notte di caccia - stefania auci

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Il racconto di Natale donato da Stefania Auci al blog Sangue d'inchiostro!

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Page 1: Notte di caccia - Stefania Auci

Notte di cacciaDi Stefania Auci

Christchoir, repubblica di Albione 1870

“Maledizione!”La donna ansimò, schiacciata contro il muro di pietra umido di pioggia e vapore. Dalla penombra, dietro l’angolo, giunse il suono inconfondibile di denti che digrignavano.

Si guardò attorno: nessun’altra via di fuga, il cortile era chiuso su tre lati. Con le mani che tremavano, tastò il corsetto di pelle e metallo che le stringeva la vita. Nella fascia di cuoio erano rimasti solo due dardi e un pugnale.

Praticamente disarmata.Rise, un suono scabro e leggero. Rovesciò la testa

contro il muro freddo e lo chignon con cui teneva legati i capelli ricci si allentò, lasciando sfuggire alcune ciocche.

Non sarebbe dovuta finire così quella notte…Era la notte di Natale e lei, Sophie D’Ardenne, era

a caccia. Una pazza solitaria che aveva accettato di stanare l’ennesima bestiaccia che aveva avuto il coraggio di mostrare il suo pelo ispido nei bassifondi di Christchoir.

Alcuni decenni prima, la città era stata attaccata da lupi mannari. Era stata un’invasione improvvisa e brutale. Il contagio che si era diffuso a macchia d’olio: famiglie distrutte, vittime dilaniate, sangue innocente ovunque. La calamità aveva chiesto l’impegno di molti uomini e donne coraggiosi, i Cacciatori, chiamati ad

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arginare la pestilenza nell’unico modo possibile: uccidere i mannari.

Essi avevano stanato quegli animali di casa in casa, trascinandoli alla luce del sole, torturandoli e decapitandoli poco fuori delle mura della città, perché il loro sangue impuro non si mescolasse a quello dei bravi cittadini di Christchoir.

Ormai erano passati anni. Gran parte di quegli abomini erano stati distrutti; le loro teste scarnificate appese alla porta della città come monito per i loro simili… ma ancora parecchi animali sfuggivano alla cattura e alla pulizia. Avevano contagiato altri abitanti di Christchoir, moltiplicandosi nell’ombra, nascondendosi in luoghi in cui nessuna persona rispettabile si sarebbe mai recata, proprio come quel quartiere miserabile dove Sophie si trovava.

Una ronda aveva avvistato una sagoma e pochi istanti dopo, i soldati erano stati aggrediti. Uno di loro era stato ferito e ora i cerusici del Consiglio dei Trenta stavano tentando di salvargli la vita, evitando il contagio con un lavaggio del sangue.

La chiamata era giunta all’improvviso. Nessuno degli altri Cacciatori aveva risposto quella notte, com’era prevedibile: famiglia e amici avevano la precedenza su un randagio che vagava per la città.

Invece, la nobile Sophie aveva accolto il trillo dello psicofono di Jacobus van Der Kaal quasi con sollievo. La sua grande, elegante casa era deserta, immersa nelle ombre tetre di un camino in un momento in cui lei aveva come unica compagnia una bottiglia di liquore d’ambra.

Rispondere, accettare e cambiarsi per la caccia era stata questione di pochi minuti. Peccato che adesso rimpiangesse amaramente la scelta.

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“Maledizione a Jacobus e al suo dannatissimo psicofono! E ancor più stupida io che ho risposto!” si rimproverò, sfilando un dardo e montandolo sulla balestra ad arco che nascondeva dietro la gonna corta. La tenuta da caccia non teneva conto di inezie come la neve o del vento che stava spazzando i vicoli della città. All’inizio della battuta di caccia, si era liberata del mantello cerato per esser più libera nei movimenti e adesso le gambe, strette in stivali neri fino al ginocchio, erano intorpidite dal gelo.

