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ROMANZO Un innocente sta per essere giustiziato. Solo un criminale può salvarlo. JOHN GRISHAM Io confesso

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R O M A N Z O

Un innocente sta per essere giustiziato.

Solo un criminale può salvarlo.

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Quando in una fredda matt ina d’inverno uno sconosciuto si presenta nella sua parrocchia e chiede insistente-mente di vederlo, il reverendo Keith Schroeder non può immaginare che quell’incontro cambierà la sua vita per sempre. L’uomo si chiama Travis Boyette, ha subìto varie condanne per reati sessuali, è in libertà vigilata e sostiene di custo-dire da molti anni un terribile segreto che è deciso a confessare. Perché pro-prio adesso? Dice di avere un tumore in-curabile al cervello e di volersi liberare dal peso che grava sulla sua coscienza. Con la sua testimonianza potrebbe scagion-are Donté Drumm, un giovane di colore condannato a morte in una piccola cit-tà del Texas per l’omicidio di una raga-zza bianca il cui corpo non è mai stato ritrovato. Donté si è sempre proclama-to innocente, la sua famiglia e Robbie Flak, il suo avvocato, noto per l’impegno sociale e il carattere bellicoso, si sono battuti per nove anni con ogni mezzo per dimostrarlo; il caso ha suscitato un enorme scalpore, ma finora tutto è sta-to inutile. Boyette afferma di sapere chi è il vero assassino, ma non ha intenzione di rivelarlo a nessuno se non al reveren-do Schroeder. Mancano quattro gior-ni all’esecuzione. Basteranno per salva-re Donté, o almeno per una sospensione della condanna? Come può un pre-giudicato convincere avvocati, giudici e politici che stanno giustiziando l’uomo sbagliato? In una spasmodica corsa con-tro il tempo, il reverendo e l’avvocato faranno di tutto per ottenere un rinvio. Ma, come spesso accade, la verità, se clamorosa, sembra avere vita più diffi-cile della menzogna. Io confesso è un thriller dal ritmo teso e con personaggi indimenticabili che ri-conferma il profondo interesse di John Grisham per i grandi temi sociali e di attualità, offrendo un’amara riflessione sul sistema giudiziario americano e so-prattutto sulla pena di morte.

In sovraccoperta:Foto © Malcolm Park/Arcangel Images

p r o g e t t o g r a f i c o : a n d r e a fa l s e t t i

John Grisham è autore di ventidue ro-manzi, un saggio, una raccolta di rac-conti e un libro per ragazzi. È nel co-mitato dell’Innocence Project di New York ed è presidente del comitato del Mississippi Innocence Project alla facoltà di Legge della University of Mississippi. Vive in Virginia e in Mississippi.

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il custode della chiesa di st mark aveva appena grattato via dieci centimetri di neve dal marciapiede, quando comparve l’uomo con il bastone. c’era il sole, ma il vento ululava e la temperatura era bloccata sullo zero. L’uomo indossava soltanto dei pantaloni da lavoro di tela, una camicia estiva, un paio di logori scarponcini da trekking e una giacca a vento leggera che poteva opporre ben poca resistenza al gelo. ma comunque non sembrava soffrire il freddo, e neppure avere fretta. camminava zoppicando, con una leggera inclinazione a sinistra, il lato su cui si appoggiava al bastone. Avanzò faticosamente lungo il marciapiede accanto alla cappella e si fermò davanti a un ingresso laterale contrasse-gnato dalla scritta ufficio in caratteri rosso scuro. non bussò e aprì la porta, che non era chiusa a chiave. entrò proprio mentre un’altra raffica di vento lo colpiva alle spalle.

La stanza era un’area ricevimento, con quell’aspetto polve-roso e disordinato che ci si aspetta di trovare in una vecchia chiesa. sulla scrivania al centro del locale c’era una targhetta che annunciava la presenza di charlotte Junger, la quale sedeva poco dietro il proprio nome. «buongiorno» salutò la donna con un sorriso.

