbiamo» (VIICongresso del Pci, Edizioni di Cultura sociale, Roma, 1954, p. 298). Altroesempio: al IX Congresso, per giustificare la politica delle alleanze delpartito, non si era peritato di tirare per i capelli una citazione del Manifestodei .comunisti, pretendendo che l'espressione «sprofondamento nelproletariato» non avrebbe indicato solo un «declassamento, ma anche unavvicinarsi di interessi, un allineamento delle classi» (IX Congresso del Pci,Editori Riuniti, Roma, 1960,voI. I, p. 297).35 All'VIII Congresso aveva fatto uso anche lui del penoso argomento"non sapevamo", parlando di «estrema limitatezza delle conoscenze che siavevano circa il funzionamento delle istituzioni politiche dei paesisocialisti». Ricordiamo, d'altra parte, gli sforzi di Terracini in unaconferenza in un circolo ebraico della capitale per spiegare che il processoSlansky non era stato una manifestazione di antisemitismo e si era svoltosecondo «il diritto statuale» cecoslovacco.

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tato sempre di alternative parziali, prive d'una dimensionestrategica internazionale: di qui la loro intrinseca inconsi-stenza, il loro carattere effimero, la loro influenza limitata.

Non ne discende che un corso diverso fosse inconcepibi-le. Impostare una strategia e scelte diverse, stimolando unadiversa dinamica degli avvenimenti, era perfettamente possi-bile: la condizione era che sin dall'inizio il progetto alternati-vo assumesse una dimensione internazionale. Partendo daun'analisi rigorosa dei processi nell'Urss e delle loro riper-cussioni nell'Internazionale comunista, si sarebbe dovuto -epotuto -lottare per contrastare, prima che fosse troppo tar-di, l'instaurarsi e il consolidarsi dell'egemonia burocraticastaliniana. Sarebbe stata, certo, una battaglia molto dura, ilcui esito positivo non era affatto garantito. Comunque sia,oggi tutti possono constatare il disastro finale delle scelte"realistiche", che provoca ora disperati tentativi di scissioneda responsabilità, con la rinuncia al nome stesso del partito.

Ritorniamo un momento indietro. Nel 1929-30,era possi-bile respingere le analisi -palesemente errate -del terzo pe-riodo e del socialfascismo e creare le condizioni di un'azioneunitaria del movimento operaio contro la dittatura mussoli-niana (e in Germania per opporsi all'avvento di Hitler). Eraperfettamente possibile organizzare il lavoro all'interno delpaese senza far balenare prospettive irrealistiche, senza ulti-matismi e precipitazioni avventuristiche, creando così benpiù solidamente le premesse d'un rilancio. Tutte cose, ricor-diamolo, che non vengono dette ora col senno di po~ ma so-no state dette allora e non da qualche franco tiratore, ma damilitant~ quadri e dirigenti dello stesso Pci e della stessa Ic.

Anche ad altre scadenze cruciali, quelle delle battagliedella resistenza e dell'immediato dopoguerra, il corso adot-tato non era l'unico possibile. Critiche e ipotesi diverse sonostate avanzate anche in questo caso. Ancor più importante èche esisteva una larga disponibilità in vasti settori di massa,

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tra quadri e militanti delle generazioni più mature e delle ge-nerazioni nuove, che si mobilitavano con l'aspirazione a unmutamento radicale dell'esistente, alla costruzione di una so-cietà socialista e non solo per il rovesciamento del fascismo ela cacciata dell'esercito nazista36.

Riprova: la grande forza di attrazione del Partito comuni-sta, identificato con l'Urss, paese "socialista", e con un pro-getto rivoluzionario. D'altro lato, fonti diverse e studi storicidi diversi autori sono concordi nell'affermare che spesso lalinea di unità nazionale era accettata come un'esigenza tatti-ca che al momento opportuno sarebbe stata superata per im-. .

I I .d I 37

pegnarsl m una otta per a conqwsta e potere .Conosciamo gli argomenti dei difensori della linea uffi-

ciale. Era assurdo fare la rivoluzione il 25 aprile, in ogni casogli eserciti di occupazione sarebbero intervenuti a fianco del-le forze reazionarie. Senonché non si trattava affatto di cer-care di instaurare uno Stato operaio all'indomani del 25 apri-le. Si trattava di dare alla lotta una diversa prospettiva, disviluppare tutti gli elementi di potere e di controllo operaioemersi durante la resistenza, di far sì che il ruolo egemonicodella classe operaia e delle sue organi7zazioni non fosse

36 A questo proposito, nel suo libro / comunisti europei e Stalin, Einaudi,Torino, 1983, Spriano scrive: «La guerra civile, o almeno forti disparità econtrapposizioni sociali si accompagnano, in ogni paese europeo, al corsodella guerra sui fronti. Vi sono forze schierate a fianco degli occupanti, visono gruppi sociali inerti e rassegnati, vi sono sinceri combattenti per laIibeItà che non vogliono però collaborare con i comunisti. Questi ultimi sibattono, d'altronde, per una rivoluzione socialista anche se essa non vieneposta all'ordine del giorno nei documenti ufficiali. L'interpretazionedel 'unità nazionale è soggetta, dunque, a infinite variazioni e sfumature. Inalto e in basso, ai vertici dei partiti che operano realmente nellaclandestinità e nella loro base operaia e contadina, tra i quadri intermediche si fanno decisivi per organizzare la lotta armata» (p. 175).37 I dirigenti del Pci erano ben coscienti di questo fatto e per questotemevano che si potesse formare un altro partito alla loro sinistra attornoagli elementi, gruppi e movimenti critici cui abbiamo accennato (timori inquesto senso erano espressi, per esempio, da Scoccimarro alla fine del '44).

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svuotato di contenuto' e annullato da una collaborazione si-stematica con i partiti borghesi é dalla rinuncia a un'azioneindipendente, di rifiutare l'inserimento, anche ai massimi li-velli, in un apparato statale rimasto quello tradizionale, e lacollaborazione alla ricostruzione su basi capitalistiche. In al-tri termini, anziché cercare di soffocare o attutire i conflittidi classe, si sarebbe dovuto fare il possibile perché si svilup-passero secondo una dinamica che esisteva nella realtà,orientandoli in una prospettiva anticapitalistica e favorendocosi la presa di coscienza di settori di massa sempre più vasti.Nessuno avrebbe potuto sapere a priori se e quando si sareb-be posto il problema del potere. Ma l'essenziale era mante-nere questa prospettiva strategica, indipendentemente dallescadenze e dalle forme di lotta ipotizzabili.

Niente di tutto questo è stato fatto. Peggio: se il Pci hacondotto a volte lotte anche molto dure, in funzione essen-zialmente difensiva, contro attacchi ai diritti e ai livelli di vitadei lavoratori, è stato estremamente timido, se non assente,sul terreno di importanti rivendicazioni democratiche. Bastipensare all'enorme concessione fatta a proposito dei rappor-ti tra Stato e Chiesa con il voto del famoso - o famigerato -articolo 7 della Costituzione o alla rinuncia, per decenni, aogni battaglia per il divorzio e per l'aborto, per finir poi conl'accodarsi a iniziative altrui.

Considerazioni non diverse da quelle fatte per gli anni1943-1945valgono per la grandiosa esplosione popolare del14 luglio 1948in risposta all'attentato a Togliatti.

Si può convenire che non esistessero allora tutte le condi-zioni necessarie di una lotta rivoluzionaria per il potere. Masarebbe arbitrario dedurne che la sola soluzione fosse quelladi arrestare il movimento. Tra uno !>cioperodi protesta eun'insurrezione c' è un'ampia gamma di possibilità. Si sareb-be potuto, per esempio, porre allo sciopero obiettivi politicigenerali (epurazione degli uomini del vecchio regime ritor-

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nati alla ribalta, cessazione immediata delle misure ventilatecontro militanti della resistenza, installazione di consigli digestione nelle fabbriche, di consigli di azienda e di cascinacon ampi poteri di controllo ecc.). Simili obiettivi si sarebbe-ro potuti collegare con obiettivi economici, partendo dallelotte sindacali in corso (basta Coni licenziamenti, riassunzio-ne dei lavoratori messi alla porta, revisione generale dei sala-ri ecc.). Il movimento non avrebbe dovuto cessare prima d'a-ver realizzato concreti risultati e la sua guida si sarebbedovuta affidare a comitati di sciopero ed agitazione eletti di-rettamente dai lavoratori e quindi capaci di esprimerne leaspirazioni, di ascoltarne il polso. Un successo in questo sen-so avrebbe di per sé costituito un valido contrattacco del mo-vimento operaio, creando le premesse per un rilancio dellelotte in una situazione più favorevole per la riacqllistata fidu-cia delle masse c ill:onseguente smarrimento degli awersari.

Con il 1968 si apriva, in Italia più che in altri paesi, unaprofonda crisi sociale e politica che doveva assumere nel1969-71 i tratti di una crisi prerivoluzionaria38. Non ritornia-mo qui sulle enormi mobilitazioni studentesche, sulle grandilotte operaie, sulla radicalizzazione di vasti strati di piccolaborghesia, sulla crisi dei partiti tradizionali sia borghesi siaoperai. Il Pci ha affrontato la situazione, dopo una prima fasedi incertezza, con la consueta abilità tattica, sforzandosi diintegrare i nuovi movimenti nella sua strategia politica. Hacercato più concretamente di utilizzare le forze esplose nellacrisi per aumentare il suo peso specifico e per rilanciare ilsuo progetto di rinnovamento "democratico" e di ristruttura-zione riformista. La sua operazione ha avuto successo sul ter-

38 La crisi del 1968-71 è all'origine della formazione e della crescita diorganizzazioni di estrema sinistra, che, nei momenti più alti, sono riuscite aesercitare un'influenza considerevole in settori dI massa. Proprio perquesto, esiste una responsabilità anche di queste organizzazioni per quantoriguarda lo sbocco di 9uesto periodo critico. Cfr., a questo proposito, ilnostro Verificadellenimsmo in l/alia, ci!.

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reno per lui fondamentale: nel 1975-76 faceva un balzo elet-torale senza precedenti. Ma, per l'appunto, il grande movi-mento si esaurisce con il conseguimento di una serie di con-quiste parziali _ successivamente corrose una dopo l'altra -econ un relativo mutamento dei rapporti di forza sul pianoelettorale. li sistema può superare la sua crisi -tanto più cheil Pci investe i suoi successi nella fallimentare politica di uni-tà nazionale (1976-78) - e, poi, dalla rme degli anni '70 e dagliinizi degli anni '80, l'economia capitalistica può sviluppare si-stematiche operazioni di ristrutturazione e di restaurazione,con risultati difficilmente contestabili a dieci anni di distanza.

Anche in questo caso la politica adottata non era affattol'unica possibile. Si sarebbe potuto favorire una dinamica dilotte tendente ad approfondire la crisi del sistema, sviluppa-re e potenziare organismi di democrazia dal basso, inveceche cercare di istituzionalizzare quelli che erano sorti, avan-zare un progetto di ricostruzione della società italiana su basianticapitalistiche. Su una simile prospettiva era possibile, al-lora, realizzare un ampio fronte di forze sociali - e non solodella classe operaia - stimolando una presa di coscienza suscala di massa della necessità di soluzioni rivoluzionarie. Inquel contesto, non valeva più, d'altra parte, il vecchio argo-mento di un possibile intervento militare imperialistic039.

39 L'argomento dell'inevitabilità di un intervento americano non era cosìdecisivo come supponevano quelli che lo avanzavano neppurenell'immediato dopoguerra (i gruppi dirigenti di Washington avrebberoavuto difficoltà, alla fine della guerra, a convincere il loro popolo chebisognava intraprendere una nuova azione militare). Del resto, un dirigentedel Pci niente affatto eterodosso come Emilio Sereni lo aveva egli stessomesso in dubbio, scrivendo nell'aprile del '45 di non essere affatto sicuroche, in caso di presa del potere da parte dei comunisti nell'Italiasettentrionale, ci sarebbe stata una reJ;lressione da parte degliangio-americani (cfr. P. Spriano, I comunisti e Stalin, cit., p. 216). Nelmomento in cui fervono le polemiche sulla "Gladio" qualcuno potrebbeessere tentato di avanzare sotto nuova forma l'argomento di un'eventualeazione militare. Avremmo voluto proprio vederli gli intrepidi "gladiatori"emergere alla superficie per affrontare i movimenti di massa del 1968-1969!

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Un bilancio di insuccessi

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L'applicazione di una strategia e di orientamenti alterna-tivi non avrebbe automaticamente garantito un successo sto-rico della classe operaia e del suo movimento. Non esisteva-no - e ancora meno esistono oggi - soluzioni di facilità. Ma laconstatazione che, comunque, si può fare è che tutte le pro-spettive strategiche via via avanzate dal Pci si sono rivelateintrinsecamente inconsistenti e sono rimaste sulla carta, no-nostante le pretese di realismo.

Nel periodo 1944-45, la prospettiva strategica era quelladella democrazia progressiva. L'obiettivo della democraziaprogressiva era, per riprendere formulazioni di Togliatti,

«realizzare la distruzione del fascismo, tagliare tutte le radici dacui esso è sorto e rinnovare il nostro paese in modo tale che unregime analogo a quello fascista non possa rinascere mai più...Democrazia progressiva è quella che organizzerà un governo delpopolo e per il popolo e nella quale tutte le forze sane del paeseavranno il loro posto, potranno afferma11h e avanzare verso ilsoddisfacimento di tutte le loro aspirazioni» .

In altri termini, avrebbe dovuto rappresentare la fase più

avanzata cui possa ~ungere una democrazia nel quadro dellasocietà capitalistica 1.Dal punto di vista più strettamente po-litico, il successo di questa strategia esigeva il concretizzarsidi due prospettive: per citare ancora Togliatti, quella della«democratizzazione del paese nel suo complesso» e quelladella «democratrizzazione degli stessi conservatori italia-ni»42.Che questo non sia accaduto e che la democrazia pro-

40 P. Togliatti, Politica comunista, L'Unità, Roma, 1946.41 La formula della democrazia progressiva è stata avanzata anche neipaesi dell'Europa orientale sotto l'influenza dell'Urss. Ma ben presto èstata presentata come una prima fase della dittatura del proletariato, omeglio dell'istaurazione della dittatura burocratica grazie ai rapporti diforza creati dalla presenza dell'esercito sovietico.42 Rinascita, agosto '46.

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gressiva non si sia dunque realizzata è la conclusione dellostesso segretario del Pci.

La non realizzazione di una prospettiva non ne inficia ne-cessariamente la validità. Rapporti di forza sfavorevoli pos-sono giuocare in senso contrario e si può continuare a lottareper cambiare questi rapporti di forza. Ma, nella fattispecie, sitrattava di una formula che non corrispondeva a una dinami-ca di sviluppo possibile oggettivamente e politicamente fe-conda. Se il fronte dei conservatori o, per essere più precisi, igruppi dirigenti della borghesia non hanno avuto l'evoluzioneauspicata da Togliatti, non è stato per errore o per miopiapolitica.