La prossima volta, “se ci sarebbe stata una prossima volta” s’intende, avrebbe indossato pantaloni, con buona pace del Consiglio. Non erano loro a muovere i loro culoni vecchi e flaccidi per scovare nei bassifondi quella feccia puzzolente.

Poi, un lamento. Un suono leggero ma chiaro.Trattenne il respiro.La seconda freccia non è andata a vuoto,

dopotutto…Tastò la sacca che teneva allacciata alla vita alla

ricerca dello specchio che usava per guardare dietro gli angoli ma trovò solo dei legacci strappati: l’aveva perso. Biascicò un improperio a denti stretti e si sporse di alcuni millimetri, fino a scorgere un ammasso di pelo ispido che strisciava nella neve.

Sollevò la balestra con il colpo in canna e tolse il mirino. Aveva smesso di nevicare e la bestia era a pochi palmi da lei: non aveva bisogno di quello strumento per infilarle un palmo d’argento benedetto in gola.

I capelli neri scivolarono sulle spalle, mentre il corpo diventava rigido per la tensione. Sollevò il viso verso il cielo, trattenendo il respiro. Aveva smesso da anni di invocare la Dea per avere una benedizione per ciò

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che faceva. Non c’era nulla di sacro in quella pulizia. Non c’era speranza.

Sentì il freddo sulla pelle. Attorno a lei, la città era coperta di neve fatta di fuliggine e cenere, sporca come l’anima che si trascinava dietro, neve stanca di cadere su tetti di ardesia, su vicoli lerci, su esistenze miserabili che non avevano più una via d’uscita.

“Avanti. Facciamola finita” si disse. Scivolò nel cono di luce di una lanterna posta all’ingresso del vicolo. Una ghirlanda di vischio ed elleboro dondolava nel vento che proveniva dal fiume, segno che, anche nei bassifondi di Christchoir, qualcuno pensava di festeggiare il Natale.

Scattò in avanti con l’arma protesa verso il vicolo, gli occhi scuri spalancati.

La lupa era lì, immobile. Gocce di sangue nero sporcavano la neve, raccogliendosi in una pozza da cui si levava uno spettro di vapore.

“Cambia la tua forma, femmina” le ingiunse Sophie, puntando la freccia verso il ventre.

Dalla gola dell’animale arrivò un suono raschiante simile a una risata. “A che pro? Sparerai quella freccia comunque. E allora fallo in fretta!” La voce della femmina era venata di rabbia e paura. Strisciò in avanti, lasciando un arabesco nero dietro di sé. “Nemmeno questa notte ci lasciate in pace… Vi sentite potenti, voi e il Consiglio, eh?”

“Sei uno scarto della natura e gli scarti vanno eliminati. Riprendi il corpo umano, subito!”

Con un’occhiata carica di livore, la lupa si distese sulla neve. Il pelo si ammorbidì schiarendosi, le dita delle mani tornarono a essere affusolate e il corpo, nudo e tremante, emerse dalla pozza di sangue e neve sciolta. La freccia l’aveva colpita alla spalla, da cui adesso

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gocciolava del liquido rosso vivo, segno che la trasformazione era completa.

Sophie abbassò di poco la balestra. Ora che la mannara era assai meno pericolosa. Ferita e debole, non avrebbe potuto cambiarsi in mannaro per diversi giorni.

Dimostrava circa trent’anni e aveva un viso smunto, grigio di fame e stanchezza con un corpo magro che rabbrividiva per il gelo.

La donna abbassò gli occhi. “Avanti. Sparami e facciamola finita” sibilò. Trattenute a stento dalle palpebre, delle lacrime minacciavano di tracimare.

Era un abominio. Ed era un essere umano che stava piangendo. Sophie respirò lentamente: avrebbe potuto portarla alla tenuta dei Krombacher, si disse. Erano loro che si occupavano della carcerazione degli esemplari vivi.

E non solo della carcerazione…La ghirlanda di elleboro e vischio cigolò, percossa

dal vento. Al pensiero di ciò che accadeva ai mannari imprigionati presso i Krombacher, lo stomaco di Sophie si strinse per il disgusto. Gli ululati di dolore si udivano per miglia e miglia.