«buongiorno» disse l’uomo. una pausa. «fa molto freddo fuori.»

«sì, è vero» concordò la donna, mentre dava una rapida oc-chiata al visitatore. il problema più evidente era che non aveva il cappotto né qualcosa che gli riparasse testa e mani.

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«immagino che lei sia miss Junger» disse l’uomo, fissando il nome sulla targhetta.

«no, miss Junger oggi non c’è: ha l’influenza. Per il momento la sostituisco io. mi chiamo Dana schroeder, sono la moglie del pastore. cosa possiamo fare per lei?»

c’era una sedia davanti alla scrivania e l’uomo la guardò speranzoso. «Posso?» domandò.

«naturalmente» rispose Dana. L’uomo si sedette quasi con cautela, come se ogni movimento richiedesse un’attenta rifles-sione.

«c’è il reverendo?» domandò, guardando una grande porta chiusa sulla sinistra.

«sì, ma è occupato. cosa possiamo fare per lei?» Dana era minuta, con un bel seno sotto il maglione aderente. A causa della scrivania, l’uomo non poteva vedere nulla al di sotto della cintura. Le donne piccole di statura erano sempre state le sue preferite. Questa aveva un viso grazioso, grandi occhi azzurri e zigomi alti; nel complesso una bella ragazza, la perfetta mogliettina del pastore.

era passato parecchio tempo dall’ultima volta che aveva toccato una donna.

«Ho bisogno di parlare con il reverendo schroeder.» L’uomo congiunse le mani in un gesto di preghiera. «ieri ero in chiesa, ho ascoltato il suo sermone e... be’, mi serve un consiglio.»

«mio marito è molto occupato, oggi» disse Dana con un sorriso. bei denti.

«È che si tratta di una questione piuttosto urgente» insistette l’uomo.

Dana era sposata con Keith schroeder da abbastanza tempo per sapere che nessuno era mai stato cacciato via dal suo ufficio, avesse o meno un appuntamento. inoltre era un gelido lunedì mattina, e Keith non era poi così occupato. Qualche telefonata, un colloquio con una giovane coppia che stava battendo in ritirata davanti all’imminente matrimonio – incontro in corso proprio in quel momento – e poi le solite visite negli ospedali. Dana frugò tra i fogli sulla scrivania e trovò il questionario che stava cercando. «okay, adesso le chiederò qualche dato personale e poi vedremo cosa si può fare.» Aveva già la penna in mano.

«Grazie» disse l’uomo, chinando leggermente la testa.

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«nome?»«Travis boyette.» L’uomo sillabò istintivamente il proprio

cognome. «Data di nascita: 10 ottobre 1963. Luogo: Joplin, missouri. età: quarantaquattro anni. single, divorziato, nessun figlio. nessun indirizzo. nessun lavoro. nessuna prospettiva.»

Dana assorbì i dati mentre la penna cercava freneticamente gli spazi giusti da riempire. Le informazioni dell’uomo suscitavano molte più domande di quelle che prevedeva il suo elementare modulo. «A proposito dell’indirizzo...» disse, continuando a scrivere. «Dove abita attualmente?»

«Attualmente mi trovo sotto la responsabilità del dipartimento Amministrazione penitenziaria del Kansas. mi hanno mandato in un centro di recupero in seventeenth street, a qualche isolato da qui. sto per essere rilasciato, o “reinserito”, come piace dire a loro. Qualche mese nel centro qui a Topeka e poi sarò un uomo libero, con niente in cui sperare se non la libertà vigilata per il resto della vita.»

La penna smise di scrivere, ma Dana continuò comunque a fissarla. il suo interesse nel questionario era improvvisamente scemato. esitava a chiedere altro. Tuttavia, avendo lei dato inizio all’interrogatorio, si sentiva obbligata a continuare. cos’altro avrebbero potuto fare mentre aspettavano il reverendo?