Per costoro, l'essenziale era ricostruire il paese nel qua-dro di un'economia capitalistica e di istituzioni che garantis-sero la loro egemonia. In questo senso, hanno agito in modoconseguente: sinché la situazione imponeva una collabora-zione con i partiti operai per evitare tensioni e conflitti esplo-sivi, seguivano la via dei Cln e dei governi tripartiti; ma quan-do ciò non era più strettamente necessario, quando lapresenza dei partiti operai al governo appariva ormai comeun ostacolo al pieno dispiegarsi della loro ricostruzione emutava il contesto internazionale, preparavano e operavanola rottura.

Lasciando da parte formule politiche elaborate in segui-to, come quella generica di "governo democratico delle classilavoratrici" (VIII Congresso) e quella successiva, ancora piùgenerica, di "democrazia di tipo nuovo", qualche parola vaspesa sull'obiettivo del "controllo democratico dei monopo-li", presentato soprattutto negli anni '60 come elemento cen-trale di una "programmazione democratica".

Anche in questo caso si tratta di un obiettivo intrinseca-mente inconsistente. Infatti, era fissato partendo dall'ipotesidi una fase di sviluppo in cui, pur permanendo il sistema eco-nomico-sociale capitalistico, i monopoli fossero posti sotto

tutela, ristabilendo una sorta di capitalismo di libera concor-renza, disposto a operare nell'interesse delle grandi massepopolari. Si dimenticava - o si volevadimenticare_ chela fa-se monopolistica non è una "degenerazione", ma una fase ne-cessaria, uno sbocco logico del capitalismo e che è semplice-mente assurdo postulare un capitalismo dai contorni non benprecisati senza i monopoli.

L'impostazione non reggeva neppure dal punto di vistapolitico, tenuto conto della strategia complessiva del partito:infatti, una rottura del potere monopolistico avrebbe richie-sto un tale mutamento dei rapporti di forza, un tale saltoqualitativo e avrebbe provocato situazioni cosi conflittualiche, in una simile eventualità, il movimento operaio nonavrebbe evitato uno scontro frontale, in una prospettiva dipotere43.

Data la scarsa consistenza di tutte queste indicazioni, ilPci non poteva non trovarsi in difficoltà di fronte ai governidi centro-sinistra, almeno nella loro prima fase. Da un lato,infatti, doveva contrastare un'operazione che aveva tra i finidichiarati il suo indebolimento e isolamento, dall'altro, nonpoteva respingere orientamenti programmatici, politici eideologici, che, almeno sulla carta, non si differenziavanoqualitativamente dai suoi.

In realtà, proprio con il centro-sinistra cominciano a ma-turare ed emergere le sue contraddizioni. La sua prospettivaera ormai da tempo una prospettiva riformista. E nella se-conda metà degli anni '60 e nella prima metà degli anni '70, l'emergere di movimenti di massa di diversa natura, ma tutticaratterizzati, nei loro momenti più alti, da un grande dina-

43 La prospettiva del controllo democratico dei monopoli ha comportatol'uso di altre fonnule, non meno inconsistenti, come quella dell' «equoprofitto». Sul piano politico, un caso limite di indetenninatezza èrappresentato dalla fonnula usata da TOgliatti al X Congresso: «Diminuiree POssibilmente spezzare il dominio assoluto dei gruppi dirigenti borghesi».

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mismo e capaci di incidere sui rapporti di forza complessivi,rende possibili reali conquiste sul piano economico, sociale epolitico. Settori delle classi dominanti ritengono necessario,per evitare una dinamica per loro pericolosa, fare concessio-ni. TIPc~ lo abbiamo visto, si inserisce in questi movimenti,ma non riesce a dare a movimenti e lotte una prospettivastrategica d'insieme, né a imporre la propria egemonia econtinua a essere escluso dal governo. Qui risiede, in ultimaanalis~ la sua debolezza, nonostante i successi elettorali.

E' per superare questa impasse che Berlinguer prospettala strategia del compromesso storico. Ma tale strategia - sucui ritorneremo nel capitolo seguente - non raggiungeva ilsuo obiettivo più di quanto non lo avessero raggiunto le pre-cedenti strategie. L'unica traduzione pratica era il coinvolgi-mento nell'esperienza di unità nazionale tra il 1976 e il 1978,che aveva il solo risultato di fare apparire il Pci come ele-mento di copertura della politica di austerita e di ristruttura-zioni del governo e delle classi dominanti e si concludevacon una dichiarazione di fallimento.

Scoccava l'ora dell'alternativa democratica. Si tratta di vi-cende ancora recent~ su cui non è necessario insistere: tantopiù che la nuova strategia -ammesso che cosi si potesse defi-nire - non solo non dava alcun concreto risultato, ma creavasin dall'inizio problemi di definizione, rimasti aperti nono-stante tutti i tentativi di equilibrismi terminologici e concet-tuali44.Contribuiva cosi ad accrescere una crisi la cui manife-stazione più vistosa è stata la serie decennale di arretramentielettorali.

5. I PROTAGONISTI:

DA TOGLIAm A BERLINGUER

44 Basti pensare che, al momento della nuova svolta, Berlinguer si eraaffrettato a dichiarare che l'alternativa democratica non comportava nessunmutamento delle «basi essenziali» della strategia del partito, mentre piùtardi un testo per il Congresso del 1983 spiegava che l'alternativademocratica era, sul piano governativo, alternativa alla DC e al suo sistemadi potere.

La storia del Partito comunista è stata determinata, lo ab-biamo visto, da tutta una serie di fattori che hanno agito nel-l'arco di settant'~ nella società italiana e sul piano inter-nazionale. E' la storia di decine, se non centinaia, di migliaiadi quadri e di militanti senza il cui impegno e spirito di sacri-ficio non avrebbe potuto giuocare un ruolo cosi importante,indipendentemente dal giudizio che se ne può dare. Ma èstata scandita anche dalla parte che hanno avuto nella defini-zione delle sue concezioni, della sua strategia e dei suoiorientamenti i leader che si sono succeduti alla massima re-sponsabilità di direzione.

A proposito del primo segretario, Amadeo Bordiga, ci li-mitiamo a ricordare un giudizio di Pietro Tresso, al di là diuna certa terminologia, ancora pertinente:

«Sotto la direzione di Bordiga, il partito, malgrado l'erratoorientamento di questa direzione, acquista coscienza di sé, della

. prima fondamentale verità che "senza partito di classe, senza unadottrina rivoluzionaria" il proletariato non può vincere. Veritàprime, fondamentali, abbiamo detto. Sotto Bqrdiga non solo ilpartito prende coscienza di sé, viene formandosi; ma nel fuocodella guerra civile, la più aspra, esso compie la sua "selezione",tempra le sue ossa, acquista una disciplina di ferro, sviluppa lacapacità di sacrificio, i quali sono1 tutti meriti inseparabili per lacreazione di un partito bolscevico» .

Bollettino dell'opposizione comunista italiana, n. 13, 1S2febbraio 1933.

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Non ritorneremo neppure su Antonio Gramsci: abbiamosintetizzato la nostra valutazione sulla sua opera teorica epolitica di marxista rivoluzionario in un saggio compat:so inoccasione del cinquantenario della morte2.

Del resto, mentre era in vita, Gramsci non ha avuto un'in-fluenza determinante che per un periodo relativamente bre-ve, cioè dal delinearsi di un nuovo gruppo dirigente sino allafine del 1926.Solo vent'anni dopo la sua morte si è comincia-to a studiare e ad apprezzare il suo apporto politico e cultu-rale. Ma per oltre quattro decenni, dirigenti e intemettualidel Pci sono sembrati preoccuparsi soprattutto di presentareGramsci come precursore o ispiratore delle loro concezionie strategie.

E poiché erano ben diverse da quelle formulate da Gram-sci - non solo nella prima metà degli anni '20, ma anche neiQuaderni e hanno per di più conosciuto tutte le evoluzioniche sappiamo - abbiamo assistito e assistiamo a un allucinan-te spettacolo di equilibrismi concettuali e terminologici, perdirla in termini più crudi, a ininterrotte operazioni mistifica-torie.

C'è ora da aspettarsi che qualcuno si incarichi di compul-sareun'altra volta Gramsci per scoprirvi elementi anticipato-ri dell'ultima incarnazione del partit03.

Non ci dilungheremo neppure su due dirigenti che hannosvolto essi pure le loro funzioni per un periodo di tempo li-mitato. Basti ricordare che il primo di essi, Luigi Longo, cheaveva condiviso tutte le responsabilità del gruppo dirigente

dalla fine degli anni '20, ha contribuito durante la sua segre-teria ad approfondire la presa di distanze nei confronti delladirezione sovietica con la condanna dell'invasione della Ce-coslovacchia. Proprio per il suo curricu/urnha potuto assicu-rare la convergenza su questa decisione tra vecchi dirigenti equadri ancora sulla breccia e rappresentanti delle più giovanigenerazioni.

Il secondo, Alessandro Natta, ha presieduto alla fase con-clusiva del processo di socialdemocratizzazione, senza dareun suo personale contributo.

Le segreterie di Longo e Natta hanno occupato, comples-sivamente, dodici dei settant'arini di vita del partito. Per pe-riodi ben più lunghi hanno esercitato la loro funzione, deter-minando in larga misura concezioni e orientamenti, PalmiroTogliatti ed Enrico Berlinguer.

Togliatti: dal Comintem a lalta

2 Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove edizioniinternazionali, Milano, 1987.3 Giuseppe Vacca, sempre impegnato a dare le spiegazioni più sofisticateal succedersi delle concezioni e impostazioni del Pci, ha annunciato unnuovo libro che dovrebbe dimostrare che Grarnsci e TogIiatti erano«diversi, ma inscindibili». II libro non uscirà che nella primavera del 1991. Agiudicare da un'intervista dell'autore a l'UnillI (6 settembre), la sua fantasiasarà ancora una volta inesauribile.

La valutazione della figura di Togliatti ha conosciuto ne-gli ultimi venticinque anni, fatte le debite proporzioni, una vi-cenda analoga a quella della valutazione di Gramsci: è cam-biata in funzione dei mutamenti delle concezioni e degliorientamenti del partito, se non addirittura delle sue esigen-ze contingenti.

Togliatti è stato presentato a lungo come il collaboratorepiù stretto e il più fedele continuatore di Gramsc~ poi comecolui che aveva reso esplicito, sviluppandolo e traducendolonella nuova strategia politica, ciò che nello stesso Gramsciera implicito ed embrionale, infine come l'uomo che avevasaputo, dopo il XX Congresso, introdurre i necessari ele-menti di rottura rispetto al passato.

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Più di recente, e a maggior ragione dopo il lancio dell'o-perazione di Occhetto, pur nella continuità delle valutazionipositive e spesso tuttora apologetiche, si è posto di preferen-za l'accento sulla necessità di distinguere il p'artito togliattia-no da quello attuale (o del prosssimo futurol

Su di un punto i giudizi positivi si basano su argomenti so-lidi: se si valuta il personaggio confrontandolo con altri per-sonaggi dell'Italia del dopoguerra, il paragone è senz'altro asuo favore. .

La classe dominante, mentre Togliatti era in vita, ha avu-to un solo uomo capace di imporsi per la sua statura, AlcideDe Gasperi. Ma anche De Gasperi aveva limiti evidenti edera prevalso più per un convergere di circostanze che peruna effettiva genialità e originalità. Quanto al Partito sociali-sta, non è stato capace di esprimere un solo leader paragona-bile a Togliatti in un giudizio complessivo. Una considerazio-ne analoga vale per i dirigenti del movimento comunistainternazionale: specie dopo la scomparsa di Dimitrov, è diffi-cile trovare un personaggio che possa essere messo sullostesso piano del leader del Pci.

Per la sua lucida intelligenza, per la sua abilità e duttilità,Togliatti ha potuto rappresentare meglio di qualsiasi altro ilmovimento cui ha apppartenuto ed esprimerne le esigenze,specie in determinati momenti (fronti popolari, unità antifa-scista, fasi successive al XX Congresso).

Agli occhi del suo partito, dei suoi dirigenti e dei suoiquadri, le sue contraddizioni e il suo stesso passato non ap-parivano come tratti negativi, ma come una garanzia che, purmutando quello che bisognava mutare, non si sarebbe andati

oltre certi limiti: in buona sostanza non sarebbe stata messain forse l'egemonia delle direzioni e degli apparati burocrati-ci (ciò che egli ha cercato di far dimenticare con improntitu-dine nei mesi cruciali del 1956, troppi altri avevano iriteressea far dimenticare...).

Così, specie negli ultimi anni, Togliatti ha potuto formula-re con sufficiente chiarezza e far valere con sufficiente auto-rità il corso parzialmente nuovo di cui la grande maggioran-mza del partito avvertiva l'esigenza. Per questo, anche dopoavvenimenti che avrebbero dovuto scuotere fortemente il suoprestigio, è apparso come un punto di riferimento, un'autori-tà anche alle tendenze più "innovatrici" sul piano nazionale einternazionale.

In particolare in occasione della sua morte, si è postol'accento, da un lato, sul Togliatti dell'Ordine nuovo e dellacollaborazione con Gramsci, della politica dei fronti popolarie della coalizione antifascista, dall'altro su quello posterioreal XX Congresso.

Si è cercato di scoprire nella sua azione una linea coeren-te di sviluppo, rimasta largamente immune dalle degenera-zioni dello stalinismo, sorvolando sul fatto che, dei suoi qua-rantacinque anni di attività politica, circa venticinque _ e nondei meno significativi - sono stati sotto il segno staliniano.Proprio all'epoca di Stalin si è affermato come dirigente, as-sumendo responsabilità di primo piano nel Comintern ormaiburocratizzato: cosa ovviamente impossibile senza un com-pleto ossequio alla linea, alle concezioni e ai metodi del si-gnore del Cremlino.

E' un dato di fatto che nessuno storico può seriamentecontestare, al di là delle spiegazioni e delle giustificazioni chesi possano eventualmente escogitare: non c'è aspetto dellapolitica di Stalin che Togliatti non abbia accettato, con mag-giore o minore entusiasmo, e comunque celebrato secondo icanoni dell'epoca. Sono universalmente noti episodi partico-

4 Non di. rado sono state le stesse persone ad avallare diverseinterpretazioni: conferma che le preoccupazioni politiche sono prevalsesulle esigenze di analisi storica. Un esempIo significativo di interpretazioni.a~omate. è il numero di Critica marxista su «TogIiatti e la storia d'Italia»USCItonel ventesimo anniversario della sua morte.

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larmente tragici di cui il numero due del Comintern è statodirettamente o indirettamente responsabile5.

Si è insistito da parte dei suoi elogiatori sul contributo diTogliatti all'analisi del fascismo, all'elaborazione di una lineadi unità con i socialisti, come pure sul suo spirito democrati-co e persino sulla sua tolleranza. Si è dimenticato o si è volu-to dimenticare che, come si è visto nel capitolo precedente,al pari degli altri dirigenti del partito in grado di esercitare leloro funzioni, ha fatto sua la linea del cosiddetto terzo perio-do e del socialfascismo, non esitando a decretare l'espulsionedi coloro che l'avevano contestata; che è stato in prima lineanell'esaltazione dei tragici processi moscoviti e nell'esigereuna caccia al dissidente; che, soprattutto dopo il ritorno inItalia, ha fatto introdurre la pratica del "culto del capo" e chetutti coloro che hanno criticato la linea del partito o i suoimodi di funzionamento hanno conosciuto un Togliatti nel mi-gliore dei casi partenalistico e più spesso spietato e intolle-rante verso gli oppostori o i presunti tali6.