Sì. Era molto meglio farla finita lì. Un colpo solo, misericordioso e rapido.

Alzò di nuovo la balestra puntandola alla tempia. Uno scalpiccio rapido di piccoli passi la bloccò mentre il dito agganciava il grilletto dell’arma.

“Mamma!”Una figuretta coperta di una giacca pesante e da un

cappello era spuntata dal fondo della strada, correndo con un lungo panno in mano. Era un bambino di cinque o sei anni, con le mani avvolte in mezzi guanti di cuoio. “Eccoti, finalmente… ti ho seguito, ci ho provato…”

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Aveva il fiatone: le frasi uscivano smozzicate dalle labbra rosse di gelo. “Ho il tuo scialle, copriti… ma… che cos’è questo?”

Con lentezza, il bambino sfiorò l’estremità del dardo che emergeva dalla spalla della madre. Si voltò e incrociò lo sguardo disorientato di Sophie. “Mamma…?”

La madre, ansimando per il dolore, si mise a sedere sulle ginocchia. “Frederick… ti prego… va’via. Corri a casa e chiuditi dentro, mi hai capito?” Lo afferrò per la giacchetta, incerta se abbracciarlo o scacciarlo. Le lacrime che aveva trattenuto corsero giù dalle guance pallide per il gelo e l’angoscia. Gli prese la mano, baciandogli il dorso con un gesto convulso. “Hai capito, cucciolo? Va’ a casa… subito!” ingiunse, cercando di spingerlo via.

“No.” Il bambino si voltò a fissare Sophie impietrita. “Lei vuol farti del male. Io non ti lascio sola.” Negli occhi, scuri e profondi come quelli della madre, una determinazione lucida che Sophie non aveva mai visto in nessun altro, umano o meno.

Quel bambino sapeva chi era sua madre. Cosa faceva. E la amava.

Il respiro di Sophie divenne spezzato. “Anche lui è...?” chiese alla donna. Aveva la bocca secca e sentiva il cuore pulsare in maniera dolorosa tra lo sterno e la gola.

Un bambino…“No. Sono stata aggredita due anni fa. Quando sono

guarita ero diventata così.”Rimasero a fissarsi per una manciata di secondi. Il

piccolo fissava la Cacciatrice, serio e implacabile, mentre lo sguardo azzurro di Sophie si spostava dalla madre accasciata in mezzo alla neve al bambino che le faceva da scudo.

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Poi, d’un tratto, la neve iniziò a cadere. Prima un fiocco, poi un altro. Da qualche parte in fondo alla strada, una porta si aprì e un flusso di canti allegri e voci invase la strada per poco più di un minuto. C’era calore in quel fragore, e luce di candele, e profumo di cibo e buon vino. C’era il tepore di un camino acceso, l’aroma delle melarance sulla tavola imbandita, del cinnamono nei bracieri.

Poi il suono cessò.Tornò il silenzioso, lento volo della neve.Sophie guardò il bimbo e la madre. C’era stato un

tempo in cui anche lei aveva difeso la madre, supplicando che nessuno le facesse del male. Ma le sue preghiere non erano valse a nulla e la mamma era sparita dietro una porta assieme a due cerusici del Consiglio.

Non l’aveva più vista.Era rimasta sola. Sola com’era adesso, costretta a

passare la Notte di Natale a caccia di mannari pur di non trascorrere quella sera di gioia in una dimora vuota.

Tutto pur di non sentire il peso dei ricordi.Con un solo gesto, Sophie alzò la balestra e mise la

sicura all’arma. Poi estrasse il dardo dal canale di sparo sotto gli occhi attoniti della madre e del bambino. Sul viso della donna, paralizzato dall’ansia, la speranza faticava a farsi largo.

Il piccolo avanzò di alcuni passi. Studiò con attenzione il corsetto di metallo e cuoio in cui Sophie custodiva le armi, poi sollevò lo sguardo attento verso di lei.