«Le andrebbe del caffè?» domandò, sicura che quella fosse una domanda innocua.

ci fu una pausa, troppo lunga, come se boyette non riuscisse a decidersi. «sì, grazie. nero, con poco zucchero.»

Dana uscì in fretta dalla stanza. boyette la guardò allontanarsi, osservandola attentamente nei particolari, notando il bel sedere rotondo sotto i pantaloni sportivi, le gambe affusolate, le spalle atletiche, perfino la coda di cavallo. un metro e sessanta, forse sessantadue. cinquanta chili al massimo.

Dana se la prese comoda, e quando rientrò trovò Travis boy-ette esattamente dove l’aveva lasciato, ancora seduto come un monaco, la punta delle dita della mano destra che picchiettava-no la punta delle dita della sinistra, il bastone di legno scuro di traverso sulle cosce, gli occhi che fissavano il nulla sulla parete di fronte. La testa era calva, piccola, perfettamente rotonda e lu-cente. mentre gli porgeva la tazza di caffè, Dana si pose l’assurda domanda se avesse perso i capelli da giovane o se semplicemente

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preferisse tenere la testa rasata. un inquietante tatuaggio risa-liva strisciando lungo il lato sinistro del collo. boyette prese la tazza e ringraziò. Dana riguadagnò la propria posizione, con la scrivania tra di loro.

«Lei è luterano?» domandò, impugnando di nuovo la penna.«ne dubito. in realtà non sono niente. non ho mai sentito il

bisogno di appartenere a una chiesa.»«Però ieri era qui. Perché?»boyette teneva la tazza davanti al mento con tutte e due le

mani, come un topo che rosicchia un boccone. se la risposta a una semplice domanda sul caffè richiedeva dieci secondi, per quella sulla chiesa poteva forse servire un’ora. L’uomo bevve un sorso e si passò la lingua sulle labbra. «Quanto tempo pensa che ci vorrà prima di poter vedere il reverendo?» domandò alla fine.

“non sarà mai abbastanza presto” pensò Dana, a quel punto ansiosa di passare il visitatore a suo marito. Guardò l’orologio appeso alla parete e rispose: «solo pochi minuti, ormai».

«sarebbe possibile restarcene seduti in silenzio, mentre aspet-tiamo?» domandò boyette con grande educazione.

Dana assorbì il colpo, e decise rapidamente che il silenzio non era poi una cattiva idea. ma la curiosità ebbe la meglio. «certo. solo un’ultima domanda.» Aveva lo sguardo abbassato sul questionario, come se il modulo esigesse un’ultima risposta. «Per quanto tempo è stato in prigione?»

«metà della mia vita» rispose boyette senza esitare, quasi fosse abituato a fornire quell’informazione cinque volte al giorno.

Dana scribacchiò qualcosa, poi rivolse l’attenzione alla tastiera del computer. Picchiettò sui tasti con gesti decisi e teatrali, come se all’improvviso avvertisse un’urgenza. L’e-mail che aveva inviato a Keith diceva: “Qui c’è un ex detenuto che vuole par-lare con te. non se ne andrà finché non lo avrà fatto. sembra abbastanza a posto. offerto caffè. sbrigati”.

cinque minuti più tardi, la porta dell’ufficio del reverendo si aprì. una giovane donna sgusciò in fretta all’esterno. si stava asciugando gli occhi. La seguiva il suo ex fidanzato, il quale riuscì a produrre contemporaneamente un’espressione seria e accigliata e un sorriso. nessuno dei due rivolse la parola a Dana. nessuno dei due notò Travis boyette. Tutti e due scomparvero.