C'è bisogno di ricordare che, per esempio, nel momentostesso in cui si compiaceva di scrivere una prefazione al trat-tato di Voltaire sulla tolleranza, partecipava senza battere ci-

5 Per esempio, l'eliminazione di Bela Kun e lo scioglimento del Pcpolacco, che sarebbe non solo ben poco internazionalistico, ma piùsemplicemente cinico cercar di giustificare spiegando che l'approvazione disimili decisioni avrebbe permesso di salvaguardare gli interessi del Pci. Vaaggiunto che, anche dopo la morte di Stalin, Togliatti ha continuato adavallare, anche se non pubblicamente, le accuse lanciate contro Bela Kun ea dare giudizi stronca tori nei confronti di Tito (cfr. Archivio Secchia, cit., p.490).6 Di particolare interesse appaiono a questo proposito le testimonianze diPietro Secchia. Questi parla, per esempio, del «solito sistema di Togliatti»che era <<lanegazione non solo dell'elaborazione collettiv,!, ma anche delladirezione collettiva» (Archivio, cit., p. 244.) e pubblica una lettera diTogIiatti successiva al XX Congresso da cui emerge chiaramente laconcezione paternalistica e verticistica di quest'ultimo «<le critiche generaliall'attività del partito, quando si ritiene necessario che awengano, sipreparano, si impostano, si guidano, si dirigono» (ivi, p. 679).

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glio alla campagna denigratoria contro i comunisti jugoslavi esi associava al plauso della riedizione postbellica dei processistaliniani, in paesi come la Cecoslovacchia o l'Ungheria? Oche, colui che è stato presentato, in ispecie dopo la sua mor-te, come un illuminato fautore dell'autonomia della cultura,si era ben guardato dall'esprimere la benché minima riservasui fasti del realismo socialista o sulle devastratrici campagne"culturali" di Andrej Zdanov?

Abbiamo visto, d'altra parte, come quelli che sono statisempre giudicati gli aspetti più positivi della sua azione _ lapolitica dei fronti popolari e quella di coalizione antifascista- non rappresentassero affatto un suo contributo originale,ma fossero dettati dall'impostazione strategica di Stalin, del-la burocrazia sovietica e di una direzione del Comintern pri-va di ogni reale autonomia. Una relativa originalità va ricer-cata, casomai, in forme specifiche di applicazione o inorientamenti tattici particolari. Su questo terreno, Togliatti siè spinto a volte più avanti di altri, per esempio per quanto ri-guarda i modi della svolta di Salerno e la votazione dell'arti-colo 7 della Costituzione7.

Venendo al Togliatti della fase della crisi dello stalinismo,non depongono certo a suo favore le posizioni di completachiusura e di condanna degli "eretici" assunte di fronte allarottura tra Stalin e la Jugoslavia.

Ma anche dopo il XX Congresso Togliatti cerca di deli-mitarne la portata, circoscrivendo la condanna dello stalini-smo e ponendo sullo stesso piano -nella fin troppo celebrataintervista a Nuovi Argomenti - gli autori delle spaventose re-pressioni e le loro vittime. E quando i dirigenti sovietici ma-nifestano il loro disappunto per le critiche tutt'altro che radi-cali di cui erano stati oggetto, opera un rapido ripiegamento,

7 Secondo una testimonianza di Emilio Lussu, Togliatti gli avrebbe dettoche grazie a quel voto il Pci sarebbe rimasto al governo con la Dc perventicinque anni!

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mettendo per ~ualche tempo la sordina ai temi prudente-mente sollevati .Nello stesso 1956, non solo approva l'intervento contro la

rivoluzione in Ungheria, ma si associa alla campagna controgli insorti. TI suo articolo di stroncatura di una raccolta discritti di intellettuali ungheresi, comparso su Rinascita, è tipi-co del suo modo di polemizzare, della sua concezione-buro-cratica nel senso più pregnante del termine - della naturadella sua azione "destalini'natrice".

Non esita neppure a criticare in termini sprezzanti i gran-diosi funerali di Léisz16Rajk, cerimonia riparatrice di unodioso crimine dello stalinismo, e una delle manifestazioni

più struggenti di cui ~ia stato protagonista il movimento dimassa antiburocratico . Non va neppure dimenticata la fred-dezza inziale di Togliatti nei confronti di Gomu1ka, nel mo-mento in cui qurst'ultimo era espressione dell'opposizionepolacca, e la sua interpretazione di classico stampo stalinia-no delle lotte operaie e popolari a Poznan, quando l'Unitànon esitava a scrivere:

«Il nemico è stato presente a Poznan nel modo che sempre piùchiaramente [sic.1ci risulta».

Di più: anche dopo il XXII Congresso del Pcus (1961),Togliatti si oppone a coloro che vogliono spingere più avantila critica dello stalinismo e arriva al punto di minacciare lacostituzione per sua iniziativa di una tendenza fùosovieticalO.

8 Solo al IX Congresso, nel 1959, Togliatti farà sapere di non averrinunciato a certi suoi punti di vista.9 L'antologia era stata pubblicata anche in Italia (Laterza, Bari, 1957) conil titolo di Iridalmi Ujstig ("Gazzetta letteraria"). La maggior parte degliautori, contrariamente a quanto vuoI fare credere Togliatti, eranofavorevoli a una trasformazione democratica dell'Ungheria in sensosocialista. A proposito dei funerali di Rajk, parla di «macabra, assurda,esasperante parata».lO Cfr. Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer, Laterza, Bari, 1989, p.118.

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E un anno dopo, in una annotazione tesa a spiegare isuoi giudizi elogiativi di Stalin, riprende il vecchio motivo:

«Le rivelazioni e le critiche all'opera di Stalin che vennero fatte alXX Congresso del Pcus e in se~ito rese pubbliche, nondiminuiscono la grandezza e la genialita del suo autore» .

La stessa analisi delle cause e del significato della dege-nerazione staliniana - nella misura in cui viene abbozzata,nella già menzionata intervista a Nuovi Argomenti o nel nu-mero speciale di Rinascita per il quarantesimo anniversariodella Rivoluzione d'ottobre - è un'indicazione trasparentedella sua concezione della "destalinizzazione" e della sua vo-lontà di coprire le sue corresponsabilità passate12. Merite-rebbe, in particolare, di essere inclusa in un'antologia del-l'autogiustificazionismo l'affermazione:

«Dei fatti che oggi vengono denunciati noi non avevamo e nonpotevamo avere nozione alcuna... Ci dicono ora che nell'UnioneSovietica vi furono al tempo Ai Stalin processi che si conclusero concondanneillegalie ingiuste» .Come tutti coloro che hanno fatto, e magari fanno tuttto-

ra, ricorso ad argomenti simili, non si accorge che, se la suaversione fosse vera, comporterebbe un giudizio non menonegativo: pur essendo vissuto per lunghi anni nell'Urss, nonsi era reso conto assolutamente di nulla e non aveva capitoaffatto il corso degli avvenimenti, la loro dinamica devastra-trice: per un dirigente e intellettuale "marxista", davvero nonc'è male!

11 «Momenti della storia d'Italia», ci!. in Critica marxista, numero specialeci!., p. 206.12 Secondo Secchia, Togliatti «una discussione sul passato non la volevaperché egli ne sarebbe uscito come il più grande responsabile, quanto menoper quanto riguardava le posizioni assunte da noi italiani e la politica svoltaIO Italia... Desiderava temporeggiare per vedere di lascl8re le cose,soprattutto per quanto riguardava i metodi di direzione, come stavano»(Archivio Secchia, cit., p. 303).13 Dall'intervista citata.

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L'atteggiamento più generale di Togliatti a proposito del-la desta1inizzazione fornisce, in ultima analisi, una chiave in-terpretativa della sua personalità. Egli aveva capito che i me-todi e le concezioni di Stalin avevano fatto il loro tempo dalpunto di vista stesso delle esigenze di conservazione dei regi-mi esistenti e che bisognava mutare rotta. Ma mutare rottasignificava per lui innovare nella misura necessaria per man-tenere una sostanziale continuità. I suoi interventi dal 1956alla morte (nel 1964) lo dimostrano inequivocabilmente.

Ma c'è un altro aspetto niente affatto secondario. Se siconsiderano in astratto le sue propensioni culturali, la suaformazione, la sua mentalità, il suo stile, si può affermare conqualche fondamento che lo stalinismo non gli era congeniale.Questo spiega sia certe riluttanze iniziali, sia l'atteggiamentodegli ultimi anni della sua vita, sia certi suoi modi di tradurrein pratica lo sta1in.ismomentre era ancora in auge.

Come temperamento e come tendenza, Togliatti si collo-cava piuttosto nella corrente di destra del movimento comu-nista: di qui la sua affinità con Bucharin in un certo periododella storia del Pcus e della Terza internazionale. In questosenso, era l'uomo più dei fronti popolari che del terzo perio-do, più della coalizione antifascista che della guerra fredda,più di una concezione e prassi paternalistica che di una con-cezione e prassi repressiva e terroristica. Dimenticando que-sto aspetto, ci si preclude la possibiltà di giungere a un giudi-zio complessivo; ma, d'altra parte, sarebbe arbitrario passaresotto silenzio il fatto che non ha mai osato oppporsi allo stali-nismo - anche quando, forse, nel suo foro interiore, giudicavaQefasta la linea che veniva imposta - e che, in pratica, ne èstato per decenni lo strumento, anche al prezzo di una di-storsione della sua personalità.

In ultima analisi, per esprimerci in questi termini, le sueparticolarità, lungi dal dimuinuirle, accrescono le sue re-sponsabilità.

Si è attribuita un'importanza eccezionale al suo ultimoscritto, il Memoriale di falta, che rispecchia indubbiamente,più di qualsiasi altro, le sue conclusioni su problemi centralidel movimento comunista. Se si giudica questo testo dal pun-to di vista del valore intrinseco, è difficile sopravvalutarne laportata. Le osservazioni più importanti e meno contestabili -per esempio, su diversi piani, le critiche alle strutture buro-cratiche dell'Urss, le enunciazioni sulla specifIcità della dia-lettica propria dell'arte e della cultura, la constatazione dellanecessità di un coordinamento europeo delle lotte sindacalinell' epoca del Mercato comune - non fanno che riprendere,con ritardo evidente e con timidità estrema, quello che mar-xisti rivoluzionari avevano sostenuto sin dagli anni '30, altrecorrenti del movimento operaio egualmente da lunga data, icomunisti jugoslavi dagli anni '50, per non parlare, per certiaspetti, dei riformisti socialdemocratici e, per quanto riguar-da le lotte in Europa, di gruppi e tendenze sindacali di varipaesi. Sarebbe, dunque, per lo meno esagerato parlare dioriginalità, come invece si è fatto e si fa ancora.

Ma era importante che certe cose fossero dette, sia pure,ripetiamolo, con ritardo e non senza reticenze, da parte di unuomo come Togliatti e da un partito comunista con grandeinfluenza di massa e prestigio mondiale. Era importante checi si pronunciasse contro ogni nuova irreggimentazione delcosiddetto movimento comunista internazionale; che si de-n~ciasse la debolezza strategica di fondo di certi partiti co-munisti dell'Europa occidentale e l'inefficienza di certi orga-nismi (come la Federazione sindacale mondiale); che sisegnalasse, sia pure più implicitamente ch esplicitamente, lacarenza di elaborazione teorica e politica sui problemi dellalotta dei popoli coloniali e neocoloniali.

Il Memoriale ritorna, d'altra parte, su temi già acquisitidal Pci, dando una maggore coerenza.alle sue concezioni edai suoi orientamenti neoriformistici e rimettendo in discus-

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sione tra l'altro, ancor più apertamente, la concezione leni-niana dello Stato.

Ma anche a questo proposito l'originalità è più che discu-tibile: all'elaborazione su questo piano altri dirigenti e intel-lettuali del partito hanno dato contributi più validi e più con-creti, con analisi particolari, effettivi approfondimenti, tenta-tivi meno sommari di interpretazione della realtà del capita-lismo degli anni '50 e '60: tutte cose che cercheremmo invanonelle quasi sempre generiche e allusive formulazioni togliat-tiane (caratterizzate, tra l'altro, da una singolare carenza dianalisi dei fenomeni economici). Ed è significativo, per dipiù, che Togliatti non dicesse nulla degno di attenzione suavvenimenti come gli sviluppi rivoluzionari allora in corso aCuba e in Algeria.

In un articolo sull'opera del dirigente democristiano Alci-de De Gasperi14, Togliatti ha indicato nei termini seguentiquale dovesse essere "la pietra di paragone" delle capacità diun personaggio politico:

«In che misura i suoi orientamenti ideali e la sua personaleperspicacia gli consentono di comprendere il corso delle cose, didecifrare, fra la confusione degli accadimenti singoli, ciò che èessenziale e soprattutto ciò che è nuovo e in cui, quindi, ècontenuto il germe dell'awenire? in che misura riesce egli aricavare dai suoi princìpi una linea di condotta tale che lo rendapadrone degli eventi, tanto che questi prendano e conservinol'impronta che egli ha voluto dare?»

Se applichiamoquesti criteri -a prescindere da una certaintonazione illuministica -a un giudizio su chi li ha enunciati,non possiamo ricavarne una valutazione complessivamentefavorevole. Sarebbe, infatti, difficile sostenere che Togliattiavesse previsto «il corso delle cose» e ancor meno «decifra-to» il «germe dell'avvenire» negli anni '30 e nell'immediatodopoguerra, per non riferirci che a questi due momenti. Ha

accettato, fatto proprio e "teorizzato" lo stalinismo, e formu-lato nel 1944-45 un progetto strategico rivelatosi intrinseca-mente inconsistente.

Nel periodo successivo si è via via adattato agli avveni-menti, spesso con abilità e con perspicacia, ma, per parafra-sare la sua espressione, non se ne è minimamente «reso pa-drone». In particolare, proprio nella misura in cui il suosforzo maggiore è stato quello di spiegare a posteriori ciòche era accaduto e con un metodo ispirato alla variante giu-stificazionistica dello storicismo, non poteva essere originalecome teorico15.

Uomini che lo hanno visto all'opera da vicino, in epochediverse, hanno espresso giudizi più o meno drasticamentenegativi. Così, secondo Pietro Tresso, Togliatti

«non crede in nessuna politica, ma è un awocato pronto sempre adifendere tutte le cause, a sostenere tutte le linee politiche e cioètutte quelle che sono le dominanti in un dato momento. Quandonell'le dominava Bucharin, era con Bucharin; adesso che c'è statela svolta, s'è messo dalla parte del vincitore, dalla parte di Stalin» .

Non meno duro, nella sostanza, il giudizio di Pietro Sec-chia che, a proposito di dichiarazioni di Togliatti sullo scio-glimento del Cominform, annota:

«Queste ed altre sa~e considerazioni di Togliatti arrivano semprecon molti anni di ntardo, giungono cioè quando non occorre piùnessun coraggio per manifestarle, giungono nel momento in cuila"svolta" si è realizzata, la "decisione" è stata presa e sarebbe anziimprudente opporvisi e resistere.Ed allora, in luogo di limitarsi a fare quello che fanno gli altri, ecioè a riconoscere che è giusto cambiare, egli assume il tono delprimo della classe, l'atteggiamento di chi wol dare a intendere "lo

15 Secondo Spriano, gli aspetti originali dell'apporto teorico-politico diTogliatti sarebbero stati il giudizio sulla religione e sulla coscienza religiosae sul problema della guerra nucleare (Critica marxista, numero speciale,cit.). Sarebbe eccessivo dire che si tratta di elaborazioni organiche eoriginali. Ma è vero che Togliattiè stato tra i primi a sollevare questiproblemi nei partiti comunisti.16 Citato inArchivio Secchia, citop. 158.