“Grazie” disse semplicemente.Con un cenno brusco, Sophie annuì. “Cosa fai? Vai

a scuola?”

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Il piccolo scosse la testa. “Lavoro all’opificio di Mister Newton. Sono addetto alla pulizia delle caldaie a riposo.”

“E tua madre?” chiese la Cacciatrice, richiudendo i due bracci della balestra e agganciandola alla schiena con gesti meccanici e secchi.

“Sono una tessitrice… anch’io da Newton.” A fatica, la donna cercò di rimettersi in piedi ma barcollò. Sarebbe finita a terra se Frederick non l’avesse afferrata.

A passi lenti, Sophie si avvicinò alla donna. “Come ti chiami?”

“M… Marion.” La donna si appoggiò contro il muro, avvolgendosi nello scialle. . Si appoggiò al figlio, con lo sguardo carico di una riconoscenza ancora intrisa di timore. Il corpo nudo era chiazzato di viola e rosso, scosso da potenti brividi di gelo. Sophie le si avvicinò, poi fece un cenno al piccolo che la sorreggesse mentre lei avrebbe…

L’urlo di Marion fu smorzato dalla mano di Sophie che le aveva chiuso la bocca. Nell’altra, la ragazza teneva il dardo insanguinato con cui l’aveva ferita alla spalla.

“Se te lo avessi lasciato dentro, avresti dovuto chiamare un cerusico del Consiglio, che ti avrebbe chiesto come mai una freccia d’argento era nella tua spalla. Ti avrebbero scoperto e ti avrebbero portata dai Krombacher. Tuo figlio sarebbe finito in un ospizio per orfani, o peggio” spiegò Sophie. Fece un passo indietro, lanciandole un’occhiata eloquente.

Gli occhi di Marion erano pieni di lacrime e di dolore. Annuì lenta: sapeva che la Cacciatrice aveva salvato la vita sua e del suo bambino.

Poi Marion e Frederick sorrisero scambiandosi un’occhiata carica d’affetto. In quell’istante, Sophie

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ricordò uno dei racconti di sua madre: la Natività, della Madre che affrontava il freddo e gli stenti per il Figlio, dell’amore che splendeva tra loro come una stella illuminando la notte.

Li guardò allontanarsi sotto la neve: la donna barcollava aggrappata al piccolo, che sollevava la testa per incoraggiarla. Prima di sparire tra i vicoli bui, Frederick si voltò un’ultima volta e chinò la testa in un gesto di ringraziamento.

Sophie deglutì a vuoto. Da un angolo della sua memoria era emersa una bambina con le trecce scure che osservava la neve cadere sui tetti di Christchoir, mentre la madre le leggeva una storia accanto al fuoco di un camino. La bimba sorrideva e si accoccolava sotto il braccio della mamma, mentre le figure animate del libro si muovevano in una danza, seguendo il tocco delle dita delicate della donna.

Molto, molto tempo fa.Sophie offrì il viso alla neve. Nel silenzio della

notte, ogni fiocco di neve aveva un suono diverso, fatto di ricordi dolci o amari, felici e dolorosi. Volti, suoni, profumi che facevano parte di lei. Avvertì una calma tiepida nel petto e, per la prima volta dopo tanto tempo, riuscì a ricordare la sua infanzia.

Anche lei era stata felice e amata.“Buon Natale” sussurrò a occhi chiusi. “Buon

Natale anche a te, piccola Sophie.”

***

Spesso, a Natale, non ci si rende conto di quanta solitudine alberga nell’anima di chi ci sta accanto. Durante le

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Feste si fanno i conti con i ricordi, le scelte più o meno sbagliate della vita, l’incapacità di perdonarsi.Ecco. Il mio augurio è rivolto a coloro che vivono il

Natale, anno dopo anno, come una festa di cui sbarazzarsi in fretta per tornare al torpore della quotidianità.Perché abbiano il coraggio di ricordare e di trovare la

speranza per essere più sereni.