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Quando la porta d’ingresso si richiuse sbattendo, Dana disse a boyette: «solo un minuto». Poi entrò in fretta nell’ufficio del marito per un rapido briefing.

il reverendo Keith schroeder aveva trentacinque anni, era felice-mente sposato con Dana da dieci ed era padre di tre ragazzini, nati a intervalli di venti mesi l’uno dall’altro. era il pastore di st mark da due anni; in precedenza c’era stata una chiesa a Kansas city. Anche suo padre era un pastore luterano, ora in pensione, e Keith non aveva mai sognato di essere qualcosa di diverso. era cresciuto in una cittadina vicino a st Louis, aveva frequentato scuole non molto lontane da casa e, a parte una gita scolastica a new York e la luna di miele in florida, non si era mai allontanato dal midwest. era per lo più ammirato dalla sua congregazione, anche se qualche problema c’era stato. Lo screzio più grave si era verificato l’inverno precedente quando, durante una bufera di neve, aveva aperto il seminterrato della chiesa per ospitare diversi senzatetto. Dopo che la neve si era sciolta, alcuni ospiti si erano dimostrati riluttanti ad andarsene. il comune era intervenuto con una citazione per uso non consentito dei locali e il quotidiano della città aveva pubblicato un articolo piuttosto imbarazzante.

il tema del suo sermone del giorno prima era stato il perdono: il potere infinito e grandioso di Dio di perdonare i nostri peccati, per quanto odiosi possano essere. i peccati di Travis boyette erano atroci, incredibili, orrendi. i suoi crimini contro l’umanità lo avrebbero sicuramente condannato alla sofferenza eterna. A quel punto della sua miserabile vita, boyette era convinto che non avrebbe mai potuto essere perdonato. ma era curioso.

«Abbiamo avuto parecchia gente che veniva dal centro di reinserimento» stava dicendo Keith. «Vi ho addirittura celebrato delle funzioni.» erano in un angolo del suo ufficio, lontani dalla scrivania, due nuovi amici che facevano una chiacchierata seduti sulle poltroncine di canapa semisfondate. Accanto a loro, finti ceppi ardevano in un finto caminetto.

«il centro non è un brutto posto» disse boyette. «Di sicuro migliore della prigione.» era un uomo fragile, con la carnagione pallida di chi è rimasto confinato in luoghi privi di luce. il ba-stone scuro era posato di traverso sulle ginocchia ossute, così vicine da toccarsi.

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«Dov’è stato in prigione?» Keith aveva in mano una tazza di tè bollente.

«Qua e là. Gli ultimi sei anni a Lansing.»«e per cosa è stato condannato?» domandò Keith, ansioso di

scoprire di quali reati fosse colpevole in modo da sapere qualcosa di più di quell’uomo. Violenza? Droga? Probabilmente. oppure Travis poteva essere stato condannato per appropriazione in-debita o evasione fiscale. Di sicuro non sembrava tipo da fare del male a qualcuno.

«un mucchio di brutte cose, reverendo. non riesco a ricordarle tutte.» boyette preferiva evitare il contatto visivo. il tappeto sotto i piedi sembrava catturare tutta la sua attenzione. Keith bevve un sorso di tè, osservò bene il suo ospite e fu allora che notò il tic. ogni pochi secondi la testa di boyette si inclinava leggermente a sinistra. era un movimento rapido, seguito da un più deciso scatto per riportare la testa in posizione eretta.

Dopo qualche minuto di totale silenzio, Keith domandò: «Di cosa volevi parlarmi, Travis?».

«Ho un tumore al cervello, reverendo. maligno, mortale, praticamente incurabile. se avessi un po’ di soldi potrei cercare di combatterlo... radiazioni, chemio, la solita roba, il che forse mi darebbe dieci mesi, magari un anno. ma è un glioblastoma, di quarto grado, e questo significa che sono un uomo morto. sei mesi, un anno, non ha molta importanza. Tra un po’ me ne sarò andato.» come se avesse aspettato la battuta per l’entrata in scena, il tumore si presentò. boyette fece una smorfia, si piegò in avanti e prese a massaggiarsi le tempie. il respiro era affannato, faticoso, e tutto il corpo sembrava in preda al dolore.