14 Rinascita, ottobre 1955.

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«Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili selasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti giustificandonea priori la necessità...Quest~ .tuo l!Podo di pensare mi ha fatto una impressionepenosIssima» .

mentazioni, si era preoccupato di tracciare una linea diviso-ria tra il suo partito e il riformismo tradizionale.

Ma che sin dal 1944-45 avesse cominciato a pensare intermini di progetto neoriformista, lo si può dedurre, più an-cora che dalla strategia elaborata allora, da qualche presa diposizione significativa, anche se particolare.

Per esempio, nella sua relazione al V Congresso, il primotenuto dopo quindici anni, si riferiva positivamente a un "fa-moso" discorso di Turati del giugno 1920, che i vecchi rifor-misti dovevano citare come uno dei suoi capolavori (e massi-malisti e comunisti, invece, duramente criticare). In questodiscorso, Turati aveva avanzato proposte per la ricostruzioneeconomica postbellica non senza analogie con quelle cheavrebbe avanzato quarantacinque anni dopo il Partito comu-nista.

Secondo esempio: in un discorso del maggio 1950, To-gliatti rettificava largamente, se non addirittura capovolgeva,il tradizionale giudizio gramsciano e comunista - e non solocomunista -su Giolitti, presentando il vecchio leader borghe-se come un liberale progressista, comprensivo delle esigenzepopolari19.

Ancora: secondo Lelio Basso, gli avrebbe detto un gior-no:

«Non devi pensare che il Partito comunista resterà sempre così.Prima o poi, dovrà cambiar~anche nome, diventare un grandepartito unico dei lavoratori...» .

Ecco un Togliatti... prercursore di Occhetto!

avevo sempre detto", di chi prima aveva accetttato soltanto perdisciplina e che finalmente può esclamare "ecco, avevo ragione io".In realtà, egli quasi sempre ha accettato tutti gli indirizzi che neidiversi periodi l'Internazionale comunista e poi l'Informbureauavevano avuto, li ha accettati, sostenuti e difesi sempre con energia,dimostrando la più profond'fonvinzione, battendosi contro coloroche esprimevano dei dubbi» .

Si può tener conto, nel primo caso, di una certa estremiz-zazione polemica in una dura lotta di frazione, nel secondodi un risentimento per torti subìti. Ciò non toglie che Tressoe Secchia colgano entrambi un aspetto incontestabile, nienteaffatto secondario, della personalità di Togliatti. Dopo tutto,va nello stesso senso la considerazione che faceva Gramsci,reagendo alla critica di Togliatti alla famosa lettera al Comi-tato centrale del Pcus:

Ma, in una valutazione complessiva, può essere giudicatocon fondamento come suo apporto specifico -anche se, c'èappena bisogno di 0010, non esclusivamente personale -l'a-zione condotta nell'arco di vent'anni per trasformare un par-tito staliniano in partito neoriformistico, socialdemocratico,mantenendone, se non accrescendone, l'influenza di massa ela forza di attrazione a livello culturale.

Questo disegno non era stato concepito in modo organicosin dall'inizio, perché Togliatti era lungi dal prevedere tutti ifattori interni e internazionali che ne avrebbero permessal'attuazione e, di fatto, in momenti diversi e con diverse argo-

17 Ibid, pp. 298-299. AI momento della morte di Togliatti, Secchiaesprimeva un giudizio più favorevole, che tuttavia non annulla leconsiderazioni suaccennate (ibid., p. 546).18 Cfr. La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino,1971, p. 135.

19 Salvemini polemizzava con il giudizio di Togliatti su n ponte del febbraio1952. Anche Secchia è critico nei confronti di questo ~udizio (Archivio, cit.,p. 453). Per parte nostra, abbiamo analizzato il si~lficato del discorso diTogliatti nel nostro AttUalità di Gramsci e polittca comunista, Schwarz,Milano, 1955, pp. 32 e sgg.20 Corrieredel[asera, 21 agosto 1985.

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Berlinguer: compromesso storico ed eurocomunismo stimolare e accentuare progressivamente l'evoluzione ulte-riore del partito verso la rottura completa del cordone ombe-licale con l'Urss e il tradizionale "movimento comunista" e lasua trasformazione in partito neoriformista.

L'opera di Berlinguer nei dodici anni tracorsi alla testadel Pci sarà ricordata soprattutto per l'adozione della strate-gia del compromesso storico e, complementarmente, per ilprogetto eurocomunista.

Come è noto, la strategia del compromesso storico è stataformulata in un saggio comparso su Rinascita subito dopo ilcolpo di Stato militare in Cile. Lo scopo che ci si prefiggevanon era solo di tenere conto di una drammatica esperienzanell'elaborazione di una prospettiva di governo per la sini-stra, ma anche, contemporaneamente, di indicare uno sboc-co alla situazione di ormai cronica instabilità dei governi dicentro-sinistra e alla crisi sociale e politica ancora aperta dal1968.

Berlinguer continua a richiamarsi, nelle linee generali, al-l'impostazione togliattiana di graduali trasformazioni rifor-mistiche Cda Togliatti mutua la stessa formula "compromessostorico"). L'idea di "democrazia progressiva" è sostituita dal-l'idea di "risanamento e rinnovamento democratico" dell'in-tera società e dello Stato, unico modo di «creare fm d'ora lecondizioni per costruire una società e uno Stato socialista».

In realtà, dato e non concesso che fosse strettamente per-tinente un paragone tra un paese, nonostante tutto, sottosvi-lupp.ato e necoloniale come il Cile, e un paese capitalisticoindustrializzato -e imperialistico -come l'Italia, l'esperienzacilena avrebbe dovuto permettere di capire, più di prima,quali siano i termini dell'alternativa qualora si intraprendaun progetto di graduali trasformazioni riformistiche, verso ilsocialismo.

Delle due l'una: o il progetto resta sostanzialmete sullacarta, non si registrano che mutamenti parziali, marginali,

Enrico Berlinguer aderisce al partito nel 1944,in una Sar-degna allora isolata dal continente. Quindi, non solo non haaccumulato, per ragioni di età, l'esperienza dei militanti deglianni '20 e '30, ma neppure partecipa alla resistenza. Assumerapidamente incarichi di direzione, per cooptazione, e com-pie la sua esperienza già inserito ai livelli più alti dell'appara-t021.Saranno le esigenze e i meccanismi dell'apparato e delsuo gruppo dirigente a determinare le tappe della sua ascesaCedi qualche temporanea battuta d'arresto). La stessa desi-gnazione a segretario non sarà dovuta a un riconoscimento diqualità superiori a quelle di altri membri della direzione eancora meno a una maggiore popolarita nelle file del partitoe tra le masse. In realtà, sulla sua persona si realizzerà un ac-cordo tra "correnti" o sensibilità diverse, presenti negli anni'60 e al momento della sua elezione, nessuna delle qualiavrebbe accettato una scelta che sembrasse determinareun'opzione più chiaramente definita.

Se si considera che Togliatti aveva assunto, nella topogra-fia del partito, un ruolo di centro, in questo senso Berlinguerha voluto essere ed è stato il suo continuatore. Ma è diventa-to segretario in un periodo in cui il partito aveva ormai con-cezioni e orientamenti e una collocazione internazionale bendiversi non solo da quelli dell'immediato dopoguerra, ma an-che da quelli della fine degli anni '50. Più in particolare, Ber-linguer, che era stato staliniano, quando tutti gli altri lo era-no, ma non si era formato nella fase di maggiore auge dellostalinismo e aveva matrici culturali diverse da quelle dei suoipredecessor~ era maggiormente in grado di accompagnare,

21 E' nota la battuta di Pajetta secondo cui Berlinguer avebbre aderito dagiovane alla direzione del partito.

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che comunque non rimettono in discussione rapporti econo-mici e sociali fondamentali, e in questo caso si evita lo scon-tro diretto tra le classi antagonistiche per la semplice ragioneche il regime esistente non si sente minacciato; o si comincia-no ad attuare effettive riforme di struttura, in un contesto dicrescente mobilitazione della classe operaia e di altri stratipopolari, e allora, prima o poi, lo scontro risulta inevitable.

Proprio questo è accaduto in Cile e l'esito è stato quelloche sappiamo, perché alla prova di forza le classi dominantie i loro apparati sono giunti preparati, mentre Allende, so-cialisti, comunisti, organizzaioni sindacali, movimenti conta-dini ecc. non lo erano affatto e non avevano preso, se nontardivamente e in misura irrisoria, le misure di autodifesa ne-cessarIe.

Berlinguer elude semplicemente questa problematica ecentra il suo discorso sulle alleanze e sul blocco-politico-so-ciale, necessario, a suo avviso, per realizzare il progettoenunciato. Non basta, spiega, puntare elettoralmente su unamaggioranza del 51%, su un blocco delle forze di sinistra, mabisogna perseguire

Che questa ipotesi avesse ben poco fondamento lo aveva-no già dimostrato trent'anni di storia italiana: la Dc era statalo strumento politico fondamentale della borghesia e avevasvolto la funzione di assicurare, tramite la sua ideologia com-posita e flessibile, l'egemonia della borghesia stessa su vastistrati della società. Che tale ruolo sia mutato nel ventenniosuccessivo, è arduo sostenerlo; casomai, è divenuta ancorpiù conservatrice e meno democratica. Il compromesso stori-co si basava, quindi, su un presupposto inconsistente. Lostesso Berlinguer doveva riconoscere nove anni più tardi diessersi sbagliato puntando sull'ipotesi che

,<laDc p2!esse dawero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi epolitica» .

Saremmo ingiusti verso Berlinguer se non accennassimoallo sforzo che ha compiuto al XIV Congresso (1975) per de-finire meglio la sua strategia inserendola più organicamentein un quadro storico-teorico. In quell'occasione, annunciavauna nuova variante della "democrazia progressiva" (o della"trasformazione democratica e socialista", secondo la formu-la del Congresso del '56): «una seconda tappa della rivolu-zione democratica e antifascista» (la prima essendo stata in-terrotta nel 1947), il cui sbocco finale avrebbe dovuto portare«ad uscire fuori dalla logica dei meccanismi del sistema capi-talistico» .

E per avallare tale impostazione, si lanciava in un excur-sos storico che vale la pena di richiamare, nonostante la lun-ghezza della citazione, non fosse che perché si tratta di unadelle poche volte in cui Berlinguer non sente il bisogno di

«una collaborazione e intesa di forze popolari di ispirazionesocialista e comunista con le forze popolan dI ispirazione cattolica,oltre che con formazioni di altro onentamento democratico».

Più in concreto, è la stessa Dc che dovrebbe essere partein causa di questa operazione. Anticipando le obiezioni, Ber-linguer respinge ogni defInizione della Dc come «categoriaastorica, quasi metafIsica» - e sin qui non fa che sfondare, dalpunto di vista del metodo, porte aperte. Aggiunge, però, chela Dc subisce, in realtà, un condizionamento duplice: da unaparte, quello di «gruppi dominanti della borghesia» e, dal-l'altra, quello di «altri ceti»; e il secondo condizionamentopotrebbe, in prospettiva, prevalere. Dunque, la concezionegradualistica è ormai applicata anche alla defInizione dellaDemocrazia cristiana!

22 Intervista a La repubblica, 28 luglio 1981. Va aggiunto, però, che laportata dell'autocritica è limitata, da un lato, dalla precisazione: «o meglio imezzi usati non conseguivano lo scopo», dall'altro, dall'affermazione:«L'alternativa democratica è per noi uno strumento che può servire anche arinnovare i partiti, compresa la Dc». Dunque, la prospettiva - iIIusoria - di"rinnovare la Dc" non era neppure allora abbandonata.

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suffragare le sue affermazioni con riferimenti a elaborazionipassate del partito e di Togliatti in particolare:

«Se si guarda alla storia del nostro paese, troviamo che le forzeprogressiste rivoluzionarie che hanno awto, a seconda dei periodi,natura di classe e orientamenti ideali diversi, sono riuscite a fareavanzare il corso reale degli awenimenti solo quando hanno saputotener conto di due fattori: quello internazionale e quello interno; equando, con iniziativa rinnovatrice e stimolatrice, accompagnata daun vi~le senso realistico, esse hanno saputo trascinare versoobiettivi di mutamento positivo dell'assetto sociale e politico altreforze non rivoluzionarie, ma anch'esse in qualche misurainteressate o sensibili a obiettivi di progresso ttenerale dellanazione italiana. Ma troviamo nella storia italIana anche ilcontrario e cioè momenti in cui le forze rivoluzionarie eprogressiste non hanno saputo esercitare questa loro funzionestimolatrice e rinnovatrice...Questa è la lezione di strategia di oltre mezzo secolo di storianazionale. Questa lezione è che le forze rivoluzionarie cambianodawero il corso degli awenimenti quando -evitando gli erroriopposti, ma che le rendono egualmente subalterne, del codismo edel settarismo estremista e radicaleggiante -esse sanno stare nelfilo della corrente che avanza e sanno associare alla loro lotta leforze più varie. Ogni avanzata, ogni reale progresso sociale, politicoe ideale è stato sempre il frutto di un'alleanza di forze diverse nonomogenee, ma eterogenee sia materialmente che idealmente. Maquesta non è solo l'enunciazione di una strategia unicamentepolitica e unicamente nostra. E' per noi, e pensiamo debba divenireper tutti, una visione generale dei modi secondo cui può svilupparsila società italiana, possono svilupparsi i rapporti politici, quelli trale singole persone e quindi la stessa vita morale. Uno dei caratterid'marxismo italiano è sempre questo».

L'interpretazione del Risorgimento come un processostorico contraddistinto da compromessi non è di per sé unanovità e Berlinguer avrebbe potuto richiamarsi tranquilla-mente a Gramsci. Ma quella che in passato era stata una in-terpretazione degli avvenimenti, diventa una indicazione distrategia politica, quasi una concezione del mondo. Su que-sto terreno viene individuata la specificità più profonda della"viaitaliana al socialismo"!

C'è bisogno di ricordare che la lettura del Risorgimentocome compromesso, in Gramsci e, mutatis mutandis in stu-

diosi come Salvemini o come Dorso, non era disgiunta dalladenuncia del prezzo pagato per tale compromesso? Le stesseTesi di Lione erano ritornate esplicitamente sulla portataconservatrice e sulle conseguenze negative del compromessorisorgimentale.

Berlinguer sembra dimenticare tutto questo e all'astrazio-ne determinata preferisce l'astrazione metastorica. In altritermini, i vecchi mali dell'Italia - tutte le "arretratezze" e tuttele "distorsioni", tutte le strozzature nello sviluppo della rivo-luzione democratica - potrebbero essere superati con unanuova prassi di "compromesso", mentre proprio nei compro-messi storici precedenti dovrebbe esserne individuata la ra-di ,ce.