«mi dispiace molto» disse Keith, rendendosi pienamente conto di quanto la frase fosse inadeguata.

«maledetti mal di testa» si lamentò boyette, gli occhi ancora chiusi. Lottò contro il dolore per qualche minuto. Keith lo guar-dava impotente, mordendosi la lingua per impedirsi di dire qualcosa di stupido come: “Vuoi un Tylenol?”. Poi la sofferenza si attenuò e boyette sembrò rilassarsi. «mi scusi.»

«Quando le è stato diagnosticato?» chiese il reverendo.«non lo so. un mese fa. il mal di testa è cominciato a Lansing,

in estate. Può immaginare la qualità delle cure in quel posto: non ho avuto nessun aiuto. Dopo che mi hanno rilasciato e mandato

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qui, mi hanno portato al st francis Hospital, dove mi hanno fatto tutti gli esami e le tac, e mi hanno trovato un bell’uovo in mezzo alla testa, proprio tra le orecchie, troppo in profondità per intervenire.» fece un respiro profondo, buttò fuori l’aria e sorrise per la prima volta. Gli mancava un dente nell’arcata superiore, a sinistra, e il buco era vistoso. Keith sospettò che in prigione le cure odontoiatriche lasciassero un po’ a desiderare.

«immagino che lei abbia già incontrato gente come me» riprese boyette. «Gente vicina alla morte.»

«ogni tanto. fa parte del mestiere.»«e immagino che queste persone tendano a prendere parec-

chio sul serio Dio, il paradiso, l’inferno e tutta quella roba lì.»«Proprio così. È la natura umana. Quando dobbiamo con-

frontarci con la nostra mortalità, pensiamo all’aldilà. e cosa mi dici di te, Travis? Tu credi in Dio?»

«certi giorni sì e certi altri no. ma, anche quando ci credo, sono comunque abbastanza scettico. Per lei è semplice credere in Dio, ha avuto una vita facile. La mia storia è molto diversa.»

«Ti va di raccontarmela?»«non proprio.»«Allora perché sei qui, Travis?»il tic. Quando la testa fu di nuovo ferma, gli occhi di boyette

si guardarono intorno nella stanza e poi si fermarono su quelli del pastore. i due si fissarono a lungo, entrambi senza sbattere le palpebre. Poi boyette disse: «Reverendo, io ho fatto delle brutte cose. Ho fatto del male a persone innocenti. non sono sicuro di volermi portare tutto nella tomba».

“Adesso finalmente arriviamo da qualche parte” pensò Keith. il peso del peccato non confessato. La vergogna di una colpa sepolta. «Parlarmi di quelle brutte cose ti sarebbe d’aiuto. e il punto migliore da cui partire è la confessione.»

«sarebbe confidenziale?»«in linea di massima sì, ma ci sono delle eccezioni.»«Quali eccezioni?»«se tu ti confidi con me e io mi convinco che costituisci un

pericolo per te stesso o per altri, il vincolo di segretezza non vale. Posso fare i passi che ritengo necessari per proteggere te o l’altra persona. in altre parole, posso chiedere aiuto.»

«sembra complicato.»

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«Per niente.»«senta, reverendo, io ho fatto cose terribili, ma ce n’è una in

particolare che mi tormenta da parecchi anni. Devo confidarmi con qualcuno e non ho nessun altro posto dove andare. se io le parlo di un crimine terribile che ho commesso anni fa, lei non può dirlo a nessuno?»

Dana puntò dritto sul sito web del dipartimento Amministra-zione penitenziaria del Kansas e, dopo pochi secondi, si tuffò nella disgraziata vita di Travis Dale boyette. condannato nel 2001 a dieci anni per tentata violenza sessuale. status attuale: detenuto.