E' nel momento della sua maggiore influenza, soprattuttoa livello elettorale e parlamentare, alla metà degli anni '70,che il Pci partecipava con un ruolo di primo piano all'elabo-razione del progetto eurocomunista. Era un tentativo, conambizioni di sistematizzazione teorica e strategica, di affron-tare i problemi che la dinamica del Mercato comune ponevaal movimento operaio; di dare una risposta agli interrogativiposti dalla crisi dello stalinismo e dei "paesi socialisti"; di ri-defInire un'identità dei partiti comunisti di fronte alle social-democrazie; di accrescere il peso di quelli che erano allora igrandi partiti comunisti del mondo capitalista con una pro-spettiva di azione comune. Di rado progetto tanto ambiziososi è concluso così rapidamente e con un così clamoroso falli-mçnto.

Vi hanno contribuito gli insuccessi del Pcf e le sue marceindietro sullo stesso terreno su cui l'accordo era stato rag-giunto, il rapido declino e la crisi lacerante del Pce, oltre chel'indebolimento delle posizioni dello stesso Pci già a partiredal '79.

Tutti questi avvenimenti non potevano non intaccare lacredibilità e la forza di attrazione di un polo eurocomunista,

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distinto da quello dei pariti socialdemocratici. Ma, al di là, diqueste vicende, l'eurocomunismo entrava in crisi e sparivadalla scena per le contraddizioni che lo avevano segnato sindall'inizio.

In primo luogo, l'autonomia nei confronti dell'Urss e lacritica alla sua direzione potevano offrire vantaggi tatticicongiunturali, ma provocavano inevitabilmente una diluizio-ne di identità. Parallelamente, l'abbandono del modello "sto-rico" di socialismo permetteva di non continuare a condivide-re pesanti responsabilità, ma comportava un appannamentodi prospettiva strategica in quanto veniva meno il riferimentoa un'esperienza storica concreta e, in cambio, non si andavaal di là di ipotesi generiche che, nella misura in cui si precisa-vano, erano sempre più simili a quelle tradizionali della so-cialdemocrazia.

L'inserimento sempre più profondo nelle istituzioni e neimeccanismi della società esistente aumentava l'influenza invari campi e consentiva di pesare di più nel giuoco politico"normale", ma impediva di apparire come una vera alternati-va, in particolare agli occhi degli strati più colpiti dall'ondalunga di ristagno.

D'altra parte, il tentativo di far emergere un'alternativa alivello europeo era ostacolato sin dall'inizio dal fatto che glistessi partiti eurocomunisti tendevano a differenziarsi suquestioni non secondarie - come l'atteggiamento verso la Na-to, l'allargamento del Mercato comune e la politica nei con-fronti dei socialisti - in rapporto, in ultima analisi, alle loroesigenze "nazionali" e alle differenziazioni esistenti negli stes-si gruppi dirigenti borghesi dei loro rispettivi paesi.

Infme, l'eurocomunismo non poteva evitare un'altra, fon-damentale contraddizione: nella misura in cui una strategiariformista in un contesto dato poteva disporre di margini diconcretizzazione ed era accettabile da parte di larghi settoridi massa, i partiti socialdemocratici apparivano neccssaria-

mente come strumenti più credibili, sia per le loro tradizioni,sia per il loro più sistematico inserimento nelle istituzioni de-mocratico-borghesi. E' quanto avveniva in Portogallo, Spa-gna, Francia e nella stessa Grecia. In Italia, il divario dei rap-porti di forza a partire dalla fine degli anni '40 ha costituitoun serio elemento di freno, ma neppure questo ha potuto allalunga scongiurare l'ormai prolungato declino del Pci23.

Due altri apporti di Berlinguer all'evoluzione ideologica epolitica del suo partito continuano a essere messi in risalto:l'affermazione del "valore universale della democrazia" e l'i-dea-forza dell"'austerità".

Per quanto riguarda la concezione della democrazia, daadepti impenitenti del materialismo storico contestiamo ilconcetto stesso di "valore universale". La democrazia è unacategoria storica che non può essere correttamente definitafacendo astrazione dai suoi concreti contenuti, dal contestosocio-economico in cui si realizza: altrimenti, si usa un con-cetto metastorico, assolutamente astratto, in ultima analisi diben scarso valore operativo. Comunque sia, non si tratta af-fatto di un apporto originale di Berlinguer o di altri dirigentio teorici del Pci, che su questo terreno - dovrebbe essere ar-cinoto - sono stati preceduti sia da teorici liberai democratici,sia, per attenersi al movimento operaio, dalla socialdemocra-zia da circa un secolo a questa parte.

.Quanto all'austerità, alla lettura delle defmizioni più pub-blicizzate - per esempio, quella del discorso di Berlinguer al-l'Eliseo o quella delle tesi del XV Congresso - c' è da chie-dersi se non si tratti di un abuso concettuale o terminologico.

23 Per un'analisi più ampia dell'eurocomunismo e delle sue varianti (inparticolare, quella ingraiana) si veda il nostro Destino di Trockij, cito esoprattutto il capitolo «Teorizzazioni e mistificazioni dell'eurocomunismo».Si veda anche un nostro articolo comparso sulla rivista canadese Critiquessocialistes, autunno 1986.

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Qtie1la che si ipotizza è una trasformazione radicale dellescelte economiche, della gerarchia dei consumi, dei modi divita e delle aspirazioni culturali, tutte cose che con l'austeritàcomunemente intesa hanno ben poco a che(vedere e che, nelcontesto e nella prospettiva politica in cui venivano enuncia-te, non potevano che apparire illusorie, una musica di un fu-turo indefinito24.

Formulazioni che si riducevano a ideologia mistificatoria,dato che il Pci appoggiava in quel periodo governi cosiddettidi unità nazionale, che dell'austerità davano una interpreta-zione molto più prosaica2S,invitando i lavoratori a stringerela cintola!

A varie riprese, specie negli ultimi anni della sua vita,Berlinguer ha sottolineato con accenti volutamente dramma-tici i pericoli che incombono sulla società umana e, parafra-sando Marx, ha prospettato l'eventualità che, in assenza ditrasformazioni rivoluzionarie,

«si vada incontro alla rovina delle classi sociali in lotta» 26.

Sono preoccupazioni angosciose, che condividiamo. Male soluzioni prospettate sono senza comune misura con i pro-blemi sollevati. Non dimentichiamo che proprio durante lasegreteria di Berlinguer il Pci ha accettato quel Patto atlanti-co, contro la cui stipulazione aveva condotto una delle sue

24 Cfr., tra l'altro, a questo proposito, la scelta di scritti di Berlinguer inRinascita, n. 25 (22 giugno 1984). Significativa la seguente citazione: «Lungidall'essere una concessione ai gruppi dominanti o alle esigenze delcapitalismo, l'austerità può diventare una scelta consapevole contro di essi,e perciò con un alto e avanzato contenuto di classe; può e deve essere unodei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un mododiverso del vivere sociale, conduce la lotta (nelle condizioni di oggi) per isuoi antichi e sempre validi ideali. Nelle condizioni odierne, infatti, èimpensabile impostare una lotta reale ed efficace per una società superioresenza muovere dalla prima imprescindibile necessità dell'austerità».25 Nelle tesi congressuali già citate si parla della necessità di frenare isalari.26 Per esempio, nel discorso dell'Eliseo già richiamato.

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più dure lotte: non potrà certo essere quella la via -per ri-prendere una sua espressione - di

«superare progressivamente la logica deU'imperialismoe delcapitalismo».

E' vero che Berlinguer ha avanzato la prospettiva di "ungoverno mondiale" -e questa sarebbe, secondo i suoi sosteni-tori, un'altra delle sue idee più valide e originali. Senonché,prospettare un governo mondiale senza legare questa ipotesia un progetto di trasformazione rivoluzionaria radicale, a unrovesciamento del sistema esistente, è una pura e sempliceutopia. Né le cose vanno meglio quando, per essere più con-creti, si presenta l'Onu - dominata delle grandi potenze escudo dei loro interessi - come una prima approssimazionedell'auspicato governo mondiale.

Quanto poi all'originalità, commentatori di buone letturehanno ricordato che il governo mondiale era stato prospetta-to niente meno che da Immanuel Kant, non più nostro con-temporaneo di Karl Marx o di Rosa Luxemburg, per nonparlare, si parva licet componere magnis, dei dirigenti dellasocialdemocrazia, che hanno inserito da tempo la formulasuaccennata in loro testi ufficiali27.

Anche su questo piano le contraddizioni del berlingueri-smo appaiono in piena luce.

27 Per esempio, in occasione del Consiglio generale di Oslo del 1962.

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6. L'ULTIMA SVOLTA?

Si potrebbe affermare, un po' paradossalmente, che, seOcchetto avesse proposto per il XIX e per il XX Congressopiù o meno gli stessi testi che ha redatto da un anno a questaparte senza collegarli alla proposta di cambio del nome delpartito, avrebbe riportato, grosso modo, il successo del con-gresso precedente, senza provocare troppe lacerazioni edevitando pericoli di scissione.

Una simile affermazione racchiuderebbe un grano di ve-rità. Infatti, l'iniziativa di Occhetto non è stata affatto un ful-mine a ciel sereno, e da due punti di vista: perché è stata losbocco di un processo di decenni e perché era stata aticipataal XVIII Congresso, celebrato, come si ricorderà, all'insegnadel "nuovo corso" e del "riformismo forte".

Già allora la "novità" era consistita, in buona sostanza,nell'abbandono d'ogni impostazione classista, sul piano delleanalisi e degli orientamenti: il Pci non era più presentato co-me il partito della classe operaia o dei lavoratori e non si usa-va più neppure l'espressione "movimento operaio"l. Cossuttal'aveva fatto notare nel suo intervento affermando, tra l'altro,che il partito si dirigeva verso rive libcraldemocratiche. Tragli obiettivi centrali era stato, del resto, fissato quello di unademocrazia economica abbozzata nei termini seguenti:

1 Stando ai resoconti de l'Unità, l'espressione «movimento operaio» nonsarebbe comparsa che nel messaggio di Gorbaciov.

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«La democrazia economica rappresenta una nuova frontiera dellademocrazia politica e la sua espansione nella sfera dei poterisociali. Essa deve investire diversi campi: riforma dello Statosociale; democratizzazione dell'impresa; redistribuzione dei redditi,della ricchezza e della proprietà; creazione di nuove forme diimprenditorialità. La lotta per la democrazia economica devequalificarsi come crescita delle possibilità di accesso dei lavoratorialla conoscenza e al ~overno delle trasform~ioni dell'impresaa edelle loro implicaziom sociali sociali e umane» .

Si tratta, come si vede, di concetti e propositi perfetta-mente accettabili da liberaldemocratici e anche da imprendi-tori vagamente progressisti: tanto più che sono inseriti in unorientamento «il cui primo obiettivo deve essere quello del-

l'allargamento della base produttiva~ di un raffozamento del-la produttività generale del sistema» .

Un altro aspetto della problematica attualmente in di-scussione era stato anticipato nel documento sul partito:

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«C'è bisogno, oggi in Italia, a sinistra -vi si leggeva - di unmoderno partito di massa e di opinione capace di rappresentare eunire domande e bisogni di ceti deboli con aspiraziom ed esigenzedi ceti forti, in un progetto che, saldando chi è "nello" sviluppo conchi rischia di rcstarne "fuori", dia alla modernità una diversaqualità sociale».

A proposito del nuovo statuto, va dato atto a Piero Fassi-no di aver fornito su l'Unità, nel corso del Congresso, unagiustificazione "teorica" innovativa, al di là di tutte le formu-lazioni usate anche da partiti socialdemocratici inseriti dapiù. lunga data nelle istituzionisecolo. Secondo Fassino, ilnuovo statuto corrisponde a «un modello che si ispira a quel-lo dello Stato democratico di diritto» e, più precisamente, in-troduce «una nuova costituzione di poteri ispirata al modelloparlamentare». Il Comitato centrale è concepito «come unacamera, la direzione come un governo, la segreteria comet

2 Documento politico, II parte, punto lO.3 Ibid., punto 12.

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l'ufficio del presidente del consiglio e viene introdotta la fi-gura del presidente del Comitatocentrale». .

Se si tien conto che il Pci si dichiara favorevole a un'ac-centuazione del ruolo del primo ministro, se ne può dedurreche al segretario viene assegnata una funzione nettamentepreminente rispetto agli altri dirigenti4. Alla fine del congres-. so, l'Unità non si peritava di usare il titolo:

«Il PCI di Occhetto».

Si sarebbe tentati di rievocare il famigerato culto dellapersonalità. In realtà, non si tratta tanto di un impossibile ri-torno al capo carismatico dell'era staliniana, quanto dell'in-tento di costruire, con un uso "moderno" dei mass media, unleader alla maniera dei partiti parlamentari più tradizionali(e da contrapporre, in primo luogo, al "decisionista" Craxi)5.

Lo "strappo" del 12 novembre

Richiamare le anticipazioni del XVllI Congresso non si-gnifica sottovalutare lo "strappo" del 12 novembre 1989, sin-tetizzato simbolicamente nella proposta di cambiare il nomedel partito. Il nocciolo del progetto è di superare ormaiesplicitamente anche l'impostazione tradizionale dei partiti

4 Di fatto, con il suo "colpo" del 12 novembre e con altre sue iniziativepersonali, Occhetto non ha fatto altro che tradurre in pratica questaconcezione.5 Va in questo senso anche il lancio del "governo ombra", sbiaditascimmiottatura della tradizionale prassi britannica. A questo proposito, èstrano che non si sia notato che la scelta di Occhetto come presidente diquesto governo reca il messaggio che, se potesse formare un governo vero,i! Pci sarebbe pronto a identificare capo del governo e segretario delpartito, incurante di tutte le esperienze negative fatte sia nelle democrazieparlamentari sia nelle società di transizione burocratizzate.

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riformisti di tipo socialdemocratico e di sostituire alla con-trapposizione tra partiti del movimento operaio e partiti bor-ghesi, la contrapposizione tra "progressisti" e "conservatori". Iriferimenti, del resto annacquati e in larga misura tattica-mente strumentali, al ruolo che la nuova formazione attribui-rà ai lavoratori, non alterano la sostanza delle cose.

Occhetto sa benissimo che senza l'appoggio (in primoluogo elettorale) delle grandi masse, composte nella stra-grande maggioranza - e ciò non dispiaccia ai troppo disinvol-ti "modernisti" - da lavoratori salariati, nessuna forza "pro-gressista" può sperare di imporsi. Ma questo non significache egli accetti l'idea dell'indipendenza politica dei lavorato-ri come classe e della necessità della loro lotta per l'egemo-nia. Il concetto stesso di egemonia sembra, del resto, spariredalla problematica occhettiana, con tanti saluti ad AntonioGramsci! .

Il "nuovo" progetto comporta, a livello ideologico, il com-pletamento della rottura con le concezioni marxiste o piùsemplicemente materialistiche. Ciò si traduce, in primo luo-go, in un privilegiamento sistematico dei temi politico-ideo-logici rispetto a quelli socio-economici. In secondo luogo, èdiluita al massimo la critica alla società capitalistica e persi-no la contrapposizione tra le varie forze politiche.

Occhetto, tra l'altro, afferma che

«non si tratta di contrapporsi tra antidemocristiani e anticomunisti,come non ha senso essere antisocialisti... L'alternativa implica cheuna ricollocazione strategica di tutte le forze di progresso e ledifferenziazioni tra conservatori, moderati e riformisti sonodestinate ad attraversare gli attuali schieramenti e a dar vita ainedite aggregazioni di maggioranza e a nuove aggregazioni diopposizione e, noi pensiamo, nuove forze politiche».

Sempre a suo avviso, si tratterebbe di

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«unire, per la prima volta nella storia dell'umanità, due grandiideali che, nel nostro secolo, sono rimasti divisi e contrapposti:l'ideale di libertà e quello di giustizia».

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Infine, per completare il quadro, il disegno di integrazio-ne nella sinistra europea si concretizza nel proposito di ade-rire formalmente all'Internazionale socialista6.

La "dichiarazione di intenti" che Occhetto ha presentatonell' ottobre scorso, rilancia, con ambizioni di sistematicità,temi vecchi e nuovi, quasi tutti già presenti in relazioni, arti-coli e interviste, oltre che nei testi del XIX Congresso:

- l'analisi della situazione mondiale nell'interpretazionegorbacioviana dell'interdipendenza e l'idea del governo mon-diale, di cui l'Onu sarebbe l'anticipazione;

- la riaffermazione della insostituibilità dell'economia dimercato e l'obiettivo della democrazia economica, sia sulpiano nazionale sia su quello internazionale (<<lanuova sini-stra non combatte l'internazionalizzazione - avrebbe dovutodire più francamente alle multinazionali - ma si pone il pro-blema della sua regolazione democratica» );

- una «posizione nuova» sulla «questione del potere»,«non già e non più come presa del potere statale, ma comediversa organizzazione del potere stesso»; «il socialismo co-me processo di democratizzazione integrale della società»;

-un programma di governo «in grado di dare risposta aibisogni essenziali di tutti i cittadini» e la centralità del temadella «riforma della politica» (riforme istituzionali, ecc.);

- il «superamento del centralismo democratico» che rap-presenti «la più netta discontinuità non solo con la tradizionedel comunismo internazionale, ma anche con quella del co-munismo italiano»;

- «l'idea di una sinistra rinnovata; di una sinistra che, inItalia, si impegna a lavorare per condurre, senza disperderle,a una sintesi più alta le idealità e le esperienze del comuni-

6 Si potrebbe pensare a una certa incoerenza, data la trasformazione chesi vuole operare nella natura del partito. Non è così, perchéall'Internazionale socialista aderiscono partiti e formazioni che nonappartengono né sono mai appartenute al movimento operaio.

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smo italiano, del riformismo liberale e socialista, del cattoli-cesimo sociale e democratico; di una sinistra che si apre alconfronto con tutte le correnti e le forze di rinnovamentomondiali e che intende così concorrere alla realizzazione delgrande progetto della liberazione umana».

L'adozione del nuovo nome, Partito democratico della si-nistra, è, secondo i proponenti, l'espressione coerente delnuovo progetto politico e organizzativo e non è solo dettatadal desiderio di scindere le proprie responsabilità da quelledel movimento comunista tradizionale e dei "paesi del socia-lismo reale".

Non disponiamo, mentre scriviamo, della relazione sullaconcezione del partito tenuta alla conferenza programmaticadell'ottobre scorso. E' toccato, comunque, un'altra volta aPiero Fassino sintetizzare la portata della nuova evoluzione:«da partito dell'emancipazione a partito della cittadinanza».Di per sé, la formula non dice molto, ma, nella misura in cuiha un senso, costituisce un'ulteriore accentuazione delle im-postazioni prevalse negli ultimi anni e in particolare del do-cumento già menzionato del XVIII Congresso.

Già allora si era detto

«Addio al centralismo democratico»

(con questo titolo l'Unità presentava il proprio resocon-to), naturalmente persistendo nella vecchia mistificazione -oggi più diffusa che mai, nell'orgia di denigrazione di tuttoqU6110 che può riferirsi al comunismo - che confonde, perignoranza o in perfetta malafede, centralismo democraticodell'epoca di Lenin e dei primi anni dell'Internazionale co-munista e centralismo "democratico", in pratica brutalmenteburocratico, dell'era staliniana, attribuendo al primo i trattiripugnanti del secondo.

E già allora, c'è appena bisogno di dirlo, il partito era co-sa ben diversa da quello che era stato non solo negli anni '20

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o nel periodo della lotta clandestina, ma anche negli anni '40e '50, cioè non più un partito concepito come lo strumento diuna lotta anticapitalistica nella prospettiva di una società so-cialista, ma un partito sempre più modellato sulle istituzioni,in cui i "rivoluzionari di professione" erano divenuti parla-mentari, IImmini!:tratori locali, burocrati sindacali, o mana-ger di cooperative e, ai livelli inferiori, funzionari dalla car-riera predeterminata secondo criteri abbastanza rigidi eregole non scritte. Ora, il superamento dell'impostazioneclassista esige il passaggio al «partito della cittadinanza», ca-pace di adattarsi alla società nel suo complesso, come è statodetto, a tutte le sue pieghe.

Abbiamo accennato all'analogia di Fassino con le istitu-zioni dello Stato. Anche dal punto di vista puramente teori-co, si tratta di una concezione erronea: perché il partito -dato elementare - è un'organizzazione volontaria, cui si ade-risce per conseguire det~rminati fini e non per rispecchiarela società qual è (e neppure con il proposito idealistico-setta-rio di fare del partito una specie di nucleo embrionale di unasocietà futura); perché implica un appiattimento su istituzio-ni che, anche a prescindere dalle loro distorsioni, hanno fina-lità qualitativamente diverse da quelle di un partito; perché,in ultima analisi, costituisce una rinuncia ad assumere il ruo-lo di una forza che esprima e contribuisca a realizzare unaproposta strategica unificatrice degli interessi, dei bisogni edelle aspirazioni di determinate classi e di determinati stratisociali, inevitabilmente contro quelli di altre classi e di altristrati.

n testo della maggioranza per il XX Congresso si ricolle-ga a tutte le impostazioni suaccennate, proclamando la ne-cessità di creare una nuova forza politica, accettando - concorrettivi che contesterebbero ormai solo oltranzisti filothat-cheriani Ofiloreaganiani - l'economia di mercato (in partico-lare per risolvere il problema del Mezzogiorno), delineando

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una prospettiva di cogestione delle imprese, ribadendo l'assepolitico della «riforma del sistama politico»7 e riaffermandol'obiettivo di una federazione europea come sviluppo dellaCee. Allo scopo, tuttavia, di mettersi al riparo dall'accusa dirinunciare all'obiettivo socialista per spostarsi «nel campodel radicalismo e della liberaldemocrazia», spiega in qualcheparagrafo introduttivo che il nuovo partito manterrà «il gran-de obiettivo del socialismo» e «l'idea della democrazia comevia del socialismo». Niente di troppo impegnativo, ma tra-spare qui la difficoltà di rompere completamente con la tra-dizione, compiendo un vero e proprio salto di qualità nellanatura di classe del partit08.

Quando questo saggio sarà sotto gli occhi dellettor~ unodei nodi della crisi del Pci sarà probabilmente sciolto: si sa-prà se ci sarà una scissione ed eventualmente quale ne saràl'ampiezza. Il corso degli avvenimenti chiarirà orientamenti eprospettive di una eventuale nuova formazione comunista,che non potrà in ogni caso evitare un'ampia riflessione criticae autocritica per definire la propria identità e ripartire su ba-si nuove, ricollegandosi alle tradizioni rivoluzionarie più ge-nuine, in Italia e internazionalmente.

Limitiamoci qui a dire che, a nostro avviso, il valore dellecritiche alle impostazioni della maggioranza è stato in larga

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7 Cfr. l'Unità, 19 novembre 1990, supplemento. Il carattere democratico dicerte riforme prospettate è più che discutibile. Per esempio, la scelta dellacoalizione di governo da parte degli elettori -che apre la strada al premio dimaggioranza -può tradursi in un attacco al diritto delle minoranze a essere

rappresentate secondo la loro forza. Quanto alla soppressione del voto dipreferenza, la concorrenza tra candidati a suon di una propa~ndacorruttrice è senza dubbio scandalosa, ma la pura e semplice abolIZionedelle preferenze rischierebbe di accrescere il potere delle direzioni e degliapparati dei partiti.8 La «mOZIone Bassolino», nella misura in cui non corrisponde a unaoperazione puramente tattica, esprime una sensibilità del partito che, purnon essendo contraria all'operazione del 12 novembre, vuole mantenerealcuni motivi dell'impostazione berlingueriana.

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misura sminuito dal fatto che i firmatari della "mozione In-grao-Natta" hanno continuato a difendere, essenzialmente, leconcezioni che ispiravano il partito all'epoca di Togliatti e diBerlinguer e hanno espresso a loro volta un giudizio senza ri-serve positivo sul gorbaciovismo. Non hanno neppure con-testato - salvo qualche osservazione critica marginale in alcu-ni interventi - la proposta di adesione all'Internazionalesocialista, senza neppure abbozzare - come non aveva fattoOcchetto - un bilancio critico del passato di questa organiz-zazione e un'analisi complessiva della sua realtà presente.

Senza ignorare le diversità, considerazioni analoghe val-gono per la minoranza rappresentata da Cossutta. I suoi giu-dizi negativi sugli orientamenti maggioritari sono stati piùdrastici e, in particolare, le sue critiche alle direzioni sinda-cali più nette e in larga misura condivisibili. Ma, come incongressi precedenti, Cossutta ha continuato a presentaresotto luce favorevole l'epoca togliattiana, con la sua strategiariformista gradualistica, e si è espresso anche lui senza riser-ve a favore di Gorbaciov, non rivolgendo, d'altra parte, chequalche critica minore all'Internazionale socialista.

La mozione unificata delle due opposizioni per il XXCongresso mantiene, in sostanza, le caratteristiche delle duemozioni precedenti. Pur proclamando la necessità della «ri-fondazione», non solo non sviluppa una riflessione criticasull'esperienza storica del Pci, ma non esita a rivendicare imeriti di Berlinguer e dello stesso XVII Congresso (<<pienaappartenenza alla sinistra europea») come pure del «partitonuovo» di Togliatti9.

In altri termini, riafferma i criteri ispiratori di una strate-gia riformista gradualistica, sia sul piano interno sia su quellointernazionale (per esempio, rivendicando la centralità del

9 E' vero che il testo allude a «difetti» dell'analisi e della strategia delpartito negli anni '60 e '70, ma si tratta di critiche del tutto paniali.

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parlamento europeo e la «sovranità» dell'assemblea delleNazioni Unite, un controllo delle multinazionali ecc.). Rie-cheggiando temi che la tendenza del Manifesto aveva abboz-zato al momento della sua costituzione come organizzazioneindipendente, delinea una concezione che elude il problemadel potere (elusione più facile nelle formulazioni che nellarealtà!) e che è gradualistica nella stessa impostazione delproblema del comunismo lO.

Ha, d'altra parte, tonalità berlingueriane quando prospet-ta «un nuovo ciclo democratico», che rischia di ridursi a unavariante della formula degli anni '70 - già ricordata - della«seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista».Per quanto riguarda, poi, il problema del partito, ci si toglied'impaccio con la ben poco impegnativa metafora della «re-te», guscio vuoto di cui non ci si sforza molto di precisare ilcontenuto.

Le nuove contraddizioni

Al di là delle vicende congiunturali di un processo ancoraaperto, quale potrà essere il futuro della nuova formazione(o del partito ribattezzato)?

Innanzi tutto, nella individuazione dei possibili sviluppinon bisogna confondere intenzioni di un gruppo dirigente e

lO «Per noi oggi la parola "comunismo" indica la costruzione nel presentedi un un punto di vista e di una pratica autonoma, in grado di realizzare, quie ora, fonne di liberazione da tratti di oppressione e di dominio propri deirapporti sociali capitalistici. Questo modo di intendere il comunismo non èstato travolto dal crollo dei regimi dell'Est europeo secondo il modellosovietico. Quella che è fallita all'Est è una società derivata da unaconcezione del socialismo che ha posto come centrali la presa del poterestatale e la statizzazione dei mezzi di produzione».

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pratica effettivamente possibile. E' ormai difficile infatti, senon escluso, che sorga una formazione politica completa-mente nuova secondo l'idea originaria della Costituente. Il"nuovo" partito sarà essenzialmente una reincarnazione delPci con tratti ideologici liberalsocialisti o democratico-radi-cali, con un profIlo ancor meno defmito e più eclettico del-l'attuale. Di fatto, continuerà a svolgere un ruolo simile aquello delle socialdemocrazie di altri paesi dell'Europa occi-dentale, accentuando la logica di partito "progressista", radi-cale, ma con una base sociale, che, al di là di possibili varia-zioni quantitative, resterà prevalentemente operaia epopolare. Politicamente, sarà caratterizzato sin dal suo na-scere dalla coesistenza di posizioni e tendenze diverse.

Ci saranno militanti o raggruppamenti tendenti ad affer-mare una prospettiva di "antagonismo" nei confronti della so- .cietà capitalistica, sia pure in forme moderate (rilanciando,per esempio, il discorso berlingueriano sulla terza via o sullaterza fase). All'estremo opposto sussisterà la tendenza, perusare il gergo alla moda, "migliorista", la cui logica è quella distimolare una politica sempre più sistematicamente - e mo-deratamente - riformista, nella prospettiva di una convergen-za, se non unificazione, con il Partito socialista.

Una formazione politica di questo tipo subirà inevitabil-mente la contraddizione propria dei partiti socialdemocraticiin questa fase, i quali - come abbiamo visto - da un lato si as-sumono sempre di più, anche quando sono all'opposizione,responsabilità primarie nella gestione del sistema (e in unafase in cui conquiste parziali economiche, sociali e anche po-litiche sono state intaccate seriamente e subiscono una co-stante usura); dall'altro, devono preoccuparsi di non perderel'appoggio delle masse proletarie e popolari che costituisco-no pur sempre la fonte della loro forza.

Vada sé che tale contraddizione si acutizzerebbe al mas-simo qualora il nuovo partito diventasse effettivamente parti-

to di governo. Non ci vuole molta fantasia per immaginare,che cosa farebbe in questa eventualità. Non si tratta di scru-are l'avvenire, ma semplicemente di tirare le somme di quel-.oche hanno fatto e fanno partiti riformisti come il Psoe e ilsf, le cui strategie, i cui programmi economici e politici e le

cui ideologie sono da tempo condivisi, nella sostanza, dal Pcie che il Pds condividerà ancora di più. E' un riflesso della de-bolezza intrinseca delle impostazioni del partito il fatto chenon abbia mai cercata di delineare un vera bilancia di espe-rienze come quelle dei governi di Gonzalez e di Mitterrande, ancor mena, chiarita in cosa una sua azione di governa sidistinguerebbe eventualmente da quello dell'uno e dell'altra.

Anche se riuscisse ad arrestare la tendenza al declino -ilche è tutt'altra che sicura -e a evitare tendenze centrifughe alacerazioni, il partito trasfarmato si scontrerà con ostacolidifficilmente sormontabili, sullo stessa piano su cui si intendeporsi. Il rulla dei tamburi propagandistico-ideolagici e il cla-mare dei mass media nan permetteranna ad Occhetta di tra-sfarmare in aro quel che luce nei testi di un cangresso.