“status attuale, nell’ufficio di mio marito” borbottò Dana, continuando a pestare sui tasti.

condannato nel 1991 a dodici anni per violenza sessuale aggravata in oklahoma. Libertà vigilata nel 1998.

condannato nel 1987 a otto anni per tentata violenza sessuale in missouri. Libertà vigilata nel 1990.

condannato nel 1979 a venti anni per violenza sessuale ag-gravata in Arkansas. Libertà vigilata nel 1985.

boyette era un criminale sessuale schedato in Kansas, mis-souri, Arkansas e oklahoma.

“un maniaco” disse Dana tra sé. La foto segnaletica di boyette mostrava un uomo molto più robusto e molto più giovane, con radi capelli scuri. Dana riassunse velocemente i dati e li inviò per e-mail a Keith. non era preoccupata per la sicurezza di suo marito, ma voleva quel delinquente fuori dall’edificio.

Dopo mezz’ora di difficile conversazione e di scarsi progressi, Keith stava cominciando a stancarsi. boyette non dimostrava alcun interesse in Dio e, dato che Dio era l’area di competenza di Keith, non sembrava esserci molto da fare. Lui non era un neurochirurgo, e non aveva lavori da offrire.

sul suo computer arrivò un messaggio, segnalato dal suono distante di un campanello vecchio stile. Due squilli significavano che il mittente poteva essere chiunque. ma tre squilli segnala-vano un’e-mail dall’area ricevimento. Keith finse di ignorarlo.

«come mai il bastone?» chiese in tono gentile.«La prigione è un posto violento» rispose boyette. «sono finito

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in una rissa di troppo. una ferita alla testa, che probabilmente ha causato il tumore.» sembrò considerare la cosa divertente e rise.

Keith si adeguò con una risatina, poi si alzò in piedi e andò alla scrivania. «Ti do il mio biglietto da visita, puoi chiamarmi in qualunque momento. Qui sarai sempre il benvenuto.» Prese un biglietto e lanciò un’occhiata al monitor. Quattro, ben quattro condanne, e tutte per violenze a sfondo sessuale. Tornò accanto alla poltroncina, porse il biglietto a boyette e si rimise a sedere.

«La prigione è particolarmente dura per gli stupratori, vero, Travis?»

se ti trasferisci in una nuova città, hai l’obbligo di precipi-tarti alla stazione di polizia o in tribunale per registrarti come criminale sessuale. Dopo vent’anni di questa vita, presumi che lo sappiano tutti. che tutti ti tengano d’occhio. boyette non sembrò sorpreso. «molto dura» concordò. «non riesco neppure a ricordare tutte le volte che sono stato aggredito.»

«senti, Travis, non mi va di discutere di questo argomento. Ho alcuni appuntamenti. se vuoi tornare a farci visita, benissimo, solo avverti prima. e ti rivedrò con piacere alle nostre funzioni della domenica.» Keith non era sicuro di essere sincero, ma riuscì a sembrarlo.

boyette estrasse un foglio ripiegato da una tasca della giacca a vento. «Ha mai sentito parlare del caso di Donté Drumm?» domandò, porgendo il foglio al pastore.

«no.»«un ragazzino nero, in una piccola città del Texas orientale,

condannato per omicidio nel 1999. Dicevano che aveva ucciso una cheerleader del liceo, una ragazza bianca. il corpo non è mai stato trovato.»

Keith spiegò il foglio. era la fotocopia di un breve articolo del quotidiano di Topeka; la data era quella di domenica, il giorno prima. Keith lesse velocemente e guardò la foto segnaletica di Donté Drumm. non c’era niente di notevole nella storia: nient’altro che l’ennesima esecuzione in Texas, con l’ennesimo condannato che si proclama innocente. «L’esecuzione è fissata per questo giovedì» osservò, alzando lo sguardo.

«Voglio dirle una cosa, reverendo. Hanno preso l’uomo sba-gliato. Quel ragazzo non ha avuto niente a che fare con l’omi-cidio.»

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