Tratti specifici e tipicità

Una delle chiavi interpretative della vicenda del Pci sucui hanna constantemente messo l'accento i suoi dirigenti, isupi intellettuali e studiosi, italiani e nan italiani, è quella del-la sua specificità, se non addirittura della sua eccezianalità.

Che tutto l'arco della staria del partita sia stata contrad-distinto da forti elementi peculiari, è fuari discussiane. Sindalle .origini ha avuta due leader come Amadea Bordiga eAntanio Gramsci, difficilmente paraganabili, anche se perragioni diverse, a quelli di altri partiti comunisti.

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In secondo luogo, il fatto di aver agito come un partito!clandestino negli anni '30 e di aver conosciuto la sua massim

~crescita nella seconda metà degli anni '40, ha fatto sì che lsua stalinizzazione fosse meno profonda e meno sistematidi quella subìta, per esempio, dal Pcf. Soprattutto dal Co -gresso del '56 ha condotto analisi della società in cui operavae delle sue tendenze di sviluppo che, pur non sottraendosi acondizionamenti internazionali, si distinguevano per una benmaggiore aderenza alla realtà da quelle dei partiti fratellidella stessa Europa occidentale. E più profondamente e conmaggiore continuità di questi ultimi ha potuto inserirsi, aquasi tutti i livelli, nelle istituzioni. Nonostante reticenze, esi-tazioni e ripiegamenti, ha affrontato con maggiore impegnola problematica posta dalla crisi dello stalinismo a partire dalcruciale anno 1956. Certe poleimche di quell'epoca - attornoal suo VIII Congresso - hanno rivelato, per esempio, un suomodo particolare di concepire il rapporto tra obiettivi imme-diati e obiettivi più generali, il che doveva attirargli già alloraaspre critiche da dirigenti del pcfll. Alle sue specificità hacontribuito, d'altra parte, l'influenza delle concezioni politi-che e teoriche di Gramsci, che, pur nelle mistificazioni inter-pretative di cui sono state oggetto, hanno agito da contrap-peso, almeno parziale, allo stalinismo e alle sueschematizzazioni e aberrazioni metodologiche.

Altro elemento importante: l'esistenza in Italia di un Par-tito socialista, a sua volta peculiare, che, prima come alleato,poi come concorrente, lo ha spesso costretto ad affrontareproblemi interni e internazionali da un angolo di visuale nonesattamente coincidente con quello della direzione sovieticae del movimento comunista, staliniano e post -staliniano. Trail 1968 e il 1975 ha dovuto, d'altra parte, fare i conti con mo-

vimenti di massa e organizzazioni sorti da una crisi politica eociale prolungata: per rispondere alla sfida e recuperare ilerreno perduto, ha dovuto non solo fare appello a tutta laua duttilità tattica, ma anche procedere a revisioni abba-anza radicali e rompere, almeno in parte, con vecchie prati-e organizzative (per esempio, adeguando alle situazioni

nuove il rapporto con le organizzazioni sindacali).Nel suo stesso funzionamento interno ha dato prova di

una maggiore apertura e di una maggiore tolleranza, nono-stante il permanere di metodi di direzione verticistici e il di-vieto di formare tendenze o correnti critiche. I dibattiti pro-trattisi per vari mesi dopo il XX Congresso del Pcus, conampia partecipazione di quadri e militanti, erano stati, d'al-tra parte, una prima significativa indicazione dei mutamentiche si delinevano. E non c'è bisogno di ricordare, infme, ilruolo di primo piano che il Pci ha assunto per far evolvere irapporti tra direzione sovietica e direzioni dei partiti comu-nisti e, quindi, per mutare strutture e articolazioni del cosid-detto movimento comunista già prima del suo dissolvimento.

Tutto questo non va sottovalutato. Tuttavia, se ci si limitaa questi o analoghi rilievi, non si va al fondo del problema,rappresentato invece dal fatto che le tensioni e le contraddi-zioni che hanno segnato l'evoluzione del Pci e, in ultima ana-lisi, la sua trasformazione in partito neoriformista, qualitati-vamente non dissimile dai partiti socialdemocratic~ classici emoderni, erano inerenti a tutti i partiti comunisti staliniani.Era comune la contraddizione tra la subordinazione al siste-mà staliniano, cioè agli interessi dell'V rss e della sua castadirigente, e l'esigenza di esprimere interessi ed esigenze del-le classi sfruttate delle rispettive società nazionali. Era comu-ne la contraddizione tra la loro collocazione internazionale eil loro inserimento - nei casi di maggiore crescita - semprepiù effettivo nei meccanismi e nelle istituzioni della societàdemocratico-borghese.ln altri termini, tensioni e contraddi-

11 Cfr. in particolare la polemica con Roger Garaudy, allora uno deiprincipali dirigenti del Pcf (a proposito di questa polemica si veda il nostroTeoria epolitica comunista nel dopoguerra, ci!., pp. 91-95).

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zioni di fondo erano -e continuano a essere, nella misura in

1cui il problema esiste ancora -non specifiche, ma tipiche.

TIPci ha potuto svolgereun ruolo d'avanguardia-d'avanguardia dal suo punto di vista e da quello dei partiti comuni

;sti che si sono via via allineati sulle sue posizioni -non perchavesse una natura qualitativamente diversa, o grazie a unmaggiore lungimiranza dei suoi dirigenti, ma per tutti i fatto-ri specifici che abbiamo an:tlin~ti. La conclusione è, dunque,che proprio questi fattori specifici hanno fatto si che essoesprimesse, meglio di qualsiasi altro, la tipicità della natura edella dinamica, nel contesto storico dato, di partiti comunistiche, sorti come partiti rivoluzionari, erano divenuti successi-vameqte partiti staliniani.

Un discorso analogo va fatto anche per l'evoluzione at-tuale. Una volta che si abbandoni l'analisi materialistica dellasocietà, interpretandone. conflitti e tendenze non più in ter-mini di lotta di classe, ma secondo i moduli d'una "moderna"sociologia, unilateralmente empirici e, nonostante le pretesedi concretezza, fondamentalmente astratti; una volta che siprospetti una strategia non solo di coesistenza,ma addiritturadi collaborazione tra partner sociali qualitativamente diversi,sia scala macroeconomica (con un'adesione a comuni model-li di sviluppo), sia nell'organizzzione e gestione delle azien-de; una volta che si rinunci a ogni prospettiva rivoluzionaria,è logico che si tenda a "superare" la stessa concezione classi-sta del partito e la nozione stessa di movimento operaio.

Questa tendenza, a trasformare i vecchi operai tradizio-nali in partiti democratico-radicali o progressisti, opera dun-que - nella pratica, va da sé, ancor prima che a livello diideologia-in tutti i partiti riformisti o neoriformisti, quali sisono venuti configurando negli ultimi due decenni.

Che il Pci sia stato il primo a porsi più esplicitamente suquesta via con la svolta del 12 novembre, è il risultato, ancorauna volta, di una serie di fattori specifici: la forma particolare

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~Ila cm; di un part;to che ha am...a una Wga mfIueoza diIpassa ed è, quindi, più stimolato a cercare una via di uscita;1\convergere dell'acutizzarsi del suo declino per ragioni in-tèrne e dei contraccolpi devastatori del crollo delle società ditiansizione burocratizzate; l'accentuarsi del pericolo rappre-sentato dalla concorrenza del Partito socialista; l'esistenza,nel corso degli anni '30, di una tradizione liberalsocialista,più significativa di quanto non si creda generalmente, rap-presentata durante la resistenza da una formazione di durataeffimera, ma con notevole incidenza sul dibattito politico-culturale di quegli anni, e mantenuta viva per decenni da in-tellettuali di incontestabile prestigio12.

Anche su questo piano, in conclusione, la tipicità emergegrazie al combinarsi di tutta una serie di tratti peculiari.

Punto d' amvo di un processo

Non ritorniamo sul contesto internazionale in cui si è ve-nuto deterntinando l'attuale processo del Pci. Non è forseinutile, invece, richiamare il contesto nazionale. Nel corsodel decennio che si è chiuso, i maggiori gruppi capitalistici ele forze conservatrici in generale sono riusciti a realizzare,con successo dal loro punto di vista, ristrutturazioni e con-centrazioni di largo respiro, a consolidarsi socialmente e aottenere una relativa ristabilizzazione politica. I lavoratori ele loro org;min,azioni sono stati costantemente sulla difensi-va, hanno registrato seri arretramenti e lo stesso peso specifi-co della classe operaia è diminuito a causa della contrazione

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12 Ci riferiamo in particolare a Norberto Bobbio, una delle rarissimepersone che possano vantare una coerenza di pensiero e una onestàmtellettuale irreprensibile dall'inizio degli anni'40 a questa parte.

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di vari settori industriali e di processi molteplici di frammen-tazione. Contemporaneamente, settori piccolo-borghesi, lacui radicalizzazione aveva avuto una parte così importantynella crisi della fine degli anni '60 e dell'inizio degli anni '70,hanno subìto un'involuzione ideologica e politica, con conse-guente declino della forza d'attrazione su di essi del movi-mento operaio e in particolare dal Partito comunista. Hacontinuato ad agire il fattore inserimento nei meccanismiistituzionali, ma con conseguenze ancor più negative nel con-testo dato, e con una pressione ulteriore sul Partito comuni-sta perché questo inserimento piuridecennale avesse rmal-13mente un suo sbocco con l'accesso al governo del paese .

Per altro verso, la composizione sociale del partito ha viavia subìto rilevanti mutamenti: questo, non tanto nelle per-centuali delle diverse componenti sul totale degli iscritti - chepure ha segnato una evoluzionesfavorevole agli operai _

quanto, soprattutto, nel grado di partecipazione all'attività ealla vita interna del partito, in cui elementi di estrazione pic-colo-borghese, professionisti, insegnanti e intellettuali hannoacquistato un peso crescente e, in ultima istanza, preponde-rante. Una trasformazione si è prodotta, inevitabilmente, an-che a livello di quadri e di dirigenti, a cominciare, per la veri-tà, già dagli anni '60.

Se nell'immediato dopoguerra, la maggioranza dei quadridecisivi proveniva dalla lotta antifascista e dalla resistenza,con netta prevalenza di elementi di estrazione proletaria opopolare, via via si imponevano quadri la cui esperienza poli-tica tendeva a identificarsi con una presenza a diversi livellidelle istituzioni, con la conseguenza che i vecchi funzionariche avevano interiorizzato il ruolo di rivoluzionari di profes-

I sione erano sostituitida carrieristiche perdevano progressi-vamente ogni legame vivo con gli strati della società che co-stituivano ancora elettoralmente il punto di forza del partito.

Mutava, più in generale, il rapporto tra questi strati, e so-prattutto i loro settori più politicizzati, e il partito in quantotale. Alla rme della guerra e per il periodo successivo, si eratrattato di un rapporto di fiducia, con aspetti fideistici: il par-tito era considerato una forza politica decisa, al di là degli at-teggiamenti tattici, a lottare contro la società esistente perun'Italia socialista, e i suoi dirigenti godevano di una indi-scussa autorità. Poi le cose cominciavano a cambiare e, so-prattutto a partire dalla crisi della fine degli anni '60, il Pcicontinuava a contare sul suffragio popolare, ma non più per-ché si nutrisse veramente fiducia nella sua strategia e ancormeno nella sua volontà di contestare il sistema, ma perchéappariva come la sola forZa di oppsizione e come il solo stru-mento utile per conseguire obiettivi parziali e arginare lostrapotere delle classi dominanti e del loro partito egemone.Questo atteggiamento si traduceva specialmente sul pianoelettorale ed era all'origine dello stesso rafforzamento delpartito alla metà degli '70 e del suo mantenimento successi-vo. Solo più tardi, la crisi di fiducia assumeva forme più visto-se e un numero crescente di elettori non dava neppure più ilvoto a un partito che appariva privo di prospettive sullo stes-so terreno della strategia e dell' azione che privilegiava.

C'è stato, infine, un mutamento radicale del ruolo degliintellettuali. Per evitare fraintendimenti, ripetiamo che unnumero rilevante di intellettuali, aderendo al Pci o associan-dosi alla sua azione, hanno assunto una funzione progressivae non pochi di loro, con validi apporti a livello delle loro spe-cifiche competenze, hanno contribuito alla diffusione delleconcezioni e degli strumenti metodologici del materialismostorico e, più in generale, del marxismo. Ma qui ci preme sot-tolineare l'evoluzione - o involuzione - che s'è prodotta. Nel-

13 Un caso-limite di inserimento nei meccanismi, nella fattispecieeconomici, del sistema, è costituito dall'evoluzione delle cooperative,sempre più governate da criteri puramente capitalistici, a livello ormai nonsolo nazionale.

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l'immediato dopoguerra, la maggior parte di questi intellet-tuali si consideravano gramscianamente "intellettuali organi-ci", la cui opera e la cui azione erano legate intrinsecamentealle lotte e al destino della classe operaia e del partito che larappresentava. Un tale atteggiamento comportava, nell'epo-ca staIiniana, pericoli gravissimi. Ciònonostante, non pochiintellettuali hanno arricchito il patrimonio del movimentooperaio, influendo positivamente sulla cultura italiana nelsuo complesso. Facendo un balzo di alcuni decenni ed esa-minando la situazione attuale, vediamo che lo scenario è mu-tato profondamente: gli intellettuali membri del partito osimpatizzanti agiscono come una forza che si presume indi-pendente, arrogandosi la parte di giudici su tutte le questionie occupando spazi sempre maggiori nei media come creatoridi opinione. Sono soprattutto loro, assieme a elementi di pic-cola borghesia di varia provenienza, che cercano di plasmaree in larga misura plasmano effettivamente l'ideologia del par-tito, se non ne definiscono addirittura la prospettiva strategi-ca, gli atteggiamenti tattici e le forme organizzative. E agisco-no in questo modo subendo, più ancora del corpo medio delpartito, tutti i condizionamenti negativi del contesto interna-zionale e delle tendenze involutive sul piano nazionale.

Ecco, dunque, tutti gli elementi che spiegano la profondacrisi di un partito che, per mantenere le sue forze e, a mag-gior ragione, per rilanciars~ non può più sfruttare la pésan-teur sociologique, cioè un'inerzia del contesto sociale, né spe-rare in un protrarsi a tempo indefmito di fedeltà tradizionalio della rassegnata accettazione di una logica del minor male.In questo senso, all'origine dell'iniziativa di Occhetto sonoinnegabilmente problemi di vita o di morte per il partito. IIguaio è che le risposte delineate sono mistificatorie, se nonpuramente fantasiose: vanno in direzione esattamente oppo-sta a quella che il movimento operaio dovrebbe imboccareper uscire dal vicolo cieco in cui si trova imprigionato.

7. ELOGIO DELLA RIVOLUZIONE

L'impresa di ricostruzione del movimento operaio dovràpartire, innanzitutto, da un'analisi della società attuale. Sia-mo convinti che chiunque si dia la briga di studiare o ristu-diare Il capitale, e non pretenda di parlarne per sentito dire oricorrendo a vaghi ricordi giovaniIi, non può che constatarenon solo la validità del metodo marxiano, ma anche la.perti-nenza, l'attualità, di certe descrizioni dei meccanismi e delladinamica del capitalismo. Ma lasciamo pure da parte 1\.1arxeIl capitale. Osserviamo semplicemente la realtà quale apparea chi si sforzi di coglierla per quale essa è, senza lenti defor-manti, senza pregiudizi e senza intenti apologetici.

Per cominciare, tutte le divagazioni di economisti e di so-ciologi, scesi in campo baldanzosamente per cancell~e an-che il ricordo delle idee socialiste e rivoluzionarie, liODservo-no ad annullare un dato di fatto incontestabile: la tendenzadi fondo alla concentrazione e alla centraIizzazione del capi-tale - industriale, fmanziario e commerciale - agisce oggi as-

sai più potentemente che in qualsiasi epoca passata. Le gran-di. multinazionali rappresentano la forma estrema di unaconcentrazione che comporta l'estorsione di profitti su scalaplanetaria, la spoliazione dei paesi sottosviluppati e l'imposi-zione a questi paesi di opzioni economiche dalle conseguen-ze letteralmente catastrofiche. Ed è proprio nelle multinazio-nali che si concretizza l'interdipendenza crescente della eco-nomia, la cui individuazione, sia detto tra parentesi, era unmotivo condutt.ore già del Manifesto dei comunisti del 1848.

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Si potrebbe discutere all'infinito sul fatto che le piccole emedie aziende non sono scomparse e che pOssono conosce-re, in certi periodi e in certi settori, una nuova crescita. Restail fatto - tuttavia,e lo ripetiamo- che l'economia mondiale èpiù che mai dominata da colossi, che alternano e combinanofusioni e guerre di concorrenza all'ultimo sangue. E restaegualmente il fatto che, nonostante il declino di alcuni ramitradizionali, l'industria è pur sempre strategicamente decisi-va e che l'industrializzazione dell'economia nel suo comples-so prosegue e si accresce senza tregua.

D'altra parte, piccole e medie aziende sono spesso dipen-denti dalle grandi, oppure sfruttano interstizi che i maggiorigruppi non hanno interesse ad occupare. Senza contare chemolte piccole e medie aziende, se sono tali dal punto di vistadel numero dei dipendenti, sono caratterizzate, comunque,da un'alta intensità di capitale. Su piano sociale, lasciando daparte le discussioni, pur non prive di interesse, sulla validitào meno del pronostico di Marx riguardo alla polarizzazionecrescente, ecco le constatazioni che si impongono:

1) una piccola minoranza delle stesse classi dominanti, le-gata ai grandi gruppi industriali, commerciali e fmanziari, di-spone di un potere economico crescente e può mobilitare, indifesa dei propri interessi, gli apparati politici e militari deipaesi imperialistici;

2) se, nel corso degli ultimi anni, si è prodotta nei paesipiù industrializzati una contrazione quantitativa della classeoperaia, in seguito alle ristrutturazioni e alle innovazioni tec-nologiche, il numero dei lavoratori salariati è continuato acrescere. E la distinzione essenziale dal punto di vista diun'analisi marxista, ricordiamolo, non è affatto quella traoperai e impiegati o tra lavoratori dell'industria e lavoratoridel terziario, ma quella tra salariati e non-salariati. Ancheaccettando l'ipotesi di un'introduzione massiccia di nuovetecnologie e a ritmi crescenti (ma nessuno può essere sicuro

al cento per cento che sarà così), nulla autorizza una secondaipotesi, quella d'un deperimento decisivo del lavoro salariatonel corso dei prossimi dieci o venti anni;

3) nonostante le tendenze suaccennate, sia su scala mon-diale sia nella quasi totalità dei singoli paesi, la classe opera-ia è numericamente più rilevante - in termini assoluti e inpercentuale sulla popolazione attiva - non solo che all'epocadi Marx o di Lenin, ma anche che negli anni '50 e '60. Sareb-be, dunque, arbitrario arrivare alla conclusione che vienemeno la base materiale del suo ruolo come forza motrice an-ticapitalistica;

4) la frammentazione e la diluizione sociale, descritte damolti autori, sono un fenomeno reale, ma sarebbe errato in-terpretarlo come una tendenza generale e irreversibile. Inlarga misura, si tratta di un fenomeno tipico di fasi di rista-gno prolungato e di ristrutturazioni e innovazioni tecnologi-che su vasta scala, in un contesto di arretramento politico.Prima o poi, come è accaduto in altre epoche, ci sarà una ri-composizione unitaria della classe operaia e dei lavoratoripiù in generale. Il problema centrale è quello di delineareuna politica che la favorisca stimolando una nuova presa dicoscienza a livello di massa.

Possiamo trarre una conclusione: lo scoppio inevitabile dinuove crisi cicliche, la ricomparsa anche nei paesi più indu-strializzati di una disoccupazione massiccia e di un impoveri-mento di larghi strati della popolazione, la distruzione sem-pFe più catastrofica di risorse naturali, il ricorso a fonti dienergia poco o niente affatto sotto controllo e di cui nessunopuò prevedere con certezza gli effetti a medio e lungo termi-ne, tutto ciò, lungi dal porre problemi di fronte ai quali imarxisti e il movimento rivoluzionario debbano sentirsi teori-camente disarmati, costitusce, in ultima analisi, una confer-ma della drammatica attualità della teoria dell'alienazione.

E' partendo dai dati che abbiamo sintetizzato chesipuò

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formulare credibilmente l'ipotesi di una persistente vitalità edi un rilancio, al di là delle scadenze e delle forme specifiche,di movimenti di massa antimperialistici e anticapitalistici, co-me pure, l'ipotesi di nuove crisi globali -cioè non solo econo-miche, ma anche sociali e politiche -delle società capitalisti-che, nel corso delle quali fondamenti stessi di tali societàsaranno rimessi in discussione. E, ne possiamo essere certi,la critica sociologica e la riflessione teorica ricominceranno asuonare una musica diversa da quella con cui ora ci allietano.

Per coloro che, senza perdere la bussola dinnanzi alle vi-cende più recenti, cercano di leggere la realtà e le sue ten-denze dinamiche per quelle che effettivamente sono, compi-to ineludibile è rilanciare l'idea stessa di rivoluzione,contrastando l'orgia di gradualismo dalle tonalità positivisti-che, di piatto istituzionalismo e di timorato e inconsistente ri-formismo o pseudoriformismo, incapace persino di difende-re le acquisizioni del passato.

In fondo, è uno straordinario paradosso che, proprioquando le società capitalistiche sono contraddistìnte da unadilagante irrazionalità e - nella logica infernale dei loro in-trinseci meccanismi - condannano alla miseria e alla famegran parte della popolazione del mondo, con conseguenzeimprevedibili, a media o a lunga scadenza, per le stesse isolefelici del consumismo, e quando potrebbero - in seguito auna guerra nucleare o a un concatenarsi di catastrofi ecologi-che - provocare la distruzione della vita sul pianeta, che pro-prio in tale contesto il sistema esistente sia riabilitato nellestesse me del movimento operaio, o almeno accettato comela sola forma possibile di organizzazione sociale, cui non esi-ste alternativa per un futuro prevedibile.

Supporre che una società regolata da secoli da una impla-cabile logica interna e da una dinamica, tutto sommato, inar-restabile, in cui il potere decisionale -non solosul piano po-litico in senso stretto, ma, più in generale, su strutture e

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tessuti che determinano, in ultima analisi, le sorti dei popolie la vita quotidiana e l'avvvenire dei singoli individui sin negliangoli più remoti -possa essere trasformata senza rotture ri-voluzionarie e con processi graduali, significa rifiutarsi diprendere atto della realtà e cullarsi nelle illusioni (anche se sipretende di essere realisti).

Riflettiamo un momento sul problema, appena richiama-to, della distruzione dell'ambiente, che non si poneva come sipone oggi non solo un secolo, ma neppure trenta o quarantaanni fa, e che gli scienziati più competenti presentano con to-ni sempre più allarmati. Non abbiamo la competenza pergiudicare le varie tesi dibattute. Ma l'ipotesi più plausibile cisembra questa: se le tendenze già operanti, e che non sonocontrastate se non da misure ridicoImente insufficienti, nonsono capovolte: si può discutere sui ritmi, ma le sorti del pia-neta saranno, comunque, segnate. E per realizzare questocapovolgimento è necessaria una vera e propria rivoluzione.

Poniamoci un'altra domanda: se è vero che il corso dell'e-conomia mondiale è determinato sempre di più da un grup-po di potenti multinazionali che i processi di concentrazionee centralizzazione restringono costantemente, è forse reali-stico sperare che le cose cambino votando qualche legge,inefficace in partenza o comunque destinata a restare sullacarta, favoleggiando sull'imprenditoria "diffusa" o sulla "de-mocratizzazione" dell'economia e magari cercando di con-vincere industriali, banchieri e grossi commercianti a mutarerotta nel loro stesso interesse? Si tratta di una speranza vanae non servono a dimostrare il contrario le acrobazie concet-tuali e terminologiche cui abbiamo assistito da decenni e cheappaiono oggi, sulla base di dure e ripetute esperienze, ancorpiù risibili. II realismo ci deve insegnare che solo una rivolu-zione può mutare radicalmente l'ordine esistente delle cose.

Terzo problema - terzo nell'elencazione e non certo perimportanza - quello della liberazione della donna. Come il

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movimento femminista sostiene giustamente, si tratta di fare iconti con strutture, rapporti, concezioni e comportamentinon solo secolari, ma addirittura millenari: su questo piano,ancor più che su tutti gli altri, non si impone forse una rottu-ra rivoluzionaria nel senso più rigoroso della parola?

Infine: è possibile che le innovazioni e i mutamenti quali-tativi necessari a tutti i livelli si realizzino nel quadro dellestrutture statali e delle istituzioni politiche esistenti? Una si-mile tesi è semplicemente improponibile per la grande mag-gioranza dei paesi del pianeta, in cui esistono Stati e "istitu-zioni"che privano la quasi totalità della popolazione dellabenché minima possibilità di far valere i propri interessi e leproprie aspirazioni (le cose non sono qualitativamente muta-te neppure dove ci sono stati o ci sono interludi parzialmentee precariamente democratici). Ma non è difendibile neppurenel caso delle democrazie parlamentari o presidenziali del-l'Europa occidentale o dell'America del Nord.

A questo proposito, dopo tanti discorsi sul "socialismoreale" e sulle sue mistificazioni, sarebbe ora di discorrere unpo' sulle "democrazie reali", di discorrerne anche facendoastrazione dai contenuti socioeconomici, cioè dalle condizio-ni concrete che rendono intrinsecamente diseguale l'eserciziodei più elementari diritti democratici (un "abc" che si tendeoggi a dimenticare con troppa disinvoltura, pur di fronte alquotidiano spettacolo dell'uso e abuso dei mass media daparte di gruppi oligarchici o di singoli magnati che sfuggonoanche al più remoto controllo dei cittadini).

Per fare qualche esempio, che dire dei processi decisio-nali nella più potente delle democrazie capitalistiche, gli Sta-ti Uniti, dove gli apparati dei due partiti gemelli operano co-scientemente per ridurre il numero degli elettori allo scopodi controllarli meglio, con il risultato che solo un terzo deicittadini va a votare, e dopo campagne elettorali miserande,in cui i problemi reali non vengono neppur sfiorati; dove solo

chi abbia grandi mezzi finanziari ha possibilità di essere elet-to; dove il presidente dispone di notevoli poteri ed è a suavolta condizionato, quando non aggirato, da poteri di fatto,da apparati economici, politici e militari che agiscono dietrole quinte e non rispondono a nessuno?

Che dire della Gran Bretagna, dove un vetusto sistemaelettorale consente, da un lato, di eliminare praticamentedalla scena non solo piccole organizzazioni, ma anche partiticon il 20-25% dei voti, e dove, dall'altro lato, un partito diminoranza relativa (nella fattispecie quello della signoraThatcher) ha potuto governare inconstrastato per lunghi an-ni, conducendo, tra l'altro, una guerra nell'emisfero oppostosenza nessuna forma di consul-tazione popolare, o scatenan-do un'altra guerra (interna) contro i sindacati, quello dei mi-natori in primo luogo?

E che dire della Francia, dove un presidente eletto ognisette anni concentra nelle proprie mani una grande sommadi poteri, il parlamento ha un ruolo assolutamente seconda-rio e può essere aggirato dal governo grazie a un articolo del-la Costituzione che permette l'adozione di una legge anchequando la maggioranza degli eletti vi si opponga, e dove il si-stema elettorale può ridurre ai minimi termini o addiritturaescludere formazioni con il 10% dei suffragi?

Non va dimenticato, d'altra parte, che di questi neccani-smi si sono avvalsi e si avvalgono, senza farsi troppi scrupoli,dirigenti di quei partiti socialisti che non perdono occasioneper ergersi a paladini della democrazia. Il caso-limite è quel-lo di Mitterrand che, dopo aver denunciato per oltre vent'an-ni le istituzioni del 1958 e il paternalismo bonapartistico diDe Gaulle, una volta al potere ha fatto impallidire il ricordodel suo predecessore sfruttando a pieno i meccanismi autori-tari della Quinta repubblica.

La cosa è tanto più grave in quanto nei sullodati partitidominano incontrastati sovrani di diritto carismatico come lo

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stesso Mitterrand o come Gonzalez, imponendo una gestioneinterna paternalistico-clientelare dove non resta quasi nessu-no spazio alle minoranze critiche. Il laburista Kinnock è an-cora alle prime armi rispetto ai colleghi di altri paesi. Ma hagià fatto capire quale sarà la sua musica all'ultimo congressodel partito: dopo che la maggioranza dei delegati lo avevamesso in minoranza su alcune questioni - tra le quali la ridu-zione delle spese militari, da lui osteggiata - dichiarava spu-doratamente che di quei voti non avrebbe tenuto conto!

C'è appena bisogno di dire che le cose vanno ancora peg-gio nei partiti conservatori, per esempio, nel partito gollistafrancese, dove i notabili fanno il buono e il cattivo tempo enon esistono norme democratiche neppure sulla carta.

Concludendo, al di là di tutte le valutazioni specifiche ocongiunturali, poniamoci la domanda: è concepibile che ap-parati statali e istituzioni, finalizzati ad assicurare il funziona-mento di un'economia basata sul profitto e l'egemonia d'unaclasse sociale storicamente deftnita, siano il quadro entro cuiraggiungere fini qualitativamente diversi, infrangere la logicadel profttto, quindi dello sfruttamento capitalistico, e garan-tire un' organizzazione e gestione sociale veramente demo-cratica, cioè l'universale partecipazione attiva alla vita dellasocietà in tutti i suoi aspetti?

Solo chi accetti un'ideologia mistificatoria o automistifi-catoria, o abbia una concezione metastorica della democra-zia, la concepisca cioè come una forma astratta, prescinden-do dai contenuti storici concreti, potrebbe azzardare unarisposta positiva, illudendo se stesso e gli altri. Chi parta, in-vece, dall'esperienza storica reale e non voglia ignorare ciòche la "nostra" società fa constatare tutti i giorni, non potràdare che una risposta negativa. La necessità della rottura ri-voluzionaria delle strutture dello Stato - quale esiste, anchenelle sue forme più "moderne" - sintetizza l'esigenza dellarottura rivoluzionaria nella sua totalità.

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